Acqua e affari, conflitti e guerre
di Vito Copertino

Progetti - Anche quest'anno è mancata l'acqua, ma si continua a pensare agli affari e a fare la guerra

Manca l’acqua e non è retorica. 
Risorsa comune dell’umanità, un bene prezioso che non deve essere sprecato, ma neppure venduto: questo è l’acqua, fonte primaria della vita.
Non è retorica. L’acqua viene spesso trattata come se fosse inesauribile e quindi non viene valorizzata adeguatamente, viene consumata ed abusata, mai sottoposta ad un piano di gestione efficace. Ed è per questo che oggi ne soffriamo periodicamente le conseguenze, è per questo che è arrivata l’emergenza idrica in Puglia e al Sud.
Successe già alla fine degli anni ottanta, quando bastarono due anni di carenza di pioggia - una siccità neppure tanto eccezionale - per mettere in ginocchio l’economia meridionale. Si ripete, statisticamente, ogni dieci-undici anni. La crisi idrica si è ripetuta in questi ultimi due anni e poteva assumere caratteri drammatici. Il rischio non è ancora evitato.
Si apprezza il vero valore dell’acqua, quando non ce n’è, quando scarseggia a causa di un lungo periodo di siccità meteorologica, ma la crisi idrica non è episodica, è strutturale, può diventare endemica: è ancora altissima la quantità di popolazione del Sud che non ha accesso continuo e garantito all’acqua, mentre c’è un’altra parte della popolazione che ne consuma troppo e inutilmnte. Carenze di pioggia, perdite negli acquedotti, sprechi nei consumi, nessuna disposizione al risparmio, errata gestione da parte degli organi preposti alla distribuzione, difetti di programma nell’utilizzazione, mancanza di piani di tutela dell’acqua, politiche fallimentari nel governo del territorio: sono tante le cause.
Nel mondo, si tratta di squilibri a scala globale, che producono anche diseconomie tra paesi, tra stati, tra popoli. Mutamenti climatici, desertificazione, diminuzione di aree boschive, dissesto idrogeologico, cementificazioni e urbanizzazioni, conseguenti lunghi periodi di siccità: è questo il ciclo di responsabilità.
Disagi e proteste sono gli effetti, qui da noi. Sono gravi i danni subiti quest’anno dagli agricoltori della nostra terra, disperati, al secondo anno di crisi. I raccolti sono più che dimezzati. La Capitanata è la più colpita. Non c’è acqua per gli agricoltori del Metapontino. Le associazioni di categoria degli agricoltori denunciano danni alle colture per centinaia di miliardi. Le regioni sono assetate, l’acqua viene riservata al solo uso potabile, non ce n’è più una goccia per l’agricoltura.
A volte l’emergenza è artefatta, voluta, enfatizzata, ma il rischio e il disagio sono veri. Protestano, quest’inverno, gli abitanti dei paesi della Puglia e della Basilicata, minacciano vere rivolte popolari. Denunciano le incredibili perdite nella rete acquedottistica, chiedono i sopralluoghi dei tecnici dell’Aquedotto Pugliese, il monitoraggio dell’acquedotto, la manutenzione straordinaria e giornaliera delle condotte, il controllo delle saracinesche. C’è rischio anche per l’uso potabile.
Tutto questo accade, mentre stanno avvenendo, nel quadro del riassetto idrico del sistema Puglia-Basilicata, la cessione dell’AQP dal governo nazionale alle Regioni interessate e la riorganizzazione dell’EIPLI, l’Ente Irrigazione, e si manifesta così un serrato confronto, di natura tecnica e politica, che interessa altre popolazioni del Sud.
No, non è retorica e sono tre gli argomenti che si intrecciano:
• l’acqua, bene che si esaurisce, diritto dei popoli e occasione di conflitti nel Mondo, in Italia, in Puglia;
• l’assetto del sistema idrico interregionale Puglia-Basilicata e la proprietà dell’AQP;
• l’emergenza idrica in atto, oggi, qui da noi.
Ma procediamo con ordine.

I conflitti nel mondo.
Sono tanti i conflitti nel mondo per l’accesso all’acqua e al suo uso. C’è penuria strutturale d’acqua, in alcuni paesi del mondo. In altri, sono in atto processi di inquinamento, contaminazione e sperpero. Sono il sud e il nord del mondo.
C’è bisogno di aiuto umanitario e solidale, dei popoli ricchi nei confronti di quelli bisognosi. Invece l’acqua sta diventando un fattore sempre più rischioso nei rapporti politici fra Stati e si fa strada la preoccupazione che vi saranno conflitti violenti, per questa risorsa. E non si tratta solo di conflitti locali. È a livello mondiale che è esploso il problema dell’acqua: si sa che oggi un miliardo e 400 milioni persone non hanno accesso all’acqua potabile e, verso il 2020, rischiano di diventare più di 3 miliardi. S’impoveriscono le fonti di acqua dolce, le piogge diventano acide, cresce l’inquinamento di fiumi e laghi, si diffonde il dissesto idrogeologico, proliferano le grandi dighe, si manifestano dovunque impoverimento e contaminazione delle falde sotterranee. 
Cresce, a livello mondiale, la consapevolezza che potremo un giorno trovarci in un mondo senz’acqua e si afferma, da fonti autorevolissime, che le guerre di questo secolo non si faranno per motivi politici o per il petrolio, ma per l’acqua. Le informazioni della Banca Mondiale sono drammatiche. Nel mondo, 80 paesi vedono minacciata la propria economia e la situazione sanitaria dalla penuria d’acqua. Se da un lato quasi il 40 per cento della popolazione mondiale non dispone di acqua pulita nè di sistemi fognari, dall’altro la domanda mondiale d’acqua raddoppia ogni 21 anni, e in alcune regioni anche prima. I rifornimenti idrici non riescono a tenere il passo dell’aumento della domanda, perchè le popolazioni urbane crescono a ritmi vertiginosi e le città esplodono.
Al più presto l’offerta d’acqua nel mondo non riuscirà più a soddisfare la domanda: questo è il punto. Saranno inevitabili altre guerre per l’acqua. Il titolo di un articolo su ‘The Guardian’, qualche anno fa, era “The Water Bomb”, la bomba-acqua, l’acqua come dinamite. Era retorica? L’avvertimento veniva dalla Banca mondiale.
Le più precarie, già dalla fine del secolo scorso, apparivano le situazioni determinatesi in Medio Oriente e nel Nordafrica. Nel 1988, il segretario generale dell’ONU, Boutros Ghali, affermava che il conflitto in Medio Oriente si sarebbe riacceso per l’acqua del Nilo. E gli faceva eco il vicepresidente della Banca mondiale, Ismail Serageldin, elencando tutte le situazioni di conflitto nel mondo, a causa dell’acqua e del controllo delle riserve.
Nelle loro trattative di pace, quando ancora in Medio Oriente si trattava la pace, i diplomatici israeliani e palestinesi si sono trovati ripetutamente davanti all’ostacolo del problema acqua: in diverse fasi di trattativa, Israele e Olp hanno litigato per la redistribuzione dell’acqua della Cisgiordania. Le mani dello stato più forte dell’area sul fiume Giordano, sulle abbondanti riserve della Cisgiordania e su una parte dell’acqua del sud Libano e delle alture del Golan: è in gioco il controllo della maggior parte dell’acqua nell’area. Il progetto di Camp David venne rifiutato dai palestinesi per motivi più che ovvi per chiunque analizzi le mappe geografiche e territoriali: Israele non voleva cedere il controllo totale delle fonti idriche. Il Medio Oriente è bruciato dalla sete e chi controllerà l’acqua e la sua distribuzione potrà dominare la regione. Gran parte dell’Africa sub-sahariana è in crisi semipermanente. In molti paesi, si accelera il processo di desertificazione.
In molte regioni geografiche, i governi affrontano il problema in una logica soltanto nazionale. Dal momento che l’acqua non rispetta i confini nazionali, e tantomeno regionali, esiste un grande potenziale di insicurezza nel mondo. Situazioni di convivenza millenaria sono oggi messe in crisi dai ritmi e dalle logiche di uno sviluppo distorto. Tra gli elementi di discussione, sul tavolo delle trattative di pace, nello scenario balcanico della fine del secolo scorso, c’era anche l’approvvigionamento idrico di Sarajevo.
Ma ci sono tantissime situazioni di insicurezza. Ovunque il risultato è lo stesso: le comunità non riescono a sostentarsi, sorgono tensioni politiche e si avvia un’escalation verso il conflitto aperto. L’acqua sta evolvendosi rapidamente in una questione di alta strategia geopolitica. L’acqua dell’Eufrate è contesa tra Turchia, considerata la potenza regionale dell’acqua, Siria e Iraq. Le regioni della Spagna alcuni anni fa hanno litigano su cosa occorresse fare, in una situazione in cui si prevedeva che, dopo due anni di siccità, avessero ancora otto settimane prima che finisse tutta l’acqua potabile allora disponibile. Anche la Gran Bretagna ha scoperto che un terzo delle sue riserve idriche va sprecato per via delle perdite nelle condotte.
C’è un grande potenziale di insicurezza: la Bulgaria, la Cambogia, il Congo, il Gambia, il Sudan, la Siria e molti altri paesi ricavano il 75 per cento o più dell’acqua da fiumi le cui sorgenti si trovano in paesi confinanti e spesso ostili. Circa il 40 per cento del mondo vive nei 250 bacini fluviali la cui acqua è contesa da più di un paese. Grandi fiumi, come il Nilo, il Niger, il Tigri, il Mekong, il Brahmaputra e l’Indo attraversano molti paesi che tentano tutti di estrarne più acqua possibile, e tutti sono stati al centro di recenti dispute internazionali.
La mancanza d’acqua è un problema anche in Estremo Oriente, anche in Asia: la Cina settentrionale, le regioni occidentali e meridionali dell’India, alcune regioni del Pakistan, rischiano gravi crisi idriche. Città della Cina sono minacciate dalla siccità, perchè la falda freatica si abbassa continuamente; per la deficienza d’acqua ogni anno si lamentano costi di mancata produzione industriale. In Thailandia, gli agricoltori protestano contro Bangkok, accusandola di sottrarre acqua dalle loro terre coltivate. L’inquinamento ha obbligato Shanghai a cercare nuove, lontane e costose fonti d’acqua. In alcuni paesi, come le Filippine e l’Indonesia, la mancanza d’acqua sta frenando la crescita economica.
In molte regioni del Sudest asiatico, la deforestazione sta causando il prosciugamento degli acquiferi. In Giappone le industrie hanno dovuto anni fa tagliare la produzione o importare acqua. La rivalità per l’acqua del fiume Gange può accentuare la tensione tra India e Bangladesh. Intere popolazioni non hanno accesso all’acqua potabile; centinaia di milioni di persone non dispongono di una rete fognaria. La maggior parte delle acque di scarico finiscono nei fiumi senza essere trattate; in India, 114 città di almeno 50 mila abitanti scaricano le loro fogne nel Gange. I servizi idrici in molte città asiatiche non riescono a soddisfare la domanda e l’eccessiva estrazione dal sottosuolo sta danneggiando la qualità delle riserve. La migrazione verso le città non farà che complicare le cose; la popolazione urbana triplicherà entro il 2025, fino a due miliardi e mezzo di persone.
Rischiano gravi penurie d’acqua anche il Sudamerica e gran parte del Messico.
Mentre gli sprechi restano, si avviano progetti faraonici molto rischiosi per l’impatto ambientale. L’atteggiamento scelto da molti paesi, grazie soprattutto alla mancanza di leggi internazionali chiare sulle riserve idriche, è quello di avviare progetti, senza tener conto degli altri. Ne deriva un’enorme opportunità di profitto: la Banca Mondiale e gli ambienti finanziari parlano di 1800 miliardi di dollari d’investimento in 20 anni, per garantire l’accesso all’acqua a tutti gli abitanti della terra entro il 2025.
Ma della Banca Mondiale c’è da fidarsi? C’è da fidarsi che la società mondiale voglia risolvere pacificamente i problemi fondamentali di natura geostrategica, culturale, religiosa, sociale ed economica, legati all’acqua?

È lotta politica.
Acqua, sviluppo e sicurezza: è, dunque, lotta politica di grande importanza e a grande potenziale di insicurezza, anche sul fronte bellico. Si confrontano due correnti ideologiche, culturali e politiche.
• Da un lato, si afferma che l’acqua è un bene comune, appartiene all’umanità e a tutti gli organismi viventi. É, dunque, un bene di proprietà collettiva, sociale, non privatizzabile. L’accesso all’acqua è un diritto umano e sociale imprescindibile; il finanziamento dei costi necessari ad assicurare l’accesso all’acqua in quantità e qualità sufficiente alla vita è responsabilità della collettività a livello locale, dei bacini idrografici, della comunità mondiale. La politica dell’acqua non può che essere fondata e governata da istituzioni democratiche e partecipative.
• Dall’altro, si sostiene che l’acqua è un bene economico. É un bene commerciale, cui deve attribuirsi un valore economico, determinato in funzione del giusto prezzo di mercato, tale da permettere al capitale privato di ricuperare tutti i costi, compreso quello del richio di investimento. L’accesso all’acqua è sì un bisogno vitale, ma non un diritto dell’uomo; il consumatore deve assumere il carico del finanziamento dei costi del servizio. Al settore privato sia affidata la gestione di tutti i servizi d’acqua; solo il privato possiede le risorse finanziarie per coprire gli enormi investimenti per assicurare a tutti l’accesso all’acqua.
Quale delle due prevarrà? È utile qualche riflessione, anche qualche domanda, qualche dubbio.
Le logiche del capitale privato hanno invaso il campo dell’acqua. L’hanno invaso le logiche che, nel corso del secolo scorso, a livello mondiale, in materia di allocazione delle risorse disponibili e di ripartizione della ricchezza, hanno condotto al potere – potere di decisione e di controllo - le forze sociali legate al capitale privato. È il frutto della globalizzazione economica del neoliberismo.
Ma, nelle città dello sviluppo e del neoliberismo, i poveri sono diventati più poveri, è aumentato l’inquinamento e si ha più bisogno di acqua, c’è grande bisogno di acqua pulita e di reti fognarie efficienti: qui fioriscono più di prima miseria urbana, bidonville e malattie endemiche. Imporre l’efficienza, la tecnologia e la modernizzazione occidentali, ignorando i costi sociali, serve a sottrarre i paesi più poveri dalla trappola della povertà?
Se la Banca Mondiale e gli economisti di formazione occidentale continueranno a sostenere, a spese dell’agricoltura tradizionale a scarso consumo d’acqua, varietà straniere utili a guadagnare valuta estera, crescerà sempre più la richiesta d’acqua: come sarà possibile farvi fronte? Tutto ciò ha l’appoggio del libero commercio mondiale e degli apparati politico economici, come il Gatt, spinti dalla Banca Mondiale. Fortemente idroesigente è l’attività agricola, altrettanto la produzione industriale. In molti paesi, la via economica dominante è diventata “sviluppare il turismo”: ma si sa che il turismo è l’industria a maggior consumo d’acqua pro-capite.
È lotta politica di importanza epocale. Qui bisogna convincersi che è scontro, in quanto:
• la cultura del diritto umano e sociale si contrappone alla cultura del bisogno indotto;
• la concezione di bene comune si confronta e lotta con quella di bene privato;
• la difesa del servizio pubblico è alternativa al trionfo della privatizzazione;
• il principio di solidarietà mondiale e sviluppo durevole compete con il mercantilismo commerciale;
• la democrazia intergenerazionale è antagonista all’egemonia del capitale e alle regole del mercato competitivo.
Ma il dubbio principale è: l’impresa privata e la privatizzazione delle forniture idriche sono le vie per fornire ai poveri più servizi a minor prezzo?

La cessione dell’Acquedotto Pugliese.
È qui che si inserisce la paventata privatizzazione delle strutture idriche dell’AQP. Si tratta, nello scacchiere della globalizzazione capitalista, di uno dei problemi locali, ma anche qui si sente la mancanza di una carta dei diritti dell’uomo per l’acqua, la necessità di un ‘contratto mondiale dell’acqua’. L’acqua non deve diventare un bene sfruttato per produrre ricchezza ai privati.
La privatizzazione dell’AQP ha ricadute forti sull’economia meridionale e sulla comunità lucana e pugliese. Un decreto ministeriale del 1999 aveva deciso la sua vendita e l’ENEL è stata a lungo il principale aspirante all’acquisto. Una lunga trattativa tra Governo, ENEL e Regioni: poi, nel novembre del 2001, l’ENEL ha rinunciato all’acquisto. Ora l’Acquedotto è stato ceduto alle Regioni e sono queste che devono risolvere i problemi dell’assetto del sistema idrico Puglia-Basilicata. Alle Regioni tornano dunque ruolo e protagonismo, a loro favore sarebbe applicata la devolution. Si può dire che questo sia federalismo?
In realtà, occorre un federalismo solidale per chi ha bisogno di acqua, per chi necessita davvero di nuove condotte, per chi non punta sui privati che poi venderanno l’acqua a prezzi salati, per chi si batte per il riassetto dell’Ente Irrigazione.
Invece il coinvolgimento delle Regioni e dei loro organi di autogoverno rischia di avvenire a fatto ormai compiuto, perchè le decisioni importanti vengono prese altrove, dove sono i poteri forti, i poteri economici. C’è infatti il rischio di un assalto da parte di cordate economiche e finanziarie, italiane o straniere, più voraci dell’ENEL, fra cui quella guidata dal presidente degli industriali italiani. Sono ancora allertati gli altri potenziali soggetti interessati all’AQP, come i francesi dell’Ondeo Services, resta interessata la cordata di imprenditori meridionali.
Si compete alla proprietà dell’AQP, ma non si fa il Piano di tutela delle acque, si dimenticano i piani di bacino: sono questi gli strumenti utili per invertire le logiche che finora hanno prevalso nel governo dell’acqua.
La gestione dell’acqua non può essere ridotta ad una vicenda di partecipazioni azionarie. Se continueranno a prevalere i concetti di privatizzazione, mercato e liberalizzazione, e a soccombere quelli di qualità del servizio, funzioni di garanzia, autorità di controllo, sarà un ulteriore fallimento delle politiche gestionali dell’acqua: si continuerà a dare importanza agli aspetti finanziari e a trascurare la capacità gestionale, la funzionalità delle opere, la manutenzione delle reti, le dotazioni di acqua pro capite, le possibilità di sviluppo sostenibile; in una fase, quale l’attuale, di riorganizzazione del servizio idrico e di scelta tra pubblico e privato per la gestione e la proprietà delle reti acquedottistiche, si continuerà a gonfiare la domanda idrica ed enfatizzare il bisogno di nuove infrastrutture, piuttosto che preoccuparsi di effettiva manutenzione delle opere, di capacità e competenze nel servizio, di tutela della qualità idrica e di compatibilità ambientale.

La crisi idrica c’è, le difficoltà sono reali, c’è stata siccità, ma si continua a pensare agli affari.
Anche questa volta c’è stata una siccità provocata da un lungo periodo di scarsità di precipitazioni in un vasto territorio meridionale. Le difficoltà derivate sono reali.
Ogni volta si evocano scenari apocalittici sul piano ambientale e cosmico. I rischi non sono da sottovalutare, ma oggi vanno sottolineate le responsabilità vicine, non quelle lontane, non quelle degli altri, non i mutamenti climatici sulla terra. E poi la pioggia, si sapeva, doveva tornare. Nel nostro clima torna sempre. Non c’è bisogno di ricorrere alle definizioni probabilistiche della teoria degli eventi estremi, e neppure di fare ricorso a pratiche divinatorie, a riti propiziatori, a processioni augurali, per far tornare la pioggia. L’acqua, si sapeva, è tornata.
E allora non serve che il problema venga enfatizzato. Deve insospettire che qualcuno si avventuri tutte le volte a stimare la domanda idrica, facendola crescere sempre ed inseguendo bisogni sempre nuovi e insoddisfatti. Ci sono gli sprechi, ci sono le perdite, ci sono i fabbisogni gonfiati, ci sono i consumi esagerati, ci sono le false fatturazioni: è qui che bisogna intervenire.
La quantità d’acqua che si perde nelle condotte è superiore al 50% dell’acqua derivata e sottratta dal proprio ambiente. I consumi reali ed accertati sono sempre inferiori alle dotazioni prevedibili. Perché? Perché la nostra economia è fondata sulla costruzione di sempre nuove opere e sulla possibilità di affari.
Le dimensioni del problema sono drammatiche. Possono essere utili alcune cifre. Il settore produttivo che consuma più acqua è l’agricoltura, non è l’industria. Nel mondo, il 70% delle risorse è consumato in media dalle coltivazioni agricole, il 20% dagli usi domestici e solo il 10% dall’industria. In Italia, le proporzioni sono un po’ diverse: il 40% all’agricoltura, il 20% all’industria ed il 40% ai consumi domestici. In termini assoluti, stiamo parlando di milioni di metri cubi d’acqua solo nel sistema idrico Puglia-Basilicata.
Per intenderci: la costruzione di una singola autovettura richiede un consumo d’acqua di 400 mila litri e, con l’industria, siamo solo al 10-20% del consumo complessivo d’acqua. Un cittadino che consuma 150 litri d’acqua al giorno, ha bisogno in un anno di 55 metri cubi d’acqua.
Eppure in Puglia, la sitibonda, si sta pensando alla realizzazione di 23 campi da golf e a consumare 20 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Come può accadere?
Quando qui da noi, in Puglia, a Molfetta come a Bari Vecchia, c’è crisi idrica, si pensa al più al rubinetto di casa, alle tubazioni che perdono acqua, alle autoclavi nel palazzo. Non è facile pensare all’ambiente in cui si origina quell’acqua che manca ai nostri giardini, ai nostri consumi. Ci manca la cultura, non ne abbiamo la sensibilità.
Guardiamo per esempio alla situazione dei sei principali invasi artificiali della Basilicata, quelli di Monte Cotugno, Pertusillo, Camastra, Basentello, San Giuliano e Gannano. La loro capacità massima sarebbe di circa 900 milioni di metri cubi, e in condizioni idriche normali c’è già conflitto sul loro uso. Nell’ottobre del 2000, ne contenevano appena 113 milioni e, nell’ottobre del 2001, meno di 50 milioni. Quell’acqua è di importanza vitale per il nostro sistema idrico. L’acqua invasata dai laghi lucani, insieme agli schemi acquedottistici dei fiumi Agri, Basento, Sele, Sinni e Frida, provvede a soddisfare le utenze civili, agricole e industriali della Basilicata e della Puglia.
Nel 2000 la disponibilità all’invaso di Monte Cotugno, costruito per una capacità di accumulo di 550 milioni di metri cubi, si era ridotta ad 1/10, o poco più, 57 milioni di metri cubi. Nel 2001 era scesa ancora, fino a meno della metà, 21 milioni. Il Pertusillo, che ne può contenere fino a 155 milioni, era sceso a 16 milioni nel 2000, ad appena 7 milioni nel 2001. Gli altri invasi non stavano meglio. Si è arrivati al 6% della capacità totale. Cosa accadrà quest’estate?
Gli agricoltori hanno pensato di risolvere il problema dell’emergenza idrica trivellando nuovi pozzi, ma ormai tirano su acqua salmastra: è il risultato dell’invasione del nucleo salino e della salinificazione della falda. Anche qui si estende la minaccia della desertificazione del territorio.
Carenza di precipitazioni e scarsità d’acqua negli invasi, ma l’attuale crisi degli invasi lucani non è provocata da una stagione imprevista di particolare povertà di precipitazioni pluviometriche, bensì da un’inefficiente programmazione delle distribuzioni idriche, oltre che dalle perdite e dagli sprechi. Senza programmazione, senza capacità di decisione ai vari livelli istituzionali: è indispensabile una politica programmatoria. È inutile pensare alla costruzione di altri invasi artificiali, visto che quelli esistenti sono vuoti e i nuovi non porterebbero alcun beneficio alla quantità delle riserve. L’impatto ambientale sarebbe difficilmente sostenibile. Sono già tanti gli invasi in Basilicata, possono bastare. Gli unici interventi attuabili e concreti per aumentare la disponibilità idrica sono quelli di manutenzione e ammodernamento delle reti, che sono al limite della funzionalità; così anche la riduzione dei volumi di interrimento, quelli provocati dal trasporto solido e dalla sedimentazione, l’insidia solida, autentica minaccia per la vita dei laghi.
All’emergenza idrica si aggiunge sempre la crisi ambientale. Occorrono le reti fognarie nei luoghi sprovvisti. Occorre la messa a norma di depuratori inadeguati o non funzionanti. Occorre utilizzare le acque reflue in agricoltura.
La Puglia sitibonda ha bisogno d’acqua più di qualunque regione del sud: è vero, ma per farne cosa? É assurdo che non si conoscano i reali fabbisogni d’acqua delle diverse utenze nel sistema idrico Puglia-Basilicata-Molise-Campania, è assurdo, ma è proprio questa la situazione. Ed all’esagerazione della domanda d’acqua per i tanti usi bisognerà pure rimediare, se è vero che si vorrebbe creare un nuovo bisogno d’acqua per il campo da golf a Savelletri, non molto distante dal sito archeologico di Egnazia (due laghetti artificiali necessari all’irrigazione dei prati), per quello in costruzione ad Acaia, per i nuovi, fino ad un totale di 25 in tutta la Puglia, a Palese, Ruvo, Castel del Monte, ciascuno dei quali assorbirebbe 1600-2000 metri cubi di acqua al giorno, per complessivi 20 milioni di metri cubi all’anno, la metà delle risorse disponibili alla diga di Occhito oggi. Sono già esistenti due campi a Barialto di Casamassima ed a Riva dei Tessali a Castellaneta. Si scopre la vocazione turistica per la Puglia, la destagionalizzazione del turismo pugliese. Non sembra vero: il Salento è il più ambito per questi progetti, così la Murgia e la Valle d’Itria; la Capitanata è esclusa, per pudore.
Nuovi bisogni, nuovi consumi, nuovi sprechi. E il problema non si risolve semplicemente facendo arrivare più acqua dalle regioni che ne dispongono a sufficienza. Molise e Basilicata non ci stanno a dare ancora acqua alla Puglia. Non ci sta più neppure la Campania, che chiede di rivedere il protocollo di Caposele. Si dice che in Molise c’è surplus d’acqua. Ma quale surplus? Quello che scorre naturalmente nei fiumi? L’esigenza dell’habitat fluviale è surplus? Vogliamo abolire i fiumi dal nostro territorio? E chi pensa più al deflusso minimo vitale, alla tutela dell’ambiente, alla preservazione dell’ecosistema idrico? Si pensa all’acqua del Liscione, 30 milioni di metri cubi all’anno, destinabili alla Puglia.
E, nelle campagne pugliesi, si continua ad usare troppo e male i pesticidi, invece di incentivare e potenziare le colture biologiche. E, poi, quanto costa il sollevamento idrico, chi lo paga? Quanti sono i pozzi che emungono continuamente l’acqua del sottosuolo pugliese? Chi lo sa? Sono centomila? Sono di più? Sono questi i tanti aspetti del governo delle acque. E’ questione di gestione delle risorse idriche, per ingegneri, idrologi, tecnici, consumatori.

Un’occasione mancata.
Negli anni più recenti sembrava che fossero possibili intese di programma tra Stato e Regioni per la gestione dell’acqua. La disputa tra Puglia e Basilicata sulla distribuzione delle risorse e sulla proprietà dell’Acquedotto Pugliese e dell’Ente Irrigazione aveva interessanti motivazioni e non poche opportunità:
• prima di tutto presentava l’utilità tecnica di porre finalmente la questione dei costi ambientali, che il trasferimento idrico a grande distanza e il depauperamnto delle risorse naturali comportano, costi che spesso sono oggi insostenibili, negli schemi idrici interregionali e nella pianificazione dei bacini idrografici;
• poi c’erano gli impegni politici e di bilancio, particolarmente per la Puglia, impegni di finanziamento da utilizzare finalmente in opere di tutela delle risorse e di manutenzione delle reti idriche, per trent’anni trascurata;
• infine era in atto un’azione sociale ed educativa, di propaganda e di coinvolgimento, nei confronti di una popolazione finora assente e distratta, sull’esauribilità di un bene fondamentale per la vita.
Invece è sopravvenuta la maledetta emergenza per la siccità e si è perduta l’occasione. E tutte le volte è stato e sarà così: si finisce sempre per chiedere al governo nazionale di affrontare l’emergenza idrica con un intervento straordinario, con opere straordinarie, e non con regole di gestione. Per lottare contro una presunta calamità naturale, si interrompe qualunque prospettiva di programmazione, qualunque opportunità di cambiamento. Tutto torna come prima! Si completa e si riproduce il fallimento di qualunque politica di piano, nel governo dell’acqua e del territorio, per continuare a consentire gli affari. E tutti tornano ad andare d’accordo! Emergenza uguale affari.
Così continueranno i ritardi culturali, perché si allontana la predisposizione degli strumenti culturali e conoscitivi per la valutazione delle disponibilità d’acqua e per la definizione degli obiettivi di rispetto della qualità nei tratti fluviali, nel bacino idrografico e nell’ecosistema idrico.
Continueranno gli insopportabili ritardi tecnici, perché saranno rinviate le necessarie decisioni e le scelte tecniche verso la definizione/monitoraggio/controllo/realizzazione dell’ammontare complessivo dei prelievi idrici e degli sprechi, dei fabbisogni e dei consumi compatibili con le disponibilità e con gli obiettivi di tutela, riqualificazione e corretta utilizzazione dell’acqua.
Continueranno i ritardi gestionali, perché si eviterà di utilizzare le competenze gestionali nella distribuzione idrica tra le diverse utenze, nella destinazione di una sua parte ai bisogni ambientali e nell’esercizio dei servizi idrici-depurativi-fognari.
Continueranno i ritardi politici, perché si terrà distante la responsabilità dell’individuazione di obiettivi generali di politica delle acque, basata su principi di solidarietà e reciprocità per le popolazioni coinvolte nello stesso sistema idrico.
Ci saranno nuove siccità. Poi torneranno le piogge. Ma i problemi resteranno e la Puglia continuerà a chiedere sempre più acqua, per il sud della Capitanata, per la provincia di Bari, per il Salento. Risparmio, riuso e individuazione di vere alternative gestionali resteranno così un miraggio. Si eviterà il risparmio, che pure è possibile ad esempio con sistemi moderni di irrigazione a basso consumo d’acqua, oppure con gli interventi volti a ridurre le perdite nelle reti acquedottistiche. Non si tenterà il riuso, che pure si può avere per centinaia di milioni di metri cubi di acque reflue, oggi non utilizzate, prodotte dagli scarichi dei reflui delle città e delle industrie. Non si praticherà mai alcuna soluzione alternativa tra le tantissime, ad esempio quella di cominciare a ripristinare la capacità perduta degli invasi a causa dell’interrimento solido, piuttosto che pensare alle soluzioni più complicate, come la dissalazione dell’acqua marina o l’ulteriore trasferimento d’acqua da altre regioni lontane.

maggio - agosto 2002