L'impero dell'informazione è l'informazione dell'impero
L’applicazione dell’elettronica all’informazione sta trasformando radicalmente la comunicazione. La grande velocità di gestione di ingenti quantità di informazioni e l’esistenza di reti estese rendono il sistema flessibile, ricco di possibilità e, soprattutto, globale, integrato e soggetto a controllo centralizzato. Quindi, la comunicazione come grande impresa capitalistica, orientata a una crescente diffusione territoriale, all’aumento di utenza sull’unità di territorio, alla costante crescita della concentrazione.
In questo modo, l’impero dell’informazione diventa l’informazione dell’impero.
Per conseguenza, l’invenzione e il lancio di nuove modalità comunicative, che non prescindono anche dall’utilizzo di linguaggi vecchi, non sono tanto prodotti da una ricerca culturale autonoma, quanto strettamente connessi alle nuove tecnologie informatiche che sono dominanti nel sistema di controllo e sviluppo dell’impero mediatico.
Non siamo più di fronte a quella che un tempo sarebbe stata definita “sovrastruttura” e considerata dipendente e regolata dal settore della politica, luogo delle battaglie ideologiche.
A mio parere, per la sinistra e per ogni formazione critica, questo dato di fatto è molto più importante di quanto possa sembrare a prima vista.
Le “battaglie delle idee” come pure le “battaglie culturali” non sono oggi solo una questione di contenuti, da una parte, e di linguaggi che li esprimono, dall’altra, entro ambiti circoscritti – la vita di ogni giorno, la cultura, la politica – e separati per specifiche funzioni sociali. Nell’impero dell’informazione i segni viaggiano su autostrade, le lingue sono sovrapposte e i messaggi sono molteplici e fortemente pervasivi.
Mi limito semplicemente a porre l’accento su questo assunto, perché lo ritengo una base fondamentale per parlare di comunicazione politica, di “battaglie delle idee” e di “battaglie culturali”.
Prendiamo la comunicazione politica. La varietà dei linguaggi possibili e la potenza della tecnologia di base hanno reso i confini della comunicazione, riferita a uno specifico settore – per esempio, quello politico –, sempre più permeabili da ogni altra “specialità”, e viceversa.
Quando Berlusconi ha inviato agli elettori il romanzo della sua vita, ha utilizzato mezzi “sorpassati” come stampa, posta e linguaggi datati.
È stato un passo indietro del linguaggio della comunicazione? Un “revisionismo”? No, perché quello strumento di comunicazione-propaganda era mirato e utilizzato insieme ai mass-media e ai linguaggi più avanzati. Per questo, oggi, quella domanda non ha senso.
La comunicazione dell’impero si serve di ogni mezzo e può pervadere ogni spazio. La comunicazione politica è inclusa nella comunicazione globale e utilizza anche linguaggi tipici di altri settori, portandosi così fuori dai confini specialistici; di conseguenza, messaggi non esplicitamente politici possono anche essere messaggi politici.
E noi? Cosa c’entriamo noi? Non ci interessa proporre fotoromanzi e facce da imbonitori. Ma, proprio per questo, dobbiamo poter arrivare alle persone a cui Berlusconi è arrivato con il suo feuilleton; a loro dobbiamo dire le nostre ragioni.
Chi possiede le risorse per gestire la comunicazione su scala adeguata è enormemente avvantaggiato nella gestione della comunicazione di massa, e ha la possibilità di lanciare tutti i messaggi e i linguaggi che vuole.
Lo spazio comunicativo prodotto dai mass-media elettronici, sotto il controllo di grandi gestori, non impedisce la comunicazione al suo esterno – cioè da parte di gestori piccoli o occasionali – ma impone nei fatti una concreta egemonia.
Per intenderci: se con la comunicazione politica antagonista si volessero raggiungere 20 milioni di persone, il problema da risolvere sarebbe escogitare e gestire un sistema alternativo a quello dei grandi gestori. Il problema può essere affrontato nei termini dell’efficacia della diffusione. Per raggiungere 20 milioni di persone o si va in TV, oppure si fanno sit-in distribuiti sul territorio nazionale.
Nel nostro caso: se abbiamo uno spazio in TV, allora si può pensare di usare quello spazio anche con un sit-in. Cioè: risolto il problema della diffusione, si affronta quello delle modalità-fini come la scelta del linguaggio.
Nella comunicazione di massa non esiste un linguaggio più efficace ora e sempre, ma la possibilità o meno di gestire grandi numeri di messaggi su più canali. Non esiste un linguaggio tanto efficace da compensare, di per sé, una diffusione inadeguata.
A Genova il black-bloc ha di fatto fruito del mezzo televisivo e del linguaggio televisivo: la potenza comunicativa è derivata dall’essere in TV. Con la crudezza della diretta è passato il messaggio della distruzione di merci e simboli. Senza questo evento comunicativo, consentito dai gestori televisivi, non ci sarebbe stata una visibilità così forte. Ma non accontentiamoci di questo dato e guardiamo più in profondità: se i black avessero voluto far passare un messaggio consistente in “distruzione delle sole merci e strutture simbolicamente legate alla globalizzazione (banche, alimentari transgenici, ecc.)”, questo obiettivo risulterebbe fallito perché il messaggio è piuttosto passato come “distruzione di merci e strutture, tout court”.
La piazza dei grandi mass-media offre ai grandi gestori molte più possibilità di confezionare ulteriori messaggi sui black-bloc, sulle tute bianche, sul GSF, sui cattolici, sul movimento, ponendosi obiettivi demolitori più precisi.
Un grande gestore, per esempio pubblico, che avesse spazi per messaggi e linguaggi alternativi, potrebbe consentire quantomeno un’azione di contraltare, e anche più efficace, se fosse ben gestito.
Se c’è un messaggio da dire in maniera comprensibile ed efficace, bisogna fare in modo che possa concretamente arrivare a tutti gli interlocutori.
Il linguaggio non è un grimaldello magico che possa trasformare la povertà in potenza, compensando eventuali carenze della capacità di diffusione; neanche la semplice fruizione della rete è di per sé un grimaldello. Nella rete come nella piazza, nella comunità, nella città, le parole dei fruitori possono perdersi e possono finanche formarsi gruppi autoreferenziali, che lavorano soprattutto a raccontare e raccontarsi i propri confini, chiudendosi sempre più.
Perfino nella rete, se si vuole essere ascoltati, bisogna comportarsi di conseguenza; non basta esserci, ma bisogna progettare concretamente la diffusione, basandosi su risorse e sistemi di utilizzo.
Per qualsiasi gruppo non gestore di grossi mezzi, il problema della comunicazione può essere affrontato certamente in maniera nuova e creativa su come e dove raggiungere la platea destinataria dei messaggi.
Per qualsiasi evento comunicativo – dalla rivista, alla manifestazione, ai grandi mass-media – se si volessero raggiungere interlocutori eterogenei per non cadere nella trappola dell’autoconfino, ci si dovrebbe preoccupare di uscire dai confini di appartenenza e di “specificità”. Nella comunicazione lo scopo non è “disegnare i confini di un gruppo”, ma “disegnare un gruppo con i confini aperti”.
Ogni forma di comunicazione, dal sit-in alla trasmissione televisiva e alla presenza sulla rete informativa, ha caratteristiche proprie, determinate dalle persone che raggiunge e che potrebbe raggiungere, dai linguaggi che vi possono essere utilizzati, dal tipo di interazione possibile fra chi parla e chi ascolta e, ultimo ma non meno importante, dagli standard tecnico-gestionali necessari a operare.
Un movimento aperto cresce con il consenso e la condivisione di tesi, valori, punti di vista, da parte di nuovi individui, e si basa sul confronto, sul dialogo, sulla gestione degli spazi politici, sociali e istituzionali. Esso deve quindi comunicare a vari livelli e con vari gruppi.
Il puro e semplice sit-in, per esempio, può avere una grande efficacia per comunicare in ambiti ristretti, con grandi possibilità interattive e con mezzi tecnici irrisori. La presenza con un sito internet può costruire una buona interattività e, a condizione di progettare il sito stando attenti a visibilità, linguaggi e semplicità di utilizzo – per evitare l’autoconfino – può consentire di raggiungere con indubbia efficacia alcune categorie. La televisione consente di raggiungere il maggior numero di persone, con un basso livello di interattività rispetto ad altri mezzi, ma con l’incomparabile possibilità di parlare a ognuno anche utilizzando linguaggi e modalità non da imbonitori.
In una serata della prima decade di ottobre – tanto per fare un esempio – nella stessa fascia oraria, Santoro su Rai Tre ha fatto quasi lo stesso ascolto di Bruno “chi cojo cojo” Vespa su Rai Uno. Eppure Santoro è molto diverso da Vespa nei modi, nel linguaggio e nello stile giornalistico.
Nessuna forma di comunicazione è a priori preclusa a un movimento critico, che, al contrario, può e deve considerare ogni mezzo di comunicazione potenzialmente degno del massimo impegno, realizzando stili e linguaggi politicamente qualificanti per ognuno di questi mezzi. |
gennaio - aprile 2002 |