È una constatazione amara, ma mi sono accorto che si parla tanto di pace proprio quando c’è una guerra. È successo ai tempi della guerra del Golfo, sta succedendo oggi per la guerra in Afghanistan. Ma il vero problema è che questa parola tutti l’hanno sulle labbra, ma ognuno la stiracchia a proprio piacimento a seconda delle proprie convinzioni.
Io penso che i grossi dibattiti sulla pace dobbiamo imparare a farli prima delle guerre e non in procinto o durante le guerre. Non mi soffermerò a filosofeggiare su questo, ritengo, però, che sia giunto il momento di prendere coscienza di due grandi questioni relative alla pace vista dal nostro osservatorio.
La prima questione riguarda la necessità, come occidentali, di fare un esame di coscienza sul nostro modo di vivere e concepire la società. Esame di coscienza che da molto tempo stiamo rinviando. È una riflessione sulle contraddizioni che ci portiamo dietro. Ne cito, solo per esemplificare, quattro.
In primo luogo la questione della produzione e il commercio delle armi. Da una parte si dice che non si vogliono conflitti, dall’altra si cerca di smerciare, in maniera lecita o illecita, tonnellate di armi e sempre più micidiali. Se veramente si vuole la pace è necessario e improcrastinabile la decisione di non smerciare più armi soprattutto nei paesi poveri e in perenne conflitto. Se siamo costretti a vedere bambini che in Africa imbracciano fucili mitragliatori è perché una fabbrica quel fucile l’ha prodotto.
Un altro problema riguarda l’uso delle risorse primarie della terra: aria, acqua, coltivazioni, materie prime, fonti energetiche. Non è più possibile pensare ai paesi del Sud del mondo semplicemente come a una riserva, a un giacimento da cui attingere per permettere al Nord del mondo di conservare il suo stile di vita sopra le righe, opulento e pieno di sperperi.
Le regole del commercio mondiale sono l’ulteriore problema con cui fare i conti. Anche qui la comunicazione globale ci ha fatto conoscere cose indecenti. Abbiamo visto bambini sfruttati, sottopagati e schiavizzati per produrre quei beni superflui che la pubblicità ci costringe a usare. No! Non è più possibile far finta di niente. Abbiamo il sacrosanto dovere di informarci per ogni cosa che mangiamo, per ogni vestito che indossiamo, per ogni giocattolo che regaliamo: quante lacrime e sangue – e non metaforici – sono costati? Continuare a essere ignavi significa farsi complici di queste nefandezze.
Infine c’è da aprire gli occhi sul sistema bancario internazionale, con tutti i giochi dell’alta finanza. C’è da prendere coscienza che l’autodeterminazione dei popoli, diritto sacrosanto, oggi è succube di un nuovo colonialismo che assume il volto delle multinazionali e dei prestiti del FMI. Sono questi che decidono la politica di un Paese, la sua produzione, il livello delle tasse, e quello degli investimenti. E così la politica di un Paese del Sud del mondo viene decisa non dai governi nazionali, ma nei palazzi del potere economico mondiale.
Penso che fino a quando non cominceremo a cambiare rotta su tutto questo, parleremo di pace solo pour parler.
La seconda questione riguarda il nostro essere in una terra protesa nel Mediterraneo. Ecco, ritengo che sia giunto il momento di guardare al Mediterraneo come la vera possibilità di costruire un mondo nuovo. «Perché il Mediterraneo?» si chiederà qualcuno? Perché il Mediterraneo ha una storia lunghissima, fatta di scontri e di incontri che hanno portato nel tempo a travasi di civiltà e contaminazioni culturali.
Inoltre, oggi nel Mediterraneo ritroviamo concentrati i problemi che riguardano non una regione della terra, ma tutta la società umana: la convivenza etnica – pensiamo alla ex-Jugoslavia e al Libano –, l’immigrazione dai paesi poveri verso i paesi ricchi, il confronto inter-religioso tra cristiani e musulmani e, infine, il problema palestinese che deve mettere insieme il diritto di un popolo ad avere una terra e il diritto di un altro popolo ad avere sicurezza. Impegnarsi a proporre soluzioni pacifiche e non conflittuali rispetto a questi problemi significa dare una forte sterzata alla storia umana nell’ottica della pace. Nell’Histoire de la Méditerranée, Carpentier e Lebrun concludono dicendo che le popolazioni del Mediterraneo sono a un bivio: «Si può considerare il Mediterraneo un mare nostrum e quindi farsi tentare dalla chiusura nei confronti delle altre civiltà; oppure reinventare il métissages méditerranéens, cioè quello scambio culturale che già ha segnato per secoli le coste del Mediterraneo, non più nell’ottica della conquista, ma in quella dell’accoglienza e dello scambio».
Di queste possibilità noi gente meridionale siamo chiamati a essere pieni protagonisti, non foss’altro per il nostro essere protesi nel cuore stesso del Mediterraneo. Di certo, però, non sarà l’atteggiamento di indolenza che ha caratterizzato la nostra città in questo frangente storico, fatta salva qualche rara eccezione, che permetterà alla speranza di alloggiare nei nostri cuori.
Correva l’anno 1991. Il Paese era in subbuglio. L’Italia stava decidendo, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, di partecipare a una guerra, quella contro l’Iraq di Saddam Hussein. A Roma, Montecitorio per la prima volta rimaneva aperto anche di notte. Un Vescovo scriveva una lettera aperta a tutti i parlamentari chiedendo di non votare l’entrata in guerra dell’Italia; e poi ancora parlava, scriveva e partecipava ai dibattiti e alle marce. I giovani nelle scuole molfettesi, come nel resto del Paese, scioperavano, occupavano, facevano sit-in. Si incontravano e discutevano e facevano striscioni a favore della pace. Due anni dopo – 1993 – quel Vescovo moriva tra la commozione generale. Ognuno sentiva il bisogno di scrivere il suo impegno nel nome del “pacifico” don Tonino. Non bastava la lunga cancellata del Seminario Vescovile a contenere i cartelloni pieni zeppi di frasi impegnative. Poi cominciò la stagione dei convegni e delle testimonianze. Tutti avevano da raccontare un ricordo, un aneddoto. Tutti erano stati amici di don Tonino e ognuno aveva da ostentare la propria confidenza.
E venne il nuovo millennio, con una nuova guerra. L’Italia ancora una volta ha scelto la guerra. Stavolta senza alcun sussulto da parte del Paese. Con le forze politiche allineate, tranne qualche eccezione: Rifondazione Comu-nista tra pochi.
E nella nostra Molfetta? In questa città che si fregia del titolo di “Città della Pace”? Neppure un battito di ciglia! I giovani hanno sì scioperato, ma per i termosifoni, e nella totale indifferenza della città.
Siamo tutti amici di don Tonino?
Guardo la sky line di Molfetta vecchia e per uno strano contrasto, con un tuffo al cuore, mi sembra di vedere le Twin Towers nelle due torri del Duomo. Rivedo lì, sotto quelle torri, la testimonianza di un uomo vissuto e morto per la pace e ripenso alla sua profezia: «La Puglia sia arca di pace e non arco di guerra».