Veleni
di Domenico de Ceglia

Cronache dello sprofondo

Occhi scontenti soppesano i muscoli
negli specchi, vini scadenti, belle etichette
copie di film d’infima specie, macchiette
ansie non sgravate, protagonismo
anti-terrorismo, lampade abbronzanti
denti bianchi, alcool, cravatte, sigarette
siliconate labbra, tette, tumida
odiosa pancia, pelle a buccia d’arancia.
Cambio canale: un certo James Ali Abdul
ha vomitato sul bimbo menomato Isacco Brown
e dal tribunale al televisore
veleno lieve in parche dosi
giornaliere è iniettato nelle mie vene.
Il conduttore invita James
in trasmissione e vien fuori
che l’handicappato era lì solo per caso
che del misfatto non vi sono prove
che ogni povero ha bisogno di un padrone
che è vietato colpire donne e bambini
se non che per secondi fini
che il bimbo potrebbe aver vomitato
per aria e preso il rovescio per demenza
che di tutto ciò non si ha conoscenza.
Baciano e suggono d’infanti
rosee guance e le cosce sinuose
delle madri ansanti. Un arabo
affamato con gli sputi lava
i vetri di auto impazienti e ancora
veleno scorre nei sorrisi lenti
che non tradiscono mai sofferenze
nelle albe intatte nei sogni sgomente
e ha melliflui aghi per ogni vena
oblitera occhi in cancrena
bocche senza raggio, sorde al suo passaggio.
Ho parlato di questo con la mia Gioia
in una notte di pena; avevamo parole
diverse nelle nostre menti, visuali
ineguali, ma con le gambe nel vento
sdraiati nell’erba, potemmo farne senza.
Nel suo assopito mattino di cera
vende bianche rose
nel suo vermiglio giaciglio la sera
gioca felice a ferire le mani
dei passanti che allietano i cuori
delle amanti le spine acquistando.
Gioia ha sempre un invito sulle vesti
indecenti sospeso mentre al caffè
godendo del sole le carezze tra birre
mezze piene scaccio tristezze
e ineguali le visuali, i mondi
difformi, ogni gesto un senso diverso
e approssimazioni non cedono alle parole.
Smaniosi aghi spezza e non si scompone
dice di avere la pelle dura di diamante
e di essere una candida eccezione.
Ma io non le credo, a volte l’ho sorpresa
ad assorbire sieri di vacuo veleno
e a spiare i silenti tramonti maculati
sotto lo spettro del sole nero.
Così mi dice che non può farne a meno
che è una sua decisione e può smetter quando vuole
che ha imparato a vomitare subito dopo l’amplesso
che l’effetto sfuma interdetto
che il tempo non scorre certo lento.
Forse è la mia amante per questo,
di parole diverse nelle nostre menti,
di visuali ineguali, distesi nel vento
con le gambe nell’erba ne facciamo senza.

gennaio - aprile 2002