La mondializzazione dello sfruttamento
di Enio Minervini

“... Cio che è sempre più evidente è la nuova analogia, nelle tendenze di sviluppo del lavoro salariato, tra il Primo ed il cosiddetto Terzo Mondo” (Ulrich Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro)

I segni di una nuova configurazione di potere
Per quanto possa apparire paradossale, guardare con occhi attenti al modo concreto in cui si struttura (per molti versi si potrebbe dire si impone) il modello di economia occidentale nei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, significa cominciare a intravedere scenari che, già presenti nelle nostre società opulente, rischiano di diventarne la norma.
Comprendere lo sviluppo delle nuove forme di divisione internazionale del lavoro, comprendere il modo in cui si strutturano i rapporti sociali di sfruttamento all’interno delle “periferie dell’impero” (in America centrale e caraibica, in Asia, nell’Europa dell’est, in Africa) significa probabilmente cogliere in anticipo i segni di una nuova e drammatica riconfigurazione di potere tra capitale e lavoro in Occidente, riconfigurazione di potere tra imprese e lavoratori (a pieno svantaggio per i secondi), le cui prime “paradigmatiche” avvisaglie emergono nei tanti “sottoscala” dello sfruttamento di cui abbonda il nostro Sud, nel Mezzogiorno del lavoro nero, nella politica generalizzata dell’insicurezza, in cui anche la nostra terra è, sempre di più, coinvolta.
Questo articolo ha lo sguardo rivolto, come ho già detto, alle “periferie dell’impero”, ai Sud del mondo. Il materiale utilizzato e le testimonianze dirette in esso contenute, sono opera di ricercatori, militanti sindacali, lavoratori dei Paesi di cui si scrive.
Tuttavia, se lo sguardo è rivolto lontano, gli occhi sono quelli di un abitante di una “periferia interna” dell’impero (nel linguaggio degli annunci immobiliari si direbbe “semi-centro”) quale è il Meridione d’Italia. In altre parole, anche se l’obiettivo centrale di questo articolo resta il tentativo di cominciare a gettare un po’ di luce su un fenomeno quale subappalto globale, e sui rapporti sociali di sfruttamento che si istituiscono tra imprese multinazionali e società del cosiddetto Terzo Mondo, rimane comunque sullo sfondo la “evidente analogia” di cui parla Beck e con cui ho aperto l’articolo, e l’esigenza di chiedersi quanto sottosviluppo ci sia, qui e ora, nei nostri Paesi sviluppati.
Purtroppo, sia detto per inciso, i segni di questa analogia sono sempre più numerosi, e man mano che aumentano somigliano sempre meno a delle sporadiche eccezioni, e sempre più ad un sistema strutturato e a suo modo coerente, drammaticamente coerente.
Mi riferisco alla crescente precarizzazione della condizione di vita dei lavoratori e delle lavoratrici, alla tenace e generalizzata politica dell’insicurezza (insicurezza di un reddito adeguato e dignitoso, insicurezza della propria incolumità psicofisica sul luogo di lavoro, ecc.), alla diffusione di forme di lavoro definite, con malcelata ipocrisia, come “atipiche”. Mi riferisco alla diffusione di tutta una serie di strumenti, come per esempio i contratti d’area, che annullano conquiste minime di civiltà come il principio che a lavoro uguale deve corrispondere un salario uguale in tutto il territorio nazionale, ripresentando in forme nascoste le vecchie, odiate e mai rimpiante “gabbie salariali”. Mi riferisco ancora al lavoro nero che, lungi dall’essere considerato dalla nostra classe politica come un’anomalia da combattere e da superare, è diventato elemento funzionale e insostituibile del nostro sistema produttivo, attraverso forme, neanche tanto nascoste, di legalizzazione.
Mi riferisco infine, alla proposta del “nostro” senatore forzitaliota, di trasformare il porto di Molfetta in una zona franca, quindi in una sorta di far west legale e fiscale, a uso e consumo delle imprese conquistadores.

L’evoluzione dei rapporti di sfruttamento tra centro e periferia
Tradizionalmente, il rapporto coloniale tra centro e periferia era costituito dall’esportazione delle materie prime e dei prodotti agricoli dal Sud verso il Nord. Nel corso del XIX secolo, vi è stata perfino una guerra economica finalizzata a stabilire questa divisione internazionale del lavoro su basi solide. È così che l’industria tessile indiana, in particolare a Calcutta, fu soffocata dal colonialismo britannico, garantendo in tal modo la funzione economica del centro, cioè quella di trasformare le materie prime o i prodotti semi-lavorati in oggetto di consumo locale o di esportazione verso le periferie.
Da quel momento tuttavia si assiste progressivamente, in alcuni Paesi del centro, alla nascita e al consolidamento di forme di organizzazione sindacale dei lavoratori, e alla contestuale crescita delle tutele predisposte a favore degli stessi. Il conseguente aumento dei costi di produzione, comincia a rendere più debole la competitività delle merci destinate all’esportazione nelle periferie, anche a seguito dello sviluppo delle politiche anti-coloniali di sostituzione alle importazioni adottate dai Paesi che nel frattempo avevano conquistato l’indipendenza in Asia, in America latina e in Africa.
Si può dire che in questo periodo si assiste alla duplice e coerente spinta verso il miglioramento delle condizioni dei lavoratori del centro, e lo sviluppo di produzioni autonome dei paesi indipendenti delle periferie.
Questa tendenza si consolida lungo tutto il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, fino alla metà degli anni Settanta, quando la crescita della produttività, che aveva caratterizzato i decenni precedenti, si arresta e svolta verso un progressivo declino, facendo saltare il patto che aveva consentito una sempre più equa distribuzione della ricchezza senza compromettere l’esigenza delle imprese di conservare un sostanzioso tasso di remunerazione del capitale.
Uno dei meccanismi di risoluzione della crisi fu spostare parte della produzione nelle zone dove era meno costosa grazie alla debolezza politica, economica e sociale dei lavoratori locali. Questo ha avuto l’effetto ulteriore di accrescere progressivamente le pressioni sui lavoratori del centro, mettendoli in concorenza con uno sterminato “esercito industriale di riserva” su scala planetaria. È quindi in questo momento che alla tradizionale funzione delle periferie, consistente nel fornire materie prime e prodotti agricoli, si aggiunge in chiave strategica la funzione di fornire forza lavoro a basso costo.
Questo fenomeno, visto dal lato delle imprese del centro, consiste nell’esternalizzare diverse fasi della produzione e affidarle a una rete di produttori delle periferie nazionali e internazionali. Visto dal lato dei governi del Sud che li accolgono (e dei loro popoli che li subiscono) consiste nella predisposizione delle cosiddette zone franche.

Le zone franche
Considerate come extra territoriali dai Paesi e dai governi che le installano, le zone franche sono delle vere e proprie “isole coloniali” a uso e consumo delle imprese multinazionali.
Su questo punto è necessario essere molto chiari. Se infatti da un punto di vista strettamente tecnico l’esternalizzazione della produzione è un fenomeno considerabile come socialmente neutro, finalizzato a una razionalizzazione della dislocazione del processo di produzione, della distribuzione delle competenze, della ripartizione spaziale delle attività economiche, da un punto di vista concreto, tale fenomeno è espressione di un rapporto sociale ben preciso, basato su un drammatico squilibrio di potere tra le imprese multinazionali e produttori in subappalto. Le imprese multinazionali fissano i prezzi, determinano i tempi di consegna, stabiliscono i salari (da fame), le condizioni di lavoro, le politiche fiscali, gli incentivi alla loro installazione nelle zone franche di un Paese piuttosto che di un altro, impongono politiche di opere pubbliche finalizzate alla predisposizione delle infrastrutture funzionali alla loro attività, senza sopportarne in alcun modo i costi, che invece vengono scaricati sulle popolazioni locali insieme agli enormi danni ambientali conseguenti a tali opere.
L’instaurazione di una zona franca, significa la rinuncia da parte del Paese che la realizza, a far valere la propria sovranità legale in materia sociale (salari minimi, tutela delle condizioni di lavoro, diritti sindacali) e in materia fiscale (imposizioni fiscali, dazi doganali, ecc.). È possibile constatare con estrema frequenza l’eventualità che all’interno di uno stesso Paese un lavoratore, legato in varie forme a una multinazionale, percepisca un salario orario (in Nicaragua, per esempio 23 centesimi di dollari americani, ossia poco più di 500 lire) nettamente inferiore a un lavoratore di un impresa nazionale operante fuori dalla zona franca, lavorando magari con un orario giornaliero di 13 ore. Spesso le multinazionali impongono come condizione, per installarsi all’interno di una zona franca, che venga vietato ai lavoratori di iscriversi o costituire un sindacato. È evidente come tale meccanismo non possa prescindere da forme di dominio politico imperiale del Centro rispetto alle periferie.

Un capitolo a parte merita la questione delle ingiustizie supplementari e dei veri e propri abusi a cui sono sottoposte le donne all’interno di questi parchi dello sfruttamento.
I salari sono ancora più bassi che per gli uomini, i compiti ai quali vengono assegnate sono di contenuto professionale più modesto, la gravidanza è causa di licenziamento, e assolutamente inadeguati sono gli strumenti per contrastare le molestie sessuali.
Volendo presentare un quadro schematico delle penose condizioni di lavoro nelle zone franche si potrebbe dividere il problema in tre categorie:
– Attentati all’integrità fisica: maltrattamenti fisici e verbali accentuati dalla persistenza di relazioni di lavoro autoritarie e dall’utilizzazione della violenza come mezzo di subordinazione dei lavoratori, profittando del loro bisogno di lavoro e, per le lavoratrici, della loro condizione di genere. Insicurezza sul luogo di lavoro, assenza di misure adatte a proteggere i lavoratori dai rischi, pericoli per la salute, violazione di ogni tipo di protezione speciale per le donne incinte e per le giovani madri. Orari di lavoro prolungati che attentano in misura enorme all’integrità fisica e sociale dei lavoratori. Accesso impedito o reso particolarmente gravoso alle più elementari cure sanitarie.
– Attentati alle libertà personali: misure di sicurezza e di sorveglianza che limitano la libertà e la dignità dei lavoratori, fino all’estremo di metterne in pericolo la vita stessa (per esempio attraverso la chiusura dall’esterno delle porte degli stabilimenti). Controllo del tempo passato nelle toilettes e ispezione dei servizi igienici. Carattere obbligatorio degli straordinari, e del lavoro domenicale e nei giorni festivi. Misure contro la libertà d’associazione e il sindacalismo: liste nere, licenziamenti, pedinamenti durante gli orari di lavoro per scoprire eventuali militanti sindacali “clandestini”.
– Discriminazioni sociali: impossibilità, in particolare per le donne, di accesso a un lavoro che offra l’opportunità di un reddito degno, di uno sviluppo personale, di un avanzamento, di una specializzazione. Condizioni salariali, contrattuali e di lavoro che attentano alla dignità umana. Esclusione delle garanzie di lavoro previste dalle legislazioni degli stessi Paesi che ospitano la zona franca. Esistenza di meccanismi che favoriscono l’instabilità del lavoro e delle assunzioni, utilizzati in vista dello sviluppo della concorrenza, mediante la costante minaccia di licenziamento, e della subordinazione.

Le alternative: la mondializzazione delle resistenze e delle lotte
Credo che sia ormai chiara, a questo punto, da un lato la gravità del fenomeno, e dall’altro la difficoltà nel contrastarlo. Il problema fondamentale consiste nell’enorme capacità delle imprese di essere mobili, di muoversi tra il centro, le periferie del centro, e le periferie estreme del Sud del mondo, alla ricerca di siti a più alto potenziale di sfruttamento.
Le resistenze dei lavoratori locali, pur importantissime, e pur essendo tutt’altro che rare, non possono essere da sole sufficienti a riequilibrare un devastante e violento rapporto di dominio.
Di fronte a un capitale globale ed estremamente mobile sullo scacchiere mondiale, perché un soggetto antagonista sia efficace non è possibile immaginarlo immobile, formato da tanti segmenti nazionali non comunicanti tra loro.
Nei fatti è necessario immaginare azioni a tutti i livelli territoriali ed economici in cui le multinazionali agiscono, azioni al centro e nelle periferie, nei luoghi della progettazione del prodotto come in quello della sua produzione e della vendita.
A livello locale devono essere incoraggiate, sostenute e finanziate inchieste che gettino luce sulle condizioni materiali di lavoro, e che diano voce agli sfruttati del lavoro globalizzato. È necessario che le informazioni raccolte circolino tra le varie realtà, e contestualmente circolino le informazioni sulle lotte in corso e sugli eventuali successi conseguiti. È importante compilare dei codici di condotta per le imprese, predisposti in autonomia rispetto alle pressioni delle multinazionali, coinvolgendo viceversa i rappresentanti dei lavoratori. Particolarmente delicato è il problema del controllo del rispetto delle norme da parte delle imprese, le quali spesso fingono di adottare i codici per un semplice fatto di immagine, senza che poi tali codici vengano rispettati concretamente.
Imprescindibili sono le azioni necessarie al centro.
I sindacati dei lavoratori presenti nelle imprese multinazionali devono pensare seriamente alla possibilità di aprire delle vertenze e delle lotte che siano sovranazionali, cercando di coinvolgere i lavoratori del centro come quelli delle periferie. Va contrastato il tentativo delle imprese di mettere i lavoratori del Sud in concorrenza con quelli del Nord. Va stimolata la consapevolezza in questi ultimi, che nelle “isole dello sfruttamento” delle periferie del mondo si sta in realtà sperimentando una forma di società esportabile anche da noi, quella che Ulrich Beck ha definito la “brasilizzazione dell’Occidente”, ossia un sistema sociale generalizzato basato sull’insicurezza e sulla precarietà. La solidarietà tra lavoratori a livello mondiale deve assumere forme concrete, come avvenne per il caso Vilvorde, dove di fronte alla decisione della direzione della Renault di chiudere i suoi stabilimenti in Belgio, licenziando diverse migliaia di lavoratori, i sindacati risposero con uno sciopero immediato che coinvolse con forza gli stabilimenti della Renault in Francia. È necessario, ancora, sviluppare azioni di boicottaggio dei prodotti di quelle multinazionali che impongono condizioni di vita e di lavoro non eque. I boicottaggi, per essere efficaci, devono essere adeguatamente pubblicizzati, e devono prevedere, a scadenze predeterminate, delle verifiche puntuali sui risultati ottenuti, di cui va data ampia diffusione.
Infine vanno indagati adeguatamente i nessi tra le attività di alcune potentissime istituzioni internazionali a-democratiche, e le possibilità di sfruttamento offerte alle multinazionali. Vanno denunciate e combattute alcune decisoni prese dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), per cui, per esempio, la decisione di un Paese di contrastare l’importazione di merci prodotte con il lavoro infantile (per esempio i palloni da calcio della Nike) in clamorosa violazione, per altro, della normativa dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), costituisce una violazione dei principi del libero commercio stabiliti dal WTO, e quindi non è legittima in base alle norme internazionali. È appena il caso di far notare come, in tal modo, si sia stabilito che le norme di un’organizzazione internazionale di parte e controllata dai potenti del mondo, devono prevalere su un’altra organizzazione internazionale, molto più ampia, e a cui partecipano i rappresentanti (dei governi, dei datori di lavoro e dei lavoratori) di quasi tutti gli Stati del mondo.
Come si vede, si tratta di lanciare una sfida ampia e complessa contro pratiche sociali fondate sullo sfruttamento che possono contare su solide e potenti alleanze. È una sfida che non può non essere colta da quello che definiamo il popolo di Seattle, di Porto Alegre, di Genova. Una sfida per quelle moltitudini che in tutto il mondo, nel centro come nelle periferie, hanno aperto un cantiere per la costruzione di un mondo diverso. Il fatto che non riusciamo a definire in modo unico questo popolo testimonia il suo essere nato, cresciuto e sviluppato, lungo una serie di appuntamenti e di vicende, da Seattle a Porto Alegre e a Genova, passando per Praga, per Davos, per Nizza.

gennaio - aprile 2002