GUERR&SINISTRE
di Gianni Porta

Pur rivolgendo l’attenzione al nesso guerra-sinistra non possiamo evitare qualche considerazione generale introduttiva.
Gli attentati terroristici dell’11 settembre ci trovano assolutamente contrari, non solo perché eticamente riprovevoli ma anche perché oggettivamente ogni terrorismo è nemico di coloro che lottano per un mondo diverso e migliore. Altrettanto contrari siamo alla guerra - sia pure “intelligente” e “chirurgica” - come risposta al terrorismo. Una guerra che si rivela essenzialmente fase strategica di una partita geopolitica che si sta giocando nella regione centro-asiatica ricca di oleodotti e gasdotti (presenti e in progettazione). Per dirla con Vittorio Messori, scrittore cattolico autore di “Ipotesi su Gesù” nonché del libro-intervista al Papa e non certo un bolscevico: «Nella loro mentalità hollywoodiana, gli americani hanno sempre bisogno del capo della banda Bassotti, di qualcuno che faccia la parte del cattivo. Ma è chiaro a tutti che il problema del terrorismo non si può ricondurre al solo Bin Laden.» (intervista su “Liberazione” del 5/10/01).
Questa guerra serve a quella parte dell’Occidente che vuole mascherare le contraddizioni della globalizzazione dietro una facile quanto falsa dicotomia fra Bene e Male. La guerra al Terrore, sempre più metafisico e sfuggente, serve per ritrovare una direzione di senso della modernità. Questa corsa dell’umanità verso il basso impone invece sempre più la necessità di un altro mondo possibile, senza terrorismo e senza guerra, senza ingiustizie economiche e sociali. Un mondo in cui uomini e donne, ambiente, lavoro, risorse, intelletto generale, desideri non siano merci e valorizzati solo in funzione del denaro; in cui diritti universali di cittadinanza, del lavoro e del non-lavoro non siano variabili dipendenti del profitto; in cui partecipazione politica e democrazia economica siano momenti reali di protagonismo collettivo; in cui fondamentalismi (religiosi e/o culturali, islamici e/o occidentali) visti come panacea dei mali del mondo non abbiano ragion d’essere. Lavorare per un’alternativa di società è oggi l’unica reale via d’uscita alla crisi della modernità e dei suoi presupposti. Lungi dall’osannare le “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione o dal criticare solo alcuni aspetti di essa ritenuti riformabili, denunciamo il divorzio strutturale in atto da tempo fra sviluppo economico-materiale e progresso civile, binomio (sviluppo/progresso) che è stato alla base della modernità, soprattutto di quella conosciuta nel Novecento.
In tale quadro, la speranza rappresentata dal movimento no-global, dopo la tappa fondamentale di Genova, è stata costretta a confrontarsi per crescere nelle strette della guerra. Proprio alla luce di ciò l’adesione alla Marcia Perugia-Assisi del 14 ottobre è stato un momento importante che ha permesso al GSF – in trasformazione e orientato a un processo di radicamento territoriale – di incrociare spezzoni di società provenienti da altri percorsi culturali. Così come la manifestazione dei Social Forum italiani il 10 novembre a Roma e tutte le altre mobilitazioni grandi e piccole ci parlano di una parte di società che non è anestetizzata nella sua capacità di critica radicale né obnubilata dalla raffinata propaganda di guerra costruita Porta a Porta. Anche a Molfetta il locale Social Forum dimostra vitale capacità nel creare momenti di approfondimento e dibattito. Una nuova esperienza, cominciata prima di Genova, che ha ampi margini di crescita, soprattutto rispetto alla possibilità di non fermarsi a un “antiglobalismo esotico” ovvero essere capace di territorializzare analisi, proposte e lotte a partire dallo specifico locale, sempre nel quadro di una comprensione globale dei fenomeni.

Se questo dato ci fa sperare, ve ne è un altro negativo: lo scollamento fra questa parte per nulla marginale della società e la stragrande maggioranza delle forze politiche. C’è un punto imprescindibile da cui partire: il 7 novembre 2001 in Parlamento si è discusso e votato sull’entrata in guerra dell’Italia. Il 90% delle forze politiche ha ritenuto necessario, legittimo, opportuno ed efficace il ricorso alla guerra come strumento di lotta al terrorismo. Quel giorno l’art. 11 della Costituzione repubblicana è stato stracciato, come per la guerra del Golfo e quella “umanitaria” in Kosovo.
Per gran parte del centro-sinistra – ci sono stati infatti importanti dissensi – la guerra non è affatto un dis-valore, anzi – in virtù di una visione apparentemente disincantata e improntata al realismo politico, salvo poi negare le stridenti e strutturali contraddizioni della globalizzazione capitalistica – è uno strumento costitutivo dell’ordine globale. Su una questione capitale come questa, la sinistra liberale mostra un’impressionante continuità ideologica con la destra. Anzi afferma che le divisioni sono ammissibili solo sulle questioni “minori”, sul come governare gli “affari interni”, ovvero – diciamo noi – nella pratica di governo totalmente subordinata alle compatibilità neoliberiste. In merito sono illuminanti alcune brevi battute di Mario Tronti: «Quella data [il 1989] non ha, per la nostra parte, niente di espansivo. Siamo entrati in una fase di innovazione tecnologico-finanziaria e di restaurazione politico-istituzionale. Una forbice micidiale. Qui dentro la sinistra non governa, va al governo: due cose molto diverse. Forse opposte.» (M. Tronti, Pensieri da libro nero, in AA.VV., “Sul libro nero del comunismo. Una discussione nella sinistra”, manifestolibri, Roma 1998, p. 135).

Per gli alfieri della sinistra moderna non esistono più (e forse non da ora) le grandi opzioni ideali, le tracce di ricerca per l’alternativa. Per questa sinistra “moderna”, “europea”, “riformista”, “liberale” è importante la credibilità presso gli alleati di guerra e i centri economico-finanziari del Paese. In altre parole per essa la globalizzazione è un fatto naturale, non storico-sociale; è come il corso delle stagioni: immutabile. Alle brutture strutturali della globalizzazione capitalistica tutt’al più potremmo opporre – secondo questa sinistra – l’I care dei buoni propositi di veltroniana memoria ma niente più. Ovvero per questa sinistra un altro mondo è impossibile, un’alternativa da costruire nella materialità dei processi non è ipotizzabile. Al limite qualche riforma debole, totalmente assorbita nel quadro della gestione accomodante della modernizzazione capitalistica. Il riformismo di questa sinistra “responsabile” e di “governo” è altra cosa dalle riforme di struttura di cui a sinistra si parlava un tempo. Ha avuto ragione Piero Fassino al II Congresso dei DS, nel dire che «il riformismo non è la destra della sinistra». Infatti questo riformismo è piuttosto la sinistra della destra. Per questa sinistra leibniziana, questo è il migliore dei mondi possibili. Logico che la guerra sia una variabile da accettare: se le contraddizioni globali producono la guerra e la guerra serve a regolare le crisi (non da ora…) della globalizzazione, sarà conseguente che chi accetta questa globalizzazione, accetti anche l’emergenza fenomenica della guerra come strumento regolativo delle contraddizioni globali. Per la leadership dei DS la fedeltà atlantica è senza riserve: D’Alema ingaggia la competizione con Berlusconi sul chi è più “responsabile” e credibile internazionalmente, intendendo con ciò che egli non sarebbe rimasto fuori dalle riunioni del “Direttorio” dei 3 grandi d’Europa (Inghilterra, Francia e Germania), in cui – ricordiamo al popolo della sinistra – si discuteva di come portare avanti la guerra. E davvero non abbiamo ragioni per dubitare di ciò, dal momento che la decisione “responsabile” con cui l’Italia del centro-sinistra partecipò all’intervento “umanitario” in Jugoslavia nel 1999 e il ruolo internazionale giocato in quel frangente, oggi fanno sfigurare un po’ il Cavaliere trattato come alleato di serie B dagli USA e capace solo di indire fallimentari e provincialotte manifestazioni di piazza in favore della guerra. Due anni fa senza tentennamenti l’Ulivo – tutto – indossò l’elmetto; il 7 novembre il centro-sinistra con la foglia di fico dell’“operazione di polizia internazionale” ha votato “i crediti di guerra” grazie al meccanismo delle astensioni incrociate, già collaudato in occasione del G8 di Genova.
Quella parte consistente (secondo i sondaggi – tra l’altro curiosamente oscurati alla vigilia del voto parlamentare – 1 italiano su 2 contrario alla guerra) della società italiana (le moltitudini di Genova, della Perugia-Assisi, di Roma…) che vuole la pace – e ciò non significa “volersene stare tranquilli” – è oggi sottorappresentata in Parlamento.
E che dire dei 200.000 metalmeccanici della FIOM-CGIL scesi il 16 novembre in piazza a Roma per difendere contratto e democrazia sindacale? Oggi, dopo un gelo quasi ventennale e la camicia di forza della concertazione imposta alla soggettività operaia con la “moderna” complicità dei vertici, possiamo parlare di rinascita di un nuovo protagonismo di classe, mutato nella sua composizione (sempre più “meticcia” e atipica) ma capace di incrociare le strade del movimento anti-globalizzazione. Ebbene quale eco hanno avuto questa e altre mobilitazioni del mondo del lavoro nel dibattito congressuale dei DS? Ci preoccupa sentir dire il nuovo segretario del partito del socialismo europeo che bisogna liberare la flessibilità dalla precarietà. Un po’ come voler liberare l’acqua della sua essenziale umidità.

Per dirla con Sabattini, segretario generale della FIOM-CGIL, «se prima, fino a oggi, c’è stata una sinistra radicale e una sinistra moderata, adesso è arrivato il tempo che ci sia una sinistra». Ciò per dire che una visione e una posizione nette, inequivocabili sulla guerra, sul lavoro, sulla globalizzazione sono premesse necessarie per ritrovare le proprie ragioni, intese non come simulacro nostalgico ma come radici ferme, ben salde nelle condizioni materiali, nelle contraddizioni, nei bisogni, nel vivo della società da cui da tempo parte della sinistra si è estraniata. Si è liquidato il PCI, esperienza riformatrice e non riformista – le due parole sono ben differenti – senza eguali in Europa, in nome dell’allargamento nella società e con l’obiettivo del governo. Risultato dopo 10 anni: all’opposizione con una percentuale risibile. Ma più grave è stato smobilitare le casematte nella società, che avevano garantito vitalità. Se oggi vi è una destra così aggressiva, liberista e populista al governo che attacca impunemente l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, lo si deve al lavoro consapevole, eppur incosciente di qualche apprendista stregone, che per ansia di legittimazione presso l’establishment economico-finanziario del Paese ha reciso i legami con la parte di società che doveva rappresentare.
Inseguire la destra sul terreno di questa modernizzazione capitalistica, per dimostrare che si è più bravi a gestirla, fa smarrire le ragioni di una sinistra. Ai compiti, alle ragioni e alle passioni della sinistra noi non rinunciamo e una modesta rivista trova la sua ragion d’essere in ciò: l’orizzonte del cambiamento di questo mondo e non della sua gestione contabile. Compito ancor più difficile quando si tratta di cogliere le articolazioni locali di tendenze globali, di capire modificazioni della comunità territoriale, di offrire tracce utili alla costruzione di un mosaico alternativo.

Anche Molfetta non è immune da questa globalizzazione e dalla guerra come suo portato. Il suo essere “Città della pace” che senso ha oggi? Il migrante “straniero” come è visto dall’indigeno? E la sinistra locale, a parte quella che pensa di “poter costruire la pace con la guerra”, quante altre volte dovrà “rinascere” prima di rendersi conto che la forza della sinistra passa per la ricostruzione di legami con la “propria gente”, che spesso disconosce, o peggio non riconosce più? Quando capirà che l’opposizione a un fatto come la guerra non si costruisce attraverso il dissociarsi delle singole coscienze e il loro rispettabile travaglio interiore ma quando come soggetto politico si offrono fermezza e lucidità alternative, in cui pacifisti, noglobal, cattolici, lavoratori possano trovare un riferimento?

gennaio - aprile 2002