Sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori
Il nostro diritto del lavoro, nel suo passaggio da ramo del contratto a ramo dell’ordinamento, da quando quest’ultimo ha posto al centro dello stesso diritto del lavoro il “prestatore”, si è contraddistinto storicamente, soprattutto negli ultimi decenni, dagli altri rami del diritto per il suo atteggiarsi a strumento di tutela del soggetto contraente più debole economicamente, socialmente e contrattualmente, partendo dalla consapevolezza che quello di lavoro è l’unico rapporto tra due contraenti a vedere sottoposto uno dei due, il prestatore, a un altro, il datore di lavoro.
Di qui lo sforzo dei vari legislatori italiani, sotto la spinta e pressione del mondo operaio e sindacale che caratterizzò soprattutto le lotte degli anni Sessanta e Settanta, di dar vita a un sistema di garanzie e tutele che riequilibrasse le disparità esistenti.
La grande conquista di quelle lotte è ( è stato?) lo Statuto dei Lavoratori, tentativo riuscito di dare concretezza a quelle norme costituzionali che interpretano il lavoro anche come strumento di uguaglianza sostanziale, la mancanza del quale costituisce un ostacolo economico-sociale al pieno sviluppo della persona e all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Il rischio attuale è che per il diritto del lavoro, in tal modo inteso, si stia preparando (ma il terreno sembrava già fertile) una sorta di anno zero: punto e a capo. Ed è un rischio attualissimo come attualissimo è il governo di Berlusconi. Quest’ultimo, infatti, volendo e dovendo mantenere le promesse fatte alla Confindustria (cioè a se stesso) in campagna elettorale, sembra voglia ridisegnare (ma solo temporaneamente, tengono a dire) un quadro che vede il prestatore di lavoro alla pari del datore di lavoro; e allora via tutte quelle garanzie di cui è (è stato?) destinatario il primo. Il prestatore di lavoro non è più da vedere come soggetto debole e può, nella logica confindustriale-maroniana, gestire, per esempio da solo, le interruzioni o le risoluzioni del rapporto dì lavoro instaurandone subito un altro, grazie alla flessibilità, elemento “salvifico” del sistema. È noto come un lavoratore, magari cinquantenne, che perde il posto di lavoro, magari ingiustamente, faccia fatica a selezionare le molteplici offerte di lavoro che gli giungono, soprattutto se sindacalizzato e soprattutto se inserito nelle liste di lavoratori – circolanti tra i datori di lavoro – con i quali “è meglio non avere nulla a che fare”.
A che serve allora lo Statuto dei Lavoratori con la tutela reale prevista all’articolo 18 dello stesso, secondo il quale il datore di lavoro con più di quindici dipendenti può essere condannato a reintegrare il lavoratore licenziato “illegittimamente” nel posto di lavoro e a risarcirne il danno causato?
Non solo tale garanzia viene vista come esagerata da meritare una sospensione, quasi che si stesse parlando di uno scolaro indisciplinato; dietro la proposta dell’attuale Ministro del lavoro si nasconde una logica aberrante come aberrante è la motivazione di tale proposta sintetizzabile nel motto: sempre meno diritti uguale sempre più flessibilità, quindi non precarietà ma sviluppo economico e occupazionale, con i datori di lavoro protagonisti di quello sviluppo perché liberi di superare la fatidica quota quindici, perché liberi finalmente di licenziare, senza subire la condanna al reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente, magari scomodo o non più desiderato. Datori di lavoro non più costretti ad assumere a nero per evitare la sottoposizione all’articolo 18, finalmente liberi di espandere la produzione, magari ancora supportati dalla fiscalizzazione o da sgravi contributivi di vario genere.
Ma come: 1’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è la causa della disoccupazione, del lavoro sommerso, del mancato sviluppo economico, magari anche causa del mancato sviluppo sociale? Ebbene sì!
Finalmente è stato scoperto il bubbone, e guai a sollevare dubbi sulla giustezza di tali operazioni logiche, perché in relazione alla “modesta” misura sperimentale sull’articolo 18 non vanno utilizzati toni e argomenti esasperati, altrimenti si passa per cattivi maestri o per “riaffioranti terroristi” (termine che, ultimamente, non si nega a chi sollevi una voce critica), come dichiarato dal sottosegretario al lavoro Sacconi.
La misura sperimentale sull’articolo 18, considerata “modesta” (figuriamoci gli scenari che si apriranno quando il governo non vorrà più essere modesto), ha immediatamente raccolto consensi e benedizioni da Fazio (governatore non solo della Banca d’Italia ma governatore tout court), secondo il quale, avendo il mondo del lavoro italiano subito grandi trasformazioni in questi anni, l’impianto del diritto del lavoro non regge più. Ma a quali trasformazioni si riferisce Fazio? Alla flessibilità che si fa precarietà; alle incertezze e difficoltà, se non vera e propria impossibilità, di reinserimento nel mondo del lavoro; alla scarsa tutela dei propri diritti; alle gabbie salariali esistenti da sempre; alla disoccupazione cronica del Mezzogiorno che crea nuove forme di emigrazione (non più con le valigie di cartone ma in simil-pelle)? E l’impianto del diritto del lavoro non regge più perché incapace di dare risposte a tali patologie? Perché supportato da un processo le cui udienze vengono rinviate di anni? Non regge più per esempio per il fallimento degli strumenti di incentivo all’occupazione come i contratti di formazione-lavoro, le borse lavoro, i contratti week-end utilizzati come strumenti di offerta-lavoro a “buon mercato”? Non regge più dinanzi agli infortuni sul lavoro quotidiani, alle malattie professionali (vedi i massacri di Porto Marghera e Manfredonia e le relative assoluzioni)?
E a tutto ciò che si riferisce Fazio? Di certo la ricetta del Governatore tout court, del Ministro del lavoro, del Presidente del Consiglio è, invece che estendere i diritti, toglierli a chi ce li ha, per non creare discriminazioni. Con “modestia”. |
gennaio - aprile 2002 |