Lo Stato come impresa di guerra
di Manuela Porta

La militarizzazione dello Stato, nucleo politico dello sviluppo dell’industria degli armamenti, è strettamente legata a uno dei più importanti settori del capitalismo, l’industria pesante.
Nel corso dell’ultimo secolo, l’espansione di questo settore industriale si è accompagnata costantemente all’uso di una politica di potenza e di espansione dello Stato, portando il capitalismo a manifestare l’altra sua faccia: l’imperialismo. Se l’imperialismo è la faccia mondiale dello sviluppo capitalistico, allora lo Stato moderno si svela come lo strumento principale, luogo di concentrazione, delle più grandi decisioni a livello sovranazionale e, in definitiva, come impresa di guerra e impresa di pace (anche se è sempre più raro che lo Stato e i governi nazionali si rivelino produttori di pace).
Nel nuovo panorama mondiale, dunque, è la centralità degli Stati che va definita: come escono oggi la politica e gli Stati, dal ventesimo secolo? Come ne risultano, come escono trasformati dai processi che abbiamo conosciuto?
Nel secolo scorso, la politica riscontrò nelle ostilità e nello scoppio di grandi e piccole guerre i suoi punti nevralgici, nella forza delle armi la sua grandezza, nella violenza di massacri e olocausti la sua importanza. Oggi la violenza c’è ancora, i massacri di popoli che reclamano la loro indipendenza anche. Quindi, cosa è cambiato?
Gli Stati esistono ancora, ma sono diventati soggetti sempre più freddi e raziocinanti e l’amministrazione della cosa pubblica, in tutto l’Occidente europeo, è stata reinventata, ispirata al modello imprenditoriale americano in un clima di perfetto shock culturale, che non solo definisce gli Stati sempre più funzionali ai mercati, ma penetra e arriva fino al corpo degli individui, ai loro gesti. Tuttavia, se si riscontra un trasferimento di poteri dagli Stati ai mercati, se si vede la libertà di mercato come funzione di un indebolimento della politica, non si può negare che ancora una volta, come in passato, a sorreggere questo “nuovo mondo” ci sia la decisione politica. La decisione politica degli Stati oggi si proietta all’esterno dei suoi confini, nella guerra intelligente, negli interventi “umanitari” che mietono tantissime vittime.
La guerra torna a essere indispensabile per la politica, fondamentale per la sua esistenza, ma allo stesso tempo viene a intrecciarsi con gli interessi dell’economia globale, dato che a quest’ultima nulla ormai sfugge.
Lo Stato, come impresa di guerra, vuol dire anche improponibilità di un’impresa senza Stato. Quindi se esiste una serie politica/guerra, ancor oggi si può intendere la guerra come una maniera di condurre la politica fra gli Stati e l’esercito come uno strumento paradossalmente utile per mantenere l’assenza di guerra nella società civile. L’unica grande differenza è che, nell’ultimo decennio, il conflitto non è più lotta armata tra due o più Stati, dichiarata contro un nemico visibile e condotta con armi convenzionali. Non è più “guerra dichiarata”, quella in Iraq, ma un intervento di “polizia internazionale”; il vocabolo guerra appare dimenticato anche in Serbia, con la dolce metafora di “missione umanitaria”. è diventata guerra contro un nemico indistinto, generico, che incarna il Male del mondo e attualmente il flagello del terrorismo.
Contro un tale nemico indistinto, diventa generica anche la durata dell’intervento militare: lo stato di guerra continuo e filtrato dai mass-media entra prepotentemente nell’immaginario collettivo, che si tramuta in silenzio obbediente. E tale elemento temporale porta in definitiva alle stelle i profitti del complesso bellico industriale. I maggiori profitti ricavati dalle crisi, spesso dimenticate ma presenti tuttora in angoli sperduti del mondo come Somalia e Rwanda, devono essere ricondotti necessariamente agli Stati, ormai in simbiosi perfetta con la logica dell’interesse economico.
Nella spesa mondiale di armi, gli USA rappresentano la più grande macchina da guerra. Clinton ha firmato il 30 ottobre 2000 il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2001, ovvero il bilancio del Ministero della Difesa statunitense (DoD): in tutto, 309.9 miliardi di dollari (fonte www.peacelink.it). Una cifra enorme, in media con gli investimenti USA degli ultimi anni e che da sola copre quasi il 40% della spesa mondiale. Nell’ambito della ricerca, i settori più finanziati sono le armi laser, la protezione da guerre chimiche/batteriologiche e le future navi (portaerei e incrociatori). Nell’atto è compreso un aumento delle paghe militari del 3.7% (per tenere alto il morale delle truppe…). Giusto per fare un paragone, con 309.9 mld di dollari si potrebbero garantire i servizi di base (alimentazione, educazione e assistenza sanitaria) in tutti i paesi in via di sviluppo per i prossimi 4 anni.
Se l’Italia è sesta tra i primi dieci paesi esportatori di armi convenzionali (fonte Sipri), è terza nella produzione di armi leggere che, secondo uno studio della Croce Rossa Internazionale, sono responsabili della maggioranza delle morti tra le popolazioni civili nelle guerre odierne. Per “produrre sicurezza” – cioè capacità di intervenire militarmente dove c’è da difendere l’interesse dell’imperialismo italiano – l’Italia porta a termine la riforma delle Forze Armate (unitarietà di comando, passaggio al sistema interamente volontario/professionale, introduzione del servizio militare femminile) e migliora alcuni specifici settori della macchina militare, e precisamente: quello delle nuove tecnologie, quello della capacità di proiettabilità e mobilità, quello del sostegno logistico, quello del comando, controllo e informazione.
Da qualche anno il commercio di armi “made in Italy” torna a crescere. La ricetta vincente sembra essere la coproduzione con gli europei e un marketing aggressivo. Nella lista degli importatori delle nostre armi pesanti, spiccano i paesi del Sud del mondo, i quali si sono aggiudicati circa il 65% delle esportazioni, con il via libera del governo di centrosinistra. In altre parole, Cina, Turchia, India, Algeria e Filippine sparano in italiano. Gli ultimi dati Istat dicono che, nel primo semestre del 2000, l’Italia ha esportato 13 milioni di chili di armi leggere, per un valore di 285 mld di lire, tra i destinatari ci sono anche la Colombia e l’Indonesia.
Ora in Afghanistan è lo Stato come impresa di guerra che agisce; le responsabilità delle stragi sono dei governi (anche perché l’Onu non ha dato nessuna delega ai singoli Stati per muovere guerra ad altri Stati); sono i 309,9 mld di dollari stanziati dagli USA per la difesa che stanno massacrando i civili afghani, senza riuscire minimamente nella cattura di Bin Laden.
La forza di questo o quell’altro Stato si sta realizzando nella messa in atto del proprio potenziale militare, la sua prosperità sta nascendo da un continuo e smisurato atto di compra-vendita di armi volto alla distruzione di etnie posizionate in un mondo globalizzato come in un patchwork, etnie ancora intrise di odio che rappresentano pluralità di modi di essere e che ci chiamano a riflettere su concetti quali divergenza, diversità, varietà, molteplicità.
A essere volontariamente tralasciata non è soltanto la durata dell’intervento bellico, ma la sua tattica, che un tempo costituì una branca della scienza della guerra (costituzione, ordine, movimento delle truppe); tattica e strategia costituivano i pilastri, la prima dell’esercito e la seconda della politica. Se non si può affermare l’effettiva scomparsa della tattica (perché questa è pur sempre valida sulle alte montagne dell’Afghanistan), è pur vero che essa tende sempre di più a essere funzionale alla strategia. Ma a quale strategia? Quella dell’impero.
Ma andando oltre la questione della durata dell’intervento bellico e della sussunzione della tattica alla strategia c’è ancora qualcosa che la storia, a partire dal 6 agosto del 1945 a oggi, ci ha rivelato. Al servizio della strategia risulta essere lo sviluppo tecnico-scientifico mosso ormai da lungo tempo da finanziamenti privati e pubblici.
L’apparente emancipazione ci rende oggetto di controllo, a livello globale, dei maggiori detentori non solo di armi, ma soprattutto dell’arma maggiore: il nucleare. Cosa sanno i cittadini italiani di Taranto e Brindisi, del rischio del nucleare nei loro porti? Perché la Marina Militare classifica come “riservata” la questione del transito di sottomarini a propulsione nucleare nei nostri porti?
La scienza ci appare sempre più come una trappola che l’umanità ha posto a se stessa: ormai grava sull’umanità la minaccia costante di armi così potenti da poterla annientare in ogni istante, visto il carattere permanente della guerra.
Il campo d’azione delle armi batteriologiche è esteso a tutto il globo: si sta facendo anche degli umani una specie a rischio.
E infine si potrebbe delineare una serie di terrori apocalittici: ma, per questi, non c’è niente di meglio ormai del giornale quotidiano.

gennaio - aprile 2002