Democrazia e terrorismo
di Andrea Gadaleta Caldarola

item linguistici che richiamano rappresentazioni socialmente costruite

Parole-chiave nei discorsi politici e ufficiali: perché un’analisi sociolinguistica
A differenza di ogni analisi puramente linguistica del discorso, la sociolinguistica studia l’organizzazione sociale del linguaggio e le situazioni comunicative specifiche in cui le enunciazioni si realizzano, vengono interpretate, acquisiscono significato. Non ha senso analizzare discorsi, testi, parole come eventi linguistici indipendenti dal contesto comunicativo e dall’attività paralinguistica che li inquadrano: linguaggio cinesico, elementi prosodici e intonazionali, atteggiamenti prossemici, stato della conversazione, finalità e scopi comunicativi, sono tutti fattori non “additivi” del linguaggio verbale, ma solidali con esso e coi quali il linguaggio verbale costituisce un sistema. Più semplicemente, comprendere il senso di una frase “gridata”, cioè pronunciata a voce più alta di quanto le condizioni acustiche richiedano, significa per esempio capire in quali rapporti siano gli interlocutori in relazione alle dimensioni di potere e solidarietà (uno è arrabbiato o vuole rimproverare, convincere, dissuadere, obbligare l’altro), oppure considerare a che distanza si trovino l’uno dall’altro o se vi siano interferenze acustiche.
Inoltre la scelta delle parole, soprattutto negli scambi comunicativi “orientati verso il ricevente”, non avviene necessariamente in base a criteri funzionali; al contrario è spesso determinata dalla volontà di suscitare emozioni, istruire, persuadere, convincere il destinatario. Il significato di una parola non è il suo referente (ammesso che ce ne sia uno oggettivamente identificabile) ma il suo senso, la rappresentazione mentale associata o suscitata nell’interprete.
Gli studi sociolinguistici si concentrano sull’analisi dei singoli item linguistici, utilizzati da singoli individui in situazioni specifiche. In ogni scambio comunicativo e soprattutto nei discorsi politici e ufficiali, nei testi giornalistici e televisivi, giocano un ruolo specifico alcuni termini-chiave, carichi semanticamente, che ricorrono con frequenza ed evocano determinate immagini e rappresentazioni. È il caso di termini come democrazia, terrorismo, libertà, guerra, pace, innanzitutto parole prima che concetti, in parte desemantizzate, nel senso che sono svuotate di tratti semantici specifici, in parte contestualizzate e legate a un determinato stato di cose e a punti di vista abilmente strutturati.
Il linguaggio televisivo, caratterizzato tra l’altro dalla necessità di condensare idee e significati in frasi brevi e incisive, è certamente uno dei principali diffusori di plastismi, cioè quelle fastidiose ripetizioni che tolgono colore e riducono le potenzialità comunicative del linguaggio; sforna, in quantità, formule “ipnotico-rituali” – come le definisce Marcuse – che martellano il telespettatore e creano immagini fisse e significati assoluti.
Nei più svariati contesti tali parole-chiave vengono spesso associate a determinate immagini visive (libertà, democrazia e bandiera americana) e aggettivi (terrorismo islamico, immigrazione clandestina, democrazie occidentali, libertà costituzionale, guerra umanitaria): ed è così che nel tempo esse vengono identificate con valori culturali, sentimenti, emozioni.
Certamente la costruzione dei significati va al di là dell’uso di determinati item linguistici, ma essa avviene proprio tramite il linguaggio e ciò che questo sa richiamare. Se ogni atto linguistico va riferito al suo stato di conversazione o alla sua situazione enunciativa specifica, ogni considerazione su termini come democrazia e terrorismo non può trascurare assolutamente il contesto in cui sono utilizzati, le diverse componenti comunicative individuate dagli studi etnografici (da chi a chi, con che mezzo, con quale codice, in quale forma…), i significati, le paure, i sentimenti che i termini richiamano.

Terrore e terrorismo

Il termine terrorismo si riferisce in genere a individui o a gruppi organizzati che si avvalgono della violenza e di ogni altro strumento finalizzato a creare panico e incutere terrore (attentati, bombe, armi batteriologiche, sequestri), a destabilizzare un sistema, a colpire non solo obiettivi militari, politici, strategici, ma anche a sacrificare civili innocenti, colpevoli di non opporsi anch’essi al sistema.
Si sprecano gli appelli di politici, media e istituzioni a “combattere il terrore”, a “rifiutare la violenza”; tutti si rivolgono al terrorismo come al “male” e alla “piaga” del nuovo millennio, tutte le nostre paure, le nostre ansie, il timore di poter perdere d’un tratto la nostra sicurezza e la “nostra” pace, vengono di colpo risvegliati. Oscuri individui malvagi, vestiti di nero e coperti in volto minacciano la democrazia; sono pazzi, fanatici, violenti, terroristi che non vogliono e non hanno più diritto di parlare, vanno eliminati.
Ma cosa dire dei partigiani italiani che combattevano con la violenza il fascismo e che erano chiamati terroristi dal regime? Erano davvero terroristi? o liberatori? La questione non è più strettamente politica e storica, ma diventa soprattutto un problema di definizione: perché viene considerato terrorista chi mette le bombe e non chi bombarda un paese? Perché è terrorista chi lancia le pietre alle banche e non chi, coperto in volto, usa mazze e pistole? Perché è terrorista chi fa un attentato e non chi usa la bomba atomica?
Dall’11 settembre, la parola che Bush ha pronunciato più spesso nei suoi discorsi è evil, il “male”: guerra al male, punizione dei malvagi, giustizia infinita, coalizione globale contro il terrorismo internazionale. Una marea di formule e definizioni che assolvono preventivamente la propria violenza: la lotta contro il “male” è così cruciale da giustificare il ricorso ad ogni metodo discutibile, purché efficace.
Le strategie politiche del terrore non sono nuove neppure alla nostra storia politica: il gioco sta nel definire la situazione, nell’individuare o nel creare un nemico comune con tutte le conseguenze che questo comporta, nel combattere il male con ogni mezzo in un clima di tensione in cui la sospensione delle libertà fondamentali è legittimata. Tutt’al più il male può essere frequentato dalla porta di servizio, ma anche questo è un problema di strategia. Si rivela fondamentale in questo gioco il ruolo dei media e delle istituzioni politiche e religiose che costruiscono anche attraverso il linguaggio, un punto di vista forte: condannano il male, il terrorismo, la violenza che minaccia la democrazia e la pace, ma l’unico mezzo per ottenere quest’ultima è fare la guerra: sembra quasi la controindicazione di un medicinale in pubblicità, sussurrata a velocità impressionante.
Centinaia di migliaia di persone considerano a loro volta giusta la violenza contro chi, per decenni, terroristicamente, ha fomentato e finanziato una guerra – infinita nel senso che dura da decenni – in casa propria.
Allora è terrorista chi usa il terrore e la violenza per colpire e sovvertire un sistema, dall’interno o dall’esterno, indipendentemente dalla finalità politica della sua azione? In tal caso, per capire quale significato abbia il termine, in che senso sia utilizzato, perché e per quali scopi, bisogna ritornare a riferirsi allo stato di cose storico-politico-sociale che non può essere trascurato, e assumere come presupposto che uno stesso gruppo politico o religioso può essere definito terroristico o al contrario di liberazione a seconda di chi lo definisce. Così i membri dell’IRA, i militanti baschi, gli integralisti islamici sono tutti catalogati all’interno della macro-etichetta “terrorismo”, come anche gli anarchici e gli “autonomi” oggi, i comunisti e i partigiani ieri. Ma chi li definisce così e perché? Tali gruppi si auto definiscono terroristi? La violenza non è sempre violenza indipendentemente da chi la compie? Non sono, forse, violenze finalizzate a istituire uno stato di terrore anche pena di morte, bombardamenti, torture ed embarghi economici?
Un altro discorso è, poi, come definire determinate violenze in una società tecnologica e mediatica in cui “imparziali” telegiornali e intelligenti uomini di cultura, allo stesso modo di aperta propaganda, costruiscono astutamente significati e rappresentazioni “dominanti”, modificano l’informazione, strutturano punti di vista. Una guerra non è più guerra se è chiamata “azione umanitaria” o “operazione internazionale di polizia”. Ogni violenza può essere denominata e definita come si preferisce, a seconda delle necessità: “terrorismo” dettato da folli motivazioni politiche e fanatiche, oppure la si può chiamare “giustizia” legittima, o “vandalismo”, o “atto umanitario”…

Democrazia e definizioni
Secondo Marcuse il coordinamento e la subordinazione dell’individuo nella società tecnologica giunge fino a quegli strati della mente in cui si elaborano i concetti intesi a comprendere la realtà. Il linguaggio a una dimensione, rituale-autoritario, preclude uno sviluppo genuino del significato e procede per tautologie, non dimostra e non spiega. Ogni giudizio sulla società è costretto a muoversi entro un contesto di fatti che escludono un giudizio sul contesto in cui i fatti si producono e in cui il loro significato è determinato. L’universo di discorso è chiuso e fortemente limitato. Ogni indagine imbocca un circolo vizioso e si convalida da sola. Il tratto distintivo di quello che Marcuse chiama operazionismo – cioè considerare un concetto come l’insieme delle operazioni corrispondenti – ricorre nel linguaggio nella tendenza a identificare le cose con la loro funzione: se ogni concetto ha in quanto tale significato transitivo, cioè va oltre il riferimento descrittivo a fatti particolari e contingenti, esso viene di fatto considerato corrispondente alle sue funzioni e alle sue caratterizzazioni storiche.
Organizziamo la conoscenza della società rappresentandola in uno spazio mentale pluridimensionale le cui dimensioni sono costituite da stereotipi sociali, casi chiaramente tipici che ci forniscono indicazioni non osservabili e ci aiutano a pianificare il nostro comportamento ma che portano con se pregiudizi e rappresentazioni. I concetti di democrazia e terrorismo diventano prototipi socialmente riconosciuti e associati a determinate visioni, interpretazioni storiche tutt’altro che assolute, punti di vista relativi e spesso funzionali a chi la storia la fa scrivendola. Al di là delle numerose e differenti teorizzazioni, interpretazioni, realizzazioni di democrazia – diretta o indiretta, del mandato, parlamentare, socialista – l’ideologia democratica associa la libertà politica all’uguaglianza dei cittadini e al suffragio universale, ponendo le premesse per un egualitarismo politico, economico e sociale. Non a caso viene portato come esempio storico di democrazia moderna da più autori quello degli USA, che nel 1828 adottarono la prima costituzione democratica che lega l’ideologia a un assetto dinamico ed aperto della società, alla libertà di stampa e associazione, ad un mercato “in espansione”, e si potrebbe dire in espansione sul terzo mondo.
Il processo di desemantizzazione del concetto, fa corrispondere la democrazia alle sue funzioni e alle sue modalità di strutturazione: un paese democratico è quello che elegge democraticamente i propri rappresentanti al governo. Il concetto non fa che ripetere i tratti di quella che è la forma oggi stabilita di democrazia, e distinguere tra forme di governo autoritarie e forme democratiche; il concetto è ritualizzato perché diventa assoluto, riferito necessariamente a uno stato di cose. Ma così interpretato il termine cade in una serie di intoppi: è infatti possibile che la maggioranza elegga democraticamente un governo autoritario e non democratico, o che la maggioranza non rispetti le minoranze, o che un paese decida democraticamente di uccidere milioni di persone.
Eppure quello della democrazia appare politicamente e linguisticamente un argomento decisivo, intoccabile; è modernità, bene, giustizia, “necessaria” organizzazione della società tecnologica, e ad essa si appellano un po’ tutti i politicanti in circolazione. Possono essere modificate la legge elettorale, la costituzione, possono essere migliorati i servizi, riformate le istituzioni, cambiate le leggi, ma la democrazia non è messa in discussione.
Il mercato mondiale è completamente controllato da pochi paesi democratici, di fatto potenze militari storicamente senza precedenti che non disdegnano di farsi rispettare con la forza; milioni di persone muoiono oggi di fame e di malattie curabili mentre i brevetti dei medicinali sono gelosamente custoditi dalle multinazionali farmaceutiche americane ed europee; l’ambiente è continuamente deturpato da paesi democratici che sottostanno alle leggi dello sviluppo economico; sembra quasi che tutto questo, purtroppo la nostra storia, non sia in contraddizione con le istituzioni democratiche.
Il fatto che la libertà che ci è oggi “concessa” socialmente corrisponda in realtà a schiavitù, non trova facilmente espressione nel linguaggio, anche a causa delle rigide definizioni dei termini e della ritualizzazione dei concetti che plasmano il relativo universo di discorso. I concetti ritualizzati, sostiene Marcuse, sono immuni alle contraddizioni. Si dà per scontato che la schiavitù corrisponda necessariamente a repressione fisica e a forme esplicite di autoritarismo; la libertà è diventata possesso di diritti,:libertà di votare, di commerciare, di guadagnare… Le nuove forme di dominio “subliminali” appaiono concetti linguisticamente fumosi, incerti, astratti. Non è un caso che i politici, nei propri discorsi, attingano costantemente da un repertorio di termini e luoghi comuni, espressioni, definizioni tanto cariche di significati da diventare vuote, spesso come la testa di chi le pronuncia.
Il linguaggio è certamente il più duttile e versatile fra i sistemi comunicativi, che ci permette di trascendere il presente e ogni contingenza storica per riferirci a concetti astratti, culturali, relativi; ma allo stesso tempo è un mezzo che può essere utilizzato strumentalmente e che, legato alle nuove tecnologie di controllo dell’individuo, può essere determinante nel presentare una stessa realtà in mille modi differenti. Il linguaggio diventa anche uno strumento di subordinazione, e la costruzione del consenso avviene anche tramite il linguaggio. Noi cittadini siamo liberi, abbiamo diritti, abbiamo benessere, agi e comodità, viviamo in uno stato democratico… Per cui “si sta in pace armandosi per la guerra”, “si bombarda per difendersi”, “è terrorista chi mette le bombe e non chi bombarda”, “si porta la democrazia con un intervento militare”, “si è democratici ma si decide sulla vita e sulla morte delle persone”. Contraddizioni logiche, linguistiche, pragmatiche, semantiche, ma esibite con estrema autorevolezza e convinzione, e per questo cariche di forza persuasiva.

gennaio - aprile 2002