La sopravvivenza di qualche testimonianza del passato, oggi rubricabile sotto la voce di archeologia industriale, è la dimostrazione più evidente del periodo in cui Molfetta era una città economicamente più vivace e dinamica di quanto non lo sia stata a partire dalla seconda metà del secolo scorso.
Come mai si è potuto perdere tutto questo patrimonio e si è potuta liquidare un’esperienza che, esplosa negli ultimi decenni dell’Ottocento, è perdurata nel cinquantennio successivo? È questa una domanda alla quale bisognerebbe incominciare a dare qualche risposta in un momento come quello attuale in cui si dimostrano del tutto impraticabili le strategie industriali adottate dalle politiche post-belliche.
In quegli anni il Mezzogiorno ha subito uno sviluppo imposto dall’alto che ha avuto nelle cosiddette cattedrali nel deserto le sue più emblematiche espressioni. In un contesto caratterizzato da una debolezza economica strutturale, la risposta dei politici e degli economisti ha privilegiato uno sviluppo fondato sulla grande industria di stato, slegata dalle tradizioni e dalle potenzialità delle tradizioni locali. Le conseguenze di quella politica economica sono abbastanza note. Parassitismo, inefficienza, disequilibri territoriali, disvalori, delinquenza organizzata, clientelismo politico sono solo alcuni dei fenomeni collegabili a quell’impostazione distorta di risolvere le difficoltà meridionali.
L’intervento dello stato in economia si è rivelato quanto mai disastroso perché ha creato aspettative che non sono state sufficientemente soddisfatte, abbandonando il Mezzogiorno in uno stato di acquiescente e fiduciosa speranza che i suoi problemi potessero essere risolti dall’alto e, soprattutto, da altri. Si è trattato di un modello economico che è andato progressivamente definendosi, fino a creare legami perversi con la politica, dando luogo a quelle forme di degenerazione cui si è fatto cenno.
Sullo sfondo di questi processi anche Molfetta ha subito ripercussioni negative. Lo smantellamento della sua organizzazione produttiva tardo-ottocentesca (ereditata e sopravvissuta per diversi decenni, nel corso del secolo successivo) ha, in parte, la sua spiegazione anche in questi processi complessivi vissuti dalla società e dall’economia meridionale.
Eppure le basi sulle quali è stata costruita la felice esperienza molfettese tra Otto e Novecento poggiavano su solide radici storiche. Le premesse di lungo e medio periodo rappresentavano una ottima tradizione di imprenditorialità diffusa, i cui risultati migliori si manifestarono, proprio alla fine del XIX secolo, quando a Molfetta fu possibile creare un contesto di economia industriale che, a parte le enfatizzazioni di qualche illustre contemporaneo, si inseriva nella più autentica tradizione economica della zona e ne sviluppava le potenzialità nel modo migliore.
Il riferimento concerne principalmente il ruolo complessivo svolto da una struttura agraria, incentrata sulla produzione e sulla trasformazione dell’olio, che da secoli aveva consentito di ridistribuire ricchezza e possibilità di guadagni, sia pure in termini socialmente molto differenziati, ad ampi strati di popolazione. Pertanto può ritenersi sufficientemente acquisito che quel processo di industrializzazione fu il risultato complessivo di questa forte e consolidata matrice rurale di più lungo periodo sulla quale si innervarono alcune opportunità congiunturali di medio termine.
Per ragioni di sintesi e per il ruolo propulsivo giocato nell’evoluzione successiva dell’economia locale, vanno ricordati almeno due episodi, entrambi connessi con la precedente e plurisecolare diffusione dell’elaiotecnica nei centri della costa barese.
Il primo, di carattere più generale, concerne la modificazione della tecnologia adottata nella trasformazione e nella produzione dell’olio, in seguito alla diffusione del torchio idraulico importato dal Ravanas tra il 1827 e il 1828 a Bitonto e nel resto della provincia. Il secondo, avente ripercussioni più specificamente locali, riguarda la lungimiranza e la capacità imprenditoriale di un pioniere del settore, l’ex prete Vito Cesare Boccardi, che per primo intravide le potenzialità e le prospettive future di questa industria, in un contesto che da secoli aveva una forte impronta olivicola, vantava una lunga tradizione nella produzione del sapone e, quindi, poteva ricevere da un ampio hinterland la materia prima per le ulteriori utilizzazioni degli scarti provenienti dalla prima fase di lavorazione delle olive. In una città come Molfetta, lo sfruttamento industriale della sansa consentì uno slancio e una espansione industriale che non aveva termini di paragone, soprattutto se confrontata con le condizioni di alcune comunità limitrofe.
La fase di industrializzazione sperimentata dalla città e da altri centri costieri nel corso dell’ultimo ventennio del secolo determina un progressivo processo di integrazione e di sostituzione di un settore con un altro. Dal momento che l’agricoltura, come la pesca e le altre attività economiche, singolarmente considerate, si rivelavano insufficienti a garantire risorse adeguate a soddisfare l’offerta di lavoro, l’industria trovò possibilità di affermarsi in carenza di altre alternative per una manodopera esuberante. Gli studi più recenti sul processo di industrializzazione hanno dimostrato che esiste un rapporto inverso tra le aree avvantaggiate sotto il profilo dell’agricoltura e le aree industrializzate. L’occupazione industriale tende a stabilirsi in quei distretti che non hanno un elevato potenziale agricolo o in quelle aree che, comunque, si presentano più svantaggiate sotto questo profilo. Molfetta e la costa barese rappresentano da questo punto di vista un laboratorio particolarmente interessante. Qui la terra era diventata sempre più insufficiente e le altre attività avevano bisogno di un’ulteriore spinta da settori che non potevano più essere dipendenti soltanto ed esclusivamente dall’agricoltura locale.
In questa ottica si colloca il ruolo svolto dalla sansa e dalla correlata estrazione di olio al solfuro in tutta la zona olivicola di Terra di Bari, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento.
La produzione di olio al solfuro si configura come un settore trainante stimolando e facendo crescere anche altri settori, in una sorta di processo più ampio che crea legami a monte e a valle.
Tali sviluppi, per esempio, sono agevolati dalla disponibilità di una infrastruttura portuale che, dagli anni Quaranta, aveva sollecitato energie e attenzione da parte degli amministratori locali e, contemporaneamente, aveva stimolato l’installazione di un cantiere navale, dove si potesse ulteriormente sperimentare l’esperienza di lunga data acquisita dai “calafati” e dai “mastri d’ascia” molfettesi. L’impulso indotto dalla produzione di olio al solfuro ebbe ripercussioni su altri settori produttivi che direttamente o indirettamente incrementarono la loro attività.
L’intuizione del Boccardi costituisce una delle prime applicazioni della chimica a fini industriali. Dopo i suoi primi investimenti nel settore, all’inizio degli anni Sessanta, quando egli impiantò uno stabilimento sulla via di Giovinazzo, la produzione dell’olio al solfuro attirò anche altri imprenditori molfettesi e, successivamente, alcuni investitori stranieri come gli svizzeri Sulzberger e Seitz, che installarono il loro opificio verso Bisceglie, giovandosi delle competenze di un loro conterraneo, l’ingegnere chimico Laquai, successivamente divenuto anch’egli industriale del settore. Questi imprenditori svizzeri rileveranno successivamente sia lo stabilimento del Boccardi che quello di De Gioia e Spadavecchia, monopolizzando questa industria a Molfetta e ponendosi in competizione con altri produttori di olio al solfuro che avevano installato i loro stabilimenti a Bari. Ormai questa industria vanta ben sette stabilimenti nella provincia di Bari. Nel capoluogo, in particolare, si sono installati diversi opifici come la Societé Nouvelle des huileries et savonneries méeridionales, fondata nel 1868 per iniziativa della ditta L. Sarlin fils, con sede a Marsiglia. Dalle statistiche coeve si apprende che alla fine dell’Ottocento, essa si insedia su un’area di circa 50.000 metri quadrati sulla spiaggia di San Cataldo e occupa 250 operai. Nello stesso settore della produzione di olio al solfuro a Bari operano anche la ditta Cornelio e Spangher, quella di G. Lindemann e quella dei signori Oss Mazzurana e G. Angeli.
Questa breve cronologia degli sviluppi industriali a Molfetta e nella provincia dimostra, tuttavia, che dopo i primi interventi nel settore da parte di imprenditori molfettesi la loro presenza si riduce ed essi vengono surrogati da operatori stranieri. Numerosi investimenti si dirigono tuttavia verso altri comparti produttivi e gli industriali di Molfetta dimostrano buone capacità di gestione che assicurano loro successi e opportunità di guadagni, tanto da espandere i loro interessi e la presenza delle loro imprese anche in altre realtà del territorio pugliese.
È in un contesto così dinamico che, all’inizio del Novecento, fa la sua apparizione nel settore della produzione di olio al solfuro un altro imprenditore locale destinato a lasciare un’orma ben più profonda nella comunità locale e in tutta la zona barese, fino a espandere i suoi opifici e le sue attività ad altre regioni meridionali. Dopo la liquidazione di alcune imprese installatesi negli ultimi decenni dell’Ottocento, viene impiantato un nuovo stabilimento per la produzione di olio al solfuro nei pressi della stazione. È l’Oleificio Molfettese fondato da un vero pioniere dell’industria locale: il cav. Luigi Gambardella. Con lui questo settore conoscerà fasti mai prima sperimentati su scala locale e meridionale. I suoi investimenti si allargheranno ad altri comparti industriali con la fondazione, per esempio, del Laterificio l’Ardito, dando nuovo impulso e sollecitazione a tutta l’economia di Molfetta per diversi lustri. La storia dei decenni successivi è nel ricordo di tutti e ha bisogno di essere documentata per dimostrare l’intraprendenza di un articolato ceto imprenditoriale, distintosi in diversi settori, che ha consentito a Molfetta un periodo di notevole vitalità economica.
Con il secondo dopoguerra tutta questa impalcatura produttiva si è andata progressivamente estinguendo per lasciare il posto a una comunità terziaria nella quale si è inserita a vario titolo e in forme spesso clientelari quella forza lavoro che trovava possibilità di impiego. Per coloro i quali non hanno trovato spazio nelle pieghe del terziario locale e provinciale si sono aperte le porte dell’emigrazione (anche intellettuale), dell’impiego sui mercantili (oggi sempre meno praticabile per le innovazioni tecnologiche e la concorrenza internazionale) e di quanto altro la disponibilità del mercato del lavoro rendeva possibile su una più ampia dislocazione territoriale.
Così, mentre altrove in Italia si assisteva al boom economico e si fondavano nuove imprese anche in aree tradizionalmente arretrate, come quelle del nord-est, a Molfetta scomparivano le imprese e si abbattevano i fumaioli che per circa un cinquantennio avevano rappresentato sul suo territorio le realizzazioni tangibili di una importante fase di espansione economica.
Come e perché si sia potuto disperdere questo patrimonio (secondo la domanda formulata all’inizio di queste note) e quali siano state le cause che hanno determinato l’abbattimento dei fumaioli che costellavano le periferie di Molfetta è un problema che non può essere risolto nelle poche pagine di questo intervento. Esso ha uno scopo molto limitato, quello di far riaffiorare alla memoria il ricordo di quel periodo affinché la riflessione e la discussione sul passato e sulla perdita di quelle opportunità possa contribuire al rilancio di Molfetta e del Mezzogiorno su nuove basi. |
gennaio - aprile 2002 |