I saperi, fondamenta dell’altro mondo possibile
di Gaetano Cataldo

La destrutturazione dei tempi e dei luoghi della cultura e della formazione all’epoca del capitale globale

Dati statistici
È possibile un’analisi che parta dalla città ed esprima il dissenso verso un modello culturale e formativo imposto? Può questa stessa analisi attecchire, qui e ora, e promuovere un’osservazione critica di ciò che oggi viene descritta come cultura? Suscitare una passione per questo tema pone non pochi interrogativi ma, di converso, ha una valenza non secondaria per la nostra comunità locale, definibile a buon diritto “polo formativo” di prim’ordine nella provincia.
La Tabella 1 riassume alcuni dati eloquenti, ma su cui vale la pena spendere qualche parola. A Molfetta abbiamo 6.032 studenti e studentesse suddivisi. Il dato più facile da cogliere è la netta superiorità numerica degli istituti tecnici e professionali rispetto a quelli umanistici (77% i primi e 23% i secondi). In secondo luogo bisogna osservare che quasi la metà della popolazione studentesca è iscritta a istituti professionali (IPSIAM, IPSSAR, IPSSCT) nei quali è possibile conseguire già dopo i primi tre anni una qualifica e quindi, almeno in teoria, subito spendibile nel mercato del lavoro. Pur non avendo particolare fiducia nella statistica e nei ragionamenti costruiti sui dati, è evidente che la logica del “pezzo di carta per entrare subito nel mondo del lavoro” ha attecchito parecchio in questi anni, e non bisogna dimenticare che questa logica ben si concilia con la volontà elettorale del Cavaliere di riformare fortemente, e quindi snaturare, scuole obsolete come i licei (cosa già detta, peraltro, dall’ex ministro Berlinguer). Gli studenti della nostra città non sono che portatori di una tendenza del nostro Paese: meno lettere e più tecnica.

Ma cosa succede nell’istruzione e nella cultura del nostro Paese?
In parole povere, il destrutturante disegno berlusconiano delle tre “i” squarcia nettamente la proposta di istruzione “libera, gratuita, laica e di massa” che si era affacciata all’inizio degli anni Settanta. Si ripropone, invece, una divisione subdola, di sapere per i ricchi e avviamento al lavoro per i poveri, spingendo indietro nel tempo un sistema scolastico e universitario invidiato e imitato dai Paesi europei. L’eccesso teorico e alle volte nozionistico della formazione viene adesso compensato eccessivamente dalla logica integralista del fare. Diventa poco importante la storia medievale se si vuole diventare ingegneri elettronici, o se si pensa di cercare un lavoro, appena terminato l’obbligo scolastico.
Il sapere preconfezionato e infarcito di un po’ d’inglese, internet “a iosa” e impresa quanto basta per insaporire il tutto, è frutto di due forze che interagiscono con l’odierna concezione del sapere-merce: la tecnologia mistificata e il mercato globale. Criticare la tecnologia non significa negare il progresso, ma significa opporsi a un certo sviluppo nell’accezione pasoliniana dei due termini: sviluppo come fatto meramente tecnico ed economico, quindi di destra; progresso come proiezione ideale dello sviluppo, equidistributrice e parificatrice, quindi di sinistra.
Il sapere non è nemico della tecnologia, ma il conflitto della parte (tecnologia) con il tutto (sapere) nasce nel momento in cui si utilizza la tecnologia come pretesto per la riduzione dei tempi del sapere: da tale riduzione non si guadagna nulla ma si perde la qualità. I ferrei sostenitori della riduzione dei tempi dell’apprendimento per un più rapido accesso nel mondo del lavoro argomentano così questa posizione scellerata: la riduzione del tempo di scolarizzazione facilita l’impiego; una volta impiegati la formazione è un’opportunità concessa o promossa dalla stessa azienda e facilitata dagli odierni mezzi tecnologici. Nulla di più falso e mistificatorio visto che le nuove forme contrattuali negano la grande conquista delle 150 ore di diritto allo studio.
La destrutturazione del sapere muove, infine, sui binari della “forza ordinatrice del mercato”: più il mercato entra nel sapere, più questo assume i connotati di merce, più aumenta la possibilità per i detentori del sapere minimo ma altamente tecnico di allocarsi nel mercato. Purtroppo un ragionamento così meccanico si scontra con la quotidiana realtà, e l’ingresso magnifico e progressivo dell’azienda nella scuola e nell’università diventa solo funzionale all’approvvigionamento di manodopera, intellettuale e non, per l’impresa locale. Tale manodopera deve accontentarsi di ciò che l’impresa offre in termini di salario e diritti pena l’immediata sostituzione con altri/e ex-studenti/esse provenienti dalla scuola di cui l’impresa è sponsor.
Il quadro esposto non risulta particolarmente confortante, tantomeno è una forzata lettura ideologica: nei distretti industriali dove il rapporto di partnership tra scuole e imprese è privilegiato, il meccanismo suddetto funziona in modo impeccabile. Si pensi all’El dorado italiano, il Nord-Est, vagheggiato come modello di sviluppo da esportare soprattutto nelle nostre terre meridionali: lì convivono due manifestazioni complementari del lavoro flessibile, poco qualificato da un lato ed estremamente specializzato dall’altro. Se si considera questa ricetta valida ed efficace, come ha purtroppo fatto il centro-sinistra al governo, si spiana la strada alla valanga controrifomatrice della destra berlusconiana. Non c’è da stupirsi, dunque, se la ministra Moratti vuole ripristinare l’avviamento; c’è da inorridire invece, quando proposte analoghe vengono fatte dal centro-sinistra, con il nome di “canalizzazione”. Questa proposta, persasi fortunatamente nei meandri parlamentari, faceva sì che dalle scuole secondarie umanistiche non si potesse accedere a facoltà universitarie tecniche e viceversa, cioè non si poteva più sfruttare la grande possibilità di rettifica o integrazione dei propri studi, offerta dal nostro sistema di istruzione e formazione.

I saperi, fondamenta dell’altro mondo possibile
Il collettivo variegato che si prodiga da tempo alla costruzione di un altro mondo possibile, parte nella sua analisi e azione, dalla riappropriazione fisica e ideale dei luoghi del sapere e dalla messa in discussione dei tempi dello stesso, evitando che anche questi ricadano nelle dinamiche del profitto. Il nesso globalizzazione-privatizzazione dei saperi si rivela estremamente fondato, ma anche pervasivo e condizionante: in nome della tutela del sistema anche le logiche di guerra non possono più essere messe in discussione ma costituiscono paradossalmente un’opportunità formativa. Ecco perché la Facoltà di Scienze Politiche di Firenze è convenzionata con la NATO.
Si può pensare che i meccanismi del libero mercato possano applicarsi ai diritti? Si può pensare al sapere come merce? Cosa comporta un sapere inteso come merce?
Riesco solo a dare una risposta, non mia, a quest’ultima domanda: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi» (P. P. Pasolini, Acculturazione ed acculturazione, in «Scritti Corsari»). Governare la modernità è la pia illusione di chi ha perso la volontà di combattere il centralismo della società dei consumi; estendere la società dei consumi ai saperi è invece il terribile progetto di chi ha intuito come si struttura il nuovo totalitarismo.
 
Istituti
Studenti/esse
%
IPSIAM
563
9%
IPSSAR
1.295
21%
IPSSCT
866
14%
ITIS
1.010
17%
ITCG
902
15%
Liceo Scientifico
418
7%
Liceo S.p.p.-Linguistico
704
12%
Liceo Classico
274
5%
TOTALE
6.032
100%
Fonte: Distretto Scolastico Molfetta-Giovinazzo A.S. 2001/2002

P.S. Dal 19 al 20 dicembre la ministra Moratti terrà gli Stati Generali della scuola a Foligno, dove si presume sancirà la fine della scuola pubblica, nonché il trionfo delle tre “i”.
Non abbiamo volutamente riferito nell’articolo della Commissione Bertagna, che ha lavorato a una configurazione peggiorativa della riforma dei cicli di Berlinguer. Contiamo di riferirne più diffusamente nel prossimo numero.

gennaio - aprile 2002