Nell’esigenza collettiva e nella domanda dei popoli che abitano l’impero, da tempo trova posto e oggi diventa sempre più forte la necessità che cambi il ruolo dello Stato, inteso in senso ampio e decentrato, nelle sue articolazioni territoriali e nelle sue autonomie locali e funzionali. Ed è necessario che, nei prossimi anni, lo Stato cambi in profondità, se è vero che è sempre più avvertito il bisogno di spostare il suo compito primario dalla mera fornitura di servizi efficienti alla responsabilità dello sviluppo e del “benessere” di territori e di popolazioni.
Non sono sicuro che l’abbia capito il capo del governo italiano, ma di sicuro non sono molti i sindaci delle città italiane ad averlo capito, e fa finta di niente anche il sindaco di Molfetta. Non si è accorto, infatti, che i cittadini chiedono oggi di articolare programmazione, valutazione e controllo sia negli ordinari atti amministrativi quotidiani sia soprattutto nelle strategie di pianificazione e gestione. E continua, così, a operare secondo gli antichi princìpi dell’impero, in cui si fa confusione tra democrazia e liberismo, si confondono pianificazione e mercato.
C’è un aspetto chiave che può dimostrarlo ed è la “pianificazione strategica territoriale”, strumento fondamentale per la costruzione della città futura: quando approderà a Molfetta la pianificazione strategica del territorio comunale, ovvero quel percorso condiviso e negoziale di definizione della città futura, che alcune città europee stanno sperimentando con successo negli ultimi anni? Percorso di dialogo, prima, di definizione degli obiettivi, degli interventi e delle linee di attuazione, poi.
Da tempo Molfetta è una città in cerca di identità, e la maggioranza politica che oggi l’amministra non ha scelto di puntare sulla sua comunità per disegnare insieme il volto della città nuova. Nessun canale di comunicazione per dare trasparenza alle scelte! Nessuna volontà di mettere in rete le risorse, progettuali, finanziarie, politiche, decisionali, di volontariato, espresse dai soggetti sociali, economici e istituzionali della città! Nessuna risposta alla necessità di un piano strategico, strumento fondamentale adottato dalle città medie che in Italia hanno metabolizzato la cultura di una progettazione dello sviluppo di lungo periodo! Nessuna capacità di gestire il potere locale in maniera alternativa, proprio come da molti anni si fa a Porto Alegre, nello stato brasiliano del Rio Grande, che ai tempi dell’impero è diventata un simbolo, luogo positivo dove si sperimenta il metodo del bilancio partecipato, dove ogni voce della finanza locale – dalla casa ai servizi, dalla formazione al traffico – viene discussa e decisa nelle assemblee di quartiere.
Sono d’accordo con Latouche: per immaginare un futuro diverso, dobbiamo “decolonizzare il nostro immaginario”. I politici, ammalati di serietà, sono incapaci di sognare e hanno bisogno di riappropriarsi di senso pratico.
Una delle più interessanti esperienze moderne di cambiamento sociale è quella di Curitiba, città di più di due milioni di cittadini, quindi non assimilabile a una piccola comunità alternativa. Una narrazione che va avanti da trent’anni, nello stato del Paranà, nel sud del Brasile. Un esempio da cui apprendere, un miracolo dell’onestà creativa. Sistemi semplici in grado di offrire effetti positivi immediati e un cambiamento radicale della cultura a lungo termine. La fantasia delle soluzioni, che sembrano pazze ma contengono un’enorme efficienza.
è così che tecniche semplici ma ingegnose ridiventano il cavallo di battaglia della sinistra. Obiettivi semplici quali le isole pedonali, il divieto di accesso al centro storico con le automobili, per realizzare l’idea di percorrerlo a piedi, l’arredamento delle strade con lampioni e fioriere, il centro cittadino trasformato in un salotto. E poi ancora parchi e strade alberate, isole verdi tra gli edifici. Una città fatta a misura anche dei disabili, trasporti pubblici efficienti che collegano i quartieri periferici con il centro, e chilometri di piste ciclabili che contribuiscono al rifiuto di massa dell’automobile. Con una gestione oculata dei costi, il servizio di trasporto pubblico si autofinanzia, si ricavano utili, si remunera il capitale investito. È fondamentale iniziare la riforma della città a partire dai trasporti, perché nulla influenza più rapidamente l’opinione e i comportamenti dei cittadini quanto l’efficienza dei mezzi pubblici di trasporto.
Poi c’è la collaborazione delle banche con le amministrazioni locali e le aziende speciali, la disponibilità a prestare denaro al comune; i giovani aiutati ad aprire un’attività in proprio grazie al microcredito; le autorizzazioni al commercio facilitate per i commercianti ambulanti.
La pulizia della città e un netto miglioramento della salute e della qualità della vita; l’ospedale efficiente, i medicinali per tutti, l’assistenza medica diffusa sul territorio, le linee telefoniche a disposizione dei cittadini per informazioni di ogni tipo. Biblioteche di quartiere, teatro, museo, centri culturali e per la formazione professionale. Questo è oggi Curitiba, e questo potrebbero diventare le nostre città.
Anche qui, nel Mezzogiorno d’Europa, nella vita di una qualunque città mediterranea, nella progettazione dello sviluppo di lungo periodo, dobbiamo essere capaci di scrivere “nuove narrazioni”, che raccontino di solidarietà fra i cittadini, che parlino di mutuo appoggio tra i lavoratori, di attenzioni verso gli stranieri, di cura verso i deboli.
Negli atti amministrativi dobbiamo rivendicare la cura costante del territorio e, nella pianificazione strategica, pretendere l’introduzione di tecnologie dolci, l’affermazione di un’economia di sufficienza, la cautela nell’uso delle risorse esauribili, la diffusione di un’agricoltura biologica, l’uso prevalente di energie rinnovabili.
Un grande lavoro ci attende per costruire nel nostro territorio, prima che sia troppo tardi, un’alternativa al modello di sviluppo corrente, un’alternativa al liberismo economico.
Occorre ripartire da Marx, dalla critica allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e alla distruzione della natura: la crisi ambientale che stiamo vivendo è il risultato di una tendenza di fondo del capitale, che non è capace di conservare la forza lavoro né la natura. Il modello dominante di sviluppo economico, costringendo a inseguire continuamente la crescita della ricchezza, induce a un sempre più intenso sfruttamento di risorse ambientali e territoriali, che accentua degrado e precarietà del territorio italiano. E oggi il capitale, nel travolgere lavoro e natura, apre un’altra contraddizione, quella tra produzione e risorse, mentre la contraddizione classica, quella tra capitale e lavoro, non cessa di esistere anzi si aggrava.
Per salvare i profitti non si tutela il territorio, si dimentica la manutenzione dei fiumi, crescono città dove la qualità della vita è sempre più bassa, aumenta l’insicurezza dei sistemi umani, si trascurano i servizi essenziali, si alimentano guerre economiche, come è quella in atto per il controllo del petrolio, senza scalfire il terrorismo internazionale.
Occorre ripensare la qualità dello sviluppo: rivediamo i modi di produzione, gli stili di vita e la qualità dei consumi, modifichiamo l’organizzazione del lavoro e della vita sociale, rinverdiamo e rimettiamo in campo valori ed esperienze, anche sentimenti, come la tutela, il rispetto della vita altrui, la prudenza, la mitezza. Con nuovi stili di vita e modi di produzione si potrà ridefinire la ricchezza, non solo redistribuirla, e porre fine al neoliberismo, interrompere finalmente quel processo di privatizzazione di ogni settore pubblico e collettivo e delle risorse naturali, che il capitale spaccia per globalizzazione.
Negli ultimi cinquant’anni, il territorio comunale di Molfetta ha subito i danni più gravi della sua storia millenaria.
Se andiamo indietro nel tempo – negli anni del secondo dopoguerra e, poi, negli anni Settanta, quando si è fatto il primo Piano Regolatore Generale della città – ci accorgiamo che questa stagione non è passata come un’esercitazione dialettica, ma ha cambiato, e in maniera evidente, il paesaggio della città. Il Piano non è rimasto disegnato sulla carta, ma ha prodotto periferia senza qualità, rapine territoriali e degrado edilizio, accelerato l’abbandono del centro storico. Di conseguenza, oggi, gli spazi progettuali si sono ristretti.
In questi anni, la città non si è dotata di strumenti progettuali e pianificatori adeguati alla funzione che occupa nel contesto comprensoriale: il PRG appena approvato, i piani di recupero del Centro storico, il piano ASI, il piano regolatore del porto sono espressioni di questa carenza.
Dopo una lunga vicenda iniziata diciassette anni fa, con l’incarico ai tecnici progettisti di redigere la Variante Generale del PRG, Molfetta oggi dispone finalmente di un nuovo strumento urbanistico generale. Chi lo attuerà, chi lo gestirà, chi metterà le mani sulla città? Chi impedirà che anche i suoi punti di forza vengano demoliti dall’attuale maggioranza, a colpi di successive parziali varianti come sta già accadendo?
Ora, nel nome del PRG saranno consentite nuove ferite al territorio, forzature, aggressioni. Nella sua attuazione, alla ricerca delle possibilità offerte alla rendita fondiaria, molti vorranno cogliere i margini del profitto, forzando le maglie dei piani attuativi, dei programmi operativi, dei progetti esecutivi con operazioni finanziarie e di speculazione fondiaria. L’onnivora speculazione e la piovra del consumo di massa raderanno al suolo le ultime speranze di tutela del territorio. E con la complicità dell’impresa. Chi si illude ancora della sua funzione sociale, del suo ruolo imparziale nella crescita del tessuto civile? Dov’è la missione dell’impresa per il bene oggettivo della comunità cittadina? Tutti ad aspettare la pioggia delle licenze edilizie, tutti, anche le cooperative, a richiedere subito e comunque un’abitazione, facendo a meno di un coordinamento tra i progetti dei vari comparti, in assenza di un programma strategico per il territorio.
I piani di Comparto nell’attuazione del PRG, i piani di Zona per l’edilizia economica e popolare, i piani di sviluppo per il governo dell’Area industriale, l’individuazione degli “ambiti costruiti” e di quelli “estesi” nel rispetto del Piano Urbanistico Tematico Territoriale del Paesaggio, il piano dei Servizi in una città a fortissimo deficit di verde e servizi, il piano dell’Agro per uno sviluppo edilizio equilibrato e rispettoso delle vocazioni territoriali, il piano del porto per il suo collegamento organico con il resto del territorio intercomunale: non c’è legame, non c’è filo conduttore che li coinvolga tutti in un processo identitario, nella progettazione di uno sviluppo di lungo periodo. Ed è così che si finirà col depauperare gli ambiti territoriali bisognosi di tutela e di valorizzazione.
In assenza di una strategia complessiva, la città resterà preda insicura dell’impero, un impero benevolo e ammiccante, targato McDonald’s e Microsoft, che continuerà a calzare scarpe Nike e si disseterà con Gatorade e Coca Cola. Inseguendo “città della moda” e ipermercati, distruggendo le sue piazze storiche per costruirci parcheggi sotterranei, la comunità cittadina rischia di perdere definitivamente la sua fisionomia e finirà con l’ignorare il mare, la sua costa e il suo porto, non darà valore al suo centro abitato, non curerà le sue periferie, trascurerà lame e cale, dimenticherà di avere una campagna fertile, di possedere risorse preziose per il turismo.
È questo il prezzo della globalizzazione voluta dal capitale: nulla è fragile quanto una società ossessionata dall’imperativo categorico della produzione senza limiti, per cui diventa necessario consumare quanto si riesce a produrre. È questa ossessione che sta minando le basi stesse della società contemporanea, incapace di dare una risposta positiva alle contraddizioni insite nell’economia dell’impero. Altro che terrorismo islamico, altro che eversione dei fondamentalismi! Altro che fine delle ideologie! È questo l’impero della modernizzazione, senza anima e senza sentimenti umani, che ha sostituito gli imperi della storia millenaria dell’uomo! È all’imperatore d’America, è alla modernizzazione degli USA che reagisce violentemente, per l’assenza di uno sbocco politico alternativo, il terrorismo islamico di una parte del mondo arabo, facendo crollare vigliaccamente le due torri, mentre la new economy ansima in difficoltà, mentre il capitalismo evidenzia a un punto critico, e ormai non controlla più, le stesse contraddizioni che genera: una reazione violenta che si manifesta in quello stesso Islam che ha prodotto una fertilissima cultura nel Mediterraneo e ha avuto una lunga tradizione di tolleranza e di sapienza.
E Molfetta è tutta dentro quest’impero: vive e consuma al di sopra dei propri limiti. Quando si sveglierà dall’illusione di godere del benessere materiale e consumistico, di essere moderna senza svilupparsi, e si deciderà a produrre qualità e servizi, beni immateriali e cultura?
Il trentennio appena trascorso ha prodotto uno sviluppo urbanistico incurante di servizi e senza rispetto di standard, uno sviluppo che ha avuto la sua massima, ma non unica, espressione nella realizzazione del Lotto 10, con le vicende giudiziarie annesse: un vero prodotto dell’incultura urbanistica, dell’ingordigia dei proprietari e della rapina degli imprenditori. C’è da chiedersi dove siano finiti i maggiori costi delle case costruite senza rispetto degli obblighi urbanistici e vendute in un mercato al rialzo dei prezzi. E i costi ambientali? Chi li ha pagati, se non i cittadini stessi, ai quali si è sottratto il diritto al verde riconosciuto dalla legge, il diritto alla sicurezza ambientale in una città diventata a “rischio idrogeologico”, alla qualità ambientale, alla conservazione della memoria storica e alla tutela delle risorse territoriali?
Trascorso questo periodo trentennale, ora se ne apre un altro con la scelta di puntare sull’area industriale, con quella di svincolare il più possibile gli ambiti territoriali dalla tutela del PUTT.
Né basta la qualità dei progetti urbanistici – se pure venisse considerato tale il nuovo PRG – a garantire la qualità dei progetti edilizi; e si può già prevedere che le abitudini di committenti e progettisti resteranno asservite alla rendita, a scapito della qualità del costruito.
Si pone, dunque, l’obiettivo di recuperare la bellezza, creandone i presupposti necessari. È tempo di mettere all’opera le capacità progettuali per riflettere e invertire la rotta del processo di degradazione del paesaggio molfettese, così ricco di valori naturali e storici.
Molfetta si trova oggi nella condizione di decidere se fare del PRG l’ultima occasione per salvare un’identità territoriale fortemente compromessa dagli sviluppi e dalle trasformazioni edilizie e urbane dell’ultimo trentennio e tornare a una leggibilità e coerenza dell’ambiente naturale e di quello costruito. Sono i punti di forza su cui basare le future strategie di governo del territorio comunale: le lame e la loro funzione ambientale, idraulica, paesaggistica e naturalistica; l’ampio territorio agricolo, verde di ulivi e costellato di torri antiche; l’esteso tratto costiero segnato da frequenti cale; il centro antico proteso sul mare; il porto e i quartieri storici a ridosso che nell’insieme costituiscono una unità di forte impatto; il pulo di notevole valore culturale e ambientale; la falda carsica con la sua rilevanza naturalistica.
Non è nel PRG ma nelle politiche amministrative il paradigma/motore per articolate iniziative di riuso urbano, per il recupero delle aree dismesse di archeologia industriale e dei cantieri navali, per un’estesissima opera di riqualificazione e di rifunzionalizzazione urbana.
La città deve poter rigenerare se stessa, evitare ulteriori strappi al proprio tessuto, ritessere i suoi valori, ricominciare dai punti di forza: è così che ridiventa economico costruire e rinnovare i suoi edifici. Non è solo problema di architettura, in parte è problema di sociologia, ma è soprattutto problema di economia e, intendiamoci, di politica.
Per concludere, una riflessione per la sinistra e per la sua, anche mia personale, autocritica.
È finita l’epoca in cui si è creduto che la toga pulita di Di Pietro potesse realizzare quella rivoluzione che non riuscì a studenti e tute blu, né a comunisti del compromesso storico, nè a femministe e autonomia operaia, neppure ai centri sociali. In quegli anni i movimenti alternativi si sono concentrati sulla denuncia delle ruberie dei partiti e dei singoli, corruzioni e collusioni. Era necessario che si facesse, ma contemporaneamente sono andate avanti la liberalizzazione del movimento di capitali, la svendita della proprietà pubblica, la demolizione del welfare, l’attacco alle pensioni. E nessuno le ha ostacolate. È qui, invece, il vero scontro.
Negli anni più vicini, fatti clamorosi, anche eccezionali, che hanno accresciuto ingiustizie e disuguaglianza sociale, avrebbero dovuto alimentare e premiare le forze di sinistra che si sono spese generosamente per contrastarli, così come i movimenti che stanno crescendo in tutto il mondo su temi di denuncia quali la guerra insensata, l’erosione del salario, la perdita dei diritti, la crescente disoccupazione giovanile, la politica scolastica che toglie centralità al servizio pubblico, le forme nuove del degrado ambientale, i guasti connessi alla globalizzazione.
Invece, che cosa è accaduto?
Forse questi fatti sono rimasti slegati tra di loro nelle nostre analisi e nella comprensione della politica e dei movimenti. Forse non c’è stato un pensiero articolato e identitario, in grado di contenerli tutti, riconoscerli e integrarli in una visione di prospettiva rivoluzionaria, organizzarli tramite una pianificazione strategica di cambiamento reale.
Vale la pena provarci, qui a Molfetta, adesso che siamo a un punto di passaggio dalla fase di pianificazione a diverse scale alla fase attuativa in cui le scelte di piano si trasformano in opere, realizzazioni, trasformazioni fisiche del territorio comunale. Ci proviamo? Contribuiremo a rendere possibile un altro mondo? Il mondo dei diritti del lavoro, non soggetto al profitto. Un mondo senza guerre né ingiustizie.
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gennaio - aprile 2002 |