Compagni di viaggio
di Giuseppe Cannizzaro

30 ottobre 2001
Siamo partiti per porre un breve intervallo nel nostro lavoro. Ci siamo avviati portando insieme le nostre paure e le nostre speranze e per vedere se ci sia un posto dove si possano mettere alle spalle tutte le prospettive attuali di guerra e di dolore, di incertezza e di insicurezza, che gravano su di noi.
Pretesa vana e ingiusta: è comunque opportuno esprimere e porre in comune le nostre paure e idee e ragionare e capire, per agire con tutta la consapevolezza possibile. Desidereremmo, anzi, colmare l’abisso, che viene a crearsi fra la nostra biografia e la storia che ci domina e che apparentemente ci consegna a un ruolo di ininfluenza rispetto ad essa, sicché qualsiasi cosa noi si voglia e si faccia, risulterebbe irrilevante rispetto alla direzione che assumono le vicende dell’uomo, orientate in tutt’altro modo e da altri poteri.
Al nostro arrivo ci confortano l’aria che respiriamo e la pace della sera. A cena, incontriamo una giovane donna, non bella, ma che a me pare straordinaria, per ciò che da lei è avvertito come un’ordinaria e ovvia situazione esistenziale. Sulla porta del piccolo, ordinatissimo museo contadino, allestito accanto al suo ristorante, un manifesto ricorda la recente marcia da Perugia ad Assisi.
Si chiama Silvana e il nome ricorda i boschi e la natura selvaggia di quei luoghi, che conosce e ama; si rivolge a noi con discrezione, sentendoci parlare della sorgente di un fiume ai piedi di una montagna che è la nostra meta per il giorno dopo. E poi inizia a parlare delle vivande che ci offre, che sono il “lavoro del padre”, pastore innamorato di orizzonti liberi e della transumanza, che anche lei da piccolina ha conosciuto accanto ai suoi cari e che tutt’ora vive quando giunge l’autunno; quel cibo è insieme l’amore della madre per una tradizione antica e povera, che accoglie e muta in nutrimento ciò che la terra genera per l’uomo, a prezzo di sacrificio e lavoro.
Ci racconta dei suoi mestieri e del suo impegno: del ristorante che dirige e che ha costruito, innalzando i muri, pietra su pietra, piantando in essi le staffe di ferro di sostegno delle travi del tetto, piallando le assi a una a una e ingegnandosi per risolvere i problemi dell’incastro dei pezzi di legno, della tenuta rispetto al peso delle tegole e della neve; dei suoi studi e delle sue scelte, fatte col cuore e con la mente, e della saggezza appresa nelle prove dell’esistenza; del suo accontentarsi, senza mai ambire al superfluo o alla ricchezza, perché la consapevolezza del limite dell’uomo è avvertita come una risorsa. Il suo corpo appare asciutto e forte, esercitato nella miglior palestra che esiste e che è il lavoro.
È evidente che la bellezza della natura circostante l’ha indotta a ritenere che il denaro, il potere, il successo e le cose che farebbero felice un’altra donna, non sono rapportabili alla maestà di uno spazio selvaggio e libero o a una foresta nella livrea autunnale, e sono quindi fallaci e inutili. Silvana con quello che ci dice realizza un’efficace operazione di marketing a favore della sua attività di imprenditrice turistica (nel senso più alto e consapevole del termine “imprenditrice”, che vuole alludere all’avventura della vita più che all’aziendalismo trionfante). È confortante fare il censimento dei solidi motivi per i quali la sua esistenza si carica di ragioni e di valori e diventa rigorosa scelta di vita e di azione.
Poi, e non rammento come, ma con i salti tipici di una conversazione fra amici che non ha, per fortuna, il vicolo del rigore consequenziale, il nostro discorso finisce sulla “lingua killer”: l’inglese. Amo la letteratura d’oltre Manica e d’oltre oceano, ma conduco una mia guerra (pur risultando sempre sconfitto) contro l’invadenza e la prepotenza dell’inglese. Perché avverto nel dilagare di questo linguaggio e nella distruzione che esso opera di altri, più modesti, perché meno diffusi e parlati, ma non per questo meno idonei a dare voce a pensieri e a sentimenti, la realtà di una nostra sudditanza. Siamo stati e siamo subalterni all’economia dei paesi in cui si parla inglese.
Paradossalmente la lingua inglese, rispetto alla nostra e rispetto ad altre lingue, vanta una maggiore capacità di essere “economica”: poiché soprattutto nella comunicazione orale è svincolata dall’ossequio alla lettura di ogni singola lettera, tipico di tante altre lingue (la nostra compresa, che eccetto la “h” pronuncia tutto) e risulta così più rapida perché richiede una minore “energia fonica” per la trasmissione della sequenza di parole. Nell’attuale comunicazione delle chat si giunge addirittura a ulteriori sintesi e semplificazioni come “u are” per “you are”. Il principio di economicità, beninteso, governa anche il nostro italiano ed è per questo che noi non usiamo più il termine “conciossiacosaché” e nemmeno “conciossiaché”, ma i più concisi “poiché” o “benché”, a seconda dei casi, ma nell’inglese quel principio è divenuto quasi strumento di invadenza e di potere, che inibisce spazi di libertà.
E se mancano spazi di libertà chi assume le decisioni per noi? Chi pensa per gli afghani o i talebani? E se qualcuno in Pakistan ribaltasse il potere e riuscisse a usare l’atomica? Come reagirebbero gli indiani, confinanti e nemici, anch’essi in possesso di ordigni nucleari? Era necessario che simili strumenti di morte fossero concepiti? Non è possibile smantellarli? Se nella mente dell’uomo le forze di distruzione degli altri e di sé, le forze oscure dell’Es dovessero prevalere, non sarebbe più saggio eliminare gli strumenti che renderebbero tanatos più terribile e devastante?
Ma se continuo a porre a me e agli altri tante domande una sola cosa è certa: scegliendo le ragioni della pace si corre il rischio di appartenere a uno dei due termini di un’equazione assurda: chi ha cara la pace è antiamericano – e io non lo sono – o filotalebano se non proprio filoterrorista.
Rispetto l’America e gli americani; non nutro assolutamente disprezzo per quel popolo, come per gli altri, e non percepisco nessuno di essi come ostile. E sono rimasto addolorato dalla tragedia dell’11 settembre. Mi pare legittimo però chiedersi se esista un altro modo, diverso dalla guerra, per sconfiggere il terrorismo; un modo alternativo (per esempio un’operazione mirata contro Al Qaeda) a un conflitto di ampia portata, che non produca inutili sofferenze e non faccia germinare altro odio.
Non è, infatti, possibile trovare giustificazioni per un morto innocente, dovunque ciò accada e da chiunque sia colpito. Ogni conflitto è origine di stragi di vittime innocenti, che spesso sono tanto lontane da non far giungere sino a noi l’eco della loro disperazione e del loro dolore.
Il padre e la madre di un giovane scomparso nel crollo delle Torri hanno chiesto al presidente Bush di non utilizzare il loro dolore come pretesto per infliggere ad altri altro dolore. E il cardinale Martini si chiedeva provocatoriamente, dopo l’11 settembre, se non fosse l’amore l’arma vincente, se esso non dovesse essere pensato come l’unica risposta cristiana possibile.
Ribellarsi al terrorismo per amore, così come facevano contro il nazifascismo le formazioni partigiane cattoliche operanti nel territorio bresciano, che ebbero in Teresio Olivelli una delle figure meno conosciute, ma più avvincenti. Forse oggi di Olivelli si ricorda soltanto la Preghiera dei ribelli per amore:
«Signore, che tra gli uomini drizzasti la tua croce, segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della materia, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele, che in noi e prima di noi ha calpestato Te, fonte di libera vita, dà la forza della ribellione».
Nel periodo immediatamente precedente alla Resistenza egli aveva elaborato una teoria assai interessante sul capitalismo, generatore di infinite ricchezze e miserie, organizzatore senz’anima di processi di “anarchia della produzione”, fautore dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi del dispotismo e destinato a causare indigenza e guerra.
Dunque ribellarsi per amore per l’uomo e anche contro il pregiudizio degli altri uomini, perché da un po’ di tempo non si può dissentire, senza subire il peso del preconcetto e del disprezzo altrui.
Perché è diventato così difficile capire le ragioni della pace? Perché questo traguardo deve sempre apparire lontano? Perché la politica deve arretrare e lo strumento della decisione deve essere assunto soltanto dalle armi? Perché non ragionare sulle conseguenze di ogni azione?
Agli attentati dell’11 settembre doveva giustamente seguire una reazione; occorreva, però, individuare quella giusta, non una foriera di nuove e più tragiche reazioni. Come arrestare, se non con l’eresia della ribellione dell’amore, la sterminata quantità di odio che questo conflitto sta provocando? Perché è così difficile capire le ragioni della disperazione e costruire ragioni di speranza?
Domani sperimenteremo come può essere lontana una meta, quanto sacrificio e sudore essa costi, ma anche che di quella fatica sarà valsa la pena, perché la bellezza e la maestà che ci circonderanno compenseranno lo sforzo patito.

31 ottobre 2001
Ho sempre fotografato l’alba. Nel silenzio, quando tutti dormono, mi alzo ed esco per vedere l’apparire della prima luce oltre il contorno dei monti e degli alberi, netto nel buio, e il rosso tenue dei brandelli di nubi. C’è nell’aurora la promessa di una giornata di sole.
La valle sotto di me è in pace e pare che quel luogo non conosca nulla che lo turbi. Anche i ponti di ferro che laggiù, da qualche parte, scavalcano il fiume, hanno perso il ricordo della loro origine di guerra e si inseriscono in un paesaggio sereno.
Ci avviamo poco dopo su un sentiero tra il caldo splendore di un bosco di latifoglie rosso e oro e procediamo spediti in salita verso i monti. La fatica del cammino e il peso dello zaino (carico sino all’inverosimile) sono cose di poco conto, se le si confronta alla natura intorno a noi, percepita con tutti i sensi: come spettacolo di colori e di luce, come calda carezza del sole e del vento, come profumo e sapore dell’aria, come suono delle creature viventi del bosco e come silenzio dell’uomo. Non si avverte, infatti, la sua presenza. Compagni ci sono gli alberi e le pietre, le poche nuvole in cielo e il rumore dei nostri passi sulle foglie secche che fanno da tappeto sul sentiero. Da lontano ci guardano le creste delle vette, che raggiungeremo un’altra volta, e alcuni uccelli in volo. Sono corvi neri e ci giunge fievole il loro gracchiare; ma ancora più distante è visibile una coppia di rapaci che planano in grandi cerchi con le ali tese.
Mentre raggiungiamo un piano in quota, un tempo fondo di un lago d’origine glaciale, sulle nostre teste passano con un rombo assordante degli aerei, una coppia di velivoli militari, che si dirigono verso il mar Tirreno. Il rumore prodotto rimbalza in basso fra le pareti dei monti e turba, con il suo fragore prima insostenibile e poi con un brontolio che si smorza pian piano, la pace di quel luogo. Non passa molto tempo che altri due aerei, non so se gli stessi di prima, perfettamente visibili, splendenti nel sole, sorvolano i monti; e di nuovo il rumore ci circonda e assale con violenza, forte, prolungato, molesto anche quando si attenua.
Salvo brevi intervalli i passaggi dei caccia a varie quote proseguono in tutta la giornata; certamente si sta svolgendo un’esercitazione aerea che ha scelto come scenario i monti di quel parco e deve trattarsi di una fase di addestramento complessa, perché sin dalla sera precedente avevo scorto, nel buio della sera, sopra il paesino in cui alloggiamo, le luci di posizione di una coppia di aerei e ne avevo udito il rombo.
La presenza di quei velivoli militari appare fastidiosa e stonata. Ci troviamo in un’area che si è scelto di proteggere dall’insulto di un invadente contatto con l’uomo; che ha come caratteristiche l’assenza nel cielo, nelle acque e sul suolo di ciò che può compromettere l’equilibrio ambientale; che non consente l’accesso nel suo cuore, ancora intatto, dei mezzi di locomozione a motore per tutelarne l’integrità; che risulta il meno antropizzato d’Italia; nel quale si entra col rispetto che si deve a uno dei pochi santuari superstiti della natura; e che è, mentre lo attraversiamo, immerso in una pace e solitudine straordinarie e affascinanti.
Se il parco ha diritto al più assoluto rispetto, lo ha anche nei confronti di chi col suo passaggio aggredisce il suo silenzio e scarica gas di combustione. Non si capirebbe altrimenti per qual motivo si vuole inibire la presenza di quei pochi mezzi automobilistici che può tollerare la modestissima e impervia viabilità interna, e permettere, invece, che un inquinamento ben più pernicioso venga dai sorvoli di aerei militari, che distruggono certamente più ossigeno e producono più fragore e abbondanti scorie gassose nocive.
Penso che l’ora del riconoscimento e dell’accettazione – da parte di tutti – del fatto che la natura è titolare, come un essere umano, di “diritti soggettivi” non è ancora giunta. Mi chiedo se ci si renda conto che solo accogliendo nel cuore e nella mente l’idea di una preservazione integrale dei brandelli che restano di un paesaggio ancora intatto, potremo educare noi stessi al rispetto di ogni forma di vita.
Passiamo davanti a un albero millenario che era il simbolo di questo territorio; pochi anni or sono è stato, per insipienza e oltraggio, incendiato. Venni, qualche giorno dopo il crimine, a vederne l’agonia, come si fa quando si va a visitare chi sta per lasciarci. Ora è solo uno scheletro bianco, coricato su un fianco, che conserva ancora una traccia della bellezza che aveva. Per lui non c’è stato rispetto, come per i boschi decimati dai tagli nel secolo scorso, come per gli animali selvaggi cacciati senza requie, come, mi pare, non ce ne sia oggi per il silenzio, violato, di questo luogo. Il rombo degli aerei ci accompagna anche nel ritorno, mentre scende la sera. L’esercitazione termina con il calare del sole.
Usciamo dal bosco mentre sorge la luna.

1 novembre 2001
Dopo aver guardato la nuova aurora, un po’ mesto mi preparo a partire. Anche per i miei compagni di cammino è forte la nostalgia per quel che abbiamo visto il giorno precedente. Mentre il paesino si anima per l’arrivo di chi vi trascorrerà il fine settimana, andiamo via.

gennaio - aprile 2002