Siamo in guerra, e insieme a un sentimento di impotenza a contrastare una diffusa accettazione dell’inevitabilità delle armi, sento che malgrado tutto esistiamo. Esistiamo e spostiamo granelli di sabbia che possono diventare dune, che possono cambiare i paesaggi, gli equilibri, i pesi. Cosa fluida che non oppone resistenza a essere penetrata; come l’acqua del fiume che, nel racconto di Marcos, corrode la spada che la trafigge.
La nostra forza è nel farci acqua: cosa vuole dire? Cosa vuole dire, oggi che siamo dentro una guerra? Trascrivo un passaggio di un libro di Michel Serres (Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio 2000, edito in Francia nel 1977) che dice anche del rapporto tra locale e globale, come di due stati di cose regolati da due matematiche. Dove locale è il giardino fatto di varietà singolari e globale è il tentativo di prolungamento di un locale, e dove «la saggezza del giardino sembra già intuire che ogni prolungamento ha un rapporto con la violenza». Scrive Serres: «C’era una volta l’età dell’oro. Dove e quando, lo ignoro. Dopo, si dice, vennero l’età del bronzo e il secolo del ferro. Miti o storie, sempre di metalli. Dei metalli o della pietra: levigata, tagliata, neolitica o paleolitica. Sappiamo parlare soltanto di solidi, sappiamo scrivere soltanto sui solidi. Perché? A causa del loro ordine e del loro legame. Coerenza, rigore e rigidità, la molecola cristallina locale qui è più o meno la stessa di quella laggiù, prolunga la sua identità, la sua monotonia, sotto l’effetto di un forte vincolo. Così si scrive la storia dove il locale ritorna al globale secondo la ripetizione di una legge omogenea. Il discorso non è diverso dalla materia dura su cui è scritto. Meccanica dei sistemi solidi. Ecco le acque, cateratte e flussi, fiumi e turbolenze, della fisica epicurea. Il locale qui fa scorrere la sua debole viscosità, senza intaccare eccessivamente il volume globale. I vincoli svaniscono non lontano dal suo intorno. Vi sono, come si dice, dei gradi di libertà. Il turbine si forma e si disfa, nell’incertezza, ma ovunque, altrove, la pianura è calma, secondo i casi. Spazio seminato di circostanze. Inventare la storia liquida e le età delle acque».
Come possiamo farci acqua, quali granelli di sabbia possiamo iniziare a spostare per mettere in movimento le dune come fossero onde? E se iniziassimo a ripensarci capaci di pensare, di pensare criticamente a quanto invece ci viene somministrato come senso e logica della storia che viviamo, di pensare le cose collettive, di pensare e prenderci cura della città in cui viviamo, mettendo il naso dove ci siamo abituati a credere che possono esprimersi solo i saperi esperti e possono decidere solo i poteri espressi per delega?
Mi accorgo che torno a pensare a un’esperienza a cui sto partecipando, quella del Coordinamento di Quartiere di Molfetta Vecchia. è costituito da abitanti e da associazioni che operano e hanno sede nel quartiere, AGESCI, Archeo Club d’Italia, Associazione Duomo, Associazione Promozione Turistica Ictìus, Associazione teatrale “Il Borgo Vecchio”, Associazione Torrione Passari, Comitato di Quartiere, Cooperativa sociale Koinos, MASCI, Parrocchia S. Corrado, Punto Pace Pax Christi. Penso a un luogo dove attingere speranza e coraggio che le cose possano cambiare, che la partecipazione dal basso alle decisioni possa diventare esperienza concreta e pratica diffusa di governo delle trasformazioni. Si tratta di un’esperienza che stiamo facendo da circa un anno, una realtà di partecipazione ancora troppo giovane e ancora poco allargata, dove però ho già conosciuto l’entusiasmo che porta le persone a scoprirsi capaci di esprimere bisogni che vogliono diventare progetti.
Abbiamo iniziato lamentandoci delle carenze e dei disagi della vita nel quartiere, denunciando problemi di ordine pubblico, di igiene, di ordinaria manutenzione; ma insieme a questo tipo di questioni abbiamo iniziato a parlare del quartiere che vorremmo, insomma di progetti di futuro, di un futuro che ha la concretezza di cose da fare a partire da subito e che ha la visione di prospettiva ampia di cose da realizzare in tempi più lunghi.
Spostare granelli e spostare pesi, equilibri, smuovere assetti: abbiamo invitato gli amministratori e i tecnici a discutere con noi e con la città una nostra ipotesi di interventi nel centro antico. Se diventa possibile confrontarci su questo fuori dai palazzi di governo e dagli studi professionali, se diventa possibile discutere di una ipotesi elaborata in piazza da cittadini abitanti, allora forse qualche granello inizia a rotolare per andarsi ad accostare ad altri che insieme fanno onde.
All’incontro pubblico con il sindaco, il Coordinamento di Quartiere ha presentato un insieme di proposte di interventi nel centro antico come base su cui aprire una discussione in città e con gli amministratori, una discussione per orientare le scelte su cosa fare e con quali priorità, alla luce di una definita e dichiarata idea strategica per il quartiere e per il ruolo che deve avere dentro la città. è questo il senso della nostra proposta che si organizza in due punti.
Primo: la destinazione di uno spazio pubblico all’aperto per il gioco dei bambini. Il Coordinamento lo individua nello spiazzo in via Amente e indica la volontà di farne un progetto partecipato che coinvolga gli abitanti – bambini e adulti – del quartiere.
Secondo: l’accoglimento dell’iniziativa dell’amministrazione di sistemare provvisoriamente l’isolato 9 a spiazzo in terra battuta per una destinazione provvisoria ad area gioco per i ragazzi. Tuttavia il Coordinamento esprime la necessità che tale destinazione sia realmente transitoria, ovvero chiede che vengano avviate contemporaneamente le iniziative per mettere a bilancio la realizzazione dell’auditorium previsto per quell’area dal Piano di Recupero del Centro Antico.
Si tratta di due proposte che si articolano intorno ad alcune questioni che riteniamo primarie: trovare e attrezzare spazi per i bambini e per i ragazzi che rendano il quartiere anche a loro misura, iniziando a pensare concretamente ai bisogni di sicurezza e di socializzazione della popolazione più giovane tra cui alti sono i rischi di devianza specie nel quartiere vecchio di Molfetta; realizzare attrezzature collettive per la cultura – quale può essere un auditorium – che costituiscano luoghi di interesse e di attrazione per il resto della popolazione urbana e, quindi, motivo di integrazione di un quartiere fisicamente marginale e socialmente emarginato, quale è il centro antico, con il resto della città.
All’incontro pubblico con il sindaco è successo che sembravano invertiti i ruoli: il Coordinamento ha portato un insieme di proposte che rimandano a valori e priorità articolate, a una qualche idea complessiva della città antica e del suo ruolo urbano, mentre gli amministratori hanno cautamente circoscritto la loro attenzione su questioni di ordinario e basilare funzionamento della macchina urbana, ovvero la dotazione dei servizi elementari quali acqua, fogna, luce, gas. Noi volevamo parlare di strategie di futuro e loro ci riportavano a stringere lo sguardo su quelle primarie, fisiologiche modalità di funzionamento di un edificato al cui proposito si potrebbe dare per scontato che debba essere garantita l’erogazione adeguata dei servizi relativi.
Tuttavia, saltando tra tentativi di immaginare-progettare il futuro e riduzioni dei bisogni alla pura sussistenza, l’incontro si è concluso con un impegno del sindaco a riconoscere nel Coordinamento di Quartiere un interlocutore per la concertazione delle scelte, e con una sua proposta di ripensare l’individuazione dell’area da destinare a spazio per il gioco dei bambini alla luce di una disponibilità a tale scopo di un’altra area libera alle spalle del palazzo municipale.
Allora, il Coordinamento di Quartiere è quel giardino come metafora di locale di cui dice Serres? Certo è uno di quei luoghi di cui è fatto un globale come spazio seminato di circostanze. E se lo spazio globale è una distribuzione di giardini, un giardino è un luogo della circostanza. Ci incontriamo una volta al mese nella piazzetta in via Piazza, tra la fontana e l’alberello di ulivo, e parliamo del qui e ora, di noi abitanti e del quartiere che abitiamo, della città che abitiamo, ma parliamo e immaginiamo anche il suo futuro, il futuro che vorremmo.
Ha senso incontrarsi e parlare del giardino-locale se altrove gli operatori di globalizzazione estendono alla totalità i loro domini settoriali? E se pochi poteri forti controllano su scala mondiale i loro circoscritti interessi e veicolano attraverso gli Stati una propaganda che nasconde i reali attori e le reali azioni, allora quale forza di contrasto e che possibilità di progetto possono avere i molti variegati locali?
Eppure non riesco a immaginare un altro modo di farci acqua, debole viscosità, dove i vincoli svaniscono non lontano dal proprio intorno, e dove il turbine si forma e si disfa. è forse nelle circostanze, di cui è seminato lo spazio globale, in questa scala dimensionale propria del locale, che è possibile immaginare azioni efficaci che siano alla nostra portata?
Proviamo ad allargare lo sguardo per cogliere quali possono essere per noi i margini di manovra dentro una storia che sembra intransitabile alle nostre scale, una storia che sembra tracciata in domini fuori dalle nostre portate, una storia che mostra quanto siano i poteri forti, quelli economici, a tirare le fila e a fare e disfare le regole per il proprio esclusivo vantaggio.
Farci acqua può voler dire imparare a praticare la demistificazione dell’informazione, cioè a prenderci spazi di giudizio critico, partecipare alla interpretazione dei processi in atto per progettare scenari alternativi allo stato di cose, per vedere la possibilità di un mondo diverso. E costruire un progetto comune, dal basso, immaginato e perseguito con pratiche di partecipazione orizzontale, non è cosa diversa dal lavoro che fa un coordinamento di quartiere dove la progettazione per rifunzionalizzare un’area della città, condotta con un lavoro di gruppo tra cittadini e tecnici-facilitatori, finisce per essere una occasione per praticare la partecipazione. La partecipazione come nuova modalità di gestione dei processi di decisione, per verificarne le potenzialità e misurarne i punti di fragilità, per lavorare alla costruzione di una nuova forma di democrazia attraverso la più profonda conoscenza dei processi su cui e dentro cui si agisce.
Se sempre più le interconnessioni e le implicazioni del nostro mondo fanno della questione della gestione una questione di gestione di processi piuttosto che di spazi o oggetti, allora conquistare uno spazio di responsabilità e di partecipazione alle scelte, esprimendo una capacità di immaginazione e di progetto, ci introduce come soggetti attivi nella gestione dei processi.
Oggi il problema della gestione cambia di scala. Diventa gestire il processo di gestione, in un sistema in cui gli agenti di trasformazione sono allo stesso tempo anche agiti, come elementi interni al processo nel suo compiersi: io gestore sono implicato nel processo, e gli oggetti hanno un valore di “oggetti-mondo”. Ogni locale assume la complessità del globale e la scala delle azioni è tale che io sto dentro il sistema che sto modificando.
Noi che ci facciamo acqua per conquistare spazi di partecipazione alla costruzione di interpretazioni della realtà, a visioni di futuro, a progetti di cambiamento. Tutti noi come agenti di pensiero passiamo, dunque, dalla rivendicazione alla costruzione di progetti alternativi: è questa la portata dello slogan “un altro mondo è possibile”.
Allora, lavorare alla costruzione di contesti di partecipazione vuole dire progettare un nuovo modo di gestire; un modello la cui caratteristica è di creare le condizioni perché ogni esperienza di partecipazione diventi un cantiere di produzione e crescita diffusa delle competenze necessarie ai processi decisionali orizzontali. Si attiva così un processo di allargamento e di crescita per gemmazione e di riproduzione per autopoiesi della pratica stessa, con il risultato ipotizzabile di una estensione ramificata e diffusa di questo tipo di gestione, nella forma dei frattali.
Nell’esperienza di lavoro del Coordinamento di Quartiere di Molfetta Vecchia il valore aggiunto è dato dalla capacità di fare proposte, andando oltre la sola rivendicazione e la scarna denuncia, facendo ipotesi di trasformazioni fisiche e funzionali nel quartiere ed esprimendo valutazioni circa le priorità e le urgenze con cui programmare i tempi di realizzazione. Il valore aggiunto è espressione di una capacità di progetto, costruito attraverso il confronto allargato in cui gli abitanti sono protagonisti nelle scelte che li riguardano e non semplici destinatari di interventi. Questa stessa capacità di progetto rimanda per un verso alla responsabilità che i cittadini così si assumono di valutare e di scegliere, per l’altro verso alla potenza immaginativa che ogni comunità è in grado di esprimere per proiettarsi nel futuro che desidera per sé e per le generazioni a venire. |
gennaio - aprile 2002 |