Le strategie di Washington: eccesso di (pre)potenza?
di Mario Abbattista

Sotto il nome di terrorismo, questo avversario designato, come ognuno avrà compreso, è ormai l'islamismo. A questo punto sono possibili tutti i più temuti sbandamenti. Compresa una moderna versione del maccartismo con gli avversari della globalizzazione come bersaglio. L'anticomunismo vi era piaciuto? L'antislamismo vi entusiasmerà!
Ignacio Ramonet, L'avversario, in «Le Monde diplomatique/il manifesto», ottobre 2001

Con lo sgretolamento del blocco sovietico, un intellettuale del Dipartimento di Stato americano, Francis Fukuyama, poteva sostenere la tesi della “fine della storia”, cioè che il modello di democrazia liberale e di capitalismo avanzato, nella libertà e integrazione dei mercati, costituivano l’unico possibile progresso umano verso la modernità.
Invece, nel 1993 Samuel Huntington, un tempo esperto di contro-insurrezione in Vietnam per l’amministrazione di Lyndon Johnson, poi direttore dell’Istituto di studi strategici di Harvard, pubblicava il suo celebre Scontro di civiltà, in cui sosteneva che la disfatta dell’URSS avesse messo fine alle discussioni ideologiche, ma non certamente alla storia: la cultura, più che la politica o l’economia, avrebbe dominato il mondo. In questo libro l’autore elencava sette-otto culture, ognuna incarnante sistemi di valori diversi rappresentati da una religione: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, indù, slava ortodossa, latino-americana e, forse, africana (l’autore non era sicuro di poter annoverare tra i “civilizzati” il continente africano!). Per questo l’Occidente avrebbe dovuto prepararsi militarmente ad affrontare le civiltà rivali, soprattutto le più pericolose: l’islamica e la confuciana. L’autore concludeva: «le civiltà uniscono e dividono l’umanità... Il sangue e la fede: ecco in cosa si identifica la gente, la ragione per cui combatte e muore»(1). Anche Osama bin Laden lo riconoscerebbe benissimo!
Nel 1996 il senatore Jesse Helmes proclamava: «Siamo al centro e al centro dobbiamo restare... Gli USA devono guidare il mondo, tenendo alta la fiaccola morale, politica e militare, del diritto e della forza, e proporsi come esempio a tutti i popoli della terra». Pochi anni dopo il neoconservatore Ch. Krauthammer scriveva con altrettanta immodestia: «L’America scavalca il mondo come un gigante... Da quando Roma distrusse Cartagine, nessun altra grande potenza si è innalzata al culmine cui siamo giunti noi».(2)
Negli ultimi dieci anni sulla scena mondiale non si è affacciato nessun avversario strategico degli USA, in grado di mettere in discussione gli equilibri geo-politici del pianeta. Del resto i loro principali concorrenti economici, europei e giapponesi, sono stati anche i loro alleati strategici.
Gli USA, accecati dal trionfalismo della “sconfitta del comunismo”, non hanno potuto comprendere la natura dei nuovi rapporti internazionali; invece di smantellare, dopo il crollo del blocco sovietico, una sovrastruttura imperiale estremamente costosa, hanno fatto di tutto per mantenere e consolidare il proprio primato. Avevano di fronte almeno tre grandi opzioni strategiche: privilegiare cooperazione e multilateralismo in una prospettiva di cogestione di un sistema mondiale in via di multipolarizzazione e di pacificazione; adottare una politica di equilibrio delle forze, come la Gran Bretagna nell’Europa del XIX secolo; perpetuare l’unipolarità attuando una strategia di primato, secondo i desideri del sen. Helmes.
In un documento riservato del Pentagono, Defence Policy Guidance 1992-1994, la strategia di primato esortava con decisione a «impedire a qualsiasi potenza ostile il dominio di regioni le cui risorse le consentirebbero di accedere allo status di grande potenza e dissuadere i paesi industriali avanzati da qualsiasi tentativo che miri a contestare e ad impedire l’ascesa di un futuro concorrente globale». Bisogna mettere in evidenza che questo documento è stato scritto poco dopo il crollo del blocco sovietico e la Guerra del Golfo, la quale ha avuto anche il compito di rimobilitare le forze armate americane nel mondo ed inoltre, è stata percepita come un colpo mortale alla concezione di un mondo multipolare.
La strategia di primato avrebbe dovuto avere scarso successo durante la presidenza Clinton, che aveva manifestato, all’inizio del suo primo mandato, l’intenzione di investire gran parte delle risorse politiche nell’irrobustimento degli interessi nazionali tramite quelle istituzioni multilaterali, già nelle mani degli Stati Uniti, e in una strategia internazionale basata sulla globalizzazione neoliberista. Una scelta che potremmo definire ovvia visto che la scomparsa dello scontro bipolare creava le condizioni per un cambiamento delle “priorità”. Valorizzazione dell’apertura alla Cina, sviluppo delle economie nascenti nell’Asia Orientale, la transizione dell’Europa centro-orientale: lo Stato di sicurezza nazionale doveva lasciare il passo allo “Stato globalizzatore”. Invece, le resistenze del complesso militare-industriale, che gli era fortemente ostile, hanno fatto buon gioco delle debolezze personali e politiche di Bill Clinton, facendolo recedere dai suoi intendimenti.
Con l’arrivo alla presidenza di George W. Bush abbiamo assistito al ritorno della centralità del Pentagono nelle politiche internazionali americane: ora le cariche decisive sono nelle mani di famosi guerrieri e strateghi civili e militari (Cheney, Powell, Rumsfeld, Wolfowitz, Libby, Negro-ponte). è un governo di guerra fredda senza guerra fredda(3), rispecchia la visione di equilibri mondiali regolati esclusivamente dai rapporti di forza, è la spiegazione al bilancio del Pentagono di oltre 300 miliardi di dollari l’anno. Non mancano tra i consiglieri del presidente Bush i teorici della cosiddetta rivoluzione negli affari militari (Rma), che vogliono ridefinire la tecnologia bellica puntando sui nuovi sviluppi scientifici: munizioni autoguidate, impiego di satelliti e di mezzi sofisticati di ricognizione aerea, armi nucleari di bassa potenza, sistemi d’arma controllati da robot e il sistema di missili antibalistici N.m.d. (National missile defence). Persino prima dell’inizio della sua campagna elettorale, George W. Bush aveva sostenuto che «l’America deve essere presente nel mondo, ma questo non vuol dire che le nostre forze armate siano la risposta a tutte le situazioni difficili in politica estera». In sostanza il ricorso alla forza si giustifica solo alla luce degli “interessi nazionali permanenti”, e questo significa, soprattutto, la ridefinizione della partecipazione statunitense alle operazioni multilaterali di peacekeeping. Come dice Seymor Melmann, «l’obiettivo strategico di questo grande sforzo è assicurarsi l’egemonia mondiale. è un’aritmetica del potere».
Ossessionata da questa idea di dominio del mondo la politica americana ha sviluppato la retorica dei rogue states, gli stati canaglia, annunciando pubblicamente la ferma volontà di investire grandi risorse per la costruzione di scudi di difesa “stellare”, reiterando l’applicazione di modelli del passato. Ma i fatti dell’11 settembre sembrano dimostrare l’inadeguatezza delle costose e vistose sovrastrutture americane davanti alle nuove sfide mondiali e soprattutto, se non si vuol parlare di miopia, la loro vulnerabilità. Infatti, subito dopo quella tragedia, George W. Bush ha dichiarato guerra, prima ancora di capire e sapere a chi o cosa dichiararla. Tant’è vero che siamo di fronte a qualcosa di nuovo: l’Impero americano è in guerra non contro uno stato, ma contro un uomo e, forse, la sua organizzazione terroristica. L’attacco contro l’Afghanistan, con il pretesto della protezione offerta dal regime dei talebani a Osama bin Laden, garantisce agli USA una fase tutto sommato semplice della guerra. Ma la vittoria contro un odioso regime teocratico condurrà al conseguimento del fine primario di questa guerra, la cattura del nemico pubblico numero uno, Osama bin Laden?

1) Tariq Ali, In nome dello “scontro di civiltà”, in «Le Monde diplomatique/il manifesto», ottobre 2001
2) Philip S. Golub, La nuova strategia imperiale, in «Le Monde diplomatique/il manifesto», luglio 2001
3) Philip S. Golub, ivi

A caldo, Henry Kissinger dice che la risposta all’atto di guerra contro World Trade Center e Pentagono sarà “proporzionata”, non si tratterà di una semplice “rappresaglia”. Kissinger è stato cervello e mandante di omicidi politici e colpi di stato. Il più famoso, curiosamente, ebbe luogo un 11 settembre. Martedì scorso era il 28esimo anniversario della presa del potere da parte di Pinochet. Nel frattempo, il generale non ha ricevuto alcuna risposta “proporzionata”, anzi, ha ottenuto di poter morire nel suo letto. Due giorni dopo, Edward Luttwak dice che vanno riconsiderate una volta per tutte le “priorità” e che nel rispondere all’attacco non ci si deve preoccupare troppo di “danni collaterali” e vittime civili. Luttwak è stato il teorico e l’istigatore di diversi colpi di stato. Ci scrisse sopra una vera e propria “guida”, “Tecnica del colpo di stato” (Longanesi, Milano 1979). E’ anche grazie alle “priorità” dell’Impero (e ai “danni collaterali” provocati in giro per il mondo) che oggi forze oscure, mafie de-territorializzate, banche e servizi segreti, esotici miliardari con le mani in pasta dappertutto possono contare su un vero e proprio esercito di disperati e fanatici disposti a fare i kamikaze.
Wu Ming 1, L’Impero è in guerra con se stesso,
www.wumingfoundation.com/no/Giap/s.n., 13-14 settembre 2001

gennaio - aprile 2002