è uno di Quei Libri Che Meritano Di Essere Letti(1)
È l’epopea popolana di Iangiuasand’, protagonista capatosta che nasce negli anni Trenta a Bari, e più precisamente nel quartiere Libertà, e più precisamente in via Mirenghi. E nasce sfortunata, esattamente nove mesi dopo la morte sul lavoro del padre, venendo quindi accolta dalla madre come una disgrazia. E nero è il colore dei vestiti di questa bambina fino al giorno in cui si ribella, dopo aver constatato che nella vita gli altri bambini vestono tutti gli altri colori.
Vessata da sua madre, Iangiuasand’ reagisce a tutto questo nero e non abbasserà mai la testa di fronte a nessuno; scapperà con Cilluzz’, che non ama, pur di sfuggire al fidanzamento con un altro ragazzo voluto dalla madre. E inesorabilmente scivolerà giù nei bassi di un’esistenza vuota, picchiata dal suo uomo e inseguita dal di lui padre, pescivendolo sporco e dai bassi istinti da soddisfare ad ogni costo.
Il romanzo è molto ben architettato e la narrazione è mossa da quell’urgenza che anima le più alte espressioni dell’uomo. L’autore dà vita a una serie di personaggi tremendamente vivi e veri, trabordanti dalle pagine con tutti i loro odori e mal’odori. È un viaggio nell’ennesimo Sud del mondo, allietato da una popolazione brulicante di poveri, disadattati e nullafacenti; è una discesa in un inferno dove si vaga di girone in girone, dove non ci sono Intelligenze Ordinatrici e che non conosce Salvazioni. Questa gente, tagliata fuori – anche a causa della propria incosclenza – dalla Storia e dai meccanismi che la regolamentano, conosce solo il soddisfacimento delle proprie urgenze prime. Vive in un presepio incerto e malcostruito dove il bue e l’asinello sono stati rubati. O sono scappati da soli. O semplicemente non vi giunsero mai. E tuttavia c’è una donna che non si confonde, che non si rassegna alla miseria morale, che si ribella senza l’egida del femminismo, che sogna, seppure i sogni hanno le sembianze e la carta dei fotoromanzi.
Questo romanzo è scritto in una lingua efficacissima, un impasto di italiano e dialetto, o meglio è l’italiano che i protagonisti parlerebbero, o si sforzerebbero di parlare.
Il nodo di Capatosta è tutto nella foto di copertina, attraversata da quello strappo che è lo strappo che ci separa da un passato non remoto eppure immensamente distante. Un passato che forse i più giovani non conoscono, tutti presi dalla telefonia mobile di un presente senza volto. E però veniamo tutti – o quasi – di lì e non dovremmo mai dimenticarlo, nè tanto meno vergognarcene.
1) Beppe Lopez, Capatosta, Mondadori, Milano 2000. |
gennaio - aprile 2002 |