La qualità ambientale nella città e la struttura stessa dei centri storici rappresentano il tessuto connettivo della cultura europea e costituiscono il contesto essenziale per la qualità della vita contemporanea. La città in Europa e nella storia: qui nacque il concetto e la pratica della socialità urbana, della solidarietà di classe, dell’incontro tra studenti, lavoratori e intellettuali.
Scrive Galimberti che la città forniva le quinte al teatro della vita. Ed è questa la premessa, anche a Molfetta, dove oggi si prospetta l’attuazione del Piano Regolatore Generale Comunale. Si tratta dello strumento con cui riuscire a recuperare tale premessa e scongiurarne, scrive Scandurra, il declino inesorabile, impedirne la trasformazione in atto nella distruzione del welfare, nel predominio della tecno-scienza, nella rivoluzione neoliberista, nel ritiro degli individui dalla politica, nello sgretolamento del tessuto sociale, nell’esaltazione delirante della libertà individuale. Lo strumento con cui la città torni a fornire le quinte al teatro della vita.
Si tratta dello strumento di regolamentazione e di indirizzo i cui esiti, anche rispetto a quella premessa, saranno determinati, da un lato, dalle scelte politiche del governo amministrativo della città, e dall’altro dalla capacità di controllo e di proposizione che la comunità cittadina sarà in grado di mettere in campo in forma di contrattazione politica e di protagonismo attivo. Avere, dunque, a Molfetta un P.R.G.C. approvato e pronto all’uso, non scioglie ora i cittadini, i tecnici, gli operatori, gli intellettuali, dalla responsabilità di prendere posizione e fare scelte per la sua realizzazione, poiché è nella fase di attuazione che si sta inaugurando che si connoteranno di significati le prescrizioni, le indicazioni e le visioni del piano.
A tal fine, nuove categorie concettuali compaiono nel panorama in evoluzione della disciplina urbanistica. Compare la “descrizione fondativa”, concetto contenuto nella legge urbanistica della Regione Liguria, n° 36 del 1997, e compare lo “statuto dei luoghi”, concetto contenuto nella legge urbanistica della Regione Toscana, n° 5 del 1995. Si sperimentano nuovi strumenti quali il “piano d’interpretazione”, adottato per il piano della provincia di Trapani, e la “descrizione normativa” per il piano della provincia di Sassari. Questi, che sono allo stesso tempo categorie concettuali, dispositivi normativi e strumenti di pianificazione, hanno in comune la nuova consapevolezza che oggi il piano, piuttosto che pretendere di generare il futuro dell’insediamento, ha il compito meno velleitario di descriverne l’assetto, per comprenderne i fenomeni trasformativi in atto e fornire elementi di valutazione e di decisione per agire al loro interno. Così il piano, da strumento per dettare le regole e disegnare in maniera deterministica le forme della trasformazione – che è prevalente nella visione del progresso come crescita illimitata, per cui ogni trasformazione è vista acriticamente come intrinseco fattore di sviluppo – si fa più criticamente strumento di processo, sia in riferimento al suo definirsi come progetto, sia per quanto attiene alla sua realizzazione nella gestione delle trasformazioni. Il piano tende così a diventare interpretazione dei fenomeni territoriali osservati alle diverse scale e interconnessi tra loro, tende a una legittimazione consensuale e si pone l’obiettivo di guidare attraverso percorsi di partecipazione.
Il P.R.G.C. di Molfetta ha un’impostazione piuttosto tradizionale. Spesso le analisi restano il presupposto alla redazione del progetto urbanistico, senza però diventarne parte realmente integrante e determinante. Tra le osservazioni al piano da parte della Regione, c’erano richieste di approfondimento conoscitivo su elementi quali l’assetto geologico del territorio e l’esistenza delle lame, approfondimenti che sono stati prodotti con studi aggiunti al piano in una fase ormai conclusiva dell’iter di approvazione dello strumento urbanistico e che, quindi, non hanno per nulla inciso sul progetto del piano. Rischiano di non avere alcuna incidenza positiva sull’attuazione del piano.
Le scelte del piano, d’altra parte, lasciano ancora larghi margini, ed equivoci, per la definizione degli indirizzi con cui coordinare gli interventi sul territorio e produrre gli assetti futuri della nostra città. Produrre un’espansione urbana disegnata da frammentari piani di comparto o dotarsi di un unitario piano di servizi non sarà certo equivalente negli esiti e sarà questo che determinerà il senso di come la comunità e l’amministrazione cittadina interpretano e definiscono la sostenibilità sociale della composizione di pesi e misure attribuiti al libero mercato e agli interessi collettivi, alle categorie forti e a quelle non protette, alla città-mercato neoliberista e alla città-comunità.
Siamo convinti che la città non debba essere progettata e piegata al servizio esclusivo di produttività, efficienza, funzionalità, competizione. Quel che il cittadino vuole che si realizzi è la città-comunità.
In una visione di città-comunità, il tema della piazza assume valore fondativo, funzionalmente oltre che simbolicamente.
Nella conservazione dell’insediamento storico, l’intervento sulle piazze comporta un delicato e complesso processo di riconoscimento dei valori comunitari nella definizione del rapporto tra privato e pubblico, tra individuo e collettività, tra individuale e sociale: qui, più forti ed evidenti, sono i segni dell’identità della comunità, del senso di appartenenza e delle modalità dello scambio tra identità e alterità, il valore attribuito all’altro, alla diversità, allo straniero.
Il progetto della piazza nelle zone di espansione è il progetto dei luoghi intorno a cui prende fisionomia l’indistinto delle periferie, i luoghi di coagulo, nodo, cerniera, raccordo, di riconoscibilità della dimensione urbana di quelle parti di territorio che galleggiano tra città e campagna.
La destinazione di una piazza è operazione complessa sul piano tecnico-economico, laddove l’istanza culturale deve essere fortemente suffragata da una tensione intellettuale che riesca a indirizzare le scelte di carattere operativo e amministrativo. È proprio la visione tecnicistica e burocratica, sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra in poi, a costituire l’elemento più dissonante nella cultura della conservazione, in quanto tale visione si è formata sulla scia della temperie della ricostruzione postbellica: una fase produttiva, questa, agitata e rozza, in cui, svilendo le tematiche dell’architettura razionalista e l’innovazione costruttiva indotta dal cemento armato, è stata realizzata un’edilizia in gran parte scadente e invasiva, che ha spesso compromesso l’identità della città storica e delle sue piazze, avviluppandole in un intrico di mediocri espansioni edilizie.
La città deve contenere le piazze come luoghi di riconciliazione con quelle esigenze sociali che la caratterizzano. Come è possibile a Molfetta? Parliamone insieme.
Parliamone oggi che i potenti hanno lanciato il messaggio urbi et orbi: “La globalizzazione non si discute; la piazza non è più il luogo della politica”. Parliamone oggi che riemerge un tentativo di militarizzazione della piazza. Parliamone oggi che sorgono ovunque ipermercati pensati come standardizzati cloni di piazze-mercato, alternativi alla città, autosufficienti e autoreferenti, espressioni di un disegno di mercificazione della socialità urbana. Parliamone oggi che si fa strada un’idea di decoro urbano che fa delle piazze le scenografie fasulle di un esibito ordine sociale allestito per una verità solo televisiva: i limoni posticci e l’occultamento della quotidianità dei panni stesi ai balconi di Genova durante il vertice del G8.
Parliamo dunque delle nostre piazze, luoghi di incontro e di aggregazione sociale, luoghi fisici ma anche luoghi figurati, dove le persone si incontrano e i cittadini discutono. È questa la storia della città. Storie di piazze, dentro la città.
Se descrivere è già interpretare e interpretare è già scegliere, c’è allora un nesso stringente tra la descrizione dei luoghi e il progetto: sono questi i nodi intorno a cui ruota la ridefinizione dello statuto del progetto territoriale, sono i principi operativi per processi trasformativi consapevoli, che valutino le conseguenze delle azioni e degli interventi nei tempi brevi, medi e lunghi, sono la base su cui attivare la partecipazione locale che vuol dire riscoprire la capacità di elaborare istanze di sviluppo e di valorizzazione delle risorse con l’utilizzo anche di saperi “non esperti”, “non espliciti”, extradisciplinari. Sempre più spesso una lettura presunta oggettiva, tassonomica, di ambito strettamente disciplinare non è in grado di restituire problematicamente l’immagine della complessità del territorio. Serve, dunque, prendersi tutta la responsabilità di una lettura consapevolmente selettiva, orientata ideologicamente e interpretativa, che acceda a saperi disciplinari multipli e ai saperi espressi dalla comunità locale, che si faccia esplicitamente scelta politica. Il quadro prodotto sarà già una descrizione che contiene scelte, un’interpretazione che si fa progetto.
E se, per partire, si sceglie il tema delle piazze, si è già fatta, allora, una scelta di campo.
Partiamo da queste storie di piazze, per aprire interrogativi e fornire la base di dibattiti cittadini su altrettanti temi, fornire spunti di riflessione per gli abitanti, gli amministratori, i tecnici e gli operatori, che progettano, programmano, governano il territorio, lo producono. Partiamo da queste storie, per recuperare la centralità della piazza nel progetto della città come luogo fisico e come comunità insediata. Restituiamo attenzione alla piazza come modalità per orientarsi nelle scelte di intervento nel territorio, chiave di lettura delle trasformazioni storiche del territorio e della società e delle dinamiche in atto, scenario dell’agire della comunità nella produzione del territorio: un territorio che Dematteis definisce «mezzo delle dinamiche di socializzazione», condividendo il pensiero di Deleuze e Guattari che «nulla si pensa, si fa, né si cambia, se non per mezzo della materialità dei luoghi e delle loro proprietà, perché attraverso di esse – delle cose legate al suolo – passano necessariamente (anche se non deterministicamente) tutti i rapporti sociali e le loro rappresentazioni concettuali».
È nella materialità di una piazza che si compongono rapporti economici e funzioni sociali, a volte anche casualmente, ma sempre per una necessità maturata durante un processo storico precedente.
Siamo affezionati a piazza Paradiso, questa sì una vera piazza, luogo fisico dentro la città storica otto-novecentesca, con le cisterne pubbliche per la riserva idrica del quartiere, luogo deputato al mercato del lavoro contadino e bracciantile, simbolo di lotta e realtà di lavoro in un passato non remoto, ieri mercato settimanale, oggi spazio collettivo su cui prospettano sedi di associazioni e di partiti, piazza di manifestazioni culturali e politiche.
Partiamo dunque da piazza Paradiso, ieri destinata a mercato giornaliero rionale di alimentari con ambulanti, dove la difficoltà a gestire e controllare il rispetto delle norme igieniche e di ordine pubblico hanno portato le precedenti amministrazioni comunali a trasferire altrove il mercato rionale e a tentare di operare così un correttivo a quella prassi arrogante di occupazione indebita di suolo pubblico da parte di alcuni commercianti, non riducibili al rispetto delle regole. Fu così che si aprì la questione di una nuova destinazione d’uso per quello spazio, importante e delicato, nella città.
Descrivendone la storia, si dà forma a una domanda quasi automatica e tuttavia inespressa: è efficace affrontare un problema di gestione dell’ordine pubblico intervenendo sulla destinazione d’uso di uno spazio nella città?
In questi giorni, in cui i tragici fatti di Genova condizionano i nostri pensieri, la domanda ci sembra avere le sfumature di un interrogativo più drammatico: è possibile gestire il controllo dell’ordine pubblico delimitando zone rosse? La destinazione d’uso, localizzata con un retino sulle tavole dei piani urbanistici della città o tracciata con una trincea di filo spinato lungo le strade che perimetrano un quartiere, stabilisce solo ciò che in quella parte della città si può fare e quello che non è consentito: il riconoscimento e il rispetto di quelle regole non ne sono una conseguenza automatica, ma piuttosto hanno a che fare con quanto la comunità si sente rappresentata da quelle disposizioni, e più a monte da quanto la comunità riesce a emarginare gli abusi di potere, siano essi istituzionali, siano essi malavitosi.
Nelle strade, intorno alla piazza, i banchi degli esercizi commerciali invadono abusivamente lo spazio pubblico, sul lastricato della piazza le automobili trovano abituale abusivo parcheggio, nelle sere d’estate gruppi di persone sostano e cercano in piazza il fresco che non trovano nelle case e nelle sedi di associazioni e partiti che stanno tutte intorno, il quartiere si va trasformando in funzione di una residenzialità prevalentemente a uso di comunità di migranti.
Nell’uso le comunità determinano consuetudini, si appropriano dei luoghi, ridisegnano gli spazi: pensare a una destinazione d’uso, redigere un progetto per piazza Paradiso non può prescindere dalla descrizione di questi aspetti, dalla loro comprensione e interrelazione.
Ma a piazza Paradiso si guarda alternativamente come a una piazza per il mercato, a un parcheggio, a una piazza per manifestazioni politiche, sociali, elettorali, luogo di sosta e conversazione, con una storia e un’identità a scala di quartiere e a scala urbana; a piazza Paradiso si guarda come a un luogo di regole infrante. Ripartiamo dall’osservazione dei comportamenti che qui la comunità ha espresso, definiti storicamente e tracciati nella materialità di questo luogo urbano come luogo di coesistenza e di conflitto, di regole e di infrazioni, di contrapposizioni e di cooperazioni, comunque espressioni di un universo sociale non pacificato dentro anestetizzanti immagini di città-mercato neoliberista. Il valore di questa piazza, intorno a cui tracciare un progetto di recupero, è proprio il suo carattere costante di luogo vivo di dialettica sociale, un valore propriamente urbano.
C’è un’altra piazza in cui si possono sperimentare forme inedite di protagonismo cittadino. È la piazza tematica di un laboratorio di partecipazione, che è nato nella città vecchia con l’iniziativa del Coordinamento di quartiere.
Qui si sperimenta la partecipazione, in una forma ancora embrionale e in mezzo a mille problemi. Si fanno avanti interrogativi circa le competenze della partecipazione e il ruolo dei saperi al suo interno e delle modalità della contrattazione politica delle richieste e degli spazi della decisione. Sono le incertezze di chi deve interrogarsi, mentre fa e agisce, su come garantire a tutti il diritto di esprimere i propri bisogni, su come valorizzare i saperi di tutti, anche quelli che non vengono espressi nelle forme generalmente riconosciute. Sono le domande su come gestire i conflitti per produrre visioni condivise. Sono le possibilità di sperimentare forme decisionali che spostino le competenze del gruppo dalle modalità della competizione a quelle della cooperazione, per tendere verso la più ampia soluzione creativa delle differenze piuttosto che accontentarsi di scegliere per maggioranza una delle posizioni di partenza espresse da una parte. Sono le ipotesi su come gestire la contrattazione politica delle richieste degli abitanti con gli amministratori, su come conquistare gli spazi della decisione. Sperimentando la partecipazione, si fanno avanti domande circa il ruolo degli amministratori e dei tecnici, sul loro rapporto con una committenza che smette di essere astratta – la città – per diventare comunità reale di cittadini che abitano e si esprimono su questioni puntuali, circoscritte, concrete.
Si costruiscono ipotesi di nuovi equilibri tra chi tradizionalmente rappresenta e chi è rappresentato, tra i detentori dei saperi tecnici e dei ruoli decisionali e quanti restano solo i destinatari di quelle scelte; si fanno avanti visioni di una democrazia più partecipata, dal basso, e l’esperienza di bilancio partecipato di Porto Alegre aggiunge realismo alle nostre immaginazioni di un mondo migliore.
Poi c’è una terza piazza, il luogo sociale dell’incontro spontaneo di gruppi non organizzati in forme riconoscibili dall’esterno, per esempio i giovani, che individuano ed eleggono spontaneamente come luogo fisico d’incontro ora la villa comunale, ora il tratto di corso Umberto davanti al liceo, ora il viale Pio XI, ora il lungomare Marcantonio Colonna. In una vera città i luoghi vitali sono cangianti e fluidi, si spostano di caffè in caffè, di piazza in piazza, di strada in strada.
Ma non sono solo i giovani che inseguono l’anima loci; sono gruppi numerosi di abitanti, spesso non classificabili in categorie riconosciute, che determinano, con le loro scelte e usi della città, in alcune fasce orarie e in alcuni periodi, modificazioni temporanee della fruizione di quei luoghi, interferendo e intervenendo a volte su alcuni loro assetti. Per esempio, così nascono o si modificano esercizi commerciali per la ristorazione. In questi luoghi succede a volte che il progetto trasformativo, prodotto dal tecnico e dall’amministratore, come l’ordinanza sul traffico, procede al rimorchio e come correttivo o adeguamento a una trasformazione di fatto nell’uso di quello spazio.
E qui si nasconde implicita una domanda, finché non trova espressione: come dialogano efficacemente il progettista e il progetto con le realtà sociali di aggregazione spontanea, non assimilabili a categorie precostituite, apparentemente non riconoscibili dal loro esterno, che non hanno una rappresentanza sociale, tanto meno voce politica, ma che, non per questo, sono meno agenti sul territorio attraverso il loro uso dello stesso.
Non sono solo i giovani, sono anche le numerose comunità di migranti che abitano interi quartieri della città. Chi sono questi molti, questi cittadini, abitanti, folla, gente, popolo, massa, elettori. Le loro facce, i loro pensieri, le loro domande, i loro nomi.
Il disagio a capire le dinamiche comportamentali di quei gruppi e, di conseguenza a prevedere, guidare o assecondare le loro azioni sul territorio, per pianificare efficacemente le modificazioni del territorio alla cui produzione quei gruppi comunque partecipano, mostra l’inadeguatezza di certi strumenti pianificatori, e ancor prima l’inadeguatezza di certi strumenti dell’indagine quando vengono applicati a realtà sociali fluide, non rappresentate entro categorie predefinite, in continua e rapida evoluzione. È lo stesso disagio di chi oggi cerca di interpretare con le categorie consolidate il “movimento di movimenti” che, nella nostra società e nel mondo, porta le molteplici istanze per una globalizzazione dal basso. Questo “movimento di movimenti” sta intervenendo a modificare le pratiche e i luoghi della contrattazione e della lotta politica, ma soprattutto dei progetti di futuro. Chi non è rappresentato entro le forme tradizionali della rappresentanza sociale, chi non è rappresentato perché non ha luoghi, non ha voce, non ha cittadinanza, comunque esiste e produce il territorio, come consumatore e come produttore (oltre la categoria del lavoro), come abitante (oltre la categoria della cittadinanza), come migrante (oltre la categoria dell’appartenenza), come testimone (oltre la categoria della rappresentanza).
E ancora, dovremmo interrogarci, per non rifarne l’errore, su un caso di intervento non riuscito su una piazza storica della città, piazza Municipio. L’errore della passata amministrazione, che ha voluto lasciare un segno di sé in quella piazza a cerniera tra il centro antico, il borgo e la villa comunale, è stato prima di tutto di leggerezza, per aver sottovalutato il senso di memoria, di affezione, di appartenenza che la comunità attribuiva a quella piazza. Su certi luoghi la scelta non può che essere il risultato di un confronto collettivo, non può essere il marchio di un amministratore o di un tecnico.
Il progetto, per altro di scarsa qualità tecnica, ha modificato in peggio la spazialità di quel luogo, ne ha snaturato l’atmosfera, è intervenuto su un “clima” fatto dal colore della pietra consumata del vecchio lastricato, dalle luci dei lampioni, dalle pendenze e dai dislivelli del pavimento. Una piazza storica che è stata salotto per tanti concerti, manifestazioni culturali e politiche, feste di piazza, luogo di passaggio e di incontro, è oggi un luogo da attraversare frettolosamente perché la luce dal basso acceca i passanti.
E allora, interroghiamoci sulla responsabilità del progetto e sul mandato che affidiamo come cittadini agli amministratori, un mandato di governo con cui non ci sentiamo sudditi che cercano padroni, ma nemmeno ci sentiamo figli che cercano padri – come invece dice di sentirsi nei confronti della città l’attuale sindaco. Spesso, e nel migliore dei casi, gli amministratori hanno la presunzione di credere di conoscere cosa sia bene per noi cittadini, spesso non si preoccupano di tendere l’orecchio a cogliere le molte voci che la comunità – sempre più articolata e multietnica – va esprimendo.
La piazza è dunque luogo di incontro, di confronto, di scontro, di interrogativi: siamo davvero disposti all’incontro, siamo disposti allo scontro? Nell’incontro-confronto-scontro può succedere di perdere alcune certezze, quelle con le quali conviviamo e che ci hanno formato.
L’ascolto, l’aggregazione, la socialità, la solidarietà, la libertà, la comunità, la competizione, la cooperazione assumono significato diverso, nascono le piazze tematiche, nascono i cantieri sociali.
Un metodo si può indicare, senza apparire arroganti, a tecnici, progettisti, amministratori, il metodo più antico, più vero: facciamoci un giro, basta un solo giorno, a cercare le piazze, quelle di oggi, quelle di ieri, quelle di progetto, quelle vuote, quelle occupate, quelle fisiche, quelle simboliche.
A partire da piazza Paradiso, continueremo con la villa comunale, lo spiazzo in via Amente, l’incrocio davanti al liceo, le mailing list, i luoghi di viale Pio XI, il Coordinamento di quartiere di Molfetta Vecchia, le piazze S. Michele, delle Erbe, Michiello, Mentana, Immacolata, Madonna dei Martiri, cala San Giacomo, la città della moda, il centro commerciale. È questo il vero Piano Regolatore della città.
Facciamoci un giro e mettiamoci al lavoro. Abbiamo da raggiungere un obiettivo: la piazza torni a essere il luogo della politica, della partecipazione; non c’è globalizzazione che l’impedisca.