Genova: il tentativo di risposta non violentanella manifestazione del 21 luglio
Avrei voluto parlare delle pratiche
di difesa che abbiamo cercato
di attuare per preservare il corteo
del 21 luglio da ogni violenza,
provenisse dai poliziotti
o da frange di manifestanti.
Ma la tensione accumulata,
e non ancora scaricata,
mi ha fatto tirare fuori
il racconto di tutto ciò
che ho provato in quei due giorni
di passione politica e
di affermazione della democrazia.
Spero che il fine
che mi prefiggevo,
partire dagli eventi
per capire come comportarci
in occasioni analoghe
che il movimento si troverà ad affrontare, sia comunque
raggiunto attraverso i miei semplici,
seppur disordinati, ricordi
di quelle giornate fantastiche e terribili.
Venerdì 20 luglio, manifestazione di disobbedienza civile. Per tutta la giornata, un corteo di ventimila persone con equipaggiamento di sola difesa (caschi, scudi, protezioni in gomma, in cartone) sfilano e cercano di penetrare nella “zona rossa”.
Per circa otto ore, teniamo la posizione affidataci nel corteo. Fortunatamente, non veniamo mai a contatto con la polizia. Le uniche scaramucce avvengono quando gruppi sparuti di black iniziano a rompere qualche vetrina nei pressi del nostro settore. Il resto dello spezzone si ribella, i black si fermano e rispondono con il loro dito medio alzato.
Verso le 7 di sera, torniamo nello stadio Carlini, dove ci fanno alloggiare da due giorni come internati. Siamo con poca acqua e quasi senza cibo, inoltre all’esterno i negozi dei dintorni sono tutti chiusi e, comunque, da soli è troppo pericoloso uscire.
All’interno dello stadio ci aspetta un compagno di Molfetta, che non se l’è sentita di partecipare alla manifestazione. È rimasto con altri 30 compagni a presidiare il Carlini. Appena arrivati, ci dà la terribile notizia: hanno ucciso un compagno. Non si sa come, le notizie sono confuse. La tensione sale alle stelle. Incredulità, dolore e rabbia, collettivi, dentro ognuno di noi.
Qualcuno vorrebbe organizzare una manifestazione nella serata stessa, ma prevale la responsabilità della maggior parte dei compagni, che riesce a bloccare sul nascere questa idea. Sarebbe finita in tragedia. Al TG delle 20, vengono diffuse le prime immagini e, con esse, la conferma dell’assassinio. In noi, si compone un misto di disperazione e paura. La rabbia mi ferma le lacrime in gola. Le riunioni, improvvisate, fra gruppi di compagni si susseguono. Si discute su cosa fare il giorno dopo, quando si prevede che arrivino centomila persone. Fino a notte fonda non si decide nulla di concreto. Verso le 3 del mattino, un po’ tutti cercano di dormire sui sacchi a pelo. In realtà la tensione e due elicotteri che ci ronzano per tutta la notte a 20 metri di altezza sulla testa non ci fanno dormire per niente.
Il giorno dopo, sabato 21. È mattino. Cerchiamo di dare una lettura dei fatti del giorno prima. Tutti concordano sul fatto che le forze del “dis-ordine” hanno sfruttato le azioni marginali dei black per colpire il grosso del corteo incolpevole. A questo punto si deve prendere una decisione: annullare la manifestazione o manifestare lo stesso cercando di isolare i violenti e togliendo così ogni pretesto ai picchiatori delle forze dell’ordine.
Si decide di confermare la manifestazione. Le disposizioni sono chiare: i compagni disponibili a far parte del servizio d’ordine devono portare con sé caschi e protezioni negli zaini da indossare solo in caso di necessità, così da non lasciare campo libero ad ogni sorta di provocazione. Inoltre, il servizio d’ordine dovrà impedire l’accesso in ogni spezzone del corteo a coloro i quali hanno bottiglie o mazze, a tutti i sospetti di qualsiasi tipo. Sono disponibile a farne parte.
Alle 12.30, parte la manifestazione dal Carlini. Il nostro spezzone è quello dei Giovani Comunisti. All’inizio il lavoro è svolto con diligenza. Solo dopo un percorso di 500 metri, sorge la necessità di allontanare i primi due sospetti. Man mano che la manifestazione avanza, il compito diventa più difficile. La partecipazione è andata talmente oltre le nostre aspettative che il numero dei compagni del servizio d’ordine non basta più per fare cordone.
A questo punto si decide di coinvolgere in questo ruolo delicato alcuni volontari assunti dall’interno del corteo, fra cui anche molti ragazzi poco più che diciottenni e molte donne. Inoltre una decina di compagni, fra i quali c’ero io nel nostro spezzone, riceviamo il compito di rimanere al di fuori del cordone e controllare che nessuno si infiltri. Per le successive due ore, funziona bene quasi tutto a parte un paio di lievi incidenti, determinati da alcuni individui che volevano penetrare nel corteo armati di mazze. Dopo qualche discussione accesa e qualche spintone si riesce a respingerli fuori.
Alla terza ora di corteo arriviamo al punto cruciale della manifestazione, sul lungomare. Secondo il programma, all’altezza di corso Torino il corteo dovrebbe svoltare e imboccarlo.
A questo punto i black escono allo scoperto. Invece di proseguire su corso Torino, vanno dritti sul lungomare e cento metri più avanti vengono in contatto con la polizia, che sembrava non aspettasse altro. A questo punto siamo costretti a indossare le protezioni e, da questo momento in poi, gli scontri si fanno più cruenti. Nel giro di una mezz’ora la polizia riesce a spostare gli scontri indietro verso i manifestanti pacifici. Alcuni compagni del servizio d’ordine tentano un cordone di alleggerimento, per proteggere il corteo su quel maledetto incrocio. Il nostro spezzone transita di lì una decina di minuti prima che i poliziotti riescano a sfondare l’ultimo cordone di protezione.
Nel momento del nostro passaggio ho il megafono in mano. Un ragazzo mi tira per la maglietta e mi grida di piazzarmi alle spalle del cordone di protezione, di fermarmi li e di urlare ai manifestanti di accelerare, per cercare di passare uniti e stretti in quel punto. Sento forte la responsabilità e grido con tutta la forza che ho in corpo. Nel frattempo, alle mie spalle le urla si fanno più vicine, il fumo dei lacrimogeni inizia ad arrivarmi sempre più insistente e fastidioso. I manifestanti accelerano, ma sono troppi, rischiano di non farcela a passare tutti, indenni.
Dopo un quarto d’ora, infatti, il cordone di protezione viene sfondato. Qualcuno mi urla di fuggire e nello stesso momento mi arriva un lacrimogeno a due metri dai piedi. Devo decidere in fretta se andare con lo spezzone che ha già imboccato il corso Torino o tornare indietro, aggregandomi a quelli che non sono riusciti a passare.
Senza pensarci troppo, decido di fare la prima cosa, andare verso corso Torino. Oggi so che fu una scelta fortunata. Infatti, chi non riuscì a passare attraverso l’incrocio – si saprà il giorno dopo dai giornali – fu caricato indiscriminatamente. Si conteranno centinaia di feriti.
A questo punto, inizio a correre preso dal panico. I ricordi qui diventano più confusi. I lacrimogeni, oltre a farmi lacrimare, non mi fanno respirare e mi provocano irritazioni sulle parti scoperte della pelle. Cerco di alleviare il bruciore degli occhi con il succo di limone. L’ultima immagine, struggente, che ho di quei momenti è quella di un gruppo di manifestanti disabili portati in sedia a rotelle dagli accompagnatori, che cercano di portarli in salvo. Uno di loro nella fretta fa ribaltare la carrozzina e il disabile cade.
Io, forse per il panico che non mi fa più ragionare, forse per mancanza di coraggio, guardo ma continuo a correre via impaurito. Non so cosa sia capitato a quell’uomo in carrozzina, che manifestava il suo dissenso nel solo modo in cui poteva farlo, pacificamente. Siamo tutti pacifici. La mia corsa finisce quando ritrovo i miei compagni e mi sento finalmente fuori pericolo.
Siamo alla fine della manifestazione e sembra tutto finito. Invece non è così. Dal palco, ci dicono che gli scontri proseguono un po’ in tutta la città e ci indicano un percorso per tornare al Carlini. Durante il percorso di rientro, ci fanno deviare un paio di volte per evitare alcune zone pericolose.
In questa fase, forse c’è il momento più bello di questa mia esperienza. Ho sentito la solidarietà attiva della popolazione. Chiediamo acqua e qualcosa da mangiare alle persone affacciate ai balconi: non esitano un momento. In un attimo siamo inondati da bottiglie d’acqua, merendine e panini.
Dopo sei ore dall’inizio della manifestazione riusciamo a tornare al Carlini. Giusto in tempo per preparare i bagagli e prendere gli autobus che ci porteranno in stazione. Torniamo a casa. Alle 22.30 parte il treno che riporta a casa i 1.000 pugliesi.
All’1 circa, sul telefonino arriva il messaggio di un compagno che ci informa dell’assalto, in stile cileno, della polizia alla scuola Diaz. A questo punto abbiamo la definitiva conferma, se ce ne fosse stato ancora bisogno, della strategia delle forze dell’ordine: cercare qualsiasi pretesto per distruggere fisicamente ogni tipo di dissenso. E ora distruggere anche qualsiasi documentazione su quanto accaduto.
Il ritorno a casa avviene alle 12 di domenica 22 luglio. La rabbia a distanza di un mese non è ancora finita.
|
settembre - dicembre 2001 |