Ero partito per Genova pieno di speranze, convinto che creare un mondo diverso, migliore, fosse possibile, non un’utopia.
Forse è vero, però, che la ricetta per realizzare questo sogno ancora non esiste o almeno non ce n’è una sola. Bisogna ricercarla, tuttavia, e non c’è altro modo che il confronto, la contaminazione tra tutte le anime del movimento antiglobalizzazione.
A Genova, oltre che esprimere il mio dissenso, speravo di poter fare anche questo: incontrare, conoscere, ragionare insieme, apprendere. Fin troppo, evidentemente, si è voluto evitare che tutto ciò avvenisse.
Non ho mai fatto politica in maniera “attiva”, ma da anni sono impegnato come volontario nel nostro centro storico. Molfetta Vecchia mi sembra l’emblema del cosiddetto “nuovo mondo”: grandi contrasti, degrado morale, un luogo dove i problemi sociali non si affrontano ma semplicemente si trasferiscono in altre zone della città. Possiamo sicuramente annoverarla, fatte le debite distinzioni, tra uno di quei luoghi costantemente esclusi dalla grande zona rossa globale che è il mondo dei ricchi, opulento ed egoista.
Violare la zona rossa era appunto l’obiettivo di noi giovani molfettesi, giunti allo Stadio Carlini, sede di coloro che si ripromettevano di esprimere il loro dissenso con la “disobbedienza civile”. Al di là di ciò che è stato detto, questo intento era puramente simbolico: non eravamo in possesso di strabilianti macchine medioevali da assedio, ma solo di alcuni scudi, simbolici e innocui, di plexiglas e caschi. Ciò ha permesso al nostro corteo del 20 luglio di resistere a cinque ore di cariche dei blindati delle forze dell’ordine e ai lanci dei lacrimogeni che piovevano dai tetti o erano sparati ad altezza d’uomo, ben prima della zona rossa. Ed è lì che è morto Carlo Giuliani…
Prima delle manifestazioni, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ci aveva parlato della libertà di manifestare che sarebbe stata “concessa”, garantita. In realtà, noi disobbedienti abbiamo vissuto due giorni da reclusi, assediati per tutto il tempo dalle forze dell’ordine. A dispetto dei tre miliardi stanziati per i manifestanti, non c’era nulla da mangiare e non ci si poteva neanche allontanare dallo stadio per evitare di essere portati in questura, per “controlli”.
Anche il corteo del 21 luglio si è svolto in un’atmosfera irreale di rabbia e tensione. In molti, siamo stati impegnati nel servizio d’ordine del nostro spezzone di corteo, per evitare che l’infiltrazione di teppisti (altro che anarchici, questa è gente che non conosce neanche cosa voglia dire l’Anarchia!!) fosse il pretesto per le cariche indiscriminate delle forze “dell’ordine”. Ho passato buona parte della giornata dando le spalle a tutto ciò che avveniva intorno a me, senza poter incontrare nessuno o rendermi conto delle cose terribili che stavano accadendo; queste le ho potute intuire solo dall’odore dei fumogeni e dal fumo nero delle macchine incendiate.
Siamo dovuti tornare allo stadio che ci ospitava attraverso le montagne di Genova, come briganti in fuga, poiché in centro era oramai guerra aperta. Gli abitanti di quella città fantastica, lungo il nostro cammino, ci hanno fornito con generosità acqua, cibo, indicazioni, supporto morale. Ne avevamo bisogno vitale.
Loro, che erano lì, che hanno visto attentamente e hanno vissuto tutto personalmente, erano dalla nostra parte. In quei giorni, invece, abbiamo fortemente avvertito lo Stato come nostro nemico.
Ripartiamo di qui, per le tante, numerose Genova dei nostri giorni e del nostro impegno.