Le torri, la guerra e gli affari
di Francesco Mancini

1. Motivi di inquietudine
Nelle settimane successive alla tragedia dell’11 settembre, da organi di informazione di ogni tendenza si è venuti ad apprendere tutta una serie di fatti e circostanze a dir poco sorprendenti, che pochi tra la gente comune conoscevano o sospettavano:
– Le famiglie Bush e bin Laden sono state a lungo associate in imprese petrolifere; tale rapporto è stato funestato da inquietanti morti in incidenti aerei nei cieli del Texas e di New York, dei quali sono stati vittime, fra gli altri, il padre e un fratello di Osama bin Laden.
– Il servizio segreto americano (la CIA) ha per anni, direttamente o indirettamente, finanziato, armato e addestrato l’ala più sanguinaria e reazionaria del fondamentalismo islamico (tra cui i talebani, bin Laden e i suoi seguaci), responsabile di guerre, guerriglie ed eccidi vari in Afghanistan, nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche, nei territori cinesi di religione islamica, in Cecenia, in Bosnia, in Algeria, nelle Filippine, in Indonesia e un po’ dappertutto.
– Queste attività, a partire dalla guerra contro l’occupazione sovietica, sono state finanziate in rilevante misura, per iniziativa della CIA e tramite i servizi pakistani, con l’espansione su larga scala delle coltivazioni di oppio in Afghanistan e con i proventi del traffico dei relativi derivati, come l’eroina. Tali attività, che “rendono” circa 30.000 mld di lire all’anno, sono state rinfacciate ai talebani, cui è stata attribuita l’intenzione di servirsi delle scorte di eroina come di una terribile arma contro il mondo intero. E tuttavia i mezzi di comunicazione hanno pressoché unanimemente confermato che il governo degli USA era a conoscenza che i talebani, anche per motivi religiosi, avevano avviato un drastico ridimensionamento di quelle attività da essi “ereditate” e avevano chiesto proprio agli USA – che li avevano accordati – aiuti ai contadini afghani per consentire il cambiamento di destinazione dei terreni adibiti a coltivazioni di papavero da oppio.

Come detto,le informazioni riportate, lungi da scaturire da opinioni o illazioni, sono state ricavate da fonti molteplici e largamente concordanti, nonostante le differenze di orientamento politico.
L’eventuale lettore è comunque invitato a non fidarsi e a verificare direttamente quanto affermato.
La stampa ha inoltre sottolineato ciò che è apparso un tragico totale fallimento del sistema di informazione e spionaggio degli USA, tale da risultare incredibile e perfino sospetto e da non consentire di escludere ipotesi, se non di complicità, almeno di deliberata negligenza nei confronti dei commandos terroristici, da parte di apparati “deviati” interni agli USA o ad altri paesi occidentali.
È stata, infatti, rilevata da osservatori di ogni tendenza politica, una nutrita serie di inquietanti circostanze concomitanti:
– la penetrazione simultanea degli autori degli attentati nei più sofisticati sistemi di sicurezza;
– il fatto che il “grande orecchio” di Echelon non abbia captato nulla di un piano criminale che deve aver coinvolto per un lungo periodo di preparazione (si parla di almeno sei mesi) svariate decine, forse centinaia di persone;
– la pervicace sottovalutazione di numerose informative concernenti un salto di qualità nella strategia terroristica antiamericana;
– un numero di vittime miracolosamente contenuto a fronte delle 50.000 persone quotidianamente presenti nelle Twin Towers;
– la sconcertante rapidità con cui gli investigatori americani hanno individuato i presunti complici degli attentatori, mostrando di essere in realtà in possesso di mappe aggiornate delle organizzazioni terroristiche e anche delle loro articolazioni finanziarie;
– la lunga inerzia della contraerea, che ha lasciato procedere indisturbata, a distanza di una ventina di minuti dal primo impatto, la corsa del secondo aereo verso Manhattan.

Riguardo all’accaduto, all’opinione pubblica si chiede di credere cose piuttosto dure da digerire; per esempio, la CIA:
– avrebbe perso completamente e per anni i contatti con una sua creatura – bin Laden – e con l’organizzazione dallo stesso costituita, tanto da consentire a un nutrito gruppo di suoi componenti di vivere tranquillamente e addestrarsi al pilotaggio aereo negli stessi USA;
– non sarebbe riuscita ad acciuffare uno dei piloti suicidi, Mohammed Atta, nonostante operasse con la sua vera identità e utilizzasse una carta di credito come mezzo di pagamento;
– sarebbe stata handicappata nell’attività di spionaggio dal fatto di non avere personale a conoscenza della lingua dei talebani (nonostante un budget ufficiale annuo a carico del contribuente di 85.000 mld di lire, senza contare gli “extra”).

In ultimo, si è anche venuti a sapere che il super ricercato Osama bin Laden, da anni nemico pubblico numero uno degli USA, è stato ricoverato dal 4 al 14 luglio 2001 in un lussuoso ospedale americano di Abu Dhabi, ove ha ricevuto le visite di familiari e di autorità saudite.
Il quotidiano francese Le Figaro, fornendo nome e cognome, ha anche rivelato che bin Laden, durante il ricovero, avrebbe ricevuto la visita di un esponente della CIA. Il governo americano ha smentito tale ultima circostanza; e, quindi, all’opinione pubblica tocca di dover scegliere se credere all’esistenza di relazioni pericolose tra bin Laden e la CIA oppure alla assoluta inefficienza e cialtroneria di quest’ultima nello svolgimento delle sue funzioni.
In tale ultimo caso però, risulta del tutto inspiegabile che, malgrado quelle che, se vere, sarebbero superlative e inammissibili manifestazioni di inefficienza, non solo il direttore della CIA sia rimasto al suo posto, ma gli sia stata pure affidata la regìa della “guerra sporca” contro bin Laden, e abbia anzi ricevuto per soprammercato, attestazioni di piena fiducia e stima da parte del presidente Bush, che ha ulteriormente rafforzato i poteri e le prerogative della CIA.

2. Crisi degli affari e armamenti
Ma a quale scopo i servizi “deviati” si sarebbero resi complici del massacro dell’11 settembre?
La risposta può essere nella necessità di rilanciare gli affari e i profitti, di controllare le vie del petrolio, di riprendere il controllo della produzione e del traffico della droga afghana, di meglio tutelare gli interessi delle multinazionali americane nel mondo o per tutti questi motivi e altri ancora dello stesso genere.
Nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre, la Federal Reserve e il governo americano si sono orientati per la creazione di una spesa pubblica aggiuntiva di circa 300.000 mld di lire, a carico del bilancio pubblico.
Sono stati, in particolare, previsti sgravi fiscali in favore delle imprese e aiuti alle compagnie aeree e assicurative per complessivi circa 100 mld di dollari, senza alcuna garanzia di salvaguardia dei posti di lavoro per i dipendenti licenziati o di restituzione allo stato dei capitali erogati. È stato reso noto, inoltre, che il governo americano ha ordinato alla Lockeed Martin 3.000 nuovi supercaccia per una spesa complessiva di 200 mld di dollari, con la possibilità di un raddoppio della commessa per forniture ai paesi alleati.
Si è anche stimato, da parte della Commissione Bilancio del Congresso che la messa in sicurezza delle attività produttive negli USA comporterebbe una spesa complessiva di 3.000.000 di mld di lire.

È comprensibile che si possa rimanere orripilati e increduli davanti a una possibilità del tipo delineato.
Tuttavia, vi è negli USA chi ritiene che qualcosa del genere sia già accaduto in occasione dell’attacco giapponese a Pearl Harbor e che il recente libro di Robert B. Stinnett abbia chiarito definitivamente che l’episodio non fu un incidente o un fallimento dei servizi informativi o frutto di particolare abilità delle forze armate giapponesi, ma fu deliberatamente pianificato dall’amministrazione Roose-velt, per convincere un’America isolazionista a intervenire nel secondo conflitto mondiale.
È un fatto che il libro di Stinnett, frutto di una ricerca durata 17 anni e solidamente basato su documenti anche ufficiali inediti, è regolarmente nelle librerie e non è stato ritirato dal commercio.
Sono, del resto, notorie le motivazioni affaristico-finanziarie all’origine della entrata in guerra degli USA nel primo conflitto mondiale.
Né si tratta di episodi isolati. Tutta la storia degli USA e delle multinazionali americane è costellata di patti e trattati fraudolenti o non mantenuti, guerre imperialistiche, colpi di stato, omicidi a tradimento di sindacalisti, pacifisti e uomini politici.
Questa “prassi” ha riguardato sia il territorio nazionale statunitense, in special modo i rapporti con i popoli nativi, sia i paesi latino-americani e, in generale, tutto il pianeta.
Delle diverse malefatte spesso esistono prove inconfutabili, quali quelle rese pubbliche nel settembre 2000, che hanno confermato le responsabilità della CIA e di Henry Kissinger nel golpe cileno del 1973.
Il genere di attività in argomento ha largamente preceduto la nascita della CIA ed è stato per lungo tempo appannaggio della famigerata Agenzia Pinkerton, in pratica una banda di spioni pistoleros mercenari, nonché provocatori e sabotatori di scioperi, ma con le dimensioni e il ruolo di una multinazionale, operante ovunque si rendesse necessario un lavoro sporco a vantaggio di qualche corporation in grado di pagare adeguatamente il “servizio” richiesto.
Ora, al di là delle opinioni e degli schieramenti politici, vi sono fatti indiscutibili, che dovrebbero far riflettere e allarmare tutti:
– costituisce un unicum assoluto, nella storia degli USA, il caso di due presidenti appartenenti alla stessa famiglia di petrolieri texani, con forti legami con la CIA (Bush padre ne è anche stato il direttore), che nell’arco di dieci anni hanno portato due volte il loro paese in guerra e sempre in aree di interesse petrolifero;
– un rovesciamento così radicale e immediato, dalla più accesa retorica liberista al più spinto interventismo statale, mai verificatosi prima in USA, sarebbe stato semplicemente inimmaginabile senza il terribile trauma dell’11 settembre.

Niente è, infatti, più in contrasto con le plurisecolari tradizioni e le consolidate convinzioni dei popoli anglosassoni in materia di politica economica, riassumibili già nelle parole di un economista inglese del Seicento: “Nessun popolo è mai diventato ricco grazie agli interventi dello stato; sono invece la pace, l’industria, la libertà e niente altro, che sviluppano i commerci e la ricchezza”.
Eppure il ribaltamento di politica economica si imponeva, nell’interesse degli affari e del profitto.
Nelle settimane precedenti l’11 settembre si erano moltiplicati gli allarmi e gli ammonimenti di economisti che affermavano che ormai da troppo si stava raschiando il fondo del barile con le politiche di deregulation, liberalizzazione, privatizzazione, flessibilità del mercato del lavoro, espansione dell’indebitamento delle famiglie di consumatori e simili, divenute sempre più chiaramente insufficienti a garantire e migliorare i livelli delle vendite, dei profitti e dei valori di borsa delle imprese.
Tutte le politiche sopra elencate consistono in pratica in una riduzione di diritti, garanzie, sicurezza, stabilità per una parte della popolazione e, quindi, in una redistribuzione, nel senso della accumulazione e concentrazione, della ricchezza della nazione interessata in favore delle imprese.
Il drastico mutamento di politica in direzione di quello che è stato definito keynesismo di guerra si è verificato proprio quando era divenuta evidente l’inevitabilità della recessione.

3. Guerre e teoria economica
Esprimere dubbi e sospetti riguardo alla tragedia dell’11 settembre comporta invariabilmente l’accusa di indulgere a dietrologismi, complottismi o alla fantapolitica.
Ma, a ben vedere, non ce ne sarebbe neanche bisogno.
Già la mera persistenza delle guerre e di una elevatissima spesa per armamenti ancora nella nostra epoca appare, più che incongrua e ingiustificabile, razionalmente inspiegabile e con caratteri di follia suicida.
E infatti, come d’altra parte universalmente sottolineato e ammesso da politici e mass media, nessuna comunità nazionale è di per sé guerrafondaia.
Lo diventa a seguito di investimenti in propaganda, militarizzazione, irregimentazione dell’informazione e rilancio della spesa per gli armamenti.
In altri termini, guerre e armamenti si perpetuano in virtù di potenti interessi in contrasto con l’aspirazione della gente comune alla pace, alla prosperità e al benessere.
In tale contesto, desta sorpresa e sconcerto il credito – o la credulità – che caratterizza in particolare i rapporti dei popoli anglosassoni con i propri governanti, in stridente contrasto proprio con le loro antiche tradizioni liberali, che implicano, già nell’insegnamento di Adam Smith, una salutare diffidenza circa la probità ed affidabilità degli uomini politici.
Nell’attuale assetto politico-economico internazionale, se il fine dei governi occidentali – in particolare di quello statunitense – fosse quello di impedire le guerre, essi avrebbero tutto il potere per conseguirlo.
Notoriamente, infatti, le guerre si fanno con le armi, che nella quasi totalità vengono prodotte e vendute su commesse e autorizzazioni concesse alle industrie di armamenti dai governi dei paesi occidentali.
Per impedirne la produzione e la vendita, basterebbe che tali governi smettessero di accordare autorizzazioni e di stipulare contratti di fornitura e si avvalessero del proprio enorme potere politico-economico-finanziario, per raggiungere lo stesso risultato su scala planetaria.
In ogni altro caso, una volta che le armi vengono prodotte, devono essere vendute, perché senza vendite non ci sono ricavi né profitti e, quindi, prima o poi, è necessario riprodurle, altrimenti si blocca il volume d’affari e il rigiro del magazzino.
In altre parole, occorre che le armi, le bombe, i missili, le munizioni in genere vengano “utilizzati” per servire a produrre e riprodurre profitti e incrementare il valore delle industrie di armamenti.
E così accade che direttamente o indirettamente, spesso ad opera dei soliti settori “deviati” dei vari servizi occidentali, le armi vengono vendute proprio ai governi ritenuti più pericolosi (Iran, Irak, Pakistan, Arabia Saudita, Afghanistan, ecc.), che al momento giusto diventeranno il nemico della civiltà da colpire senza pietà con l’ennesima guerra “umanitaria”.
Primo effetto delle guerre, per forza di cose, è svuotare i magazzini perché possano essere riempiti di nuovo.
Inoltre, poiché le guerre si fanno gonfiando il debito pubblico e/o emettendo moneta, per pagare le armi e le altre forniture belliche, ciò che invariabilmente si verifica è il trasferimento e la concentrazione di ricchezza nelle mani dei produttori e trafficanti di armi, oltre che dei politicanti loro complici e committenti.
Le comunità nazionali, invece, devono subire la conseguente distruzione di ricchezza e perdita di valore dei propri risparmi, con la necessità di ricominciare tutto da capo nel recupero di condizioni di relativa sicurezza economica e benessere.
Tali aspetti dovrebbero essere tenuti sempre presenti, così come si dovrebbe sempre diffidare delle invocazioni al dio della nazione e dei richiami ai doveri verso la patria, perché, come notò il dottor Johnson qualche secolo fa, «il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni».
In quanto espediente affaristico, la guerra è un fatto eminentemente squallido, un’occasione per far soldi a spese della collettività. Non a caso, Oscar Wilde ebbe a sottolineare che «Fino a quando la guerra sarà vista come una cosa crudele, avrà sempre un suo fascino. Quando sarà considerata come volgare, cesserà di essere popolare».

A questo punto, la domanda delle domande è: perché il mondo degli affari preferisce la guerra e le armi?
La risposta, ovviamente implicita, è in tutti i manuali di economia politica e nelle stesse parole di colui che ne viene considerato il padre fondatore: «… la quota del profitto non aumenta con la prosperità né diminuisce col declino della società, come l’affitto e i salari. Al contrario, è per natura bassa nei paesi ricchi e alta in quelli poveri, ed è sempre massima nei paesi che vanno più in fretta verso la rovina. Quindi l’interesse di questa terza categoria non è nello stesso rapporto come le altre due, con l’interesse generale della società».
Chi dovesse pensare alla citazione sopra riportata come a una possibile estrapolazione strumentale e tendenziosa dall’opera di Adam Smith, può assai opportunamente leggersi La ricchezza delle nazioni, che è comunque un gran bel leggere, così potrà verificare direttamente la fondatezza della affermazione del professor Galbraith: «I dirigenti di aziende e i loro portavoce che oggi citano Smith come fonte di ogni verità senza essersi data la pena di leggerlo sarebbero stupiti e depressi nel sapere che egli non avrebbe permesso l’esistenza delle loro società».
Ma è la stessa economia classica e neoclassica, nella sua corrente principale e nelle sue formulazioni più rigorosamente ortodosse e universalmente condivise, ad affermare la inconciliabilità fra interesse delle imprese e del profitto e interesse del sistema economico e della collettività.
I teoremi alla base dell’economia politica affermano che la produzione è massima, la qualità ottimale, i prezzi minimi, il grado di soddisfacimento dei bisogni massimo, compatibilmente con le risorse disponibili, quando il sistema economico opera al più elevato livello di efficienza.
Tale condizione corrisponde a quella di concorrenza perfetta, di libera iniziativa privata e di piena operatività della sovranità del mercato.
In tale situazione, assunta dall’economia classica come pura astrazione, il profitto è nullo.
Conseguentemente, più le imprese riescono ad allontanarsi da condizioni di concorrenza, di libera iniziativa e di sottomissione alle leggi del mercato, più è elevato il loro tasso di profitto.
Ossia, il profitto e la sua ragion d’essere scaturiscono da condizioni il più possibile prossime al monopolio, nell’acquisizione di posizioni di dominio e privilegio nei confronti dei concorrenti attuali e potenziali, nella sottomissione del mercato e dei consumatori, tramite la pubblicità e le altre tecniche di vendita, agli interessi delle imprese.
La produzione e la vendita di armi sono fra tutte le attività quelle che meglio si sottraggono alle leggi economiche, consentendo di acquisire commesse statali in condizioni di privilegio e di segretezza e, quindi, a parità di condizioni, di massimizzare i profitti, senza incidere negativamente sul giro d’affari e il livello dei profitti degli altri settori imprenditoriali.
Keynes, a questo riguardo, fa sfoggio del suo umorismo anglosassone, mettendo in luce gli aspetti di intrinseca follia del sistema economico capitalista:
«La costruzione di piramidi, i terremoti, perfino le guerre possono servire ad accrescere la ricchezza, se l’educazione dei nostri governanti secondo i principi dell’economia classica impedisce che si compia qualcosa di meglio. […] Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse a una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti delle città, e si lasciasse all’iniziativa privata, secondo i ben noti principi del lasciar fare, di scavar fuori di nuovo i biglietti, […] non dovrebbe più esistere disoccupazione; e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza capitale della collettività diverrebbero probabilmente assai maggiori di quanto sono attualmente. Effettivamente sarebbe più sensato costruire case e simili; ma se per questo si incontrano difficoltà politiche e pratiche, quanto sopra sarebbe meglio di niente. […] L’antico Egitto era doppiamente fortunato, e senza dubbio dovette a questo la sua ricchezza favolosa, per il fatto di possedere due attività, la costruzione di piramidi e la ricerca di metalli preziosi, i cui frutti, non potendo essere consumati per servire i bisogni umani, non potevano venir deprezzati dall’abbondanza. Nel Medio Evo si costruivano cattedrali e si cantavano messe funebri. Due piramidi o due messe per i defunti valgono il doppio di una; ma non così due ferrovie da Londra a York».
Da queste ultime frasi di lord Keynes, che – occorre ricordarlo – non era laburista né socialdemocratico, come i disinformati ritengono, ma un liberale iscritto al partito, anche se con la vocazione del salvatore del capitalismo e della civiltà occidentale, traspare chiaramente la consapevolezza dell’esistenza di un contrasto insanabile fra gli interessi della collettività e quello delle imprese.
La collettività ha interesse all’abbondanza della produzione e alla maggiore possibile disponibilità di beni, conseguibile con l’uso razionale ed efficiente delle risorse e delle migliori tecniche utilizzabili, tendenzialmente fino al totale soddisfacimento dei propri bisogni.
Le imprese e il mondo degli affari hanno invece interesse a “far soldi” e, quindi, a mantenere un grado di scarsità tale da garantire un valore unitario dei beni abbastanza elevato da servire allo scopo, ma non compatibile con il pieno soddisfacimento dei bisogni dei consumatori e della collettività e la soluzione definitiva del problema economico, che pure sarebbe possibile per i livelli di progresso tecnico-scientifico raggiunti dall’umanità.
Imprese e uomini d’affari tendono a utilizzare nella maniera più efficiente, cioè al massimo, solo le risorse di loro proprietà, perché per ottenerle sostengono un costo.
Viceversa, non hanno interesse all’utilizzo più efficiente e a opporsi allo spreco e alla distruzione delle risorse degli altri soggetti, pubblici e privati, e delle risorse naturali, che non appartengono a nessuno.
L’obiettivo del profitto viene infatti ottenuto dalle imprese tendendo a dare il minimo per avere il massimo e il migliore affare, realizzato spesso nell’uso delle risorse naturali, è ottenere qualcosa per nulla.
Tale scopo può essere e viene talora conseguito tramite la distruzione economica o anche fisica di impianti e risorse appartenenti a soggetti concorrenti o comunque con interessi in conflitto, quando necessario anche con atti fraudolenti o violenti verso cose o persone.
Diversamente da quanto generalmente si crede, per l’erronea identificazione che dei due termini per lo più si fa nel parlare corrente, c’è, quindi, un’inconciliabile opposizione fra economia e affari, fra interesse economico della società all’uso più efficiente delle risorse e interesse del mondo degli affari alla massimizzazione dei ricavi e dei profitti.
Quando, a tale scopo, la spesa privata e pubblica si rivela insufficiente, il mondo degli affari dapprima chiede che essa venga stimolata tramite l’espansione del credito.
Allorché anche questo espediente si dimostra insufficiente, la tentazione di ricorrere all’antico classico sistema dell’espansione degli armamenti e/o alle guerre si fa irresistibile.
Gli apprendisti stregoni della CIA saranno anche stati mandati in giro per resuscitare il fondamentalismo islamico allo scopo di salvare la civiltà occidentale; quello che è certo è che all’industria degli armamenti un nemico faceva oltremodo comodo.
La soluzione Keynes, del seppellimento e disseppellimento delle bottiglie, altrettanto idiota ma incomparabilmente preferibile per innocuità e incruenza, avrebbe ugualmente consentito di lottare contro la recessione e la disoccupazione.
In altri termini, tale soluzione, se comporta lo spreco di risorse in attività inutili, almeno evita lutti, distruzioni e sofferenze.
Eppure questa via non è ritenuta praticabile, per il fatto di non fornire alcuna giustificazione o ragion d’essere al potente apparato politico-affaristico-militare non solo statunitense.

4. L’opinione pubblica, gli affari e gli armamenti

C’è un grave e decisivo fraintendimento nella contrapposizione politica fra destra e sinistra a proposito di economia e affari, in gran parte frutto di mistificazione.
Da destra ci si tende a schierare con le imprese, il profitto, le multinazionali, il mondo degli affari e della finanza, perché li si ritiene alfieri della concorrenza, del libero scambio, della libertà d’iniziativa, della sovranità del mercato.
Da sinistra, si ritiene invece che tutte queste cose siano in contrasto con l’interesse economico della società.
In entrambi i casi, come si è visto, è vero l’esatto contrario.
Ossia, quanto più le attività produttive fossero effettivamente sottoposte alle regole della concorrenza, della libera iniziativa e della sovranità del mercato, e il mondo degli affari e della finanza fosse sottomesso alle esigenze del mercato, della comunità nazionale e delle attività produttive – all’opposto di ciò che accade correntemente – tanto più gli individui, i singoli paesi e l’umanità guadagnerebbero in termini di ricchezza, benessere e pace.
In concreto, sarebbe ovviamente preferibile, nell’interesse collettivo, impiegare le risorse disponibili anziché in armamenti e guerre o nel seppellimento-disseppellimento di bottiglie, nella costruzione e nel miglioramento di case, strade, ponti, ferrovie, infrastrutture e servizi in genere, riduzioni dell’orario di lavoro, previdenza, assistenza ai malati, anziani, disoccupati, categorie deboli in genere, aiuti ai paesi poveri, tutela e recupero dell’ambiente.
Sarebbe altrettanto opportuno che a ciò si accompagnasse il drastico ridimensionamento delle spese militari e la lotta ai paradisi fiscali e alla malavita organizzata e non.
Ne deriverebbe, forse, una tendenza alla riduzione dei tassi medi di profitto, senza, peraltro, alcun rischio di sopravvivenza per le categorie imprenditoriali.
Il fatto che una più rilevante parte della ricchezza prodotta non avrebbe manifestazione commerciale e finanziaria, non concretizzandosi in vendite o incrementi di magazzino, farebbe apparire un prodotto interno lordo inferiore o anche molto inferiore.
Ciò non è da considerarsi in alcun modo preoccupante. Il prodotto interno lordo, in pratica la somma dei valori aggiunti delle aziende, non è, infatti, un indicatore del livello di ricchezza di una comunità, ma solo del volume d’affari realizzato dalle imprese. Come tale, non tiene conto, fra l’altro, della ricchezza distrutta per realizzare quegli affari.
Per tornare all’argomento di partenza, nel calcolo del Pil di settembre degli USA, non sono entrate col segno “meno” le perdite immani subite dalle imprese nell’attacco alle torri gemelle, mentre sono entrate col segno “più” le spese sostenute per i soccorsi e l’assistenza ai feriti.
Nelle successive azioni belliche, tutto quanto si è speso per i bombardamenti è entrato nel calcolo del Pil con il segno “più”, mentre le conseguenti distruzioni non vengono affatto portate in deduzione, come invece sarebbe ovvio e infatti accade per qualunque contabilità aziendale degna di questo nome.

5. Conclusioni
Nell’intera vicenda si individuano, fra i tanti, due aspetti particolarmente inquietanti.
Uno è costituito da una sorta di congiura del silenzio dei leaders politici di ogni tendenza, che sistematicamente hanno ignorato gli elementi di perplessità e inverosimiglianza, che pure sono stati evidenziati da tutti i mezzi di comunicazione, compresi gli organi di partito.
L’altro è l’elemento di follia suicida che sempre più sembra caratterizzare moventi e prassi delle istituzioni politiche, affaristiche e finanziarie, in contrasto con le reali esigenze delle comunità nazionali e dell’umanità.
In conclusione, ciò che accade ai nostri giorni è che, mentre pressoché unanimemente la comunità scientifica internazionale considera tecnicamente risolto e, quindi, concretamente risolvibile, il problema economico della scarsità di risorse in rapporto ai bisogni, per altrettanto universale condivisione, l’azione e i moventi del potere politico, affaristico e finanziario, tendono e perpetuarlo indefinitamente.
Si fa dunque sempre più attuale e pressante, nelle condizioni del capitalismo contemporaneo, il consiglio dell’antico filosofo: «Bisogna liberarsi della prigione della politica e degli affari»
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gennaio - aprile 2002