Globalizzazione, disinformazione e scienza triste
di Francesco Mancini

Che la nostra società dello spettacolo e dell’apparenza, benché caratterizzata da sovrabbondanza di mezzi di comunicazione di massa o, più verosimilmente, proprio per questo, non sia in grado di evitare sistematiche manipolazioni e deformazioni dell’informazione, appare particolarmente evidente riguardo al confronto globalismo/antiglobalismo, rispetto al quale si può parlare a ragion veduta di vera e propria mistificazione e falsificazione della realtà. Ciò è riscontrabile già nelle modalità di uso e abuso della stessa parola “globalizzazione” e nei significati ad essa attribuiti, che sono tali da rendere francamente incomprensibili i reali termini del confronto tra presunti globalizzatori e cosiddetti antiglobalizzatori.
Per globalizzazione propriamente si dovrebbe intendere la tendenza delle varie comunità nazionali a estendere e intensificare i rapporti reciproci in ogni campo delle attività umane, anche se per lo più l’attenzione viene focalizzata sulle attività economiche e finanziarie. Tale tendenza non è affatto appannaggio delle imprese, specie di quelle grandi e potenti come le multinazionali, le quali, anzi, secondo le proprie mutevoli esigenze di mercato e di concorrenza, possono avere, e hanno storicamente avuto, interesse a condizionare e imporre limiti e restrizioni al traffico di merci, capitali, materie prime, lavoratori. Moventi e interessi di questo genere sono, peraltro, tra le cause determinanti di guerre sanguinose, comprese le due mondiali, come può agevolmente verificare chiunque abbia a portata di mano un buon libro di storia(1). E tuttavia chiunque si schieri contro gli interessi e le malefatte delle multinazionali e dei governi ad esse allineati rischia di passare automaticamente per antiuniversalista e contrario allo sviluppo degli scambi e della cooperazione tra i popoli.
La tremenda efficacia di questa opera di disinformazione, proporzionale all’enormità delle risorse impiegate allo scopo, ha potuto constatare ciascuno di noi, dal momento in cui si è accorto che, a seguire la logica dei sedicenti sostenitori della globalizzazione, dovrebbe considerarsi per le sue idee nemico del progresso scientifico, dello sviluppo economico, della lotta alla fame e alla povertà del terzo mondo, e dunque regressivo, passatista e pateticamente indietro rispetto all’avanzare della civiltà. Di contro, chi si schiera con i G8 (e quindi con la globalizzazione, secondo la falsa identificazione artificiosamente creata dalla martellante propaganda a beneficio dei governi e delle multinazionali interessate) si caratterizzerebbe, per rigore scientifico, serietà, equilibrio, rispetto e comprensione delle leggi dell’economia, effettiva sensibilità per le problematiche della povertà, della fame nel mondo, dell’ambiente, della salute e così via. Insomma, secondo la fittizia rappresentazione della realtà operata dai media pro G8, da una parte ci sarebbero la scienza e le tecnologie avanzate, dall’altra l’irrazionalità, il pressappochismo e l’emotività; così come, a fronte della concretezza e del rigore dell’economia e delle istituzioni finanziarie internazionali, ci sarebbe soltanto un confuso e incoerente rifiuto di riconoscere o almeno comprendere le leggi dell’economia, del mercato e della concorrenza.
Questa apparenza ingannevole è determinata dalla enorme disparità delle risorse e degli spazi che sono a disposizione dei contendenti. Non c’è paragone, infatti, a questo riguardo, fra gli scienziati e i centri di ricerca schierati con le multinazionali e i G8 e quanti ad essi si contrappongono, mentre va tenuto in debito conto il pesante condizionamento derivante dal fatto che in massima parte studi e ricerche, nel campo della scienza e delle tecnologie avanzate, sono finanziati direttamente o indirettamente dalle multinazionali e dai governi dei G8 e finalizzati al perseguimento dei loro obiettivi.
Tutto ciò, ovviamente, non implica affatto che la scienza e le ragioni della scienza stiano davvero dalla parte dei G8 e delle multinazionali. Sono numerosi e corposi, anzi, gli elementi a sostegno della tesi esattamente opposta. Prima di tutto, è di comune osservazione come, sui temi della globalizzazione, il mondo scientifico, accademico e gli stessi economisti siano divisi e schierati su entrambi i lati della barricata.
In secondo luogo, si può constatare che i partigiani dei G8 spesso e volentieri ricorrono a grossolane omissioni, oscuramenti e anche a manipolazioni e deformazioni di teorie e dati scientifici, compresi quelli attinenti all’economia politica o dismal science (scienza triste), come ironicamente la definì Carlyle. Per esempio, per diversi decenni l’umanità è stata terrorizzata da scienziati dall’apparenza serissima e rigorosa, che hanno sostenuto la tesi della cosiddetta bomba demografica, cioè la sicura tendenza dell’umanità a crescere numericamente secondo un andamento esponenziale, tale da mettere in dubbio in tempi alquanto ravvicinati la sopravvivenza dell’uomo sulla terra e da imporre la necessità di limitazioni delle nascite e di sacrifici inenarrabili. Oggi scopriamo (si legga a tale riguardo il numero di agosto 2001 della rivista Nature, una delle “bibbie” della comunità scientifica internazionale) che le previsioni per il secolo appena iniziato, con un elevato grado di probabilità, sono per una tendenza al declino e perfino all’invecchiamento medio della popolazione mondiale, mentre un significativo rallentamento del tasso di crescita sarebbe già in atto.
Per altro verso, la stessa comunità scientifica ha di recente riconosciuto come definitivamente dimostrata la tendenza all’incremento della temperatura media del pianeta e, quindi, la necessità sempre più urgente di ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera. È questa, però, con tutta evidenza, l’ultima cosa che vorrebbero mai fare i petrolieri sedicenti globalizzatori che hanno finanziato l’elezione di George W. Bush, i quali, giusto per sottolineare la loro estrema sensibilità per la tutela dell’ambiente, hanno ultimamente ottenuto il voto favorevole della Camera dei Rappresentanti alla effettuazione di trivellazioni nel parco naturale dell’Alaska.
Un’altra colossale, ancorché squallida, distorsione della realtà è stata posta in atto dalle multinazionali interessate alla diffusione degli alimenti geneticamente modificati. Queste imprese, che tendono a presentarsi pubblicamente come preoccupate di incrementare le disponibilità di risorse alimentari per l’intera umanità e in particolare per i popoli più poveri, fanno mostra di non essersi accorte di come non esista in realtà alcun problema di insufficienza di produzione e capacità produttiva di alimenti, che, infatti, vengono sistematicamente limitati e sottoutilizzati, così come è di comune osservazione la distruzione di prodotti agricoli, o la loro destinazione a fini non alimentari, onde impedire ribassi ritenuti eccessivi dei prezzi di mercato. Tecnici ed economisti sanno, invece, benissimo, anche se spesso preferiscono glissare su tale argomento, che il vero problema da risolvere è quello dell’elevato livello di miseria, che impedisce ai più poveri di acquistare le risorse alimentari di cui necessitano e per le quali non hanno da offrire contropartite ritenute sufficientemente appetibili dai potenziali venditori.
In realtà, le multinazionali del settore biotecnologico, come ogni impresa degna di questo nome, tendono a realizzare profitti e a ottenere, per gli enormi capitali impiegati nelle loro attività, tassi di remunerazione il più possibile elevati, quantomeno pari ma preferibilmente superiori a quelli medi del mercato. A tale scopo, non devono e non possono favorire l’accesso al mercato di concorrenti, né la libera iniziativa e l’espansione della capacità produttiva di altri, se non sotto il proprio controllo e a proprio profitto. Pertanto, cercano di acquisire brevetti (per lo più nel campo degli organismi geneticamente modificati) e posizioni esclusive, il più possibile vicine a situazioni di monopolio, sia nella disponibilità di fattori produttivi che nel collocamento dei prodotti finiti.
In questo modo di operare, non c’è nulla di originale: queste imprese non fanno che seguire i principi e le regole della scienza triste o lugubre, funerea. Infatti, come è noto, in conformità ai principi generali, indiscussi e indiscutibili di questa scienza e, quindi, in accordo con la più stretta ortodossia (il lettore può verificarlo agevolmente su un qualsiasi manuale di economia politica), nell’ipotesi (puramente teorica) della concorrenza perfetta accade che il profitto sia nullo e la produzione sia massima, per cui, quanto più gli imprenditori si allontanano da condizioni di concorrenza, tanto più devono ridurre la produzione rispetto a quella realizzabile con i fattori e la capacità produttiva disponibili, tanto più elevato è il livello di profitto.
In altri termini, come crudamente sottolineava Veblen, il posto dell’uomo d’affari nell’economia della natura è “far soldi”, non “produrre beni”, né, tantomeno, produrre il più possibile o risolvere i problemi della fame, della povertà o della salute e dell’ambiente naturale o il perseguimento di altre simili elevate finalità. Le imprese, per loro natura, tendono a ottimizzare i risultati degli affari che intraprendono, ossia a realizzare il massimo profitto col minimo mezzo; e il migliore affare – inutile dirlo – è riuscire a ottenere qualcosa per niente. Insomma, l’impresa sia nazionale che multinazionale, è portatrice di un proprio interesse particolare, che la porta a pagare il minimo per ciò che compra e a ottenere il massimo per ciò che vende. Tale interesse non coincide con quello generale né delle comunità nazionali né dell’umanità complessivamente considerata e anzi si contrappone ai fini e agli interessi delle altre componenti sociali. Le imprese possono essere indotte a perseguire l’interesse generale e a rispettare l’ambiente naturale, la dignità umana, la salute e così via, solo se adeguatamente compensate o in presenza di regole generali imposte e fatte rispettare senza eccezioni o privilegi.
La società capitalista – a questo punto è doveroso richiamare il padre fondatore – funziona e dà risultati positivi, quando ciascuna delle sue componenti (individuale o collettiva, pubblica o privata) ricerca il proprio interesse particolare, perché solo a queste condizioni la “mano invisibile” fa sì che la risultante delle forze in conflitto operi per il bene della collettività e si realizzino condizioni di efficienza nel funzionamento del sistema economico. Se, invece, una o più componenti si sacrificano nell’interesse di una qualche parte privilegiata della società, si pongono le condizioni per la degenerazione del sistema, cosa che nella società contemporanea globalizzata può comportare una concreta minaccia alla stessa sopravvivenza dell’umanità. Infatti, l’accumulazione e concentrazione della ricchezza mondiale nelle multinazionali comporta l’impiego di capitali tanto ingenti da remunerare “adeguatamente”, da imporre livelli di spreco, sottoutilizzo e distruzione di risorse sempre meno sostenibili dall’uomo e dall’ambiente naturale.
Peraltro, come già sottolineato, gli otto governi più potenti della terra, schierandosi totalmente dalla parte delle multinazionali, non possono addurre a loro giustificazione ragioni scientifiche e neanche motivazioni ideologiche, in quanto, col loro comportamento, violano innanzitutto, nei fatti anche se non a parole, proprio i principi e le regole dell’economia politica, del liberismo e del mercato, cui pure ad ogni momento non smettono di richiamarsi, dimostrando, in sostanza, per la scienza triste, lo stesso disprezzo che riservano alle altre scienze.

1) A testimonianza di quali storicamente possano essere state le reali motivazioni dell’intervento delle grandi potenze nelle guerre mondiali, si riporta di seguito integralmente il contenuto di una nota tratta da un’opera di Rudolph Rocker.

“Con quale stupefacente insensibilità noi siamo dovunque oggi pronti a sacrificare la vita di milioni di persone agli interessi economici di piccole minoranze è dimostrato dal cablogramma che l’ex ambasciatore a Londra, Mr. Walter Hines Page, spedì il 5 maggio 1917 al presidente Wilson (che fu seguìto un mese più tardi dalla dichiarazione di guerra dell’America contro la Germania).
Dopo che Page ebbe spiegato al presidente lo stato finanziario critico della Francia e dell’Inghilterra ed ebbe sottolineato che questo avrebbe portato alla completa cessazione del commercio transatlantico, continuò dicendo:
“La conseguenza di un simile blocco porterebbe il panico negli Stati Uniti…
Il mondo pertanto si dividerà in due emisferi, uno, il nostro, avrà oro e merci; l’altro, la Gran Bretagna e l’Europa, avrà bisogno di queste merci, ma non avrà denaro con cui pagarle. Inoltre, praticamente non avrà merci sue da scambiare con queste. Il risultato commerciale e finanziario sarà quasi altrettanto negativo per gli U.S.A. che per l’Europa.
Presto saremo in queste condizioni se non ci mettiamo velocemente in moto per evitarlo.
La Gran Bretagna e la Francia devono avere credito negli USA e sarà abbastanza ampio da evitare il collasso del commercio mondiale e di tutta la struttura finanziaria europea.
Se gli USA dichiarano guerra alla Germania, il massimo aiuto che potremmo dare alla Gran Bretagna e ai suoi alleati sarebbe tale credito.
Se adottassimo questa politica, un eccellente piano per il nostro governo sarebbe quello di fare un grosso investimento in un prestito franco-britannico.
Un altro piano sarebbe di garantire tale prestito.
Grande vantaggio verrebbe dal fatto che tutto il denaro sarebbe tenuto negli Stati Uniti.
Potremmo continuare il nostro commercio e incrementarlo, fino alla fine della guerra, e dopo la guerra l’Europa acquisterebbe alimenti ed enormi quantità di materiale per riorganizzare le sue industrie di pace.
Così noi raccoglieremmo il profitto di un ininterrotto e forse aumentato commercio in un certo numero d’anni e avremmo i loro titoli in pagamento.
D’altra parte, se noi avessimo quasi tutto il denaro e l’Europa non potesse pagare per riorganizzare la sua vita economica, potrebbe esserci un panico a livello mondiale per un periodo indefinito.
Naturalmente non possiamo estendere tale credito a meno che non facciamo la guerra alla Germania”.

(FONTE: Burton J. Hendrick, The life and letters of Walter H. Page, pag. 270, citato da Rudolph Rocker in «Nazionalismo e cultura», Edizioni della Rivista «Anarchismo», Vol. 2°, pagg. 243-244.)

settembre - dicembre 2001