Passione di pace
di Margherita Bufi

L’invito a scrivere un articolo sulla mia esperienza di pacifista ha suscitato in me molteplici e contrastanti emozioni.
Mi sono interrogata sull’utilità di una narrazione personale (Potrà essere interessante per qualcuno la mia esperienza? Né più, né meno del racconto di qualsiasi persona che narri di sé e della sua vita! mi sono detta), così come ho considerato l’opportunità di scrivere su una rivista di sinistra (Non sono mai stata tesserata né impegnata in alcun partito politico e sono contenta di questa mia scelta. Mi fa sentire libera e autonoma. Non sarà certo uno scritto su un giornale di sinistra a creare una mia qualche “appartenenza”!).
Avevo avuto occasione di visionare il primo numero di Passioni di sinistra e avevo comunicato ai giovani impegnati in questo progetto il mio augurio e invito a proseguire. Reputo che ogni spazio di riflessione, approfondimento e confronto possa aggiungere un tassello alla cultura e alla storia e aiutarci a crescere come persone e come cittadini. Ben venga, quindi, una nuova rivista!
Il nome, soprattutto nella prima parte – Passioni – mi stimolava molto, forse perché mi appassiono alle attività che svolgo e mi entusiasmo per le cose che m’interessano veramente e che ho a cuore. I care, diceva don Milani, e la mia vita è un po’ così: un “tenerci”. A pochi principi, a pochi valori, ma tanto. Uno di questi è la pace.
Pace. Un’infinità di suggestioni, interpretazioni, intrecci, immagini. Me ne vengono in mente essenzialmente due: pace-quotidianità e pace-percorso.
La prima immagine, pace-quotidianità, è quella della pace feriale con cui siamo chiamati a fare i conti ogni giorno, non astratta, teorica, utopica, ma concreta, tremendamente concreta. È quella dei rapporti, delle relazioni e degli incontri; quella della casa, della famiglia, del lavoro, dell’associazione; quella delle scelte quotidiane, che spesso ti porta ad assumere il ruolo della “rompiscatole”, dell’attenta osservatrice che denuncia le ingiustizie e pretende trasparenza e legalità; quella che ti fa sentire, in certe situazioni, sola e diversa; quella che ti mette in crisi di fronte alla coerenza delle scelte, degli acquisti, dello stile di vita.
La seconda immagine è quella della pace-percorso, strada da intraprendere, insieme con altri, a volte insidiosa, irta e tortuosa. La meta si conosce, ma è sempre distante. Ci si avvicina, ma non si raggiunge, perché la pace non ha fine, non si consegue mai in modo definitivo. Essa ci chiede di essere in tensione continua e ci mette in guardia dall’illusione del già fatto.
Il mio impegno per la pace, oggi quasi maggiorenne, ha queste caratteristiche: la concretezza (agire localmente ma pensando globalmente) e la consapevolezza della durezza della strada, fatta di piccole tappe, più semplici da raggiungere se perseguite insieme (il gruppo è una preziosa risorsa).
Era il 1984. Ero curiosa e amante della vita, sognavo un mondo armonioso e senza violenza. Un pomeriggio, mentre passeggiavo per strada, la mia attenzione fu catturata da una locandina su un corso di educazione alla pace. Fu così che, per la prima volta, mi accostai a quell’associazione che (a mia insaputa) avrebbe svolto un ruolo così decisivo e fondamentale nella mia vita: la Casa per la pace. Fu allora che conobbi Guglielmo e Francesco, ex obiettori di coscienza (all’epoca il servizio civile era svolto con forte motivazione, era serio e impegnativo, si conduceva una vita semplice e di gruppo, con poche comodità e tempo libero quasi nullo) Franca, Rosaria, Norina, Maria, Pina e tanti altri, con cui, poi, avrei condiviso pezzi di strada sulle vie della pace.
Fu allora che cominciò il mio percorso di educazione alla pace, la scoperta della nonviolenza e dei suoi padri, il mio impegno associativo nel mondo del volontariato, della formazione e dei minori. Iniziai a sentir parlare di Lanza del Vasto, allievo e amico di Gandhi, e del suo vivere, nel quotidiano, in modo coerente la nonviolenza. «Il metodo nonviolento – diceva – è un modo di fare che deriva da un modo di essere». Aveva fondato nel 1958 una comunità – L’Arca – in cui si condivideva tutto: cibo, preghiera, lavoro, riposo, impegno, nel pieno rispetto della natura e dell’uomo, contro ogni logica di sfruttamento e di profitto.
Per la prima volta sentii parlare di Aldo Capitini, tra i principali protagonisti, in Italia, della riflessione teorica sulla nonviolenza e dell’impegno per attuarla, ideatore e organizzatore quarant’anni fa della marcia Perugia-Assisi. Mi fu offerta l’occasione di ascoltare Giovanni Salio: era interessante e allo stesso tempo curioso ascoltare, un ricercatore di fisica, parlare con competenza e passione di pedagogia per educare alla pace; poi Antonio Drago (recentemente su Mosaico di Pace è apparso un suo articolo sulla nonviolenza in Italia), Daniele Novara (pedagogista, oggi impegnato nel Centro psico-pedagogico della pace di Piacenza), Mario Bolognese, scrittore per l’infanzia e Sigrid Loos, esperta di giochi cooperativi. Ebbi l’opportunità di conoscere, in un convegno organizzato dalla Casa per la pace nella nostra città, Giuliana Martirani, di ascoltare le sue puntuali analisi e la proposta di un nuovo modello di sviluppo per garantire pace, giustizia e tutela del creato. Ricordo i suoi interessanti interventi, all’interno dei lavori di gruppo, sul ruolo fondamentale che le donne, portatrici di una cultura “altra”, tutta femminile, possono rivestire per la costruzione di un mondo diverso. Conobbi Danilo Dolci. Non avevo letto niente di lui, ma mi avevano informata delle sue iniziative di lotta nonviolenta a fianco dei contadini e dei disoccupati di Partinico, dei terremotati del Belice, del suo impegno in Sicilia, per promuovere (ispirandosi alla pedagogia di P. Freire) la crescita personale e sociale dell’individuo, puntando sulla creatività individuale, cercando nuove prospettive, spargendo “sementi alternative”. Ebbi l’opportunità di conoscere Alex Zanotelli, missionario comboniano, all’epoca direttore di Nigrizia, che con coraggio denunciava l’enorme disparità tra i Nord e i Sud del mondo, i grossi interessi economico-commerciali dei paesi ricchi nel traffico di armi e nei conflitti, le condizioni di sfruttamento e miseria di gran parte della popolazione mondiale, e in un convegno a Giovinazzo, Jean e Hidelgher Goss, una coppia che aveva fatto della nonviolenza radicale la sua scelta di vita. Alla base: il Vangelo, il rifiuto delle ricchezze materiali, dei privilegi sociali e politici, l’amore per il prossimo, forza creatrice, capace di una rivoluzione interiore.
Sarebbe impossibile elencare tutte le persone con cui sono entrata in contatto, direttamente o indirettamente, in questi anni, senza rischiare di dimenticarne qualcuna. Sento di dover esprimere gratitudine e riconoscenza a tutte, e in particolare a chi ha dato vita all’associazione, a chi ha pensato e voluto fortemente, a Molfetta, uno spazio per la riflessione, la discussione, la ricerca sui temi della pace, collegando la teoria alla prassi, l’approfondimento teorico all’impegno sociale. La Casa per la pace è stata per anni promotrice di una cultura diversa, alternativa.
Sento di dover ringraziare chi mi ha accostato all’educazione alla pace e mi ha approcciato alla nonviolenza e tutti coloro che ho incontrato, perché mi hanno insegnato e donato qualcosa che oggi fa parte integrante di me, della mia vita.
Alcuni li ho solo incrociati, altri hanno percorso un tratto di strada insieme, altri ancora sono tuttora miei cari compagni di viaggio. Qualcuno da anni condivide con me riflessioni, progetti, attività, iniziative, impegni all’interno dell’associazione, qualcun altro ha maturato la scelta di dar vita ad altre realtà, e continua, con tenacia e intelligenza, il suo impegno per la pace in settori diversi, altri ancora si sono persi per strada. Io ne serbo un bel ricordo e mi piacerebbe averli nuovamente accanto a percorrere sentieri inediti.
Poi c’è lui, l’amico vescovo, il mio maestro. Con la sua testimonianza e la sua vita mi ha aperto nuovi orizzonti, carichi di tenerezza e speranza. Pace e nonviolenza sono incarnate nella sua persona, nella sua parola.
Io, presidente della Scuola di Pace a lui intitolata, a volte sento il peso di questo ruolo, ho timore di non essere all’altezza della situazione, di non riuscire a svolgere adeguatamente il compito che mi è stato assegnato. Poi ripenso a quanto mi disse quel pomeriggio d’aprile, nella sua stanzetta in Episcopio. Smunto, sofferente, attorcigliato come un tronco d’ulivo, sorrise: «Non mollare, continua a impegnarti e a lottare per la pace. È importante. Forza! Abbi forza!». Soffriva moltissimo, si stava spegnendo e m’infondeva coraggio, amore, passione.
La passione per la pace.

gennaio - aprile 2002