È triste constatare come la lezione della pace non sia stata ancora appresa e la guerra sia considerata la scorciatoia delle soluzioni possibili.
Quanta tristezza vi è nel dover registrare che nonostante i drammi e le tragedie che i nostri libri di storia sono costretti ad annoverare, ancora la comunità internazionale non riesca a vedere alternative credibili e valide al conflitto armato. Ancora di più. Si direbbe che non mostri interesse alcuno a promuovere la ricerca delle forme di risoluzione nonviolenta dei conflitti, né ad adoperarsi per prevenirli.
Negli ultimi dieci anni in particolare, ovvero dalla guerra del Golfo (gennaio 1991) in poi, abbiamo assistito al ciclico ripetersi di uno scenario caratterizzato dalle medesime fasi:
1. acutizzarsi di una crisi (solitamente interna a una nazione);
2. inerzia della diplomazia e della comunità internazionale nel riuscire a mediare le posizioni tra i contendenti o le parti in gioco;
3. imbarazzo, indecisione, inefficacia delle decisioni, immobilismo... da parte delle Nazioni Unite e in particolare del Consiglio di Sicurezza;
4. campagna di stampa sulla crudeltà del nemico, sull’inevitabilità dell’uso della forza per risolvere il contenzioso e sulla nobiltà del motivo dell’intervento (giusto, umanitario...).
È la successione che abbiamo visto per le guerre in Iraq, in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan, tutte peraltro mascherate dietro il paravento di definizioni del tipo guerre umanitarie, operazioni di polizia internazionale, intervento militare a salvaguardia dei diritti, iniziativa di legittima difesa...
Certo in quest’ultima partita le Twin Towers fanno la differenza. L’attacco, di proporzioni inimmaginabili, è stato portato al cuore dell’impero... proprio sul terreno di quella nazione che si è presentata come modello di garanzia delle libertà e, nello stesso tempo è capofila dei paesi più ricchi e industrializzati, che condiziona gli organismi giuridici ed economici internazionali, che è stata in prima linea in quei conflitti di cui ho appena fatto cenno e che di fatto influenza la politica di moltissime nazioni e popoli nel mondo. Scenario, questo, che si è andato paurosamente accentuando dopo il 1989, ovvero dalla fine della guerra fredda.
Ebbene, puntuale come un orologio svizzero, la domanda vomitata addosso ai nonviolenti o ai pacifisti, comunque a tutti coloro che esprimono la propria contrarietà alla guerra è sempre la stessa: Quale alternativa? Quasi che, nella strettoia finale degli accadimenti, debbano essere i pacifisti a rattoppare gli squarci che sono stati provocati da anni di dimenticanza o di voluta trascuratezza. A volte si ha più che l’impressione che tali rattoppi li si chieda senza nemmeno fornire ago e filo. Insomma non si può lasciare incancrenire un conflitto senza muovere un dito o appoggiando più o meno velatamente un contendente e, quando la situazione si è resa insostenibile e incontrollabile, chiedere conto delle alternative all’intervento militare.
Per questo oggi c’è bisogno ancora più di ieri di porre mano solerte a una seria riforma delle Nazioni Unite in senso democratico, a sfrondare lo statuto che regola la vita del palazzo di vetro di tutti i retaggi del secondo conflitto mondiale oggi storicamente superati. C’è bisogno di dotare quell’organismo di un corpo di polizia internazionale (pure previsto e mai attuato...) che sia abilitato appositamente a ruoli di peace-keeping, peace-enforcing, peace-building.
C’è urgenza di dare gambe al Tribunale Internazionale contro i crimini di guerra, di rafforzare quelle forme di diplomazia dal basso che hanno mostrato di poter dare qualche chance in più in contesti a rischio con le tecniche della prevenzione dei conflitti, di promuovere con decisione il rispetto dei diritti umani in ogni parte del mondo, al di là degli schieramenti dei rispettivi governi sullo scacchiere mondiale. C’è tanto da fare! E ce ne sarebbe molto di più se accanto a queste vie si prevedessero anche quelle dello scambio e della conoscenza tra popoli, della cooperazione e della solidarietà, del dialogo interreligioso. Ce ne sarebbero molte di più se ci si convincesse che riformare il WTO, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazio-nale, il sistema della concessione dei crediti e del pagamento dei debiti, contribuisce in modo determinante alla prevenzione dei conflitti e all’eliminazione di quella guerra della miseria che ogni giorno miete un numero maggiore di vittime dei conflitti armati attualmente in corso.
In questo senso il ruolo della società civile è assolutamente primario e insostituibile.
Molfetta, anche nel passato recente, è riuscita a fornire un proprio contributo in termini di riflessione e dibattito, ma anche in fatto di mobilitazione dal basso. Sicuramente la stagione dell’episcopato di don Tonino Bello aveva aperto nuove prospettive e speranze. In qualche modo chi decideva di impegnarsi sul terreno della pace e dell’economia di giustizia, del volontariato e della solidarietà sociale, sentiva di avere le “spalle coperte”, come rassicurato da una presenza autorevole. Ma mostreremmo di non aver compreso la lezione e la testimonianza profetica di don Tonino se oggi non vivessimo lo stesso entusiasmo di impegno.
Inutile negarselo: tante volte nei giorni scorsi, anch’io mi sono chiesto che cosa si sarebbe inventato in questo ennesimo scenario di morte che prende le mosse dall’11 settembre e dal 7 ottobre. Non riesco a darmi una risposta esauriente perché la creatività poetica e la fantasia politica di don Tonino erano imprevedibili perché uniche. Una cosa è indubitabile: con tutte le sue forze si sarebbe ribellato alla spirale di violenza nella quale ancora una volta l’umanità è andata a intrappolarsi e ci avrebbe ripetuto che “il virus dell’odio è sfuggito dalla bottiglia” e che “non si spunta la spada del tiranno (leggi terrorista, n.d.a.) urtandola con un acciaio meglio affilato”. Erano convinzioni talmente radicate nel cuore di quel vescovo che difficilmente si sarebbero potute incrinare di fronte a motivazioni e scenari solo apparentemente diversi ma che si muovono secondo le logiche di violenza di sempre.
Anche alla luce di questa testimonianza di vita semplice e coerente, la società civile (laica e credente) di Molfetta e dintorni è chiamata a ritrovare motivazioni, grinta, entusiasmo, vie concrete di lotta per riaffermare il bene supremo della pace.