Anche a Molfetta la scuola è finalmente luogo di relazione multietnica e multirazziale e va conquistando una dimensione multilinguistica e multiculturale. Questo è il racconto di una esperienza in una scuola di periferia che da anni sta costruendo percorsi di accoglienza e di integrazione. Può contribuire un’esperienza così piccola alla comprensione del processo di internazionalizzazione che è in atto dovunque nell’Occidente e in Europa?
Sempre più numerosi sono gli studenti stranieri che frequentano le nostre scuole. In essi si riconosce ormai una realtà di grande valore aggiunto, un prezioso patrimonio culturale che, se da una parte rende sempre più complessa l’azione di progettazione dei percorsi didattici e più impegnativa quella della formazione della persona, dall’altra offre ai nostri ragazzi spazi sempre più ampi e occasioni sempre più frequenti di confronto. Un confronto che deve diventare più rispettoso delle culture “altre”, che appartengono ai nuovi compagni di cammino stranieri; un confronto da attivare con se stessi, con la propria capacità di relazionarsi agli altri, soprattutto a quelli che sono avvertiti come diversi; un confronto critico con gli stereotipi mutuati dal mondo degli adulti.
Stereotipi, pregiudizi, opinioni correnti, dicerie prevalenti, valori massmediatici, razzismo più o meno emergente con cui deve confrontarsi/scontrarsi chi dalle periferie del mondo giunge alla periferia dell’impero, nelle città del Sud, nei quartieri-ghetto delle nostre periferie urbane, nelle comunità di accoglienza e, fortunatamente, nella scuola che sottrae almeno i più piccoli al lavoro e alla strada. Ma non basta.
Proprio la scuola può diventare, anche qui a Molfetta, il luogo privilegiato del riscatto, di un riscatto osmotico e reciproco, ma a patto che vengano attivati processi di alfabetizzazione linguistica per gli stranieri accolti e di “rialfabetizzazione culturale” per gli studenti e i docenti italiani che esercitano l’accoglienza.
La formazione di una mentalità “decentrata” è la partita che oggi stiamo giocando nella nostra scuola dell’autonomia, dove la progettazione aziendalistica, scimmiottando e inseguendo le logiche del mercato, rischia di perdere di vista i ragazzi per soddisfare i bisogni effimeri dei “clienti”. Chiedo scusa per le ultime virgolette, ma come potrò mai pensare al mio Abdelfatteh come a un cliente dell’apprendimento? Quanto, piuttosto, dovremmo imparare tutti noi da lui che, per garantirsi l’integrazione, combatte ogni giorno la sua sorridente battaglia per l’apprendimento della nostra difficile lingua e, contro tutti gli automatismi del suo saper leggere e scrivere in lingua araba, sta imparando un nuovo, innaturale movimento degli occhi e della mano? E sente e riproduce suoni che gli sono estranei ed entra, con sorprendente versatilità, in quadri semantici che non gli appartengono ma che a noi sembra assolutamente “normale” faccia suoi? Nelle nostre programmazioni non dovremmo forse fissare obiettivi che “ci” riguardano piuttosto che obiettivi che “lo” riguardino? Come potrà rispondere la nuova scuola-azienda a queste domande, che non hanno nulla a che fare con le logiche efficientistiche del profitto e invece riguardano molto i nostri codici etici, deontologici, professionali?
Non è affatto scontato che il necessario rinnovamento della scuola dell’autonomia debba essere attuato all’insegna di una visione aziendalistica; non convincono e non servono le tesi secondo cui la scuola è un’impresa, che guarda agli studenti come ai clienti immediati del grande mercato dei mestieri e delle professioni e tratta il territorio come un luogo facoltoso da colonizzare. Basterebbe evitare che i programmi formativi vengano lasciati in mano ai seduttori della nuova scuola-azienda, ai sostenitori della competizione produttiva. Per questa via si vanno già producendo forme di qualunquismo di massa e, nelle nuove logiche concorrenziali che non sono mai appartenute al mondo della formazione e che invece si stanno innestando nelle relazioni fra le scuole, si manifestano preoccupanti segnali di caduta di tensione morale.
Non si tratta solo dei problemi connessi al superamento delle barriere ideologiche e culturali, ma anche dei conti che bisogna fare con le macroscopiche deficienze strutturali della scuola. Con i magri bilanci dell’autonomia e i tagli sempre più pesanti che si annunciano alla spesa per l’istruzione pubblica, la scuola non può e non potrà far fronte ai costi delle azioni di mediazione culturale di tanti operatori, che pure sarebbero disponibili a offrire competenze indispensabili per la costruzione di percorsi educativi veramente nuovi, specialistici ed efficaci.
È così che la nostra Ministra, vestale dell’efficientismo berlusconiano, preda della fascinazione delle tre “i” (inglese, informatica, impresa), mostra di dimenticarsi che esistono le “a” di algerino, albanese, afghano – da non confondere con la “t” di terrorista, forse neppure con la “f” di fondamentalista –, la “c” di curdo, la “m” di marocchino e così via con le lettere di quell’alfabeto multietnico che dovremmo tutti mandare un po’ meglio a memoria. Su questa strada tracciata dai nostri uomini di governo, sostenitori del primato dei saperi occidentali, molti finiscono con l’ignorare, per esempio, che l’Islam ha una lunga tradizione culturale e ha anche avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del pensiero moderno, sulla via della tolleranza e della conoscenza.
Per quanto neonata fra le tante “educazioni” (alla Pace, alla Legalità, alle Pari Opportunità, alla Cooperazione, allo Sviluppo, all’Ambiente e così via), che si sono moltiplicate negli ultimi anni, l’Educazione Interculturale si distingue per la ricchezza delle proposte didattiche e delle piste di ricerca, intorno alle quali si sono mobilitate scuole, università, agenzie educative, associazioni, enti locali, l’Unione Europea.
Ma a questa fertilità della ricerca ha corrisposto un cambiamento significativo, un cambio di prospettiva generale dell’insegnamento? Sembra di no, almeno se si guarda al caso dell’Islam. Parlare a scuola dell’Islam è oggi quanto mai difficile, in quanto l’argomento non è un soggetto scolastico “distanziato”, ed è più che mai inserito in un contesto sociale e politico attraversato da passioni, che inducono a percepire l’Islam come una religione e come un sistema di pensiero poco adeguato alla “nostra” civiltà.
A chi vive la realtà della scuola dell’obbligo sembra, dunque, particolarmente urgente attivare percorsi educativi tesi a disvelare le false immagini dell’altro e a riconoscere la “differenza” e la “diversità” come valori, per aprire concretamente i ragazzi all’accoglienza, a favorire l’incontro amichevole e la convivenza civile, a sostenere i principi della solidarietà.
Non si tratta di obiettivi impossibili. Siamo già in cammino ed è forse utile far riferimento a una recente indagine, svolta a Molfetta fra circa cinquecento studenti della scuola media inferiore. Tale lavoro ha accertato che l’atteggiamento diffuso fra gli adolescenti rispetto alla percezione dello straniero è relativamente marcato da pregiudizi e stereotipi negativi mutuati il più delle volte dagli adulti (mancanza di igiene, disonestà, atteggiamenti parassitari, sottrazione di posti di lavoro, stranezza delle abitudini, e che sicuramente più numerose del passato sono le occasioni di conoscenza diretta e di integrazione delle esperienze (la scuola, l’oratorio, la sala giochi, i luoghi di lavoro, ecc.) mentre incidono meno nella formazione dei giudizi gli incontri casuali (al semaforo, all’ingresso del supermercato, ecc.).
Particolarmente significativo è anche il nesso semantico straniero/nuovo amico, che viene più comunemente riconosciuto rispetto all’altro straniero/estraneo. I giudizi negativi sullo straniero, con conseguenti atteggiamenti di rifiuto, sembrano essere collegati più a situazioni particolari di disagio sociale: si tratta, dunque, di un dato che dovrebbe indurre a una seria riflessione e a un approfondimento, volti alla costruzione di un intervento organizzato tra i diversi soggetti istituzionali e sociali.
Risultano, infine, chiare alla grande maggioranza degli studenti intervistati le definizioni di “tolleranza”, come rispetto delle diversità, e di “intolleranza”, come rifiuto della diversità. C’è da augurarsi che le definizioni dichiarate corrispondano sempre di più a sensibilità interiorizzate e producano pratiche coerenti sul piano relazionale.
Il percorso è avviato. Facciamo in modo che non venga interrotto dagli eventi tragici che stiamo vivendo. Non permettiamo, soprattutto nella scuola, che i terrorismi e i bellicismi ostacolino o rallentino i difficili processi di educazione alla pace, all’integrazione, al riconoscimento dell’altro, del diverso non come “mostro” ma come “nostro” (… don Tonino Bello nella commemorazione funebre di Gianni Carnicella…).