Dopo molti anni, intorno alle questioni dei prodotti negativi della globalizzazione neoliberista, sono emersi in maniera prepotente temi e rivendicazioni che tentano di scardinare dalle fondamenta il mito del libero mercato e del profitto, che hanno ridotto le dimensioni del politico alla semplice amministrazione delle “miserie del presente” e pongono l’obiettivo della costruzione di un’alternativa concreta e anch’essa globale.
Da Seattle in poi, ogni appuntamento è stato utilizzato dai movimenti per portare i propri temi e le proprie proposte nell’agenda del dibattito politico, riformulandolo, e promuovendo forme anche inedite di conflittualità.
Dopo gli avvenimenti di Napoli e di Quebec City, era chiaro a tutti, sia ai movimenti che ai loro numerosi avversari, che a Genova la posta sarebbe stata alta: la capacità stessa di costruire percorsi e movimenti in grado di gettare le basi dell’alternativa agli attuali assetti sociali dettati dalla globalizzazione.
Proprio per questo, però, Genova non ha rappresentato la fine di un percorso: è stata, invece, una tappa fondamentale, solo una tappa.
I governi, anzi il Potere, nelle sue forme nazionali e sovranazionali, hanno compreso la forza dirompente sia dei temi che delle lotte delle moltitudini che sarebbero giunte a Genova a manifestare. Per questo, anche da parte della sinistra moderata italiana, c’è stato il tentativo di ricondurre tali temi e tali lotte il più possibile all’interno dei soliti schemi funzionali alla propria legittimazione, non rendendosi conto che tale dirompenza è data soprattutto dalla loro irriducibilità. Non è possibile pensare, anche se a dire la verità è presente questa tendenza, alla possibilità di “dare un volto umano alla globalizzazione neoliberista”: i movimenti ormai cercano di ragionare intorno alla costruzione di “un altro mondo possibile”, quindi una globalizzazione dal basso, una globalizzazione dei diritti e non delle merci e del profitto. Credo di poter affermare che il Movimento dei movimenti esprima il disagio diffuso verso l’entropia accelerata della globalizzazione neoliberista, ma non si identifica totalmente dentro una cultura anticapitalistica e rivoluzionaria. Del resto, la pervasività della produzione capitalistica e la polverizzazione dei suoi processi si traducono in una moltitudine di soggetti sociali che richiedono linguaggi e pratiche differenti.
Tuttavia, il Movimento ha in sé i semi di una trasformazione radicale e globale e nella capacità di alimentarli sta la sua crescita o la sua fine. È per questa ragione che il Genoa Social Forum è stato l’ambito del confronto politico tra i movimenti ed è stato riconosciuto come il tessuto appropriato per alimentarli. Il suo ruolo non poteva e non potrà che essere in futuro quello di attivare meccanismi di partecipazione il più possibile espansivi. È stata vincente la scommessa sulle capacità di espansione e di valorizzazione dei movimenti, puntando sull’azione nei territori e sul radicamento sociale: così si è avuta una grande mobilitazione di una composizione sociale complessa, attivando linguaggi diversificati, mantenendo alto il confronto dialettico sui contenuti e sugli obiettivi, piuttosto che sulle identità di ogni soggetto.
Così, il GSF ha compiuto un miracolo: è riuscito a costruire una rappresentanza politica (unitaria) per un movimento composito, mantenendo insieme associazioni, centri sociali, sindacati, o.n.g. e forze politiche che fra loro, nella vita quotidiana, hanno qualche difficoltà a collaborare. Forse è questo uno dei tratti distintivi di questo Movimento.
Diversamente da ciò che si è raccontato, non esiste all’interno del Movimento una divisione su violenza-non violenza: sono state proprio le giornate, ma ancor più le piazze di Genova a dirci, in maniera chiara quanto è maturo questo Movimento. Escludendo da questa riflessione l’atteggiamento del Black Block, è emersa tutta la vocazione “pacifica e non violenta nei confronti di cose e persone, anche in divisa”. Questa vocazione è alla base delle rivendicazioni reciproche per le azioni di protesta compiute nella giornata del 20 luglio.
Confrontando sia le tenute di piazza che le sorti e i trattamenti subiti da quelli che per la stampa sono i blocchi del Movimento si può vedere come effettivamente ci sia stato un salto di qualità in avanti.
Da una parte i non-violenti, chiamanti Blocco Rosa, che in Italia sono: Rete di Lilliput, circoli ARCI e ACLI, Legambiente, Lega Obiettori di Coscienza, rete Peacelink. Queste associazioni sono caratterizzate da una composizione generazionale piuttosto varia e da una presenza dominante di donne attiviste. Sicuramente un loro merito è la costante attenzione alla presenza sul territorio, il tentativo di coinvolgimento diretto delle “persone comuni”, lo sforzo costante di superare la distanza tra il discorso e i comportamenti quotidiani. Nella mattinata di venerdì 20 luglio queste associazioni avevano a disposizione una piazza in cui manifestare in maniera pacifica, non violenta, attraverso coreografie fantasiose, colorate, il loro rifiuto radicale di accettare una invalicabile zona rossa, senza però tentare intrusioni in essa. Risultato: hanno subìto cariche dalle forze dell’ordine contando numerosi feriti.
Dall’altra parte gli “inflessibili”, chiamati Blocco Blu, che qui in Italia possono essere identificati con il Network per i diritti globali, il quale è un coordinamento composto da Confederazione COBAS, centri sociali del Piemonte e del centro-sud, qualche settore del partito di Rifondazione Comunista. Che cosa vogliono questi “duri”? “Partire dai conflitti reali dei territori, per coniugare il carattere globale delle scadenze contro gli organismi sovranazionali alle battaglie quotidiane per i diritti negati… è un punto di riferimento di una pluralità di esperienze che si riconoscono all’interno dei percorsi dell’autorganizzazione sociale”. Hanno il merito di stabilire un legame netto tra le lotte degli oppressi del Nord del mondo e quelle del Sud del mondo e sono tra i pochi a farlo con chiarezza. Di converso hanno il limite in un certo riduzionismo con cui affrontano tale legame: in questo sono sicuramente duri. Forse la fama di “duri” è dovuta al fatto che quando scendono in piazza lo fanno in modo determinato, decisi soprattutto ad autodifendersi. Nella giornata del 20 luglio a Genova non hanno tenuto una vera piazza tematica, in quanto hanno tentato di far snodare per le vie della città un corteo per manifestare le ragioni dello sciopero generale convocato dai COBAS. Sono stati dispersi da svariate cariche e tra i loro feriti c’è anche un esponente nazionale dei COBAS che tentava di disarmare qualche presunto black-blocker.
Veniamo all’area dei disobbedienti, chiamati Blocco Giallo: le Tute Bianche, i centri sociali del Nord-Est e del Centro-Nord, e da Praga in poi anche la maggioranza dei Giovani Comunisti e delle Giovani Comuniste; sostengono che è necessario forzare i blocchi delle città che vengono imposti, le zone rosse, anche se occorre farlo in modo non violento attraverso “protezioni”. È solo un caso che questa è la componente più giovanile del Movimento? Oppure quest’area ha il merito di attrarre quella forte spinta radicale proveniente dalla rabbia giovanile dirigendola verso uno scontro, sino a Genova, tutto sommato simulato? Quelli che a Genova erano nel corteo dei disobbedienti hanno solo visto da lontano la zona rossa in quanto è stato preventivamente caricato dalle forze dell’ordine.
Vorrei spendere qualche parola anche sulle altre componenti del Movimento. In questa fase non si può non ricordare la presenza di ATTAC, associazione che in Italia è presente da poco meno di due mesi ma che è nata anni fa in Francia per promuovere l’introduzione della Tobin Tax, che è una tassa sulle transazioni finanziarie di breve periodo, cioè sulle speculazioni in borsa, il cui ricavato potrebbe essere utilizzato per programmi di autosviluppo dei Paesi del Terzo Mondo. Dati i buoni rapporti che mantiene con diverse componenti del Movimento, questa associazione assume spesso il ruolo di cerniera fra esse. Non bisogna nemmeno dimenticare la presenza di CUB e SLAI-COBAS, piccole organizzazioni sindacali da sempre ben disposte alla partecipazione a movimenti di ambito non strettamente sindacale, caratterizzate da forte settarismo non solo nei confronti della CGIL, ma anche verso gli altri sindacati autorganizzati. È da sottolineare anche la presenza della FIOM-CGIL e dell’area della sinistra interna della CGIL chiamata “LavoroSocietà-Cambiare rotta”.
Tutti i movimenti devono mettere prima dell’interesse della propria parte, quello di un Movimento giovane che è in crescita e che subisce un altissimo livello di repressione: le giornate di Genova hanno dimostrato che non è una pratica di piazza a essere colpita, ma il dissenso politico verso il neoliberismo, comunque si manifesti.
Anche se i Democratici di Sinistra hanno scelto di stare a guardare, confermando la loro deriva e sottolineando la necessità per il Movimento di contare solo sulle proprie capacità, non bisogna delimitare confini ma aprire spazi nuovi in cui muoversi utilizzando, come orizzonti guida, temi di sicuro riconoscimento sociale: il lavoro e il non-lavoro, il diritto a un reddito, alla casa, alla salute, a un ambiente pulito. È la radicalità della ribellione che chiede un progetto più complessivo, un irrobustimento politico, la costruzione di forme di conflitto che escano dalla contestazione degli appuntamenti internazionali e si misurino con l’emergente e che vivano nella materialità della società odierna.
Esiste la tentazione di rifugiarsi in rassicuranti nicchie di appartenenza. Vanno abbandonate tutte le logiche autoreferenziali: soprattutto i giovani e le giovani presenti nel Movimento, privi dell’esperienza e della memoria di errori e sconfitte subite, possono sperimentare modalità nuove della politica, fuori dal controllo degli apparati: l’autorganizzazione diretta.
Dopo Genova tutti vogliono una protezione maggiore: quanto più ci saranno sedi del Movimento in cui discutere, prendere decisioni partecipate tanto più le forme di autodifesa e di autogestione delle manifestazioni saranno efficaci.