Fra lingua e linguaggi: economia di senso critico e massificazione del pensiero
“Visto che le parole sono soltanto nomi di cose, sarebbe più comodo che ognuno portasse con sé le cose che gli servono per esprimere le faccende di cui intende parlare (…). Molti tra i più dotti e saggi hanno adottato il nuovo sistema di esprimersi attraverso le cose, il cui solo inconveniente è che se si debbono trattare affari complessi e di genere diverso, si è costretti a portare sulla schiena un gran carico di oggetti, a meno che non si possa disporre di due forzuti servitori (…). Altro grande vantaggio dell’invenzione è che può servire come linguaggio universale che può essere compreso in tutte le nazioni civili.” (Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, III, 5)
Le espressioni di pensiero, di propaganda o di qualsiasi altra natura esse siano, per raggiungere quantitativamente il più ampio pubblico a cui sono destinate – e magari anche un target aggiuntivo per il quale specificatamente non nascono – per divenire, cioè, fenomeni di massa, è inevitabile che siano veicolate all’interno dei più aggiornati sistemi di comunicazione.
Un qualsivoglia regime totalitario, che pure non ha la necessità di persuadere al consenso quanto di obbligare allo stesso, si serve dei sistemi di comunicazione che la civiltà ha prodotto fino al momento del suo exploit: dalla tradizione orale alla letteratura scritta, dai pamphlet ai manifesti, dalla radio alla TV “controllata”. Prescindere cioè dalla comunicazione e dai sistemi di questa più diffusi in variegati ambiti sociali è pressoché impossibile soprattutto per quelle più specifiche attività umane che proprio dal rapporto con le masse sociali traggono la loro linfa vitale.
Il potere e, in specie, quello politico è tutt’altro che esente da questo assunto. Lo sa bene chi, liberando il proprio ruolo pubblico dalle sovrastrutture ingombranti dell’ideologia (suffragato, in questo, anche da certa parte della sinistra), nel momento in cui l’occidente intero vede restringere sempre più il campo delle sue narrazioni storiche, epocali, si dispone a raccontare al cittadino una storia che non chiede altro che la voglia di crederci. Soltanto la voglia, come nelle migliori tradizioni populiste: il peronismo ed Evita di “don’t cry for me, Argentina”, per esempio. Non l’obbligo di crederci, come nei metodi totalitari; non, appunto, la persuasione, come nella tradizione della propaganda: soltanto la voglia, nella consapevolezza che di un “investimento” più a lungo termine e con maggiori garanzie si tratta. Diventa inevitabile, pertanto, porre in relazione la politica e le sue forme (la partecipazione, la rappresentazione, la rappresentanza) con la moderna rivoluzione linguistica massmediale che ha così fortemente connotato la contemporanea quotidianità.
Pur tuttavia, l’accento va posto inevitabilmente non già sul sistema delle comunicazioni, sulle sue forme, sui suoi sviluppi quanto sui contenuti e sulla fruizione. Un veicolo “X” resterebbe incognita indefinibile che, diversamente, trae la sua natura e la sua forma dal contenuto che si piega a veicolare e dalla destinazione per cui nasce. Le note “pubblicità progresso”, pur nella loro discutibile oscena amenità, avrebbero un senso leggermente differente se in qualche modo si facesse entrare il testimonial Berlusconi.
Ora, se mantenendo cotanto testimonial si sostituisse al tema della droga o degli incidenti stradali quello del potere d’acquisto di salari e pensioni e si mantenesse invariata una straziante colonna sonora magari con qualche ex gagliardo nonnetto che crepa per indigenza… il gioco è fatto. Un po’ come è successo per i recenti spot di Telecom. Non ha più importanza chi veicola il messaggio (il bello è che in questo caso il Cavaliere è al contempo committente e oggetto dei suoi spot) e forse neppure tanto il messaggio stesso quanto che chi lo “legge” dica “Che peccato, non è giusto” oppure “Che bello, è eccezionale”.
E sì, perché l’operazione è così esplicita che lo stesso meccanismo può prodursi al contrario: chi non ricorda lo spot del caffè Kimbo? Lì un diafano Pippo Baudo sorseggiava soddisfatto il suo caffettino coltivato in tutta armonia da danzanti “collaboratori” di colore. E la raccolta del caffè era addirittura effettuata a passo di salsa e merengue in una sorta di Eden sfavillante di colori. Così, il viso sorridente di qualsivoglia superuomo abbinato a certo sentimento (non già a questo messaggio!) concede un imprimatur salvifico di fronte al quale porsi con atteggiamento quasi fideistico. Il tutto a buon prezzo… anzi ottimo dal momento che al destinatario si chiede solo di lasciarsi andare, di fare economia di senso critico, di conservare per sé le proprie risorse intellettuali tanto per certe cose c’è già chi ci pensa: insomma, di risparmiare cervello in barba al detto secondo cui l’uso sviluppa l’organo!
A livello locale dobbiamo invece accontentarci di copie malriuscite dell’originale: un giovane Presidente della Commissione Bilancio dal volto adolescenziale che si staglia su uno sfondo di nuvole e cielo (manco fosse l’assunzione di Maria Vergine!) per dare il benvenuto in città o di un Sindaco dal volto reticolare che tranquillizza tutti col suo gran cuore di panna… pardon, di sabbia. A dimostrazione – ironia a parte – che metodologie, usi e regolamentazioni dei mezzi di comunicazione non sono sufficienti a garantire alcunché circa l’ottimizzazione del risultato atteso… quanto l’originale.
Qui l’errore di una sinistra che accentrando la propria attenzione su questi elementi ha “ingenuamente” trascurato ciò che c’è avanti e dietro questi elementi stessi: ha trascurato il denaro che c’è dietro e il pubblico che c’è avanti; nel primo caso perdendo tempo su questioni di par condicio, nel secondo ignorando la potenzialità di quelle risorse tradizionalmente afferenti alla sinistra di cui dirò in seguito. In ultimo scegliendo anch’essa il terreno dell’emulazione dell’originale: probabilmente i manifesti col volto di Rutelli – per quanto “piacione” – saranno apparsi peggiori persino di quelli del Senatore assunto in cielo.
A lungo la sinistra ha creduto, e tuttora si ostina a pensare, che il problema sia semplicemente quello dell’uso dei media da parte dei soggetti politici in campo e si risolve, dunque, con la sua regolamentazione: come usare i media, la definizione delle regole, la razionalizzazione, l’etica dei comportamenti, l’accettazione degli impedimenti. Ma la logica del sistema mediale è più forte dei tentativi stessi di razionalizzarlo. In fatto di regole la retorica della par condicio crolla sulla disparità di denaro disponibile e messo in campo, e non solo durante le battaglie elettorali ma anche nei numerosissimi momenti della lotta politica e nel quotidiano del governo. In campagna elettorale, dove non ha più potuto con lo spot (“fatto!…”), Berlusconi ha compensato, appunto, con i manifesti che hanno campeggiato nelle strade e nelle piazze delle nostre città, e quando non è arrivato con i manifesti ha invaso con la sua autobiografia, recapitata gratis a domicilio, a tutte le famiglie, a tutti gli abitanti.
Chissà che fra qualche tempo non dovremo aspettarci di trovare, nelle nostre cassette postali, anche le biografie di sindaci e senatori nostrani, opportunamente sfrondate da nocivi elementi di confusione quali magari le originarie militanze politiche, gli antichi discorsi in nome di certi valori urlati sotto chissà quale bandiera. Non sarà certo il caso di confondere il lettore con elementi di verità, pure conosciuti, ma che oramai non fanno più tanto scalpore; la gente ha imparato a digerire certe piccole defaillances. Qualcuno, per la verità, le ha pure rigurgitate… ma questo è un altro discorso.
Tornano in mente, invece, le parole che nel 1982 E. Galli La Loggia scriveva ne Il mondo contemporaneo 1945-1980: «Tutto ciò ci porta a considerare quello che è davvero il problema centrale (…) di una società del genere: si realizza un grado di accentramento e di potere di controllo che non ha precedenti nella storia. Tutti gli aspetti della vita sociale e individuale tendono in pratica a essere organizzati centralmente, obbedendo a schemi e procedure preordinate; così pure l’emissione dell’ informazione in tutti gli ambiti viene sempre più accentrata in poche sedi. Le quali sono le sole ad avere diritto di accesso alla costituzione di quello che potremmo chiamare il patrimonio informativo. In breve, tutta quanta la memoria, la conoscenza e il comportamento sociali, rischiano di uniformarsi e omologarsi a ciò che il sistema del calcolatore prevede che si debba ricordare, conoscere e fare. La sorte riservata alla stragrande maggioranza consisterebbe in tal caso unicamente in una fruizione totale senza possibilità alcuna (ovvero limitatissima) di opposizione o scostamento dalla norma. È evidente che il potere di chi controllasse questo potere sarebbe in pratica enorme». È lecito chiedersi un “perché?” più profondo. Lasciano, in realtà, spazio a barzellette o a rappresentazioni da cabaret le accuse rivolte alla sinistra di opposizione preconcetta, quando non persino di invidia, nei confronti del Cavaliere e del suo entourage. La questione, piuttosto, si gioca tutta sugli effetti che l’uso spropositato dei frutti della rivoluzione massmediale post-industriale può avere sui vecchi sistemi sociali in rarefazione ma soprattutto sulla costituzione dei nuovi o, se si preferisce, sulle evoluzioni dei primi sempre a rischio di involuzione. Torna quanto, per altra via, si diceva in precedenza: abbandonarsi a un sistema comunicativo e informativo che dice tutto e niente perché dice di tutto, di più e che altro non chiede che di essere assorbito significa sottovalutare reali conseguenze tutt’altro che socializzanti quanto, invece, segreganti proprio a causa dell’estrema e capillare dilatazione dell’informazione e dei sistemi di comunicazione a cui è affidata.
Il rischio più grande (o il non plus ultra delle ambizioni, dipende dal punto di vista e dall’oggetto dell’analisi) è, appunto, la difficoltà della «possibilità di “farsi un’opinione personale”, di aspirare a contribuire con la propria parola alla formazione di un decisione collettiva, di vivere responsabilmente una esperienza di comunità democratica». Vero è che A. Salinari (Storia della storiografia, Bologna 1989, vol. 3, p. 1200) in questo passaggio si sofferma più sull’informazione e l’introduzione del computer ma parlare in questa circostanza di comunicazione significa verticalizzare e quindi salire nei livelli di un’analisi “tridimensionale” che amplia notevolmente i margini entro cui si sviluppa una riflessione in relazione alla contingenza. Insomma, computer, TV, manifesti o stampa che siano, né si producono da soli né autonomamente scelgono target e obiettivi.
Sono le forme comunicative attraverso cui il messaggio crea la propria lingua (e che si sviluppano all’interno delle più ampie forme di comunicazione massmediale, in quella “piramide” di cui sopra si diceva) a fungere da discriminante e a dover assolvere a tale funzione proprio per evitare che a massificarsi e a omologarsi siano le reazioni emotive degli utenti e il conseguente pensiero strutturalmente povero, scarno, appunto unico, non già in quanto esclusivo bensì quasi dogmatico, avulso cioè da ogni possibilità di esercizio critico su di esso.
Gli spettatori della tragedia antica conoscevano perfettamente temi e argomenti di volta in volta affrontati nella rappresentazione drammatica. Con poco sforzo intellettivo ad essi era lasciato il piacere della diversità della forma espressiva e della catarsi finale in quanto esito di un percorso emotivo. Diversamente reagiscono i fruitori della Fedra di Racine di fronte al tema dell’incesto, ancora oggi tabù in quanto del tutto estraneo a tematiche topiche di facile fruizione comune. Fatica ancora oggi, qualche millennio dopo la nascita di Cristo, l’individuo di media cultura di fronte alle espressioni artistiche contemporanee, avanguardiste, new age e così via: fatica ad affrancarsi, cioè, dallo schema mentale secondo cui arte è grossomodo classicismo e neoclassicismo (meglio se sacro), lì dove un’estetica “a colpo rapido” finisce per assorbire qualsiasi altra riflessione possibile e annullare qualsiasi altro livello di possibile fruizione facilitando e agevolando lo sforzo dello spettatore lì dove più evidenti erano e sono le forme comunicative. Si pensi alle immagini che passano per i TG, spesso “opportunamente” decontestualizzate e sequenziate ad arte onde evitare “generosamente” sforzi inopportuni allo spettatore, il quale finisce per pensare esattamente ciò che vuole chi sta dietro la macchina.
Applicare questi criteri alla rappresentazione della realtà quotidiana odierna si traduce nel semplice relegare i fatti di Genova all’interno di una cronaca del XXI secolo senza nessuno sforzo né tentativo di storicizzare il fenomeno, di dare ad esso possibilità di letture rispetto a un passato e a un futuro che finirebbero inevitabilmente per liberare lo spettatore dalle inconcludenti pastoie della fruizione “a buon prezzo” in quanto insufficiente a comprendere un fenomeno che a tanta facilità interpretativa, a tanta economia di senso critico si presta malissimo. Da Seattle a Genova va costituendosi un vero e proprio punto di non ritorno nella presa di coscienza che le cose non vanno affatto come vorrebbero mostrarcele e quello che si vede, invece, non piace affatto ma ciò che non si vede piace ancora meno. E questa non è una dichiarazione che nasce da un ingiustificato ottimismo né una presa di posizione sotto il colore della bandiera a cui guardiamo: verrebbe da dire che senza altri filtri allora sì che i fatti parlano da sé!
La rivoluzione linguistica massmediale contemporanea, lungi dal dover essere considerata ipso facto elemento negativo nella storia dello sviluppo sociale e umano, assume caratteri foschi se veicolata nel senso sbagliato o, peggio, a senso unico. Ed è proprio ciò che accade oggi: il senso delle comunicazioni è unico nella misura in cui non diviene mai – né ambisce a divenire – biunivoco, interattivo. È in questa direzione che dovrebbe esplicitarsi la forza propulsiva della comunicazione, dei linguaggi da sinistra. È qui che si esplicita evidentemente tutta la distanza fra spot, manifesti, biografie gratuite e, dall’altra parte, raccolte di firme, testimonianze, racconto di esperienze reali, presidi, referendum nella base, denuncia dei termini del conflitto, manifestazioni, cortei, scioperi, sfondamenti pacifici, a mani nude, picchetti, sabotaggi, sit-in, satira, nuovi interessi e metodi di grafica e musica, canti, pittura, danza, teatri di strada, laboratori urbani, bilanci partecipati, il modello Porto Alegre, resistenza passiva, disobbedienza civile, uso del corpo inerme nella sua fisicità, debole ma invincibile.
La sinistra non dovrebbe affatto essere in ritardo nella rappresentazione di se stessa, nelle forme della politica, della democrazia, della partecipazione: con la sua pluralità, non dovrebbe essere in ritardo nella rappresentanza, con le centinaia di associazioni, con le organizzazioni non governative, con i partiti alternativi. Invece il ritardo c’è e si vede per intero! La sinistra è in ritardo nella misura in cui tarda a rendersi conto delle potenzialità insite proprio in questi linguaggi tradizionalmente propri. È in ritardo nella misura in cui, abbracciando o rischiando di abbracciare i criteri interpretativi delle destre, si ostina a proclamare quei linguaggi “veterononsocché”. I fatti di Genova testimoniano di una decisa volontà di compartecipazione (quella sì globale) alle sorti del mondo che solo quel tipo di forme comunicative (comunitarie, di comunione…) possono offrire.
I manifesti, gli spot, le biografie gratuite non chiedono affatto la compartecipazione alla gestione della cosa pubblica né a qualcos’altro da parte dei destinatari di tanta generosità. Non offrono affatto, come direbbe Cl. Hagège (La souffle de la langue, 1992), «l’attenzione all’altro che parla la propria lingua» ma si limitano a chiedere all’altro, al destinatario l’attenzione che merita la propria lingua. Col vantaggio che l’attenzione richiesta è davvero poca cosa in quanto il linguaggio attraverso cui si esprime è davvero universale, il più antico e il più diffuso, il più immediato e il più potente perché raggira e supera le sovrastrutture dell’individuo almeno all’atto della fruizione: il linguaggio delle immagini. Il quale si correda giusto di qualche slogan elementare, elemento discriminante rispetto ai graffiti del neolitico insieme al fatto che quei manifesti, quegli spot non rappresentano affatto la realtà oggettiva.
Se la destra non fa che rappresentare se stessa nella sua campana dorata nutrendo le voglie del cittadino di entrare nel paese di bengodi, la sinistra non può che rappresentare la realtà oggettiva senza fronzoli che, proprio attraverso questo status di compartecipazione che le è proprio coincide (o dovrebbe) con la rappresentazione di se stessa. Venendo meno questa semplice equazione viene meno la stessa sinistra in quanto tale.
Mi piace, così, terminare quella citazione di Hagège interrotta poco sopra: «Cittadini di una terra multiforme, gli Europei non possono che essere in ascolto del grido polifonico delle lingue umane. L’attenzione all’altro che parla la propria lingua è preliminare se si vuole costruire una solidarietà che abbia un contenuto più concreto dei discorsi propagandistici». Ecco appunto: un contenuto più concreto.
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settembre - dicembre 2001 |