Modesti dubbi, forse ragionevoli
di Guglielmo Minervini

Critica di una parola

Ma non per questo il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia.
Walter Benjamin, Angelus Novus

Forse avete ragione voi. Meglio ripartire dalle parole. Meglio ripartire individuando le parole con le quali illuminare di significato le vicende che stiamo condividendo, i cambi che stiamo attraversando. Abbiamo bisogno di condensare nelle parole, nuove idee che ci aiutino a ricomprendere il mondo e a rappresentarlo, in qualche modo.
Per questa ragione non mi piace quella che voi avete scelto, l’impero.
Non che non abbia una forza evocativa, come, tra gli altri, ha intensamente sottolineato, per esempio, Alex Zanotelli nella decodifica, per così dire, politica dell’Apocalisse di Giovanni, intitolata appunto Leggere l’impero, di cui la Meridiana ha curato la pubblicazione. E non sfugge nemmeno l’efficacia esplicativa di questo termine rispetto ai più macroscopici fenomeni di concentrazione delle risorse e di ingiustizia planetaria.
Semplicemente sento inadeguato il paradigma che sta dietro la parola impero. La visione piramidale del potere, il ricorso alla semplificazione gerarchica, il fondo della concezione meccanicistica secondo la quale, per dirla con Lenin, “l’imperialismo è la fase monopolistica del capitalismo”, il suo inevitabile compimento, la forma “ultima”, “suprema”. L’impero erige frontiere, si alimenta di eserciti, fabbrica nemici e, quindi, serve sempre una guerra per abbatterlo. Assumerne l’esistenza significa, comunque, rinchiudersi nello schema della violenza, arruolare e organizzare “mute di rovesciamento”, per dirla con Elias Canetti. Si finisce sempre per opporre al suo fondamentalismo un altro fondamentalismo simmetrico, quello della sua negazione. Oppure, al contrario e più diffusamente, la dismisura dell’impero paralizza il singolo, suscita impotenza piuttosto che energia, rassegnazione piuttosto che passione. L’impero, erodendo lo spazio vitale dell’azione, rendendolo inutile, genera tanto passività quanto risentimento.
Non mi sembra la rappresentazione giusta, nel senso che il mondo di oggi concettualmente non mi sembra raffigurabile, se non per frammenti, con gli stessi attrezzi con cui abbiamo descritto l’impero di Roma o quello dei Mongoli o quello della Cina o anche, per restare a noi vicini, quello del colonialismo. La gabbia del cosiddetto pensiero unico, in cui è reclusa la nostra immagine di mondo, non è stata concepita in nessun palazzo d’inverno.
Condivido più l’idea secondo la quale, in fondo, la modernità, soprattutto nella forma estrema, globalizzata che oggi stiamo conoscendo, sia una straordinaria metafora. Un sogno capace, a dismisura, di assorbire sguardi e generare visioni ma che dispone di un potente, potentissimo hardware con cui spreme esistenze, dilata le esclusioni, devasta le relazioni e accumula risorse e potere. Questa metafora si rigenera continuamente dentro la nostra testa, la seduce, l’affascina. Senza questo software la modernità non sarebbe così pervasiva.
Allora il sistema, questo Leviatano, è impero o metafora (megamacchina che produce immaginario, l’ha definita Latouche)? Si discute. Si continuerà per molto.
Non è irrilevante la parola, perché condiziona le idee, le scelte, dunque, gli eventi. Per esempio, è interessante cogliere gli effetti che può avere sugli atteggiamenti. L’influenza della parola sul principio di realtà.
Per esempio, lo slogan “questo mondo non ci piace” può significare molte cose. Narcisismo, rigetto del presente come prevalenza del desiderio, scissione tra volontà e responsabilità. Oppure dichiarazione di obiezione di coscienza, disponibilità a mettersi in gioco, esodo, nostalgia dell’altro, risveglio (nel senso di Benjamin). Le catene degli atteggiamenti che possono derivare dai due pensieri divergono assai. Proviamo a seguirle.
La linea di demarcazione tra un impero e un altro è netta come quella che suddivide chi è dentro e chi fuori, chi è amico e chi nemico. Un nemico dichiarato è preferibile a un amico dissenziente. Un impero non si cambia, si rovescia. In nome di un altro mondo, questo presente si deve ricusare in blocco. Non conta condizionare gli eventi, ma costruire i presupposti per invertire il loro corso. Ogni azione di lotta è una convocazione rivolta agli uguali, un atto di riconoscimento collettivo, un’affermazione della propria irriducibile identità. E mira a comporre la massa. E in determinate condizioni non è escluso che, affinché la massa si trasformi in massa di rovesciamento, appunto, la violenza torni utile al conseguimento dei fini. L’impero è un assoluto che tende a partorire, per reazione, assoluti. Categorie non problemi. Certezze non dubbi. Asserzioni non domande. L’utopia da aspirazione, tensione morale si trasforma in pensiero totale, rigido.
La lotta all’impero è a somma zero, si vince solo se l’altro perde. Tertium non datur. E, quando la posta, nella quale hai scommesso tutto e senza riserve, si rivela perdente, non c’è scampo, o la disperazione o l’abiura. O vince l’odio oppure il sistema. Marginali o reintegrati, se ne esce comunque neutralizzati, irrilevanti. Al contrario, persino l’eventualità del successo, di solito, mette a nudo un ulteriore limite. La demolizione non è mai in sé un progetto. è l’identificazione in un comune avversario a dissolvere, ma solo temporaneamente, le differenze, a creare senso di appartenenza e di comunità. Tutto questo esplode con la scomparsa dell’avversario. La frammentazione è un esito frequente, una sorta di destino della lotta all’impero.
Diverso l’atteggiamento di fronte a una metafora.
Più attento all’immaginario, all’universo del simbolico, dell’immateriale in cui ciascuno rielabora il proprio bilancio con le promesse della modernità e può percepirne l’ammanco. Poiché non esiste una linea di demarcazione manichea, riconosce che l’amico e il nemico convivono dentro ciascuno di noi e che, dunque, il primo vero fronte di lotta è il lavoro su se stessi. Non punta a vincere sull’altro ma a suscitare nell’altro il bisogno di senso e di verità. è animato dall’utopia ma sa che può nascere solo dalla realtà così com’è data. Misurarsi con la realtà reale non significa assimilarsi ad essa ma stare dentro e superarla. Per superarla. E, quindi, opera per aprire varchi, costruire ponti, tessere reti. Molecole non gerarchie. Per divenire hoffnungstrager, costruttore di speranza, come li definiva Alex Langer. Non ha eserciti, né masse, solo la lama della sua coscienza. Sa che per cambiare bisogna muovere le masse ma le masse si muovono solo quando penetri nel profondo, sprigioni una forza profonda. La forza del cambiamento nonviolento, secondo Simone Weil, deve rivelarsi efficace ed effettiva dentro non fuori il conflitto e deve derivare da una densa energia interiore. Dentro il conflitto, masticando la polvere delle contraddizioni, occorre rompere la cattiva infinità della violenza, uscire dallo schema simmetrico e a somma zero, costruire la soluzione nella quale l’utile e il morale possano incontrarsi. L’assunzione di responsabilità è il vaccino che lo protegge, senza peraltro mai immunizzarlo, da rischi come l’isolamento e il minoritarismo.

I due atteggiamenti s’incontrano nel punto di fuga, ma divergono lungo il percorso, specie quello della politica.
Per esempio, per quanto possa sentirmi insoddisfatto dell’Ulivo di oggi, sono affatto convinto che non sia la stessa cosa per l’Italia essere governata da Berlusconi. Analogamente non credo sia la stessa cosa che Israele oggi sia governata da Sharon piuttosto che da Peres o da Rabin. O che gli USA siano amministrati da Bush anziché da un democratico come Clinton. Se il mondo di oggi è più pieno di illegalità e impunità di sistema, conflitti inaspriti, progetti di scudi stellari significa che, tra convivialità e apartheid, stiamo optando per quest’ultimo. Magari con l’argomento che più si procede su questa strada, più l’impero si svela. Schizzi di sangue giungono su questo pacifismo quando dissimula l’inganno del cinismo.
La ricerca del bene massimo spesso, per una perversa eterogenesi dei fini, finisce per procurare il peggiore dei mali.
Ancora. L’Europa di oggi certo non sprigiona passioni irresistibili, ma è un fatto che per la prima volta si affacci nella storia dell’uomo, senza guerre, una “superpotenza” che ha un ambizioso traguardo inclusivo, ben al di là del corto calcolo delle convenienze. S’è detto negativamente e a ragione dell’Europa dei banchieri, ma non è straordinario l’obiettivo di mettere dentro i suoi confini centinaia di milioni di persone non sulla base del Pil ma su quella della civiltà e della cultura?
Infine. La guerra in Afghanistan, come tutte le altre, resta sporca, fetida di morte. Ribadire l’obiezione radicale, ferma è d’obbligo. Ma è sufficiente a rendere indifferente la sopravvivenza o meno della politica e del suo incessante tentativo di contenere la barbarie e di ricucire conflitti, innanzitutto quello cruciale del Medioriente?

Non mi piace la parola impero perché favorisce il divorzio tra volontà e responsabilità, tra utopia e realismo, aspirazioni e ragionamento. Ed è un divorzio che ci rende tutti più deboli.
Al contrario, abbiamo disperato bisogno di testimonianze che non svendano la loro tensione etica al primo contatto con la responsabilità, ma sappiano reggere alla fatica della ricerca, soprattutto nel perimetro accidentato ma necessario della decisione politica.

gennaio - aprile 2002