Le costruzioni ideologiche patriarcali, quelle che più semplicemente chiamiamo maschilismo, misoginia o minorizzazione delle donne, non sono elementi residuali della premodernità, ma costruiscono e alimentano la modernità e i suoi rapporti sociali.
Tra la guerra e le costruzioni materiali e simboliche del patriarcato c’è un nesso costitutivo. Esse non solo attraversano i processi storico-sociali in atto, ma svelano anche l’inadeguatezza della stessa critica delle donne al patriarcato che non ha finora indagato e criticato fino in fondo questo nodo così ineludibile.
Il sistema patriarcale non si riproduce né si esaurisce soltanto all’interno del rapporto tra i due sessi: è una partita non duale, molteplice. Non è solo un rapporto tra uomini e donne, tra libertà e subordinazione. C’è tutto un non detto, una zona d’ombra di difficile esprimibilità che parla di non assunzioni di responsabilità, di debolezze rimosse, di abnegazioni taciute. Perché dice di rapporti di convenienza e di complicità conniventi, di accettazioni spesso consapevoli da parte femminile. Su questo il terreno della guerra è illuminante.
Ciò che qui si vorrebbe non trascurare è l’inesistenza e l’infondatezza di una vocazione naturale delle donne alla pace e alla non violenza, di una loro ontologica estraneità alla violenza.
Troppo spesso le donne si collocano dalla parte degli uomini contro la loro stessa libertà, soprattutto nelle vicende legate alla guerra. Quando la legge del pòlemos assurge a legge generale scucendo quell’ordito di relazioni faticosamente intessute nelle pieghe della vita quotidiana, quando gli uomini vanno in guerra, ovunque le donne ritornano in casa per dedicarsi al lavoro di cura dei figli, degli anziani, delle vittime della guerra.
La guerra segna, dunque, un fortissimo arretramento sul piano dei rapporti sociali tra i generi, oltre che naturalmente su quello dei diritti. In questo senso è difficile immaginare come i bombardamenti sui cieli e nelle case dell’Afghanistan possano ripristinare un ordine e aiutare le donne a decidere se e come togliere il burqa.
Le nuove immagini femminili mostrano con ambiguità come gli stereotipi dominanti e le identità socialmente costruite siano sottoposte a continua ridefinizione dalla dimensione bellica e dalla guerra “totale”. Innocenti vittime estranee, donne velate inneggianti alla guerra santa che purifichi il mondo, donne soldato, mogli madri sorelle tanto piangenti quanto orgogliose dei propri uomini in guerra, dei loro martiri: a Kabul come a New York, come nel nostro Sud. A Kabul, dove le donne sono costrette a far studiare i figli da talebani con il corano in mano e il kalaschnikov sotto la tunica; qui da noi, dove le donne ormai sempre più spesso vedono partire i propri figli, con orgoglio di madre, per la guerra nei contingenti umanitari e dove le giovani donne ora possono, in uno stato compiutamente moderno, libero e democratico, scegliere la carriera militare e dirsi finalmente emancipate.
Patria, onore, esercito, tricolore: da elementi premoderni si fanno nel cuore della civiltà occidentale nuovi valori da consumare acriticamente e indifferentemente anche per le donne. Ma la libertà di essere ciò che si vuole, in assenza di un orizzonte critico, alternativo e differente, si rivela libertà di essere ciò che si può essere pensando che sia l’unica opzione possibile.
Nella miseria di cifre diverse per leggere la realtà, nell’impossibilità di un diverso posizionamento culturale rispetto alla visione eroica, muscolare, guerriera del conflitto, è rimosso ogni freno ai rituali della guerra antropologicamente fondativi della modernità che informano di sé la storia sociale, le pratiche politiche e le nostre stesse utopie del cambiamento.
Il processo di banalizzazione e di devirilizzazione dell’esercizio delle armi in atto (nell’ambito di una più complessiva “modernizzazione” del Paese resa possibile da finanziarie di guerra) e l’accesso partecipativo, sempre e solo aggiuntivo, delle donne alle forze dell’ordine, legittimano e normalizzano sempre più la straordinarietà della guerra a guerra buona e giusta perché necessaria e certamente non spezzano neanche dall’interno l’ordine patriarcale ancora gerarchico ed esclusivo. Le pratiche, attraverso le quali si costruiscono le identità maschili – il maschio guerriero, cittadino per eccellenza – e femminili – dalla madre spartana all’“anima bella” hegeliana –, sono costrutti simbolici che incidono fortemente sulle regole e sui codici sociali.
Ma l’assunzione da parte delle donne di codici comportamentali e di pratiche belligeranti omologanti all’identità maschile, non comporta certo la possibilità di una reale ridefinizione delle identità di genere, in particolare di quella sociale delle donne.
La presenza delle donne nei conflitti armati e soprattutto l’interiorizzazione della legittimità della guerra, ora nella forma di una rassegnata incapacità a resistere, ora in quella di adesione attiva, producono oggi un disagio proporzionale al crescere degli stessi conflitti su scala globale e locale. Nel senso che le donne, educate alla passività paziente e all’estraneità, sono state rese dagli uomini parte altra rispetto alla pratica violenta del conflitto e sarebbero dunque, sulla base di un processo di soggettivazione e di responsabilizzazione, unico soggetto potenzialmente capace di costruire su questa alterità l’alternativa alla guerra permanente. In più, questa nuova forma di omogeneizzazione del femminile al maschile indica chiaramente il valore simbolico e il potere di identificazione collettiva della differenza delle donne rispetto alla cultura del pensiero unico nei suoi aspetti più repressivi e mortiferi dei quali le donne restano sempre, nonostante il dilagare di forme di sottile o macroscopica compromissione, le vittime più grandi.
Oggi che la politica è klausewitzianamente ridotta alla guerra, l’esperienza del movimento delle donne contro la guerra va testardamente tessendo una ragnatela di relazioni tra donne israeliane e palestinesi, bosniache serbe e kosovare, arabe musulmane e occidentali. Questa modalità del femminile, pur nella complessa non univocità delle sue posizioni, può aiutare a riformulare il discorso sulla pace e sulla guerra nella misura in cui scardina le identità, le differenze, i rapporti sociali e le gerarchie di valore. E costruire le condizioni attraverso le quali l’opzione antibellica possa irrobustirsi e mettersi alla prova della politica: questo è un nodo cruciale per rompere la pretesa di superiorità dell’Occidente quale nuova grande patria, luogo dell’appartenenza e dell’inclusione escludente.
È nello scontro tra civiltà, nelle guerre di religione che l’Occidente combatte contro il resto del mondo attraverso l’azzeramento di ogni differenza che non possa essere metabolizzata o fagocitata, nei meccanismi più tipici del patriarcalismo moderno che covano i nuovi fondamentalismi della patria e dell’appartenenza. E allora lo sguardo si allarga e si restringe su diversi piani e luoghi, tasselli della medesima composizione globale.
A Kandahar l’Occidente scopre solo ora che alle donne è concesso di guardare il mondo a quadretti attraverso i piccoli fori del burqa e di immaginare, se ne hanno desiderio e coraggio, tutto il resto; nel profondo Sud le donne di mafia non portano più l’abito nero e il capo coperto, ma tacchi a spillo e foulard alla moda e gestiscono su delega maschile gli affari in borsa. Ma non per questo i loro vissuti possono dirsi realmente emancipati, perché sempre imbrigliati nelle reti delle pratiche e delle modalità dei padri, proprio come quando erano schiave angeli del focolare e i loro uomini portavano la coppola e la lupara.
E infine l’occhio si ferma da noi, nei nostri centri, cuori infartuati di corpi urbani malati ma non insanabili, dove una madre piange il corpo del figlio raggiunto da un colpo ritenuto casuale. Casuale come la bomba raffinata e intelligente sul tetto di fango afghano, casualmente così simile al carro armato israeliano contro la pietra e la fionda palestinese.
Pezzi di coralità disseminata, frammentata, dispersa.
Vicinanze separate, possibilità negate.