Non sappiamo più dare ascolto alle voci molteplici della società civile, e incivile, quella parte di società che è stata privata di strumenti di espressione. Dobbiamo riprendere a conoscere questa società, a leggere la realtà, a guardarla, a gustarla, anche a disprezzarla. Questo è sapere, questa è conoscenza.
Ci dicono che si potrebbe iniziare a scrivere in modo da essere capiti da tutti. Ma voi, pensate che il sapere sia un dolce pasto, confezionato per piacere a chi vuole mangiarselo? È sempre il risultato di un duro lavoro, di una ricerca faticosa, e presuppone individui che, di fronte alla difficoltà di comprendere, non se la prendano con chi scrive, ma con se stessi, che ancora non hanno imparato a leggere.
Non si può chiedere al mondo di essere trasparente e di non creare problemi interpretativi. Così si ritarda la soluzione dei problemi di cui soffriamo, pretendendo che la soluzione sia a nostra misura e non che essa finalmente giunga a essere all’altezza della misura del mondo.
E poi, il lavoro per la costruzione di un’ipotesi di sviluppo alternativo deve ancora cominciare. Provate a convincerci del contrario. Quando c’è stato un tentativo di organizzare un lavoro lungo teso, a valorizzare la specificità della sinistra, a evidenziare la sua diversità, a capire ciò che di nuovo c’è sempre nella sinistra? Non sto dicendo di banali punti di programma, ripetuti noiosamente nel passato, in tutte le occasioni, ma la ricerca di una prospettiva diversa, più radicale, che vuole essere credibile per la gente proprio perché è alternativa, antagonista, ed è costruita con la partecipazione diretta di tutti.
Abbiamo voglia di urlare la nostra insoddisfazione. C’è un bisogno nuovo, diffuso, c’è la convinzione che le politiche settoriali debbano coordinarsi attorno a un’idea precisa di sviluppo: i lavori organizzati in un grande unico cantiere, quello della crescita equilibrata, rispettosa della valorizzazione del patrimonio ambientale, umano, sociale. Il raggiungimento di uno sviluppo armonioso, equilibrato e, soprattutto, duraturo delle attività economiche, la parità tra i sessi e l’elevamento del livello di tutela e di miglioramento dell’ambiente: è possibile far vincere un’idea diversa di ‘nuova economia’.
Finalmente un bisogno esistente, vero, sta tentando faticosamente di esprimersi, rozzamente, spontaneamente. Ma l’esistenza di un bisogno spontaneo non costituisce di per sé garanzia della sua soddisfazione. Se non ci credete, guardate a quello che è accaduto negli anni Sessanta, ed è continuato negli anni Settanta, quando la società ha espresso un forte bisogno di cambiamento. Quelli che ne erano portatori sono stati capaci di dargli una forma socialmente valida?
C’è una nostra condivisione degli obiettivi strategici del “popolo di Seattle”, a cui apparteniamo, a cui anche la popolazione molfettese già appartiene, almeno la gente che ne condivide l’ispirazione politica, oltre a quella, ed è tanta, che già vive, o si sforza di vivere, in modo diverso, di produrre in modo diverso. Qui scrivono i nostri giovani, i compagni di Molfetta, che hanno partecipato al Genoa Social Forum, nei giorni di luglio, e scrivono a nome di tutti quelli che ricercano vie diverse, inusuali, e già vi camminano. Non li preoccupano le difficoltà: è questa la definizione di sinistra, è questa la sua ricchezza. È anche il suo difetto, la sua trappola, la sua maledizione? Deve sempre reinventare tutto da capo e ripartire da zero? Si ripete tutte le volte la discontinuità tra una generazione della sinistra e l’altra. Ogni generazione ignora quelle precedenti.
Il movimento “no global” potrà sperare in una prospettiva futura solo se si confronterà approfonditamente con il problema dei suoi stessi presupposti storici. Non serve la configurazione reticolare come rappresentazione che all’interno il movimento si vuole dare di se stesso. Avversare allo stesso modo capitale e stato? Allora qual è l’anima vera del movimento?
Ci aspetta l’autunno. Ci aspetta nella città, con l’attuazione del Piano Regolatore Generale. Ci aspetta nelle aziende e nel lavoro nelle industrie, nei campi, sul mare. Ci aspetta nelle piazze della città e nella partecipazione dei cittadini, nei luoghi vitali in cui c’è l’anima della città, quell’anima che solo l’esistenza quotidiana e l’intimità con lo spirito della città rivelano. Ci aspetta nella scuola, nella voglia dominante di scuola-azienda, di scuola privata. Ci aspetta nell’università, da cambiare.
Ci aspettano, in autunno, temi di sicura valenza sociale: il lavoro e il non-lavoro, il diritto a un reddito, alla casa, alla salute, a un ambiente pulito. È la radicalità della ribellione, è la forza del nostro “urlo” a chiedere che la nostra discussione, il nostro approfondimento, la nostra analisi tendano verso un progetto complessivo, un irrobustimento politico della sinistra e costruiscano forme di conflitto che non si limitino alla contestazione degli appuntamenti dei vertici internazionali, ma si misurino con l'emergente e vivano nella materialità della società odierna. |
settembre - dicembre 2001 |