Benché l’esercizio dell’Impero sia sempre lordo di sangue, il concetto di Impero è sempre votato alla pace – una pace perpetua e universale fuori della storia.
Michael Hardt
La teoria moderna della sovranità fondava buona parte delle sue certezze sulla distinzione tra il vicino e il lontano, tra l’interno e l’esterno, tra il dentro e il fuori. La sovranità moderna operava in entrambe queste direzioni, connessa come era all’idea di confine, e al potere che questo aveva di separare e congiungere, al contempo, gli stati: «Lo Stato si declina, ab origine, al plurale, come pluriverso statale»(1).
Nell’era della globalizzazione, il paradigma della sovranità, intesa come potere di determinazione del dentro e del fuori, delle forme della inclusione e della esclusione, è messo compiutamente fuori gioco.
Il potere globale non cancella, di certo, l’insieme dei controlli politici, delle funzioni statali e dei meccanismi di regolamentazione che governano la produzione e lo scambio economico/sociale. Esso, tuttavia, non si dispiega nella forma della sovranità riconducibile all’apparato statale, nemmeno in quella di un ipotetico “stato mondiale”. Le sue modalità di manifestazione sono riconducibili a quella serie di organismi nazionali e internazionali uniti da una logica di dominio unitaria, che chiamiamo Impero, secondo la definizione di Hardt e Negri.
Nell’Impero non ha più alcun valore la “distinzione paradigmatica” tra un dentro e un fuori dello spazio sovrano, ciò a cui si assiste è «l’internalizzarsi del rapporto tra inclusione e esclusione»(2).
Sono scomparsi i centri territoriali del potere, che con i loro confini e barriere consentivano di individuare l’epoca dell’imperialismo e permettevano di leggere facilmente le gerarchie imperialiste fra nazioni e continenti. L’ordinamento sopranazionale, globale, verso cui tutto si riorganizza ha, come scrive Hardt, la struttura di un «apparato di dominio decentrato e deterritorializzante che incorpora progressivamente l’intero globo nelle sue frontiere aperte in continua espansione»(3).
L’Impero non si presenta, però, soltanto come l’esercizio del dominio sulla intera totalità spaziale, favorito dal tramonto dei confini territoriali. Esso, infatti, travalica anche quei limiti temporali che potrebbero ridurlo a una fase transitoria della storia: «il concetto di Impero si presenta non come un regime storico che ha avuto origine nella conquista, ma piuttosto come un ordine che sospende completamente la storia e quindi fissa lo status quo per l’eternità»(4).
Questa fluidità spazio/temporale consente alla forma di dominio imperiale di esercitarsi sulla natura umana, pervadendo l’intera vita sociale e regolando le interazioni umane: «L’oggetto del suo dominio è la vita sociale nel suo insieme»(5).
La fine dell’ordine imperialistico, compatibile con la sovranità statale, investe necessariamente le forme dell’intervento militare, che nella modernità venivano regolate dalle convenzioni vigenti fra gli stati-nazione. Lo stato definito territorialmente associava, infatti, alla distinzione fra interno e esterno, quella fra militari e civili, quella fra esercito e polizia, quella fra campo di battaglia e retrovia e, soprattutto, quella fra guerra e pace. Nel mondo globale cade, invece, la distinzione fra nemico interno e nemico esterno; la guerra non può essere più delimitata in coordinate spazio-temporali, la figura del “nemico” che si impone ha i caratteri della mobilità, della transnazionalità e della infranazionalità.
Coloro che, soltanto una decina di anni fa, dinanzi al disgregarsi dei sistemi di governo comunisti, celebravano l’avvento di un’epoca di pace, di prosperità e di sicurezza, sono chiamati a interpretare un decennio che si è aperto con la guerra del Golfo e che, fino a oggi, ha fatto registrare più di sessanta conflitti e lo stallo di tutti i cosiddetti “processi di pace” (Medioriente, Irlanda del Nord, Paesi Baschi).
Gli scontri disciplinati dalla tensione americano-sovietica, tipici della guerra fredda, hanno ceduto il posto a quella che Antony Cordesman, analista del Center for Strategic and International Studies di Washington, ha definito la guerra asimmetrica.
Da un punto di vista strategico, gli anni 1989-91, con il crollo dell’URSS, rappresentano il momento di massima crisi di quella “composizione di forze” che, nell’epoca del bipolarismo, aveva consentito di disciplinare i vari schieramenti regionali, mantenendo sostanzialmente il controllo dei piccoli conflitti locali o delle piccole guerre terroristiche, nelle forme periferiche e decentrate della “guerra a bassa intensità” (low intensity warfare).
In questo contesto, la Guerra del Golfo costituisce il momento di svolta decisivo(6). In quel conflitto, l’imperialismo statunitense ed europeo, grazie a bombardamenti da alta quota, all’uso di missili cruise e a una efficace rete di informazioni satellitari, è riuscito, senza mettere in pericolo la vita dei propri soldati, a produrre nel territorio nemico un livello di distruzione insostenibile.
Sebbene caratterizzata da forte dissimmetria, vista la differenza quantitativa tra le forze in campo, la Guerra del Golfo non può essere definita ancora un conflitto asimmetrico. L’asimmetria può essere predicata, invece, per l’attacco dell’11 settembre e per alcuni suoi antecedenti. Una azione asimmetrica, per esempio, è già registrabile nel 1983, in Libano, quando una bomba uccise 239 marines, o, più di recente, nell’ottobre del 2000, quando nel porto yemenita di Aden una piccola imbarcazione con due uomini a bordo si schiantò contro la nave da guerra americana USS-Cole, uccidendo 17 soldati e provocando ingenti danni. Possiamo parlare di asimmetria quando si è in presenza di significative «differenze qualitative nei mezzi impiegati, nello stile e nei valori dei nuovi nemici. In altri termini, allorché una potenza come gli Stati Uniti ha affermato la propria egemonia tanto sull’andamento del mondo che nella guerra convenzionale, i loro nemici e le loro vittime ricorrono per combatterla ai mezzi di lotta non convenzionali e asimmetrici, schivando la forza militare e concentrando i propri attacchi sui loro punti più vulnerabili»(7).
«Il nemico torna a incombere nella realtà quotidiana della vita. A mano a mano che sbiadiscono o crollano i confini rassicuranti oltre i quali si riconosceva e mirava lo straniero, si torna ora a temere chi preme vicino»: con queste considerazioni Mortellaro recupera il concetto di “guerra civile molecolare”, utilizzato da Enzensberger per descrivere i processi conflittuali endogeni nei quali non è più possibile distinguere fra distruzione e autodistruzione, e invita a individuare «le nuove linee di faglia che frangono e terremotano il mondo»(8).
La suggestiva immagine della “guerra civile molecolare”, combattuta dalle fazioni che si affrontano all’interno di una polis globale, può funzionare se non è presentata semplicemente come espressione di un conato di violenza irrazionale quanto diffusa, ma se viene calata nella realtà della globalizzazione.
La nostra attenzione deve concentrarsi sulla natura mutipolare del conflitto che abbiamo sotto gli occhi.
L’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, nel suo recente volume Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the 21st Century(9), ha insistito sugli effetti politici prodotti dalla globalizzazione sulla tradizione “eccezionalista” americana, da sempre impegnata a interpretare le crisi internazionali come temporanei eventi perturbatori dell’ordine politico. Nel mondo globale, secondo Kissinger, le crisi costituiscono degli importanti indicatori della “inevitabile trasformazione dell’ordine internazionale” e costringono a formulare una teoria della crisi dello stato-nazione.
La profonda modificazione subita dallo stato, come apparato che legittimava i suoi assetti interni e proiettava al di fuori la sua potenza, almeno per difendere i propri cittadini da un nemico esterno, conduce Kissinger a riconoscere, in modo esplicito, che “è mutato profondamente il concetto di ciò che è estero”.
La lunga espansione globale del ciclo liberista non solo ha alterato profondamente i rapporti di potenza ai quali gli americani si erano abituati, ma ha prodotto quell’“Impero del capitale collettivo” al quale, come sostiene Negri, «partecipano altrettanto bene i capitalisti anglo-sassoni quanto quelli europei, quelli che cominciano a costruire le loro fortune nella corruzione russa quanto arabi, asiatici e i pochi africani che possono mandare i figli a Harvard e i soldi a Wall Street»(10).
I processi di aggregazione che stanno avvenendo fra gli stati-nazione storici, consapevoli ormai dei limiti di azione connessi alle loro dimensioni locali, puntano, quindi, alla costruzione di ampie unità politiche in grado di giocare, all’interno della fase imperiale, un significativo ruolo globale. Nella sua analisi dell’opera di Kissinger, La Barbera coglie queste entità politiche nel NAFTA per il Nord America, nel MERCOSUR in America Latina, nell’ASEAN nell’Asia Sud-orientale e, soprattutto, nell’UNIONE EUROPEA.
In questa prospettiva, sarebbe oltremodo interessante indagare, per esempio, i complessi interessi che hanno spinto Russia e Cina ad attivarsi immediatamente nella lotta al terrorismo internazionale scattata dopo l’11 settembre(11).
Nel nostro intervento, tuttavia, sarà l’azione europea a essere analizzata in modo particolare, dal momento che a partire da essa sarà più agevole chiarire gli obiettivi politici che la stagione attuale del riformismo intende perseguire.
L’ideologia dell’europeismo imperialista tende a presentare la costruzione dell’unità europea come una importante forma di superamento dei conflitti sanguinari prodottisi nell’epoca dello stato-nazione. Cogliendo l’origine della guerra e della violenza nelle forme politiche degli stati nazionali e nelle ideologie nazionaliste, si tende a nascondere il ruolo giocato dalla lotta interimperialistica nella produzione dei conflitti internazionali. Questa azione di occultamento non consente di comprendere appieno che la crisi dello stato-nazione, cioè dell’involucro statale della maturazione imperialista di fine Ottocento e del Novecento, non ha avuto come conseguenza la dissoluzione della sua violenza imperialistica, che invece si è espansa a livello continentale, per poter far fronte alla nuova fase della contesa imperialistica: «L’europeismo – scrive La Barbera – sta alla contesa odierna come il nazionalismo stava a quella del primo Novecento. Superare il nazionalismo nell’europeismo non significa superarne le guerre e la violenza imperialistica, ma adeguare la dimensione dell’unità politica alla violenza moltiplicata delle forze continentali»(12).
C’è, quindi, una ragione profonda per non insistere sui vecchi temi dell’antiamericanismo e per non lasciarsi fuorviare da essi. Proprio guardando alla storia degli USA possiamo riconoscere, con Negri, che “essi sono stati meno capaci di essere imperialisti di quanto non lo fossero inglesi, francesi, russi e olandesi” e che, quindi, sebbene il governo americano tenda ad assumere la guida del governo imperiale, non si può far coincidere tout court l’Impero con gli USA.
Ciò su cui occorre, invece, insistere è l’essenza capitalista del dominio imperiale: «l’Impero è semplicemente capitalista, è l’ordine del capitale collettivo, cioè della forza che ha vinto la guerra civile del XX secolo»(13).
Si tratta ora di valutare quanto il riformismo odierno altro non sia che l’espressione politica della volontà imperiale dell’area europea e, quindi, un aggiornamento raffinato di quella politica, messa in atto dallo stato imperialista contro il proletariato, che fu il riformismo classico.
La combinazione di riformismo e imperialismo europeo può, a nostro avviso, essere efficacemente discussa a partire dal volume di Giuseppe Vacca Riformismo vecchio e nuovo. Questo testo ci consente, inoltre, di cogliere il tipo di analisi storico-politica in base alla quale si va delineando la strategia politica della maggioranza dei DS. Vacca è, infatti, tra i firmatari della mozione La sinistra cambia per governare il futuro. Con l’Italia. Nell’Ulivo, collegata, nel 2° Congresso Nazionale del partito, a Fassino.
Sia il volume che la mozione, da esso implicitamente e fortemente ispirata, si aprono con alcune considerazioni sulla fine della guerra fredda e sulla crisi italiana dei partiti della Prima Repubblica. Questi due eventi vengono assunti come il momento di avvio di una «ricerca volta a costruire anche in Italia un partito riformista di rango europeo»(14).
Il fallimento di questa azione di ricerca, da imputare, secondo l’autore, alla mancata definizione della “cultura politica del nuovo partito”, ha manifestato tutta la sua gravità nel momento in cui si è ripercosso sull’azione dei governi dell’Ulivo: «Fra le ragioni della debolezza del governo D’Alema – scrive Vacca – vi è stato un deficit di cultura riformistica che ha riguardato e riguarda anche il suo partito»(15). Questa riflessione appare pienamente condivisa dalla Mozione Fassino: «[…] occorre dare una convincente spiegazione sul perché, raggiunto lo straordinario obiettivo della partecipazione italiana all’euro – meta intorno a cui l’Ulivo aveva trovato coesione, determinazione, sintonia con il Paese – si sia annebbiato il profilo riformatore dell’azione politica e di governo del centrosinistra e si sia incrinata la coesione dell’Ulivo. Una seria riflessione mette in evidenza come questione cruciale un “deficit di cultura riformista” […]»(16). Nella seconda tesi, proposta dalla stessa mozione, si afferma esplicitamente: «[…] La spiegazione della nostra sconfitta è più profonda. Essa, in particolare, va individuata in un deficit di cultura riformista […]»(17).
Affinché queste espressioni non rimangano formule vuote, occorre tentare di capire in cosa consista la “cultura riformista” di cui si sarebbe deficitarii.
Torniamo alle parole dell’ideologo della mozione. Vacca afferma: «Oggi l’interesse nazionale deve combinarsi con quello comune europeo: questo è l’orizzonte del nuovo riformismo»(18). La genericità di questa affermazione, collocata nella Prefazione al volume, viene man mano circoscritta, fino a che il terreno su cui quella combinazione è destinata a realizzarsi è individuato proprio nell’azione militare: Dopo l’Euro, la difesa comune, recita il titolo del capitolo conclusivo, che riprende con poca fantasia il titolo scelto da D’Alema per la conferenza tenuta al MIT di Boston nel marzo del 1999: Dopo l’euro e prima della difesa comune.
Ripercorrendo i nessi di questa argomentazione, riusciremo forse a capire come un riformismo “deficitario” possa diventare un riformismo “abile ed arruolato”.
Il riassetto della sinistra italiana all’interno di un partito riformista di rango europeo, con vocazione governativa, deve partire, secondo Vacca, da “una visione autonoma e condivisa della storia d’Italia e del nostro tempo”. Non a caso, un passaggio chiave del volume è costituito dal capitolo intitolato Percezione del Novecento. Il sapere storico viene ad assumere, nella costruzione della cultura del nuovo partito riformista, un valore strategico, dal momento che la riunificazione delle correnti del riformismo italiano è fatta dipendere da una analisi dei modi in cui esse furono divise e contrapposte durante la guerra fredda.
A impedire alla sinistra italiana una efficace transizione verso il riformismo è stato, nell’analisi di Vacca, il modo in cui è stato vissuto l’89: «In Italia, dove fino all’89 il sistema dei partiti risentiva delle condizionalità della guerra fredda più che in ogni altro paese europeo, quella mentalità è ancora molto influente. Le élite politiche e intellettuali della sinistra stentano a recepire i risultati della nuova ricerca storica e talvolta non sembrano accorgersi della neutralizzazione che nella loro azione politica provoca il permanere, anche nella loro mentalità, delle vecchie categorie»(19).
L’intelligenza collettiva di sinistra appare, quindi, funestata da una grande contraddizione, che, secondo Vacca, le ha impedito di sviluppare una egemonia culturale, sebbene fosse al governo della maggioranza dei paesi europei. La consegna, pertanto, è di abbandonare tutte quelle “narrazioni anacronistiche” e quelle “rappresentazioni sorpassate” che costituiscono gli «stereotipi ideali della guerra fredda, sopravvissuti alla sua fine.»(20).
Il primo atto da compiere per definire il profilo culturale del nuovo partito deve consistere, quindi, nel ripensamento della storia del Novecento «oltre le contrapposizioni della “guerra civile europea” e il loro prolungamento nell’età della guerra fredda […]»(21).
La mozione fassiniana sembra recepire totalmente questa argomentazione nella sedicesima tesi: «[…] le ragioni che a lungo hanno diviso e contrapposto le diverse anime della sinistra stanno alle nostre spalle. La storica contrapposizione tra movimento comunista e socialdemocrazia è stata risolta dal crollo del Muro di Berlino e dal riconoscimento che l’esperienza del riformismo socialdemocratico è l’unica sinistra che ha vinto le sfide della società contemporanea. Le divisioni politiche che a lungo hanno contrapposto PCI e PSI sono anch’esse consegnate alla storia e oggi gli eredi di quei partiti si riconoscono in comuni valori e idealità, appartengono alle stesse organizzazioni socialiste internazionali, stanno insieme nell’Ulivo»(22).
L’unità della sinistra riformista, ovviamente, non è il fine dell’azione politica, essa è uno strumento per conseguire obiettivi ben più importanti. A questo punto, la riflessione sulla fine della guerra fredda viene condotta da Vacca per descrivere lo scenario politico all’interno del quale il riformismo è chiamato a operare.
La crisi di quella forma di regolazione delle relazioni internazionali, che è stato il bipolarismo della guerra fredda, e la conflittualità economica che ne è scaturita e dalla quale sono emerse, come abbiamo visto attraverso le analisi di Kissinger, aggregazioni economico-politiche sopranazionali, impongono, secondo Vacca, una “regolazione cooperativa dell’economia internazionale”, volta a evitare il rischio di conflitti neo-mercantilisti di dimensioni continentali. Ed è a questo proposito che il riformismo viene ritenuto indispensabile: «Se in diverse aree del mondo si è consolidato un nuovo consenso riformistico, la spiegazione più persuasiva a me pare la seguente: nelle condizioni create dalla “globalizzazione” dell’economia mondiale, la modernizzazione competitiva dei sistemi nazionali è possibile (o più agevole) solo se fra i gruppi sociali che ne percepiscono le opportunità si creano convergenze politiche che favoriscono la concertazione degli interessi per ridistribuire fra essi i rischi e i vantaggi dell’impresa. Se è così, non può sorprendere che il consenso riformistico sia tornato a crescere, perché le culture politiche più capaci di concertare, contrattare, scambiare sono quelle “lavorate” dalla storia del socialismo e della democrazia, da una lunga esperienza dell’organizzazione degli interessi, orientate ai valori della pace, della tolleranza, dell’internazionalismo, della coesione sociale e della solidarietà»(23).
Ciò che, in questo passaggio dell’analisi, merita di essere evidenziato è il ritorno sostanziale delle procedure del “vecchio riformismo”. Cioè di quella forma di “controrivoluzione preventiva” messa in atto dagli stati imperialisti quando la conflittualità di classe rischiava di diventare esplosiva a causa dell’esacerbarsi delle contraddizioni interimperialistiche. Quella che Vacca oggi chiama la “concertazione degli interessi” ci sembra fortemente imparentata a quella politica di modeste concessioni con cui il “vecchio” riformismo è riuscito ad arginare le nascenti forme di lotta, per poter poi discernere quella parte del proletariato disposta a farsi integrare nello sviluppo imperialistico da quella su cui devono scatenarsi gli apparati della repressione.
Questi obiettivi sono efficacemente coperti dalla stessa falsa dialettica vecchio/nuovo riformismo, nell’intervento con cui Amato apre il primo numero della rivista Italianieuropei, di cui è condirettore con D’Alema.
Preso atto della crisi degli orizzonti statali all’interno dei quali il “vecchio” riformismo aveva elaborato le sue proposte politiche (legislazione sociale, erogazione pubblica dei servizi essenziali, modulazione dell’intervento pubblico), Amato ritiene necessario salvaguardare le finalità all’interno delle quali esse furono inscritte: «Il riformismo proprio perché era attento alla riduzione delle disuguaglianze, proprio perché allargava la cittadinanza, proprio perché mirava all’inclusione degli esclusi, riduceva l’asprezza del conflitto che la dinamica economica, lasciata a se stessa, avrebbe invece elevato; creava conseguentemente coesione e rendeva governabili le società di mercato». Al riformismo si attribuisce, così, il merito di aver bilanciato il potenziale divaricante e distruttivo della forza squilibrante del capitalismo, che, in ogni caso, secondo Amato, ci ha permesso di godere di «economie forti e dinamiche nella produzione di benessere»(24).
Affinché la funzione riequilibratrice del riformismo, evocata dalle parole di Amato, non proietti sul futuro le tristemente note ombre repressive, connesse al controllo politico delle masse, D’Alema si impegna a indicare le “magnifiche sorti e progressive” del “nuovo” riformismo.
Nello stesso numero della rivista Italianieuropei, subito dopo l’intervento di Amato, D’Alema vincola fortemente il futuro del riformismo italiano alla ricomposizione unitaria della sinistra. Una ricomposizione che, a suo parere, si fonda «su un principio unificante, nasce intorno a una scelta di campo internazionale e a un’opzione storica; quella dell’Europa e del socialismo europeo. Vive qui la vera discontinuità col passato»(25).
Il richiamo all’Europa assume, nelle considerazioni di D’Alema, un carattere “militante”. La condizione perché il riformismo si rafforzi viene fatta risiedere nella costruzione di un progetto in grado di «trasformare l’Europa in un attore globale che conta e decide sulla scena internazionale» e di creare «la possibilità per l’Europa di esercitare un peso effettivo dentro il nuovo contesto geopolitico e, insieme, l’opportunità per i singoli paesi di ritagliare per sé un ruolo riconoscibile e coerente con le proprie vocazioni»(26).
Queste prospettive del riformismo, volte a far divenire l’Europa un “attore politico globale”, D’Alema, in verità, le ha enunciate con forza ai tempi della sua presidenza del consiglio e, particolarmente, in occasione della guerra in Kosovo(27). Tuttavia, è proprio su queste prospettive che, secondo il suo massimo esegeta, l’attuale presidente dei DS non è stato affatto compreso dal suo partito.
Vacca, infatti, non manca di attaccare il “posizionamento del tutto sfuocato dei DS sul tema della difesa comune”, proprio rispetto a quello che definisce eufemisticamente «il test della crisi del Kosovo»(28). Questa guerra viene, infatti, ritenuta rivelatrice della “incompiutezza della evoluzione riformistica della cultura politica dei DS”.
Richiamandosi a D’Alema, Vacca presenta la decisione dell’intervento italiano come una «prova di maturità riformistica e di notevole capacità di percepire le novità del mondo post-bipolare […]», non compresa dai DS, che si rivelarono incapaci di influire sull’opinione pubblica di sinistra, attestatasi su una valutazione della guerra «non solo del tutto sfasata rispetto ai problemi che si pongono nel mondo post-bipolare, ma anche anacronistica rispetto al sistema delle relazioni internazionali».
Anziché muoversi coerentemente con «i principi e i contenuti dell’azione di governo» i DS, secondo Vacca, furono «condizionati dai modi in cui il dibattito veniva impostato dagli oltranzisti dell’ingerenza umanitaria, ovvero dai fautori del pacifismo tradizionale». In questo modo, non solo venne compromessa l’azione di governo, ma addirittura il criterio fondamentale del riformismo, cioè la responsabilità del partito rispetto alla funzione di governo: «Se un partito – scrive Vacca – che per di più è la principale forza della coalizione, è indotto a distinguersi dal suo governo, viene a mancare un pilastro della sua funzione riformistica»(29).
Queste argomentazioni dovrebbero far meditare tutti coloro che, all’interno dei DS, ritengono la riflessione sulla “forma partito” un tema decisivo per la costruzione di una sinistra “aperta, plurale, moderna ecc. ecc.”. In un documento precongressuale, sottoscritto da vari dirigenti DS indipendentemente dalle mozioni sostenute, veniva affermato: «Un partito chiuso, ostile e indifferente alla trasparenza e al rispetto delle regole democratiche non ha senso, se non per un ristretto ceto politico: nessuna, nessuno, nella società moderna di cui siamo parte, è più disposto a sacrificare la sua libertà, la sua autonomia, la sua creatività alle ragioni superiori di un futuro glorioso. Mentre molte, molti sono disponibili a dedicare una parte del loro tempo alla politica e all’azione pubblica se comprendono lo spazio e il senso della loro partecipazione [...] Per fortuna, il riformismo – la necessità, cioè, di trovare risposte nel presente – è un portato del nostro tempo»(30). La fiducia riposta nel “riformismo”, come promotore di mutamenti significativi della “forma partito”, ci appare, in generale, fuori luogo e, particolarmente in questa fase storica, del tutto inefficace.
Proprio la posizione assunta sull’intervento militare in Afghanistan può risultare decisiva per comprendere le dinamiche interne del “nuovo riformismo” e per valutare ciò che c’è da attendersi da esse.
È cronaca recente. Il 5 novembre, dopo la riunione del coordinamento dell’Ulivo, Fassino annuncia con Rutelli la posizione ufficiale della coalizione. Il comitato dei reggenti dei DS, fra le proteste di molti dirigenti del partito31, viene convocato nella mattinata del 6 novembre, per prendere atto di una decisione già assunta. L’area Salvi, con Pettinari, denuncia il paradosso di una convocazione, diretta a discutere della crisi internazionale, «ventiquattrore dopo che Fassino, con Rutelli, ha già deciso cosa fare»(32). Il 7 novembre in Parlamento la maggioranza dei deputati DS approva la risoluzione dell’Ulivo, contenente il dispositivo comune a quella del governo, mentre il “correntone” che sosteneva la Mozione Berlinguer si divide al momento della votazione. Vengono, così, approvate le risoluzioni per la partecipazione dell’Italia alle operazioni militari.
A una valutazione sommaria, sembrerebbe che il 7 novembre si sia riproposta la linea tracciata da D’Alema, ai tempi della guerra del Kosovo. Le cose ci appaiono più complesse.
D’Alema, in realtà, ha rivendicato apertamente la partecipazione dell’Italia alla guerra in Kosovo come un grande successo della sua azione di governo: «[…] la crisi del Kosovo ha prodotto di fatto la creazione di nuove reti di rapporti. Per esempio le teleconferenze quotidiane fra i Ministri degli Esteri di cinque paesi: Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia. Con il Kosovo noi siamo entrati in tale gruppo. Non sta scritto in nessun documento ufficiale, ma di fatto è nato attorno al Kosovo una specie di Club. […]
È difficile definire le regole di appartenenza al giro nobile dei grandi, non esiste uno statuto. Di fatto ti rendi conto di essere entrato in una certa agenda di telefonate del presidente degli Stati Uniti»(33).
A chi, soprattutto a sinistra, ha stigmatizzato l’atteggiamento interventista di Berlusconi, ritenendolo dettato dal desiderio di non rimanere escluso dal giro dei grandi (si ricordi il vertice ristretto tenutosi a Gand, il 19 ottobre 2001, tra i premier di Gran Bretagna, Francia e Germania), ci sembra opportuno ricordare che ad associare la guerra all’ingresso in club esclusivi ci aveva pensato già D’Alema. L’affermazione “è nato attorno al Kosovo una specie di Club” deve farci riflettere a lungo, soprattutto se pensiamo a quanto è morto, e continua a morire, intorno al Kosovo.
Tuttavia, senza perdersi in semplici condanne morali, che non ci porterebbe molto lontano, è opportuno far emergere gli obiettivi di fondo dell’azione riformista di D’Alema.
In una bellissima riflessione sulla guerra in Jugoslavia, Zolo, in accordo con Dahrendorf, ha insistito sui colpi inferti da quel conflitto all’assetto democratico dei paesi occidentali. Proprio la forma del “club”, richiamata da D’Alema, fa pensare a una struttura transnazionale in grado di gestire un proprio “diritto alla guerra”, fuori dalle regole del diritto internazionale e dai pronunciamenti delle assemblee rappresentative(34).
Noi non crediamo, tuttavia, che l’azione del governo guidato da D’Alema abbia inciso più di tanto sul deperimento dei valori democratici. Riteniamo, piuttosto, che la posta in gioco fosse ben altra e che fosse, e continui a essere, sostanzialmente appetita dall’intero partito, anche se non con la stessa schiettezza dell’attuale presidente.
È , infatti, estremamente interessante notare la convergenza delle tre mozioni elaborate dai DS in vista del congresso di Pesaro, a proposito della costruzione dell’Unione Europea come “attore politico globale”, proposta da D’Alema con il duplice obiettivo di consentire all’Europa «di contare di più nei nuovi assetti e di alleggerire gli USA dal peso di responsabilità insopportabili se caricate sulle spalle di un paese solo, per quanto grande e potente»(35).
La scelta di “un acritico allineamento alle politiche di Bush, piuttosto che a una piena partecipazione alle politiche dell’Unione Europea” viene, infatti, rimproverata dalla Mozione Fassino al centrodestra italiano(36).
Nella Mozione Berlinguer si sostiene con decisione: «Non è accettabile che al bipolarismo della guerra fredda, fortunatamente finito da tempo, si sostituisca l’unilateralismo degli USA. In questo contesto particolare impegno va dedicato all’azione per impedire che il governo Berlusconi sostenga l’iniziativa dell’attuale amministrazione statunitense, fortemente contestata dal partito democratico di quel paese, per il riarmo all’insegna dello scudo antimissile»(37).
L’unilateralismo USA, attaccato dalla mozione di “sinistra”, diviene l’obiettivo polemico anche, da “destra”, della Mozione Morando: «La politica della sicurezza non può essere sostenuta interamente dalla NATO, né delegata agli USA che hanno i loro interessi e i loro punti di vista, non necessariamente coincidenti con quelli di altri attori o con quelli medi della comunità mondiale. […] se gli USA pretendessero di esercitare da soli le “funzioni globali” – o se lo credessero possibile gli altri – ci troveremmo di fronte non a un nuovo “governo mondiale” ma ad un “unilateralismo egemonico”, foriero più di tensioni che di sicurezza»(38).
Questa unanimità di vedute ci consente di sostenere che il riformismo propugnato, in prospettiva del socialismo europeo, dai dirigenti diessini altro non vuole essere che un tassello della ideologia dell’unione politica dell’imperialismo europeo, nella fase in cui questo si avvia, dopo aver unificato l’assetto monetario, a giocare un ruolo da protagonista all’interno della competizione imperialistica, militare o meno, congelata nell’epoca del bipolarismo(39).
All’inizio degli anni Venti, sotto il titolo Ombre, Gramsci scriveva: «Un episodio piuttosto oscuro, per non dire losco, è costituito dai rapporti dei riformisti con la plutocrazia: la “critica sociale” amministrata da Bemporad, cioè dalla Banca Commerciale […], l’entrata dell’ingegnere Omodeo nel circolo di Turati, il discorso di Turati Rifare l’Italia! sulla base dell’industria elettrica e dei bacini montani, discorso suggerito e forse scritto in collaborazione con l’Omodeo»(40).
Se la denuncia di quelle ombre, la preoccupazione nutrita per la collaborazione di Turati con un esponente della Comit come Omodeo, la conseguente critica del socialismo riformista sono stati interpretati come il grave errore politico commesso da Gramsci e sfruttato abilmente da Mussolini(41), è opportuno ricordare che in Germania, negli stessi anni, la lotta che la socialdemocrazia mosse al comunismo, fino al barbaro assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, spianò la strada al governo reazionario di Hindenburg e a quello criminale di Hitler.
Le ombre sono fortemente presenti nell’attuale fase di ristrutturazione imperiale del dominio, anzi sono più estese.
Il mascheramento riformista degli interessi capitalistici costituisce, ancora una volta, un’arma da utilizzare per impedire che il conflitto assuma la forma della guerra civile della moltitudine contro il capitale-mondo. Non è detto, fra l’altro, che fra questi riformisti non ci sia anche qualcuno che si illude di poter giovarsi degli effetti prodotti da un “keynesismo di guerra” foriero di un patto sociale connesso alla istituzionalizzazione del rapporto tra capitale e forza-lavoro.
Per resistere alla deriva bipartisan, così familiare ai riformisti, occorre scorgere la complessa combinazione di lotte che si sta articolando nel conflitto: «Queste lotte chiedono, oltre a un salario garantito, una nuova espressione di democrazia nel controllo delle condizioni politiche di riproduzione della vita. Si sviluppano nei movimenti delle popolazioni al di là del quadro nazionale, abbattendo ogni frontiera e chiedendo cittadinanza universale. Sono, infine, lotte e comportamenti di individui e di moltitudini che intendono riappropriarsi della ricchezza prodotta dopo che, attraverso successive, continue rivoluzioni tecnologiche, gli strumenti della produzione sono venuti in possesso dei soggetti, autentiche protesi del loro cervello»(42).
Il diritto di cittadinanza universale, il diritto a un salario sociale e il diritto di riappropriazione devono essere assunti come tracce di lavoro politico, dal momento che non sono soltanto le principali istanze che emergono nell’esperienza delle lotte attuali, ma sono soprattutto espressione di quello che, con Negri, vogliamo chiamare «un certo desiderio di comunismo».
“Piccola città…”
Di Molfetta avremmo voluto parlare, narrando magari della “resistibile ascesa” di un barbuto riformista locale; ma qualcuno controcorrente lo fa già meglio di noi. Sarebbe, infatti, istruttivo ripercorrere la parabola politica tracciata da chi, durante le riunioni tritoniane dei compagni del garofano che si svolgevano alla metà degli anni Ottanta, sviluppava concettose argomentazioni riformiste, infarcendole di pause degne del cinghiale, ed è poi finito, in una serata della primavera appena trascorsa, con il sorriso del pugile vittorioso ma rintronato, a salutare da un ring cittadino i tanti fans, permettendo che a levare al cielo le sue braccia fossero il presidente e il candidato di un movimento politico postfascista rigeneratosi alle terme. Ma, quando ricompare il lato tragico del riformismo non si ha tempo per occuparsi delle sue varianti grottesche.
1) L. FERRARI BRAVO, Sovranità, in “Posse. Politica filosofia moltitudini”, aprile 2000, p. 150.
2) Ivi, p. 168.
3) M. HARDT, Un Leviatano descritto fuor di metafora, in “Il Manifesto”, 28.09.2000, p. 12.
4) Ibidem.
5) Ibidem.
6) Il passaggio epocale verso la fase dell’Impero era stato già efficacemente descritto, a proposito della Guerra del Golfo, da A. ASOR ROSA, Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’“Apocalissi”, Einaudi, Torino 1992.
7) M. BISHARA, L’era dei conflitti asimmetrici, in “Le Monde Diplomatique – Il Manifesto”, ottobre 2001, p. 8.
8) Cfr. H. M. ENZENSBERGER, Prospettive sulla guerra civile (Einaudi, Torino 1994) e I. D. MORTELLARO, Prologo (in “la rivista del Manifesto”, ottobre 2001, p. 16).
9) Cfr. H. KISSINGER, Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the 21st Century, Simon & Schuster, New York 2001.
10) A. NEGRI, L’“Impero”, stadio supremo dell’imperialismo, in “Le Monde Diplomatique - il manifesto, gennaio 2001, p. 3
11) A questo proposito consigliamo, per una efficace e sintetica ricostruzione delle questioni in gioco, la lettura degli articoli di A. PASCUCCI, Effetto Shanghai (in “Il Manifesto”, 20.10.2001, p. 5), di P. MASINA, Se la Cina ne approfitta (in “Il Manifesto”, 21.10.2001, p. 8) e di N. BACHKATOV, Perché Mosca ha colto la palla al balzo (in “Le Monde Diplomatique – Il Manifesto”, novembre 2001, pp. 4-5)
12) G. LA BARBERA, Ipotetico concerto multipolare delle potenze continentali, in “Lotta Comunista”, n. 373, settembre 2001, p. 14. Non bisogna dimenticare che l’attuale costruzione europea riunisce 375 milioni di abitanti (contro 270 degli USA) e produce per 8.250 miliardi di dollari di beni e servizi l’anno (contro 7.900 degli USA).
13) A. NEGRI, L’“Impero”, stadio supremo dell’imperialismo, cit., p. 3
14) G. VACCA, Riformismo vecchio e nuovo, Einaudi, Torino 2001, p. VII.
15) Ivi, p. 181 (corsivo nostro)
16) Mozione Fassino - Presentazione: La sinistra di cui abbiamo bisogno (corsivo nostro)
17) Ivi, Tesi 2 – Le ragioni della sconfitta (corsivo nostro)
18) G. VACCA, op. cit., p. VII.
19) Ivi, p. 153
20) Ivi, p. 160.
21) Ivi, p. 162.
22) Mozione Fassino – Tesi 16 Una sinistra riformista unita.
23) G. VACCA, op. cit., pp. 158-159.
24) G. AMATO, Misuriamoci insieme con la novità del futuro, in “Italianieuropei”, n. 1, 2001, pp. 9-10 (corsivi nostri).
25) M. D’ALEMA, Basta con le divisioni del passato, ci unisce il legame con il socialismo europeo, in “Italianieuropei”, cit. p. 21 (gli interventi di Amato e D’Alema sono presentati nella forma dello scambio epistolare).
26) Ivi, p.21 e p.18.
27) Cfr. M. D’ALEMA, L’Europa attore politico “globale”, in “Europa Europe”, 1998, n. 6; e ID., Dopo l’euro e prima della difesa comune. Per una nuova partnership transatlantica (conferenza tenuta al MIT il 4.03.1999), pubblicato poi in ID., Kosovo. Gli italiani e la guerra, intervista di F. Rampini, Milano 1999, pp. 120-125.
28) G. VACCA, op. cit., p. 200.
29) Ivi, pp. 179-180.
30) Verso il Congresso: Principi e Regole – 1.08.2001 (reperibile in chiaromonte@democraticidisinistra.it]. Nella fase precongressuale, diversi componenti dei DS di Molfetta si sono impegnati affinché questo documento potesse trasformarsi in una “mozione sulla forma partito”, da presentare e sostenere al Congresso Provinciale.
31) Cfr. gli articoli di L. BENINI su “l’Unità” del 6.11.2001 (p.3) e del 7.11.2001 (p. 2).
32) L. PETTINARI, intervista concessa a E. Milanesi e pubblicata con il titolo “I metodi militari di Fassino” in “Il Manifesto”, 6.11.2001, p. 2.
33) M. D’ALEMA, Kosovo. Gli italiani e la guerra, cit. pp. 52-53.
34) D. ZOLO, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 200, part. pp. 187-193. Cfr. anche R. DAHRENDORF, Nel mondo senza nazioni la vecchia democrazia perderà, in “la Repubblica”, 26.01.2000, p. 15.
35) M. D’ALEMA, Basta con le divisioni…, cit., p. 19. Nel lungo articolo L’intervento militare, politico e umanitario. La nostra battaglia contro la barbarie, per giustificare l’invio di truppe in Afghanistan, D’Alema ribadisce: “Dobbiamo spingere l’Europa verso quel ruolo di attore globale che solo può sollevare gli Stati Uniti da un peso eccessivo rafforzando al contempo le nostre relazioni con il mondo arabo.” (in “l’Unità, 11.11.2001, p. 31).
36) Mozione Fassino – Tesi 4 Il futuro dell’Italia è l’Europa.
37) Mozione Berlinguer – 8. Un riformismo forte: un modello più equo e più giusto, una Europa più democratica.
38) Mozione Morando – Per noi l’Europa unita è un riferimento strategico.
39) Cfr. G. LA BARBERA, L’imperialismo europeo di fronte alla guerra, in “Lotta Comunista”, n. 373, settembre 2001, p. 3, e ID. L’imperialismo europeo nella coalizione bellica, in “Lotta Comunista”, n. 374, ottobre, p. 3.
40) A. GRAMSCI, Passato e presente, Einaudi, Torino 1974, p. 129.
41) A questo proposito segnaliamo la celebrazione che del riformismo turatiano svolge G. PIERACCINI, Attualità del riformismo (in “MondOperaio, n. 4/5, luglio-ottobre 2001, pp.89-99). L’amenità della lettura è garantita solo a patto di non tener conto delle indicazioni dell’autore, che presenta questo scritto come un contributo al superamento della sconfitta elettorale del 13 maggio.
42) A. NEGRI, L’“Impero”, stadio supremo dell’imperialismo, cit., p. 3.
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gennaio - aprile 2002 |