Parte Terza
La Mandante
Romanzo modenese
I due giovani “ex repubblichini” emiliani,
come venivano genericamente chiamati, in modo “spregiativo”, da certa stampa e
dagli avversari ora “padroni del vapore”, rimasero in contatto epistolare per
alcuni anni, finché un giorno, all’inizio dell’autunno del 1949, Luisa ricevette
una lettera da Giorgio il quale le comunicava che sarebbe arrivato, il giorno 20
Settembre, alla stazione Centrale di Milano, proveniente da Modena e, se fosse
stata libera da impegni, avrebbe avuto molto piacere di rivederla.
Quel giorno, il “Roma-Milano” con soli pochi minuti di ritardo sull’orario
previsto, si arrestò al binario n. 14. Giorgio, affacciato al finestrino vide
immediatamente sul marciapiede, in mezzo alla folla in attesa di amici e
parenti, l’inconfondibile figura di Luisa, i capelli a “caschetto”, indossava un
elegantissimo tailleur grigio che fasciava la sua snella figura. Bella, forse
ancor più bella di quella notte di tanto tempo fa trascorsa in “fitto colloquio”
dopo il “salvataggio in extremis” dentro quella “casa” di Modena. Anche lei
riconobbe Giorgio all'istante e corse verso il vagone, “sbracciandosi” per farsi
vedere tra la gente; lui si precipitò dal treno, appena arrestatosi, per essere
immediatamente accolto tra le braccia spalancate di Luisa. Si baciarono e si
abbracciarono come due innamorati, quali forse erano, senza mai essersi
dichiarati e senza che ci fosse mai stato, anche nella corrispondenza intercorsa
in quei lunghi anni, un solo accenno alla parola “amore”.
Giorgio era arrivato a Milano dopo una sosta di due giorni nella sua città a
casa dei genitori dove, da quando si era stabilito a Roma, si era recato qualche
volta. La situazione politica nel modenese si era notevolmente tranquillizzata,
e per la impossibilità da parte dei “rossi” di forzare la condizione geopolitica
uscita dalla conferenza di Yalta, per portarla a loro favore, e per la solerte
opera delle forze dell’ordine. I carabinieri in particolare, avevano scoperto
tanti dei delitti da loro commessi e messe a tacere le ultime “squadre delle
volanti rosse” che erano rimaste in “esercizio” per due anni buoni dal termine
della guerra; ma ancor più dopo la cocente sconfitta del “Fronte Popolare” alle
elezioni del 18 Aprile 1948 quando il Partito Comunista Italiano, sovvenzionato
dai rubli sovietici, assieme ai suoi alleati del Partito Socialista, venne
sonoramente battuto dalla Democrazia Cristiana, ma in particolare dal popolo
italiano che non voleva assolutamente sentir parlare di comunismo, in quello
scontro epocale che permise all’Italia di non restare invischiata nella
operazione dell’Internazionale rossa, in quanto vide, definitivamente scacciati
a “furor di popolo” gli emissari di “Baffone” che, anche in Italia, avrebbero
voluto instaurare un bel “Regime” come invece successe nei paesi dell’Est
Europeo che, con la violenza e i colpi di stato e mai attraverso libere
elezioni, diventarono dei satelliti del “moloch” sovietico.
Più frequentemente, nei primi tempi della sua sistemazione a Roma in Via
Montevideo, furono i suoi genitori a recarsi nella capitale a trovare il ragazzo
e la famiglia dello zio Adolfo che era sempre stato molto legato alla mamma di
Giorgio.
Luisa prese per mano il “modenese-romano” e assieme si incamminarono fuori dalla
stazione, chiacchierando e complimentandosi l’uno con l’altra:
“ti trovo benissimo…”,
“ma come sei bella….”,
“sei elegantissima…..”,
“adesso sei proprio un bell’uomo……”
e via così, si guardavano e si studiavano, allegri e sorridenti per fermarsi al
primo bar che incontrarono dove trovarono un tavolino appartato in un angolo e
qui ebbero la possibilità di scambiarsi le prime considerazioni. Giorgio le
comunicò che era arrivato a Milano per lavoro dato che il giornale dove
lavorava, “Il Tempo” di Roma, lo aveva inviato nella capitale lombarda per un
“servizio speciale” e aveva prenotato per lui una stanza all’Hotel “Gallia”.
Sarebbe rimasto in città per parecchi giorni, di conseguenza avrebbero avuto la
possibilità di frequentarsi, “sempre se lei lo avesse desiderato”, con una certa
assiduità.
“Carissimo Giorgio” precisò subito Luisa, “ io, proprio in questi giorni, sto
abbandonando il “lavoro” che avevo intrapreso in quella “Casa” di Modena dove ci
siamo conosciuti, “mestiere” che ho portato avanti per tutti questi anni. Ho la
possibilità, tramite l’amica “maitresse”, che ha alcune conoscenze “altolocate”
anche qui a Milano, di avere documenti nuovi e “puliti”. Noi “puttane” siamo
schedate dalla questura e con questo “marchio infamante”, difficilmente
riusciamo a trovare altre attività nel momento in cui decidiamo di “smettere”,
cambierò completamente il corso della mia vita.
Sono stata in molte case qui a Milano, in Via Chiaravalle, in Via San Giovanni
sul Muro, in Via San Carpoforo e sempre in case di “lusso” che mi hanno permesso
di mettermi da parte un discreto “gruzzoletto”; attualmente sono in trattativa,
dopo che avrò avuto i nuovi documenti, in regola e puliti, che mi potranno dare
una nuova “verginità”, non metterti a ridere per questa mia battuta, per entrare
poi a lavorare in un “night club”; questi locali stanno incontrando un grande
successo qui a Milano dove la gente, oltre al lavoro, ha una gran voglia di
divertirsi.
E’ un’ attività “similare” ma non “totalizzante” come quella delle case, in
quanto, se vuoi “andare a letto” con un cliente è una tua scelta e non è sempre
obbligatorio, anche se il “datore di lavoro” ti può stimolare a farlo. In fondo
devi “semplicemente” cercare di far consumare “champagne” e altre bevande al
cliente, sei l’”entreneuse” come si dice alla francese, devi saper ben
“intrattenere” nel locale quei “gonzi” che vengono per ballare, godersi lo
spettacolo delle ballerine e dei giocolieri, gustarsi la musica di brillanti
orchestrine; ci sono stata varie volte in questi ultimi tempi, come cliente,
assieme al mio “collocatore” che mi sceglierà locali come l’Embassy Night Club o
l’Astoria, o il Maxim o altri di grande prestigio che sono frequentati da una
clientela ricca e spendacciona e anche dalla “cosidetta” Milano bene.
In questi locali ho trovato brillanti complessi come quello di Renato Carosone,
di Bruno Quirinetta, o artisti come, Peter Van Wood, Sergio Endrigo, Bruno
Martino, Marino Barreto, Fred Buscaglione e tanti altri. Lavori quindi
ascoltando buona musica poi, se qualche cliente ti vorrà portare in una camera
d’albergo promettendoti una lauta ricompensa, in fondo non farai altro che
ripeterti nel lavoro che per più di tre anni hai fatto quotidianamente, con
tanti uomini, uno dietro l’altro, senza sosta.
Al Night sarà tutt’altra cosa, lavori solo di notte dalle dieci alle quattro del
mattino, di conseguenza avrò molto più tempo libero rispetto alle “case, che ho
frequentato praticamente in tutto il Nord Italia dalle grandi città a quelle più
piccole, e ho fatto pure una “puntata”, di un mese, anche nella mia Bologna, in
Via delle Oche e in Via dell’Orso”.
“Come ti ho detto”, proseguì Luisa, “in questi giorni sono abbastanza libera e,
se vuoi, ti faccio visitare il mio appartamentino che ho acquistato, da poco
tempo, in centro in Piazza San Babila, nel quale “sempre se credi” potresti
accomodarti per i giorni che resti a Milano; in quei locali, abbastanza vasti,
ci abito da sola e non vi faccio mai entrare uomini, anche perché non ho mai
intrecciato una relazione “abbastanza seria” con nessuno. Ma con te sono
prontissima a fare un “eccezione”.
“Sei sempre troppo carina e gentile con me”, rispose Giorgio, “ma per questa
notte sarà opportuno che mi rechi all’albergo che mi ha prenotato il giornale,
poiché da lì mi devo tenere in contato con Roma dato che, come ti dissi qualche
tempo fa in una lettera, mi hanno assunto, mentre stò frequentando l’Università.
Mi trovo molto bene in quella redazione, questo è il mio primo incarico
importante fuori sede, pertanto è bene che non “sgarri” subito: magari nei
prossimi giorni vedremo cosa sarà possibile fare; intanto questa sera andiamo a
cena in qualche “bel posticino” che tu mi indicherai, così avremo il tempo di
raccontarci tutto quello che in questi ultimi tempi non siamo riusciti a
comunicarci per lettera. Adesso mi accompagni in albergo, così mi cambio e mi
metto un vestito che mi possa permettere di non sfigurare con te che sei
elegantissima e ormai sono quasi le otto.”
Dopo essere salito nella camera all’Hotel Gallia, rimase sorpreso che il
giornale lo avesse trattato così bene alla sua prima esperienza in trasferta e
dopo aver indossato il doppio petto grigio che si era portato da Roma, opera
della sartoria dello zio, poiché, da quando il ragazzo aveva iniziato a
frequentare l’Università, lo voleva sempre elegante e in fondo a Giorgio non
dispiaceva il “vestir bene”. Quando Luisa lo vide, lo aveva atteso nella hall
dell’albergo, rimase colpita dalla eleganza e dalla prestanza di Giorgio e le
prime parole che disse, quando la prese sottobraccio per uscire dal Gallia per
recarsi al ristorante, furono:
“speriamo solamente di non incontrare qualche cliente delle “case” perché non
vorrei farti fare una brutta figura, considerato che non sempre i “clienti” sono
persone educate e corrette e tanti sono abituati a fare, nei “nostri confronti”,
battute non molto carine, di conseguenza sarebbe imbarazzante per te.”
“Luisa non ti devi assolutamente preoccupare per questo” la rassicurò il
ragazzo, “sono sufficientemente navigato e ho anche la parola facile e con
arguzia sono pronto a “stendere” qualsiasi individuo che voglia permettersi un
comportamento scorretto e villano nei tuoi riguardi”.
Dall’albergo avevano fatto prenotare un tavolo per due in un grazioso ristorante
in Via Bagutta dove, quando entrarono, ben accolti dai camerieri, fecero subito
“colpo” poiché in tutti i tavoli, sia gli uomini, sia le donne, ammirarono
quella bella ed elegante coppia, e nessuno diede a dimostrare di aver
riconosciuto, in quella stupenda ragazza, “una di quelle”.
Dopo aver ordinato, Luisa iniziò col chiedere a Giorgio come andavano avanti i
suoi studi e se avesse trovato a Roma, la fidanzata.
“No, cara Luisa, ho conosciuto molte ragazze ma ancora non ho legato con
nessuna, sono rare le volte che con la compagnia di mio cugino, più spesso
durante il periodo del carnevale, andiamo a ballare al pomeriggio, in uno dei
locali del centro di Roma come la “Rupe Tarpea” o la “Casina delle Rose” o alle
“Grotte del Piccione” o in qualche altra “balera”. Raramente sono uscito con una
ragazza da solo, poiché, almeno con la maggioranza di queste se vuoi, o andare
al cinema o semplicemente andare a fare una passeggiata al “Pincio”, loro ci
vengono, ma quasi sempre accompagnate dalla mamma. Ma a questo proposito ti
voglio raccontare un episodio abbastanza “comico”.
Ero riuscito a “strappare” un appuntamento ad una di queste ragazze che riuscì
ad evitare l’accompagnamento della mamma o della sorellina, e durante una
passeggiata in uno dei parchi romani, ce ne sono molti e molto belli, eravamo
seduti su di una panchina e ci stavamo baciando, quando sentimmo uno
“scapannellio” molto vicino, io dissi con mè stesso, ma senti che effetto mi fa
baciare questa ragazza, non avrei mai pensato che si potessero udire suoni, che
non sono “celestiali”, ma un po’ troppo metallici, e si ripeterono altre due o
tre volte.
Ci staccammo, e di fianco a noi è apparso un Vigile urbano in bicicletta, un
“pizzardone” che, dopo quella serie di “scampanellate”, correttamente, ci ha
accusato di essere in contravvenzione in quanto esiste in Roma un ordinanza del
Comune che vieta alle coppie di baciarsi in pubblico.
Siamo rimasti di “stucco” entrambi, io ho cercato di contestare ma non c’è stato
niente da fare, anzi a un certo punto ci minacciò di portarci al commissariato,
al che la ragazza, pensando che forse le guardie avrebbero chiamato i suoi
genitori, si mise a piangere. Il sottoscritto allora mise subito mano al
portafoglio per saldare quella contravvenzione che, se ricordo bene mi costò un
due o trecento lire. Vedi dunque che è meno rischioso entrare in una delle tue
case, piuttosto che uscire “innocentemente” con una ragazza, almeno a Roma.”
Luisa si mise a ridere e lo sollecitò a continuare; Giorgio, che si stava
gustando uno squisito risotto alla milanese riprese il suo racconto,
“come ti ho scritto, dopo aver frequentato al Liceo Visconti a Roma, l’ultimo
anno, all’esame di stato ne sono uscito con un ottima votazione, mi sono
iscritto a Legge e fra pochi giorni inizierò le lezioni del terzo anno. Sono
praticamente in pari con gli esami. Mi manca solamente un “diritto”. Dopo aver
lasciato il lavoro di commesso in quel negozio di abbigliamento maschile dove mi
trovavo abbastanza bene e che mi ha permesso di sostenere le spese del mio primo
anno di permanenza nella capitale, all’inizio del secondo anno degli studi
universitari, tramite un amico di mio cugino Umberto che è redattore al Tempo,
giornale importante e di prestigio, mi hanno assunto come collaboratore alla
cronaca giudiziaria e saltuariamente anche alla cronaca sportiva: senz’altro
guadagno meno che fare il commesso, ma almeno è una attività molto più
interessante e più consona ai miei studi, che vorrei terminare, possibilmente,
nell’arco massimo di un quinquennio, cercando di non andare troppo “fuori
corso”.
I miei genitori e lo zio mi aiutano, ma vorrei rendermi, “indipendente” in
uno-due anni, dall’ottenimento della Laurea. Devo cercare di non lasciarmi
prendere troppo da questo impegno di “giornalista”, dato che ci tengo a
laurearmi, poiché ho visto che alcuni miei colleghi hanno rinunciato a
proseguire gli studi per fare i “corrispondenti a tempo pieno” senza però avere
in mano quel “pezzo di carta” al quale ci tengono molto, tutti quelli della mia
famiglia.
Ho già fatto alcuni servizi di “cronaca nera”, e di “giudiziaria” ma non
disdegno anche di fare qualche pezzo allo stadio, in particolare quando gioca la
“Lazio” che è diventata, da quando abito a Roma, la squadra del “cuore”. A
Modena sono passato, ma sempre velocemente, alcune volte a trovare i miei
genitori che in realtà sono venuti più spesso loro a Roma, e alcuni dei miei
amici più stretti.
Dei ragazzi con i quali ho passato otto mesi nella Brigata Nera modenese, non ho
più visto, né avuto notizie, di nessuno e di questo sono molto dispiaciuto,
poiché alcuni di loro, so con certezza che sono stati uccisi dai partigiani.
Degli altri spero ardentemente che, come il sottoscritto, qualcuno sia riuscito
a sopravvivere a quella bufera. Mi spiace solamente per la famiglia di non
essere rimasto nella mia città, senza poter portare quell’aiuto che avrei potuto
dare alla crescita del mio fratellino Marco, che adesso frequenta il Liceo
Scientifico”.
“Ma ti rendi conto Luisa”, proseguì il neo corrispondente del “Tempo”, mentre il
cameriere versava loro un altro calice di “Franciacorta” ordinato per
accompagnare la classica cenetta che, al momento, vedeva sul tavolo una bella
“cotoletta alla milanese”, “sono passati quattro anni da quei “giorni
maledetti”. Entrambi ne siamo usciti in qualche modo, ma almeno non ci abbiamo
lasciato la pelle come purtroppo è capitato a tanti nostri camerati, ai quali
non vi è nemmeno la possibilità di andare a portar loro qualche fiore, visto e
considerato che non hanno avuto l’ opportunità di essere sepolti dignitosamente
in una tomba dove parenti e amici possano andare a trovarli.
Agli altri, quelli che ci sparavano alle spalle, sono stati dedicati mausolei,
cippi funerari nei luoghi dove hanno perso la vita e in ogni occasione di
ricorrenza vengono celebrati come degli “eroi” mentre per i nostri che sono
caduti con addosso una divisa non vi è ancora nessuna possibilità di un degno
riconoscimento. Anzi moltissimi stentano a reinserirsi nella vita sociale poiché
o epurati o messi al bando dai posti di lavoro, emarginati solamente perché,
quando viene chiesto loro, specialmente nel pubblico impiego, un “curriculum”,
se fai notare la tua appartenenza ad un corpo militare della Repubblica Sociale
Italiana, difficilmente hai la possibilità di essere scelto. Conosco ragazzi e
anche persone mature con figli a carico, che vivono nella più completa miseria e
che non hanno la possibilità di recuperare il loro precedente posto di lavoro e
sono costretti ad andare ad elemosinare, quotidianamente, un pasto alle
organizzazioni di assistenza, o presso qualche Istituto ecclesiastico
caritatevole che da loro la possibilità di non morire di fame. E’ avvilente
vedere in quelle condizioni persone che un tempo conducevano una vita normale,
impiegati, insegnanti, persone dabbene che non escono più di casa perché si
vergognano a farsi vedere in quelle condizioni e molti di loro si lasciano
completamente andare, finendo in ospedali, in manicomi, e tanti anche in carcere
perché, pur di sopravvivere, commettono piccoli “furtarelli” che, per la loro
assoluta incapacità a delinquere, li mettono in condizione di farsi “pescare” e
a peggiorare, di conseguenza, il loro stato psicologico.”
“Hai ragione Giorgio”, disse la “donnaccia”, “malgrado siano passati quattro
anni, il mio ricordo ritorna ogni giorno e ogni notte all’orrenda esperienza che
mi hanno fatto passare quei “maiali”, oltretutto mi hanno praticamente costretta
a dovermi scegliere una professione che non è proprio quella alla quale
aspiravo, ma siamo ancora giovani ed abbiamo realmente tutta la vita davanti a
noi, l’importante è non lasciarsi prendere dalla disperazione come hanno fatto
tanti nostri camerati; ho trovato qui a Milano alcune delle mie colleghe
ausiliarie con le quali abbiamo passato assieme gli ultimi mesi della
Repubblica.
Alcune hanno subito violenze e grosse difficoltà a reinserirsi nelle attività
lavorative, ma nessuna, a quanto ho saputo, ha passato un “calvario” spaventoso
come quello che ho vissuto io; una l’ho trovata, a Varese, in una “casa” a fare
il “mestiere”. Chi aveva alle spalle una famiglia benestante è riuscita a
venirci fuori, mentre per le altre è stata, ma per molte lo è ancora, durissima,
come tu raccontavi per i nostri camerati. L’attività che sono stata costretta a
scegliere mi ha, almeno per i primi tempi, quasi completamente “annullata”,
andavo a letto “distrutta” e non pensavo quasi più a niente, ero veramente
diventata “un'altra”, non mi riconoscevo più, sentivo tutto quello che stavo
vivendo come uno stato di degradazione totale, di umiliazione, di sfacelo fisico
e morale, poi, gradualmente, mi sono “adeguata” e visto che si guadagna anche
bene ho cercato di sfruttare al massimo questa attività.
I miei genitori non sanno assolutamente nulla di questo mio “esercizio”; ho
raccontato loro che sono impiegata qui a Milano, e appena ho un po’ di tempo
vado a trovarli. Solo mia zia Bice forse “ha mangiato la foglia” ma
probabilmente mi pensa a fare una certa vita, ma non dentro a quelle case.
Sono alcuni mesi che sto seriamente pensando di riprendere a studiare per,
eventualmente, fare quello che stai facendo a Roma e cioè iscrivermi alla tua
stessa facoltà, cosa che, quando frequentavo il Liceo a Bologna e a Mirandola,
pensavo di fare. Se riesco a trovare qualcuno che mi dia lezioni o se trovo un
Istituto privato che possa permettermi di preparami dignitosamente, vorrei
tentare di dare l’esame di stato come privatista.
So bene che questo è un sogno ben difficilmente realizzabile, però adesso che ho
un appartamento dove posso stare tranquilla e se và bene in porto l’attività di
“entreneuse” o di “accompagnatrice” penso mi resti del tempo libero per
studiare. Non posso fare come facesti tu che hai frequentato il terzo anno come
un allievo normale. La sottoscritta e per l’età e per la professione che mi
ritrovo, difficilmente potrebbe stare a contatto quotidiano con delle ragazzine
liceali. Inoltre rimane sempre nei miei pensieri la possibilità di potermi un
giorno vendicare per tutto quello che ho subito.
Ho saputo che si erano costituiti dei gruppi con delle “velleità”, non dico di
ricostruire quello che è finito, ma di rifarsi all’ideologia sconfitta; una
camerata, che ho incontrato qui a Milano, quella che avevamo lasciato in questa
città ai primi di Maggio del 1945 e che si è salvata senza aver subito violenze
di sorta, mi aveva contattato per cercare di farmi entrare o quanto meno di
iscrivermi a quei gruppi, ma ho rifiutato decisamente, non voglio avere niente a
che fare con questi “nostalgici” che adesso sono costituiti in regolare partito,
tutt’al più potranno avere il mio voto se deciderò di partecipare alle elezioni.
Ma la “vendetta” dovrà avere un sapore particolare, me la dovrò “gustare” e
“centellinare” da sola e dedicarla a quelle persone che furono “bestialmente”
ammazzate in quel territorio della bassa modenese davanti ai miei occhi, non è
ancora giunto il momento per potermi muovere nella direzione che mi sono
proposta, ma ho imparato ad avere pazienza, pertanto, che sia fra un anno o fra
dieci non importa, la “cambiale“ che hanno firmato con la sottoscritta dovranno,
“obbligatoriamente” saldarmela.
Malgrado il “mestieraccio”, adesso sono abbastanza serena, motivata a far soldi
e a portare avanti la mia vita senza trascurare quegli studi classici che avevo
intrapreso e che la “malasorte” ha voluto interrompere. Assolutamente è finito
il tempo delle “case chiuse” e di questi anni sarà opportuno che mi ricordi
solamente gli “aspetti positivi” di quella vita. In fondo sono stata sempre ben
servita e accudita, le cameriere mi portavano il caffè a letto al mattino, il
medico ci teneva sempre controllate anche due volte alla settimana, le addette
alle pulizie, almeno nelle case più importanti, ma io ho praticamente e quasi
sempre frequentato solo quelle, esclusa qualche eccezione, entravano nella
stanza a pulire e a disinfettare dopo ogni “cliente”, e posso dire di avere
avuto sempre una clientela di riguardo, professionisti, gente danarosa, perfino
alcuni sacerdoti che arrivavano sempre in borghese e che si facevano trovare nel
salottino privato e mai in mezzo agli altri clienti.
Certamente mi sono dovuta adeguare alle richieste più strane e alle
“perversioni” più incredibili, ho imparato a conoscere la “fauna” umana in tutte
le sue “depravazioni” e in tutte le contorsioni mentali possibili, ma
fortunatamente, contrariamente a quanto è successo a delle “colleghe”, non ho
mai avuto incontri violenti o brutali o troppo aggressivi, quelli me li hanno
scaricati addosso solamente quegli “orrendi individui” che oggi vengono
considerati degli “eroi”, quando avevo solamente diciotto anni e speravo ancora
di incontrare il “mio grande amore” o se vuoi il mio “principe azzurro”; da quel
mese di maggio del 1945 non credo più a niente, l’unico uomo che conosce la mia
storia sei tu e ringrazio chi sta lassù, se ci sta, di avermi dato la
possibilità di conoscere un ragazzo “pulito” come te.
Devi perdonarmi per questa “dichiarazione” ma è la pura verità, io mi sento così
bene con te come non mi è capitato mai con nessun altro. Vari uomini mi hanno
portato fuori a cena e anche a teatro e sai bene che, per “quel motivo”, hanno
conosciuto il mio corpo in tanti, ma la mia testa e ancor più il mio cuore, non
li ho mai dati a nessuno.”
Dopo aver ordinato un dolce, Giorgio si limitò a sorridere compiaciuto alla
ragazza e a dirle: “vorrei conoscerne di più delle donne come tè, con la tua
maturità e la tua saggezza, dato che sino ad oggi ho solamente incontrate
ragazze frivole e decisamente poco mature.”
Contemporaneamente diceva a sé stesso:
“Luisa mi piace moltissimo, è molto bella ed anche molto intelligente, ma come
faccio a fare una proposta seria ad una donna che fa “quel mestiere”, come posso
pensare di fare all’amore con chi è passata tra le braccia e ha conosciuto il
sesso di centinaia e centinaia di uomini? Sarà bene che rimanga, la nostra,
solamente una buona e magari duratura amicizia e da parte mia cercherò di
esserle eternamente riconoscente per quello che ha fatto per mé, ma oltre non
posso andare.
Sarò un provinciale, rimasto legato a vecchi principi ma, e ricordo pure le
parole che mi ha detto lei, adesso, in ogni uomo che incrociamo e che le butta
lo sguardo addosso, anche se solamente in funzione della sua bellezza, penso
immediatamente che quel tale la possa aver posseduta a suo piacimento e in una
delle forme più “perverse” alle quali si è resa disponibile per tanto tempo
facendo il suo “lavoro” e che quest’uomo possa mettersi a ridere alle mie spalle
nel vedermi in compagnia di una "sgualdrina".
Come potrei presentarla alla mia famiglia, da sempre legata alle forme più
“tradizionali” del modo di vivere e che hanno sempre rifiutato le
“trasgressioni”, anche le meno eclatanti? Se sapessero la totale verità come
potrebbero giudicare quel loro figliolo che credevano cresciuto nel più assoluto
rispetto di quei valori?
E’ difficile “spogliarla” della sua “attività professionale”, della quale sei
perfettamente a conoscenza per averla conosciuta nel pieno dell’ ”esercizio
delle sue funzioni”. Probabilmente se l’avessi incontrata da qualsiasi altra
parte, senza venire a conoscenza della sua “reale attività” avrei anche potuto
realmente innamorarmi, dato che sento per lei una grandissima attrazione
Adesso mi trovo veramente in grosse difficoltà pensando al momento in cui
rimarremo soli, come mi dovrò comportare? Sento notevole interesse per lei, ma
nello stesso tempo non riesco a non pensare che se mi trovassi all’interno di
una delle sue “case” mi basterebbe pagare la “marchetta” per ottenere la stessa
cosa senza altre preoccupazioni di ordine morale. Non vorrei comportarmi come un
“cliente” qualsiasi, d’altra parte se passiamo un po’ di tempo assieme, visto
che mi ha invitato in casa sua, dovremo arrivare logicamente a “quella”
conclusione
Ugualmente mi dispiacerebbe che lei arrivasse a considerare il mio comportamento
come quello di un qualunque individuo che vuole da lei solamente “quella cosa”.
Questo imbarazzo penso che lo abbia già interpretato dato che è una donna
intelligente e profonda conoscitrice, non solo del corpo ma in particolare della
psicologia maschile; prima o poi questo problema dovremo “analizzarlo” assieme
poiché dovrebbe essere lei ad aiutarmi per uscire, possibilmente in modo
corretto e senza traumi, da questo attuale mio disagio.”
“A cosa pensi Giorgio” chiese Luisa “sei diventato di colpo pensieroso e molto
serio, sei forse stanco del viaggio, o preoccupato per il lavoro che domani ti
aspetta qui a Milano?”
“No, vagavo un po’ con il pensiero” si giustificò lui ”sono semplicemente andato
un po’ a ritroso nel tempo, ripensando alle amicizie perdute e alla nostra
giovinezza vissuta in modo così drammatico avendo pagato a caro prezzo, tutti
noi, quell’entusiasmo giovanile e quell’ideale che allora pensavamo potesse
portarci a chissà quali traguardi.”
Luisa gli accarezzò teneramente una mano, proprio come fanno gli innamorati,
guardandolo intensamente negli occhi, tanto che lui si sentì, di nuovo,
decisamente turbato, ritornando col pensiero alle preoccupazioni e alle
considerazioni di pochi istanti prima, dicendo con se stesso: “e adesso come ne
vengo fuori?”
Fu lei a toglierlo dall’imbarazzo dicendogli:
“caro Giorgio, abbiamo passato una splendida serata, ma penso che sia ormai
l’ora di rientrare, anche perché siamo rimasti l’ultima coppia del locale che, a
quest’ora, dovrà pur chiudere e per te domani sarà una giornata particolarmente
impegnativa: anch’io ho un appuntamento con quel tale Franco Alberghini che cura
la mia prossima attività, essendosi proposto come mio “agente teatrale” e
assieme dobbiamo recarci all’Embassy Night Club per prendere accordi con il
proprietario per cercare di firmare, favorevolmente, il contratto per la mia
nuova attività di ballerina e di “entreneuse”. Magari ci ritroviamo, se non sei
impegnato, domani sera a casa mia dove potremo cenare, in tutta tranquillità, se
ti fidi della mia cucina che, non sarà quella del ristorante, ma ugualmente,
attraverso i ricordi degli insegnamenti che a suo tempo mi ha dato la mamma,
buoni piatti della cucina bolognese sono ancora capace di sfornarli.
Uscirono dal locale mentre vi era un certo via vai di persone per le strade,
gente che usciva dai cinema, dai ristoranti e dai locali d’intrattenimento e si
respirava quella voglia di divertirsi che in quegli anni, e in modo particolare
a Milano aveva pervaso un po’ tutti, giovani e meno giovani; la serata
settembrina era ancora piacevolmente tiepida e Giorgio accompagnò Luisa nella
sua abitazione in San Babila, e dopo averla salutata con un bacio e un bell’abbraccio
che lei accettò con vero piacere, rientrò, immerso in quei pensieri che lo
avevano attanagliato al ristorante, nella sua camera, dopo quella “digestiva”,
sotto tutti i punti di vista, passeggiata nel centro di Milano sino al Gallia.
La permanenza di Giorgio nella capitale lombarda durò dieci giorni e le due ex
camicie nere ebbero modo di incontrarsi quasi tutte le sere. Lei era in uno
stato di euforia particolare, aveva smesso proprio in quei giorni di fare il
mestiere, ne stava per intraprendere un altro che il suo “agente” le aveva
garantito pieno di buone promesse e con possibilità di ottimi guadagni, cosa che
le aveva confermato anche il proprietario del Night Club in considerazione del
fatto che, sia come ballerina che come “intrattenitrice” avrebbe avuto notevoli
possibilità di successo in merito alla sua avvenenza e, per quanto riguardava il
ballo non vi era alcun problema per Luisa avendo da ragazzina frequentato per
molti anni una scuola di danza a Bologna, oltre ad aver praticato molto sport,
si muoveva con eleganza e disinvoltura naturale e poi ballare in un Night Club
non sarebbe stato come entrare nel corpo di ballo della “Scala”. La proposta non
era niente male un buon “cachet” quindicinale che si aggirava sulle
venticinquemila lire fisse, più una buona percentuale sulle consumazioni dei
clienti, e, se lo riteneva opportuno, restavano tutti per lei gli “eventuali
regalini” dei clienti che si fosse portata a letto.
A Luisa sembrava un notevole passo avanti rispetto alla “schiavitù” della casa
di tolleranza. Esternò questa sue “sensazioni positive” a Giorgio con il quale
ebbe un colloquio chiarificatore dato che, quella sera al ristorante, aveva
“recepito” il pensiero del ragazzo e la sua grossa preoccupazione. In quella
occasione, in casa sua, davanti ad un bel piatto di tagliatelle al ragù, come si
diceva nel suo ambiente, gli “aprì il libro”:
“Giorgio tu non mi devi nascondere niente, come io devo essere sincera con tè.
Ti ho capito subito appena sei arrivato a Milano in stazione, senz’altro avevi
una gran voglia di vedermi, e la cosa era reciproca, nello stesso tempo sentivo
e sento ancora, che ti piaccio molto e che con me ci stai volentieri, ugualmente
ti arrovella il pensiero del mio passato ed anche del mio presente; hai
perfettamente ragione ad avere tali perplessità, ma ti assicuro che da tè
desidero, pur volendoti ormai anche tanto bene, solamente una forte e duratura
amicizia; se pensi di potermela dare senza preoccupazioni di sorta ne sarò molto
lieta. Io, al momento, non posso aspettarmi le prospettive classiche che ogni
donna spera, non potrò mai illudere un coetaneo, tanto meno una caro ragazzo
come te; i medici ginecologi che mi hanno visitata, e sono stati tanti, hanno
tutti confermato che è impossibile per mè avere figli, dopo l’aborto subito a
Modena che ha favorito anche la mia professione, di conseguenza al momento non
intendo legarmi a nessun uomo, un domani, se vi sarà da sfruttare qualche
opportunità, con persone più anziane, non mi tirerò indietro ma sarà
semplicemente una speculazione.
Non devi avere inquietudini di nessun tipo, la sera che vorrai fermati qui dopo
cena e venire a letto con me, sarà molto bello e te ne sarò grata, se poi
desidererai o meno fare all’amore, sarà uguale. Non crearti altri problemi, un
domani, quando tornerai a Roma, se, e spero che sarà così, incontrerai una brava
ragazza, arriverai a sposarti e a fare dei figli, ti prego di farmelo sapere.
Adesso cerchiamo solamente di stare bene assieme e di trascorrere nel modo
migliore i giorni che resti qui a Milano.”
Giorgio rimase sorpreso dall’analisi fatta dalla ragazza sul loro rapporto,
sapeva benissimo che era una donna sveglia e intelligente e si limitò a
ringraziarla:
“grazie Luisa per le tue parole, sì, la situazione è come tu l’hai individuata,
io ero veramente combattuto ma ti assicuro che l’amicizia tra di noi non subirà
flessioni.”
Luisa completò la cenetta con una braciola di maiale e con della frutta fresca,
poi riuscì a convincere Giorgio a restare in casa sua ed ovviamente andarono a
dormire nel letto matrimoniale nella bella camera che lei aveva da poco finito
di arredare. Vi fù perplessità da parte di lui se avvicinarla o meno, ma dopo
molte chiacchiere Luisa allungò una mano sotto le coperte sul braccio di Giorgio
che lasciò fare, fatto stà che lentamente e molto dolcemente si trovò tra le
braccia della ragazza; iniziarono a baciarsi e a toccarsi con sempre maggiore
intensità, lui era completamente contratto, tesissimo e cominciò a dire con sé
stesso che non ci sarebbe riuscito, e così fu.
Luisa cercò di calmarlo e gli fece capire che non era assolutamente obbligatorio
che si dovesse arrivare a fare “sesso”, e che spesso agli uomini succede di
avere qualche “debacle” o di fare “cilecca”. Giorgio teso e arrabbiato con sé
stesso si girò dall’altra parte mentre Luisa, con poche dolci parole, lo
rassicurò che non era successo nessun disastro che provasse pertanto a dormire e
a riposarsi, come effettivamente avvenne.
Al mattino, spesso e volentieri, a Giorgio capitava di svegliarsi con delle
notevoli erezioni e frequentemente aveva anche delle “polluzioni notturne” di
forte intensità; quella mattina si svegliò in quelle condizioni e allungando una
mano si trovò quel caldo corpo talmente vicino che gli bastò girarsi e trovarsi
immediatamente dentro di lei.
Non aveva mai fatto così bene all’amore, la “cosa” durò a lungo, lei lo lasciò
fare sussurrandogli di tanto in tanto dolci parole mentre lo accarezzava sulla
schiena, e lo baciava e gli dava piccoli morsi sulle labbra; dopo una lunga
cavalcata Giorgio terminò rilassandosi al fianco di Luisa senza dire una parola,
sembrava si fosse riaddormentato, ma dopo nemmeno mezz’ora gli ritornò impetuoso
il desiderio di ricominciare da capo cosa che si apprestò a fare, mentre lei lo
assecondava con grande “maestria”, non avrebbe mai voluto concludere e
stranamente anche lei raggiunse il piacere più alto, cosa che non le succedeva
da tanto tempo, e finalmente, completamente sazi, si distesero sul letto, poi
lei lo abbracciò e lo baciò come non era solita fare durante il suo lavoro,
arrivò a ringraziare Giorgio, finalmente rassicurato che la sua virilità non era
scomparsa e l’episodio della sera era stato un fatto isolato dovuto alla
tensione e a alla stanchezza.
“Ricordati sempre”, disse Luisa “che se io sono stata di tanti uomini, non è mai
stato per mia volontà, difatti, malgrado questi anni di “professione” non ho mai
baciato un uomo sulla bocca e ho sempre rifiutato quel contatto da chi me lo
chiedeva, tu sei il primo ed unico uomo che mi ha baciato con amore e con
trasporto e tu sai benissimo come l’ ho corrisposto, per mè sei stato il primo
al quale ho veramente dedicato me stessa, forse non te lo puoi spiegare, ma
credimi, per la psicologia femminile è così.”
Continuarono a farsi carezze e complimenti reciproci poi, all’improvviso, al
ragazzo sovvenne di guardare l’orologio, constatando che erano già quasi le
dieci quando avrebbe dovuto trovarsi in tribunale per seguire quel processo,
iniziatosi alle nove, per il quale il suo giornale lo aveva inviato da Roma per
fare la cronaca giudiziaria e per seguirlo, cercando di fare anche delle
interviste. Si precipitò dal letto indossando in un colpo solo camicia, calzoni
e scarpe, prese la sua cartella, dopo avere dato un bacio a Luisa, dicendole che
sarebbe ritornato al pomeriggio, dopo aver inviato il suo rapporto a Roma.
Con il taxi si fece portare subito al Palazzo di Giustizia, entrò in aula dopo
più di un ora e riuscì ad andare a sedersi a fianco di una sua collega della
“Stampa” di Torino, che gli sorrise con sguardo comprensivo poiché sul viso di
Giorgio si leggeva “letteralmente” quello che aveva passato nelle ore
precedenti. La collega lo rassicurò:
“guarda che ti ho stenografato tutto quello che era necessario e continuo a
farlo, perciò rilassati che ci penso io, e al termine ti passo tutto.”
Il ragazzo era ancora sottosopra ma a sentire quelle parole si tranquillizzò,
poiché sapeva bene che la collega era una giornalista molto brava ed esperta e
avrebbe potuto, in seguito, leggersi tutto il resoconto stenografato, anche
perché aveva da poco tempo terminato, a Roma, un corso di “steno” dal quale si
era “diplomato” a pieni voti, visto che si era trovato a suo agio
nell’interpretare quel metodo di scritturazione veloce, contemporaneamente il
suo pensiero era ancora rivolto a quelle deliziose ore passate quella mattina
nel letto di Luisa.
Fu quella una settimana, per Giorgio, intensissima, spesso doveva recarsi in
tribunale per il processo che riuscì a seguire nel miglior modo possibile
inviando correttamente al giornale i suoi resoconti ed anche un intervista con
uno dei personaggi di spicco, ma poi correva in San Babila dove Luisa lo
aspettava come una “brava mogliettina” e passarono notti e pomeriggi a fare
“all’amore” in continuazione.
Si presero una breve pausa una sera che uscirono per cenare nella vicina
trattoria, “La Bolognese” dove mangiarono delle ottime lasagne, poi andarono al
cinema a vedere uno splendido film americano: “Bellezze al bagno”, con l’attrice
americana Esther Williams, che faceva, dentro all’acqua, dei balletti quasi come
se fosse su un palcoscenico, il tutto accompagnato con delle scenografie
acquatiche mai viste, per correre poi immediatamente a casa a immergersi,
totalmente, nella loro “privata piscina”.
L’intensità degli incontri “ravvicinati” si ridusse notevolmente durante gli
ultimi giorni di permanenza a Milano del “giornalista” dato che Luisa iniziò il
suo lavoro al Night Club Embassy, ebbero, di conseguenza, la possibilità di
stare assieme solamente in due o tre occasioni, poi Giorgio dovette ripartire
per Roma. Lei lo accompagnò un pomeriggio in stazione e, ovviamente, quello fu
un addio triste. Si lasciarono con la solenne promessa di scriversi il più
frequentemente possibile e, al momento che lei fosse riuscita ad ottenere
l’autorizzazione per sistemarsi in casa il telefono, anche sentirsi qualche
volta a voce.
Riprese così, per entrambi, la “routine” normale di tutti i giorni, per Giorgio,
lezioni all’ Università, lavoro al “Tempo” e molte ore sui libri per cercare di
sostenere gli esami con regolarità; per lei, il lavoro di “intrattenitrice” e di
ballerina al night fu il modo di riprendersi da quei giorni di “eccessivo
attaccamento” a Giorgio.
Il nuovo lavoro era, come preventivato, decisamente meglio di quello precedente,
anche se ci mise parecchio tempo prima di abituarsi al ritmo dei nuovi orari. Il
rapporto con i clienti del locale notturno fu per lei molto semplice e si
accorse di saperlo gestire con accortezza, fece presto anche a diventare molto
amica con Ginevra, una “bella bionda” di Parma, che già da oltre un anno faceva
quel lavoro e, assieme cominciarono a frequentare all’esterno qualcuno dei
clienti del locale.
Per molte sere si limitò a far bere i frequentatori, a ballare con loro, a fare
lo “spettacolino” e a cercare di far divertire gli uomini con “frizzi, lazzi e
battute di vario tipo” al massimo a farsi “toccare” ma, in seguito
all’intervento del proprietario del locale, che la sollecitò a “lasciarsi
andare”, decise, dopo circa una decina di giorni dall’inizio delle “attività”, a
farsi portare nella camera dell’albergo, vicino al night, da quell’ “habitué”,
più che “accettabile”, il quale, da alcune sere, la “pressava” per portarla a
letto.
Pure in questa circostanza la sua preoccupazione era quella di essere conosciuta
da qualche cliente delle “case” in quanto non era improbabile che molti uomini,
che le visitavano spesso, non fossero anche ”appassionati” frequentatori della
vita notturna milanese; lei si era un po’ “rifatta”, con una parrucca ordinata
qualche tempo prima ad un “esperto” che la trasformò quasi in un'altra donna,
con dei capelli lunghi che, a piacere, le nascondevano anche parte del viso e
con il rifacimento delle sopracciglia, oltre, naturalmente, a delle “mise” più
consone alla nuova attività. In realtà, per molto tempo, non trovò mai nessuno
che fece riferimento a quei posti con “le persiane chiuse”.
Il “regalino” o la “mancia”, che dir si voglia, era sempre decisamente molto più
consistente della “marchetta”; il cliente disposto a spendere molti soldi in
liquori e champagne per tante sere, pur di riuscire a “conquistare” una delle
“bellezze” del locale non lesinava e Luisa, in una sola notte e con un solo
cliente, riusciva a mettere nel borsellino cifre decisamente molto consistenti.
I “cummenda”, che disdegnavano di frequentare le “case chiuse”, non facevano
nessun tipo di economia quando riuscivano ad ottenere i “favori” di una ragazza
che a loro fosse piaciuta, e, ovviamente, erano richieste tutte le prestazioni
possibili ed immaginabili. In questo contesto Luisa era favoritissima, bella
com’era, di cultura, affascinante affabulatrice, maliziosa quel tanto da far
impazzire gli uomini, intelligente e scaltra in ogni circostanza, aveva fatto
presto a diventare una delle “ragazze” più ricercate di quel locale.
Il rapporto con Giorgio proseguì intenso continuarono per parecchio tempo, e
frequentemente, a scambiarsi nelle lettere, tenere frasi sentimentali e parole
di “vero amore”; lui rimase, a lungo, frastornato nel ricordo di quei dieci
“incredibili” giorni passati nel letto di Luisa a Milano. Anche per lei quel
rimpianto rimase incollato addosso per lungo tempo. Mai aveva vissuto un
rapporto così intenso e “totalizzante” con un solo uomo, per di più con il
ragazzo che aveva sempre sognato. Si raccontavano le varie situazioni alle quali
andavano incontro nelle loro, così diverse, attività.
Giorgio era sempre più preso dagli studi, era praticamente in pari con gli
esami, e con l’attività al giornale, inoltre collaborava anche con un
settimanale di “cronaca nera” che gli aveva già pubblicato parecchi articoli,
pagati abbastanza bene. Luisa gli raccontava, visto che Giorgio nelle sue
lettere gli faceva capire che, in fondo, era ancora “innamorato” di lei, gli
aspetti più “scabrosi” della sua “professione” di “intrattenitrice”, e della
“amicizia pericolosa” che si era venuta a creare con quella sua amica di Parma,
Ginevra, la quale si era totalmente e intensamente innamorata della collega.
Andavano spesso ad intrattenere clienti, particolarmente danarosi, nelle loro
ville sui laghi o in Brianza: Questi erano particolarmente affascinati dalla
relazione “lesbica” delle due donne che si prestavano a giochi erotici di una
trasgressione inimmaginabile con gli “industrialotti” che, spesso e volentieri,
in quelle serate, nelle quali “succedeva di tutto”, si lasciavano andare anche a
lunghe “sniffate” con delle abbondanti dosi di cocaina purissima che, attraverso
canali diversi, arrivava dall’America.
La bionda “parmigiana” si era innamorata e “infatuata” della collega “mora”.
Ormai era totalmente “dipendente”, della più “navigata” bolognese. Luisa ne
approfittava un po’ di questa situazione, ma con dolcezza e con tenerezza, si
faceva desiderare in modo giusto, ogni tanto, si “concedeva” a lei, anche se
raramente riusciva a trovare piacere, ma naturalmente non lo dava a vedere,
poiché, a quelle manifestazioni di “amore saffico”, ci era arrivata per ragioni
“professionali” e non per una sua “predisposizione”, come invece era successo a
Ginevra.
Giorgio si arrabbiava, i primi tempi, nel leggere quel modo di comportarsi di
lei ma anche si eccitava a pensare alle cose che andavano facendo quegli
“impenitenti” gaudenti, o “sporcaccioni”, sui corpi di quelle ragazze che, se lo
doveva sempre dire con forza e mettere bene in testa, lo facevano per mestiere,
insomma, erano solamente delle “puttane” e lui non doveva prendersela più di
tanto.
Poi, un bel giorno di quell’anno di mezzo secolo, ricevette una lettera da Luisa
che lo lasciò perplesso:
Santa Margherita Ligure, 28 Agosto 1950
Carissimo Giorgio,
sono, come ti avevo accennato qualche tempo fa, da circa due mesi a lavorare in
riviera ligure e precisamente al “Covo di Nord Est”, bellissimo locale in una
posizione stupenda tra Santa Margherita Ligure e Portofino, dove, tramite il
proprietario del mio Night Club di Milano, trascorro la stagione portando avanti
la mia attività di entreneuse e contemporaneamente facendomi le vacanze in una
delle località più esclusive della Liguria.
La zona, e naturalmente i locali come quello nel quale mi trovo, sono
frequentati da una clientela “privilegiata”, da personaggi dell’aristocrazia e
dell’imprenditoria lombarda e piemontese che, in questo splendido territorio
occupano magnifiche ville o sono clienti in alberghi di lusso situati in
posizioni incantevoli.
Siamo in questa splendida località e alloggiamo in un albergo modesto ma pulito,
dove si mangia molto bene, assieme alla ormai inseparabile amica Ginevra, mi
pare di avertene parlato a suo tempo, con la quale andiamo a rendere meno noiose
le notti, e anche le giornate, sopra alle loro splendide barche ancorate negli
stupendi porticcioli della zona, di questi “signorotti”, notti che vengono poi a
trascorrere nel nostro locale, con le loro mogli o con le loro amanti del
momento, ritrovi che assieme a pochi altri della riviera, come il “Barracuda” o
il “Carillon” a Paraggi e la “Capannina” a Forte dei Marmi, rendono allegre e
divertenti le tarde serate dei “ricconi”, notti che, anche noi e in maniera
molto “particolare”, contribuiamo a far diventare “eccitanti”.
I guadagni sono considerevoli e in più ci creiamo “la clientela per il prossimo
autunno inverno” in quanto la maggioranza dei frequentatori di questi posti sono
milanesi, brianzoli, del lago di Como, insomma di zone attorno a Milano e spesso
e volentieri si trovano in giro per locali notturni nella capitale lombarda.
L’altra sera l’abbiamo trascorsa, con una “combriccola” allegra e divertente, in
una splendida villa sul promontorio di Portofino da dove si gode una vista
mozzafiato e che ci hanno detto essere di proprietà di un tale che produce, tra
l’altro, anche aeroplani.
Abbiamo passato inoltre piacevoli avventure in barca, quando il nostro “capo” ci
dava il permesso. Abbiamo contribuito, io e Ginevra, con le nostre abili
“performances” ad allietare nelle lussuose cabine dei loro yacht ed anche
“all’aria aperta”, quei nostri facoltosissimi clienti; debbo confidarti che il
“lavorare” in quel particolare ambiente, con il vento che ti soffia addosso e
con il sole che ti riscalda e ti abbronza, non dispiace anche a noi.
Ginevra è sempre più “attaccata” a me. Se lo desiderassi, farebbe qualsiasi cosa
potesse saltarmi in testa, ma io cerco di non approfittarne, accontentandola, di
tanto in tanto, nelle sue “voglie”. Alcune sere fa, ho conosciuto un personaggio
interessante, uomo affascinante, vedovo da non molto tempo, poco più che
cinquantenne, di nobile casato, oltre che affermato imprenditore nel campo dei
pneumatici. Te ne faccio anche nome e cognome: Conte Giovanni Bentivoglio Molza
Pellacani. Dalla sera che l’ho conosciuto non ne perde una pur di stare solo con
mè, mi “tampina” in modo incredibile, sono uscita un giorno in barca con lui,
possiede uno splendido veliero con un equipaggio di sei uomini più una cuoca
fissa, abbiamo cenato a bordo in una atmosfera di quelle che puoi solo sognare
e, lo ha dichiarato più volte, vuole la mia compagnia in “esclusiva”; in varie
occasioni mi ha espresso la sua “grande ammirazione” dicendosi totalmente
“invaghito” della mia persona, anche se la sottoscritta non gli ha ancora
concesso, come si suol dire, “i suoi favori”. Penso però che arriverò a
concederglieli abbastanza presto, visto e considerato che, oltretutto, mi piace.
Dirai perché ti racconto tutte queste cose, ma sai che tra noi due non c'è mai
stato nessun segreto, e che sei l’unico al quale posso veramente confidare
tutto, poiché poi, dei tuoi consigli, dei tuoi suggerimenti, delle tue
indicazioni, io ne ho sempre fatto tesoro tenendoli sempre in grande
considerazione. Ho sentito che i tuoi esami procedono al meglio e che sei sempre
sotto pressione al giornale. Sarà forse bene che tu ti distragga maggiormente.
Come hai passato l’estate, a proposito? Ti prego di non aspettare troppo a lungo
nel rispondere a questa mia.
Al momento ti invio tanti abbracci e tanti baci.
La Tua, per sempre, Luisa
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In quel periodo Giorgio era particolarmente impegnato, il giornale lo aveva
incaricato, assieme ad un giornalista più anziano di seguire il caso relativo al
bandito siciliano Gaspare Pisciotta che era considerato il vice di Salvatore
Giuliano, il capo della banda omonima, noti per essere stati i protagonisti
della strage di Portella della Ginestra avvenuta il 1 Maggio del 1947. Proprio
in quei giorni, esattamente il 5 Luglio del 1950 per opera delle forze di
polizia, durante uno scontro a fuoco a Castelvetrano, almeno questa era la
versione ufficiale, fu ucciso il bandito. Il Pisciotta, poco tempo dopo venne
catturato e “cacciato” in galera, ma qui il brigante uscì con una clamorosa
dichiarazione che contraddiceva quella delle forze dell’ordine. Salvatore
Giuliano l’aveva ucciso lui e non il Capitano dei Carabinieri, Antonio Perenzo,
dietro istruzioni del Ministro dell’Interno Mario Scelba e dopo aver raggiunto
un accordo con il colonnello Luca che dirigeva le forze antibanditismo in
Sicilia.
Il caso era clamoroso e tutti i giornali, compreso il Tempo di Roma, si
gettarono a capofitto su quelle notizie e a Giorgio toccò anche il compito di
recarsi, in Agosto, nell’isola, in più a Luglio aveva dovuto prepararsi per
cercare di superare uno tra gli esami più “tosti” di tutto il corso di Studi a
Legge. Cosa che riuscì a fare brillantemente.
Poco tempo dopo aver ricevuto la lettera di Luisa, riuscì a trovare il tempo per
una risposta:
Roma 15 Settembre 1950
Carissima Luisa,
ho ricevuto giorni orsono la tua graditissima lettera alla quale mi affretto a
rispondere. Sento con piacere che stai bene e che ti trovi in posti
meravigliosi, non saprei, con precisione, quale consigli indicarti relativamente
al comportamento di quel “signore” nei tuoi riguardi. Senz’altro tu hai le
capacità e l’intuito di valutare al meglio la posizione in cui ti trovi: prendi
le giuste misure, non concederti immediatamente, studia bene la situazione, ma
queste sono parole scontate, frasi fatte che lasciano il tempo che trovano.
Certo che, dopo tutte le traversie che hai avuto nella tua giovane esistenza,
non sarebbe male trovarti un “periodo sabbatico” di totale distacco dalle tue
“attività professionali”, il “giovanotto” mi sembra l’uomo adatto, i soldi ci
sono, dici che è bello, è un aristocratico, possiede una barca da fare invidia,
frequenta i posti più esclusivi, cosa vuoi di più? Un domani, se la relazione
non avrà modo di proseguire nel migliore dei modi potrai sempre tornare nel tuo
mondo di “lustrini” e “luci soffuse”.
Al momento cogli la palla al balzo e giocala nel migliore dei modi come sono
certo tu riuscirai a fare. Cerca, nello stesso tempo di tenere "sotto controllo"
quella tua amica bionda affinché non venga a crearti delle complicazioni
all’inizio di questa relazione che potrebbe essere molto importante per te.
Io sono sempre più impegnato, sono pari con gli esami all’Università e stò già
impostando, con il mio prof. di diritto pubblico, la tesi di Laurea, ma mi stà
impegnando tanto il lavoro al giornale, in questo periodo sono stato
notevolmente preso dall’ “affaire” Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta, penso
tu ne abbia avuto notizie dai giornali, e per questa ragione sono stato inviato
in Sicilia, e qui mi sono pure recato in uno dei posti più belli di questa
magnifica terra, restandoci parecchi giorni, ad Acireale vicino a Catania: il
lavoro mi aveva portato a Palermo poi, lo zio Adolfo mi consigliò di recarmi,
già che mi trovavo in queste terre, a casa di parenti a Catania, dove mi hanno
trattato come un principe con una ospitalità che solamente in queste terre ti
sanno dare. Abbastanza vicini a questa splendida città si trovano una serie di
paesini con delle spiagge meravigliose che, probabilmente, non hanno nulla da
invidiare a quelle dove vai a prendere il sole tu.
Ebbene, qui ho trovato la fidanzata: strano eh, tu ti trovi il fidanzato, o
“quasi”, e io trovo la fidanzata. Si vede che veramente i nostri destini
procedono paralleli. L’ho incontrata ai bagni sulle belle spiaggette tra gli
scogli ad Acitrezza, è un ragazza di Roma, figlia del Questore di Catania e,
proprio quest’ anno ha frequentato la mia stessa facoltà. Non è bellissima come
te, ma è molto carina e sicuramente mi piace tantissimo e ancor più,
sicuramente, me ne sono innamorato, il classico “cou de foudre”.
Già ci frequentiamo qui a Roma, visto che, al momento, lei abita da una zia in
quanto i suoi genitori aspettano il trasferimento al Ministero a Roma del padre
che, in ragione della sua attività viene spesso spostato in giro per l’Italia.
Ah, non ti ho ancora detto come si chiama: Franca Giovannoni. Usciamo come
fidanzati, la famiglia è stata avvisata a Catania e aspettiamo che arrivino per
il fidanzamento ufficiale, anche i miei zii e mio cugino Umberto sono felici per
questa mia decisione, ma quello che è più importante, e tu mi comprenderai
benissimo, è che noi due siamo, come si suol dire, “cotti” l’uno dell’altra.
Stiamo forse diventando “adulti”? Scherzo cara Luisa, ma obiettivamente fra
pochi giorni entrambi andiamo a compiere ventiquattro anni ed è forse giunto il
momento di porsi, quanto meno, il problema di “cosa faremo da grandi". Dobbiamo
“liberarci”, non tanto in senso ideologico, di quello che ci è caduto addosso ai
nostri diciotto anni, eravamo veramente dei ragazzini e siamo stati distrutti
moralmente e fisicamente dagli avvenimenti e tu ancor più del sottoscritto ma,
come ci dicemmo quella sera in casa della tua amica a Modena, siamo giovani e
abbiamo tutto il mondo ai nostri piedi che ci aspetta.
Io e te ci siamo giurati eterna amicizia, e questo è un valore del quale non ci
dobbiamo mai dimenticare, per sempre sarò, il tuo Giorgio.
Luisa, abbronzatissima, tornata a Milano dopo il lungo periodo trascorso in
Liguria, riprese la sua attività al Night e il suo “principale” la spostò all’”Astoria”;
anche in questo locale venne, da subito, inseguita e costantemente “corteggiata”
dal conte Giovanni il quale, completamente perso per la bellezza travolgente
della ragazza, non si perdeva una serata pur di restare vicino a lei. In due
occasioni, si lasciò convincere ad andare a cena con lui in uno dei locali più
alla moda del centro di Milano. Ma l’occasione che la lasciò “esterrefatta” fu
la serata che passarono assieme nella residenza privata di Giovanni, una serata
della seconda settimana di Ottobre. Così Luisa raccontò quell’avventura,
all’amica Ginevra, il giorno dopo:
“E’ arrivato a bordo di una fantastica Rolls Royce con autista e, in Piazza San
Babila, avevamo gli occhi dei passanti tutti puntati su di noi, si era veramente
fermata una piccola folla attorno a quella macchina così appariscente sulla
quale, quando sono salita, avevo un vero timore reverenziale; abbiamo fatto un
bel giro per Milano e non ti dico la curiosità dei passanti, specialmente quando
siamo transitati, quasi a passo d’uomo, in Piazza Duomo a fianco alla Galleria,
poi per Corso Venezia per arrivare in Corso Magenta, davanti ad uno splendido
Palazzo a tre piani. Attraverso un portone coperto da una balconata sorretta da
grosse mensole che si appoggiano sulle spalle di due giganti di marmo, siamo
entrati, accolti dal maggiordomo, all’interno di questo palazzo da favola.
Io ero completamente stravolta, ma fortunatamente Giovanni mi è sempre stato
vicino e mi sorreggeva, tenendomi sottobraccio, poiché per poco, per l’emozione,
stavo quasi per svenire. Attraverso un cortile interno, circondato su tutti i
quattro lati da un ampio porticato, abbiamo salito un ampio scalone sino al
piano nobile, e qui Giovanni mi ha fatto visitare gli ampi saloni, la biblioteca
e i vari locali di rappresentanza, per andare poi a sistemarci in un grazioso
salottino con stupendi quadri alle pareti, dove il mio “anfitrione” aveva fatto
preparare una splendida tavola, e qui abbiamo cenato a lume di candela, serviti
da due cameriere e dal maggiordomo.
Naturalmente, di fronte a quella esibizione di buon gusto e di ricchezza
“smodata” sono rimasta a dormire da lui, che ha insistito non poco per farmi
restare, ma da parte mia c’è stato, appena appena, un “modestissimo” cenno di
diniego; in una stanza, altrettanto superba, arredata con mobili del settecento,
con splendidi specchi dentro a cornici intagliate con svariati motivi, insomma
non vorrei esagerare nel dirti di essermi trovata in un ambiente “principesco”;
abbiamo passato una splendida notte che penso, sia stata, per lui di enorme
soddisfazione, da quanto ho potuto capire. Avrò modo di raccontarti in modo più
dettagliato questa mia straordinaria esperienza, dato che, pur essendomi
trovata, alcune volte a frequentare ambienti signorili, con alcuni dei clienti
del night, mai mi sono trovata di fronte ad una esibizione di ricchezza così
appariscente.
Ma quello che mi ha particolarmente colpita è stata la sua insistenza, al
mattino, quando abbiamo fatto colazione, nel pregarmi di restare con lui, di
lasciare andare l’attività nel locale dove lavoriamo e genericamente quel tipo
di lavoro, promettendomi di darmi tutto quello che desidero e di lasciarmi
completamente libera nel fare le mie scelte, in più di trasferirmi, al più
presto, in quella sua fantastica dimora; potrò fare un periodo di prova a mio
piacimento, anche di due o tre mesi, per poi fare veramente vita in comune, dato
che, e me lo ha ripetuto svariate volte, mi vuole solo per lui. Io gli ho
promesso di dare una risposta rapida a questa sua proposta che mi ha lasciato
completamente sbalordita ma anche totalmente disponibile. E’ veramente un salto
di qualità epocale, se tutto dovesse andare per il meglio.”
Al Night, quando ebbe la possibilità di scambiare “quattro chiacchiere” con
Giancarlo, il proprietario del locale, che conosceva “vita morte e miracoli” di
mezza Milano; Luisa gli pose immediatamente alcune domande:
“ma chi è realmente questo Conte Giovanni Bentivoglio Molza, tu Giancarlo, che
conosci i retroscena di tanti personaggi dell’aristocrazia milanese e del mondo
degli industriali, mi puoi raccontare qualche cosa di quest’uomo importante che
si è invaghito della sottoscritta, mi ha già portato a cena alcune volte,
facendomi delle proposte “particolari”?
“Luisa”, gli rispose il suo attuale datore di lavoro, “sei veramente una donna
fortunata, quello che ti fa la corte è uno degli uomini più ricchi, non solo di
Milano ma di tutto il Nord Italia, possiede una vera fortuna oltre ad essere,
anche, un importante industriale; è rimasto vedovo da poco più di un anno, ed è
considerato un personaggio “eccentrico” ma molto corretto sotto tutti i punti di
vista, sono molte le “dame” del mondo dell’aristocrazia lombarda che farebbero
“salti mortali” per potere entrare nelle sue simpatie.”
“Ma chi era la moglie che mi dici che è scomparsa qualche tempo fa? Le voleva
bene o la trascurava? E da quanto tempo frequenta i night club, è un occasionale
o un habituè?”
“Luisa, non potevi cascare meglio” disse Giancarlo, “non è mai stato un
frequentatore abituale dei nostri ambienti, solamente da quando ha incontrato
te, lo si vede di frequente, tutti me ne hanno sempre parlato molto bene, la
moglie, morta lo scorso anno, sembra per un brutto male, era una contessa della
famiglia Pallavicini, anche lei tra le più blasonate e ricche del milanese, era
una grande amica di quella Contessa, Pia Bellentani che, due anni orsono, a
Villa d’Este sul Lago di Como, uccise, con un colpo di pistola, l’industriale
Carlo Sacchi il quale, da qualche tempo, era diventato il suo amante. Questo
episodio, per settimane e settimane, ha riempito le pagine di tutti i giornali
italiani.
Te la voglio raccontare la storia della Pia, poiché è emblematica e puoi farne
tesoro. Io, da quando frequentavo Cortina, conoscevo molto bene il marito, il
Conte Lamberto Bellentani, industriale dei salumi, che assieme alla Pia, avevano
messo al mondo due bellissime bambine, Stefania e Flavia.
Lei non era nobile, si chiamava Pia Caroselli e veniva da una ricca famiglia di
imprenditori edili dell’Abruzzo, che le aveva dato un’educazione molto
religiosa. Conobbe il conte durante una vacanza a Cortina d’Ampezzo; lui si
innamorò subito di quella bellissima ragazza abruzzese; si sposarono nel Luglio
del 1938 con una cerimonia sfarzosa. Poi, durante una festa all’Hotel des Bains,
a Venezia, conobbe un industriale della seta che si era fatto da solo, il Carlo
Sacchi, il quale, come si dice, era un gran “puttaniere” e non, come il conte,
uomo raffinato, bensì un “soggetto” con una personalità travolgente, con
“addosso” tutto il fascino dell’avventura.
Sposato ad una ex ballerina viennese aveva avuto da questa tre figlie, ma
contemporaneamente aveva numerose amanti, i cui nomi erano conosciuti anche
dalla moglie che era perfettamente a conoscenza della “intensa vita
sentimentale” del marito. Durante gli anni della guerra la famiglia Bellentani
si trasferì a Cernobbio, e qui i due ebbero numerose occasioni per incontrarsi.
Quell’anno il Sacchi perse una figlia e la contessa Pia tentò di consolarlo, ma
si innamorò follemente di lui tanto da scrivergli parole d’amore infuocate, di
questo tenore:
“Tu hai suscitato in me sensazioni mai conosciute, risvegliato sensazioni nuove,
hai sconvolto il mio cuore e i miei sensi, mi hai veramente fatto conoscere
quello che si chiama amore e attraverso questo amore io sento di essere oggi una
donna completa e questo lo devo a te, e per questo te ne debbo essere sempre
molto grata.”
Simili parole dedicava, questa donna passionale, al suo amante, al quale si
concesse totalmente, anima e corpo.”
“Allora lei era completamente innamorata e persa di questo “sciupafemmine”. Ma
il marito come si comportò?”, chiese Luisa, completamente affascinata dal
racconto del suo “principale.”
“Il Sacchi, che non smentiva appunto la sua fama di “donnaiolo” ben presto si
mise a frequentare altre donne. La contessa era molto gelosa ma per un po’ di
tempo tollerò la situazione fino a chè non comparve sulla scena una nuova
amante, una certa Sandra Guidi chiamata Mimì, che sembrava aver completamente
monopolizzato l’industriale della seta.
La Bellentani era disperata, ferita nell’orgoglio e in preda alla gelosia più
devastante, tentò anche il suicidio gettandosi sotto la macchina del suo amante
il quale, furibondo, sterzò improvvisamente poi uscì “imbestialito” dalla
vettura aggredendo verbalmente la poveretta, insultandola per avergli ammaccato
la sua lussuosa automobile.
Sembrava a tutti che la Pia ci godesse a farsi umiliare, e durante una serata di
gala, nello sfarzo di Villa d’Este, dove venivano presentati, al fior fiore
della nobiltà e dell’industria lombarda, i modelli della famosa sarta milanese
Biki, era la notte del 15 Settembre 1948, successe la tragedia. Il Sacchi,
durante tutta la festa, aveva tenuto un comportamento scorretto e arrogante nei
confronti della contessa, che andò a prendere la pistola del marito nascosta nel
guardaroba e se la mise sotto la stola di ermellino, si avvicinò all’amante e
dopo aver pronunciato alcune parole sconnesse colpì il Sacchi a bruciapelo, con
un solo colpo, al cuore.
Rivolse poi l’arma contro se stessa ma non successe nulla mentre gridava
disperatamente, “non spara più non spara più.” Era presente a quella scena il
marito della sarta Biki, rampolla della famiglia proprietaria del “Corriere
della Sera”, un ex paracadutista francese, tale Robert Bouyerure, il quale
rifilò tre sonori “schiaffoni” alla contessa dicendole:
“Andiamo madame, è chiaro che si è trattato di un noioso incidente.”
“Ma è stata arrestata la donna?” chiese Luisa.
“Certamente, fu chiamata subito la polizia e lei immediatamente dichiarò che si
era trattato di un incidente, ma poi affermò che avrebbe voluto suicidarsi di
fronte all’amante ma il suo sarcasmo le aveva fatto perdere la testa.”
“Ma perché, cosa le disse?”
“A quanto mi è stato raccontato avvenne questo colloquio quella sera, a Villa d’Este”,
continuò Giancarlo:
“Sacchi - Ma cosa ti prende ancora, cosa vuoi da mè?”
“Lei - Nulla, ma stavolta è davvero finita, puoi credermi....”
“Sacchi – Che cosa intendi dire?
“Lei – Che ti posso uccidere, ho qui la pistola.”
“Lui – I soliti romanzi a fumetti di voi donne: i soliti terroni spacconi.”
A questo punto la contessa Pia Bellentani ha sparato direttamente al cuore.”
Luisa era rimasta letteralmente a bocca aperta:
“Ma come, in quel mondo dorato, pieno di soldi, avvengono crimini tali e quali a
quelli che succedono negli ambienti più devastati e miserabili? Ma il conte, il
marito della Pia, dov’era? Non sapeva nulla di quello che stava facendo la sua
“signora”?
“Naturalmente era all’oscuro di tutto, e al momento che sentì alcuni invitati
che lanciavano volgari epiteti alla “sua” donna, del tipo: “sgualdrina, puttana”
e frasi pesantissime, rimase sbigottito, quando addirittura un conoscente gli
disse: “ma tu lo sapevi di esser cornuto…. il tuo nome correva sulla bocca di
tutti….” Non seppe come reagire. L’ho incontrato qualche tempo fa, è ancora in
corso il processo alla moglie, ma non me ne ha voluto parlare, mi ha solo
accennato che a breve si trasferirà a Montecarlo.
Eccoti Luisa, la storia di una persona alla quale potresti assomigliare tra
poco, ma solamente per la parte iniziale della storia e non per la conclusione,
disse scherzando Giancarlo, salutando la sua "lavoratrice" con un bel sorriso
dicendole anche:
“ .. e falli bere quei pirla”.
“Ma Giancarlo, dovevi parlarmi della moglie del conte Giovanni, e invece mi hai
parlato di un fatto di amore e di sangue”
“Una di queste sere ti racconterò quel poco che so del Conte Bentivoglio Molza e
della sua sfortunata moglie. Al momento ti consiglio di tenertelo vicino il più
possibile cercando di comportarti con lui con semplicità e naturalezza, come,
d’altra parte, tu sai fare molto bene.”
Dopo alcuni giorni passati con il pensiero costantemente rivolto alla proposta
del conte, una sera si decise a dare la risposta affermativa, cosa che mandò
l’uomo al “settimo cielo”. Si accordò con Giancarlo per la “sosta”, ma lui fu
estremamente comprensivo dicendole che, nel caso la “cosa” non avesse
funzionato, un posto ai tavolini dei suoi locali ci sarebbe sempre stato.
Prima di entrare in quella casa sistemò alcune cose nell’appartamentino di San
Babila, lasciando le chiavi alla sua amica Ginevra con la preghiera di andare a
controllare, di tanto in tanto, se fosse tutto in ordine; così come si recò dal
suo medico di fiducia, un ginecologo di chiara fama che, dopo l’uscita dalle
case la teneva costantemente sotto osservazione. Voleva presentarsi a Giovanni
nelle migliori condizioni fisiche, e il dottore la rassicurò che era
completamente a posto e che non correva assolutamente alcun rischio di eventuali
malattie veneree e tanto meno avrebbe avuto la possibilità di trasmetterle a
chicchessia sempre che, da quei giorni, si limitasse ad avere rapporti con
quella sola persona.
Luisa compiva ventiquattro anni e la sua vita, dopo tante traversie, stava
subendo una trasformazione radicale; il conte Giovanni aveva dato disposizione,
a tutta la servitù del Palazzo di Via Magenta, di accogliere e di aiutare in
tutti i modi, la presenza della sua nuova compagna e di assecondarla in ogni sua
richiesta. Il maggiordomo, Jacopo Trotti, lontano parente dell’Ambasciatore dei
Duchi di Ferrara, uomo raffinatissimo e di notevole cultura, assieme alla
signora Maria Bongiovanni, detta “Marietta”, da tanti anni al servizio dei
Bentivoglio Molza, avrebbero dovuto mettersi a completa disposizione della nuova
venuta.
Non fu difficile alla ex ausiliaria inserirsi in quel contesto, una buona
cultura, un intelligenza pronta e vivace, una conoscenza profonda della
psicologia, la particolare simpatia che irradiava da ogni suo gesto e dal suo
modo di fare, la resero, nel giro di pochi giorni, simpatica e perfettamente
accettata a tutto il personale di quella casa da “favola”.
Alcuni mesi dopo, a metà del mese di Aprile dell’anno 1951, l’ex brigatista nero
Giorgio Campari, Ginevra Campanini “compagna” di “giochi” nei night, Vincenzo
Parenti e Maria Grazioli, papà e mamma di Luisa, la zia Bice Grazioli, Suor
Clotilde e Suor Giuliana del convento delle Carmelitane del Baluardo di San
Giovanni del Cantone di Modena, le Signore, Genoveffa Manfredini,
l’affittacamere della casa di Via Gallucci, Matilde Franciosi, la tenutaria
della casa di Via Catecumeno a Modena, il rag. Giancarlo Vezzalini, proprietario
dei Night club milanesi, Astoria e Embassy, la Generalessa di Brigata delle SAF
(Servizio Ausiliario Femminile), unica generale donna della storia d’Italia,
contessa Piera Gatteschi Fondelli, le amiche ausiliarie, Patrizia Melchiorri di
Milano e Giuseppina Cavalieri di Mantova con le quali la camicia nera bolognese
era rimasta in contatto, i comandanti delle BN di Milano e Modena che, tramite
alcuni camerati, riuscì a rintracciare, oltre a tutte le maggiori famiglie
dell’aristocrazia milanese e lombarda e a tantissimi industriali, ricevettero,
nelle loro case, la partecipazione nuziale che annunciava le nozze tra il Conte
Giovanni Bentivoglio Molza Pellacani e la signorina Luisa Parenti Villani, nella
chiesetta di San Martino a Griante, sul Lago di Como, con relativo ricevimento e
pranzo nella vicina Villa Melzi d’Eril a Bellagio, sempre in quella località,
per il giorno 18 Maggio 1951.
La parte dell’organizzazione logistica, per il ricevimento degli ospiti e della
loro sistemazione, oltre che a Villa d’Eril, a Villa Carlotta a Cadenabbia e a
Villa d’Este, a Cernobbio, era stata affidata dal Conte Giovanni al fidato ed
esperto maggiordomo, Jacopo che riuscì ad ottenere l’autorizzazione esclusiva
per alcuni battelli onde favorire i vari trasbordi da una località all’altra del
lago, degli ospiti oltre a vari motoscafi privati.
Ci fu, ovviamente, da parte di tutti, una enorme sorpresa, in particolare
nell’”entourage” degli amici e conoscenti del conte e della famiglia dei Conti
Pallavicini, dato che la contessina Elena, sposata a Giovanni, era deceduta da
soli due anni, ma la cosa più grave, per tutta questa folla di “nobiluomini e
nobildonne” era che la sposa non aveva blasone e non si sapeva bene quali
fossero le sue origini. Trapelò solamente la notizia che la ragazza era una
bolognese di ”buona famiglia” dato che i genitori erano insegnanti di Liceo,
però venne scoperto anche un grosso neo, la ragazza aveva aderito alle
formazioni femminili della Repubblica Sociale Italiana, le “famigerate”
ausiliarie. Nessuno parlò o venne a sapere, o preferì tenere “la bocca chiusa”,
dei trascorsi “discutibili” di quella appariscente bellezza emiliana.
L’arrivo di tutta quella gente nei paesini sul lago, movimentò, per alcuni
giorni, la vita tranquilla di quei borghi; gli amici di Luisa e i suoi genitori
arrivarono alla “spicciolata” rimanendo anche durante la cerimonia in chiesa,
sobria ed elegante nello stesso tempo, poi al pranzo e al ricevimento negli
splendidi giardini e nei saloni di Villa Melzi, leggermente defilati dalla
“truppa” dei blasonati, tra i quali si distinguevano, i marchesi Belgiojoso
Belingeri, i Calderari, conti di Palazzolo, i Meraviglia-Mantegazza, marchesi di
Liscate, i marchesi di Castel Rodrigo Omati Oppizzoni, i conti Oltrona Omodej, i
coniugi Pietrasanta, conti di Cantù, e principi di San Pietro in Sicilia, i
Macrini Marinoni Marliani, conti di Busto Arsizio, i Sartirana Scaccabarozzi
Schiaffinati, conti di Busnago, i Martignoni Marzorati, marchesi di Lomazzo, i
marchesi Trotti da Castellazzo, conti di Santa Giulietta, i Porta, conti di
Rovello – Pozzi, i marchesi Busseri Bussetti, i conti Grassi Varesini Greppi, i
duchi Crivelli Visconti, i baroni Cavazzi della Somaglia, i Cicogna-Mozzoni,
conti di Peltrengo, e molti altri.
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Luisa restò una sera in compagnia dei suoi genitori che trovò non ancora
completamente rimessi, sia fisicamente, in particolare il padre, sia
economicamente, dalle batoste subite nell’immediato dopoguerra.
“Mamma, papà, molto probabilmente stanno terminando i problemi anche per voi,
lasciate che mi orienti bene nella dimensione che mi è “piovuta addosso” e poi
vedrete che troverò una sistemazione ottimale.
La sua soddisfazione fu quella del rendersi perfettamente conto che i “due
vecchi” non avevano avuto, in tutti quegli anni, nessun sentore del lavoro della
figlia che credevano ben impiegata in una ditta di Milano, e pure loro erano
soddisfattissimi della “grande fortuna“ capitatale. Anche il “caro” Giorgio, che
arrivò da Roma in fretta e furia, ebbe un lungo colloquio con la futura
“contessa”, e sicuramente, le disse, si sarebbe sposato con la fidanzatina,
della quale aveva parlato in una delle sue ultime lettere, subito dopo essersi
laureato, cosa che a breve sarebbe avvenuta. Naturalmente si complimentò con
lei, dicendole che una sistemazione così, Luisa, se la meritava.
Lui avrebbe approfittato di quella trasferta sul lago di Como per andare a fare
una visita e possibilmente qualche intervista, nella vicine Dongo e Giulino di
Mezzegra, i luoghi del calvario dei gerarchi fascisti e di Benito Mussolini,
fucilati in quei posti nell’Aprile del 1945, per farne un servizio al suo
giornale.
Luisa, richiamandogli alla mente i giorni trascorsi a Milano, lo “ribaciò” sulla
bocca, ricordandogli che sino a quei giorni quei baci erano stati solo ed
esclusivamente per lui e che tra loro due rimaneva sempre valido il patto che
avevano “stilato” a suo tempo.
Alcune settimane prima della richiesta di matrimonio da parte del conte
Giovanni, i due ebbero un lungo colloquio durante il quale misero bene in chiaro
le loro personalità compresi alcuni “scheletri” nascosti nei loro personali
armadi. Giovanni fece sapere a Luisa che, anni prima, quando tutto filava liscio
con la sua prima moglie, in considerazione del fatto che vi era una ottima
intesa fisica tra loro, malgrado questo, il figlio, che entrambi avrebbero
desiderato, non arrivava.
Dopo tre anni decisero di fare un controllo, la prima a mettersi alla prova con
tutti gli esami del caso fu la contessa che risultò non avere problemi di sorta
per la procreazione: dopo parecchio tempo anche il conte decise di sottoporsi ai
controlli e risultò essere lui il responsabile, mancavano, nei suoi spermatozoi,
alcuni elementi determinanti per mettere al mondo figli. Ebbero un periodo di
crisi non indifferente, Giovanni cadde in una forma di depressione dalla quale
si sollevò nel giro di alcuni mesi, presero in considerazione alcune ipotesi per
risolvere quel problema e cioè l’adozione e, addirittura, pensarono anche alla
possibilità di fare “ingravidare” la contessa Elena da un “donatore
sconosciuto”. Ma non fecero nulla di tutto questo perché, pochi mesi dopo, lei
si ammalò gravemente di quel “brutto male” che la portò a morte.
Luisa gli prospettò che anche lei non avrebbe potuto mettere al mondo bambini, e
che il “suo passato” non era dei più limpidi, che sì, in realtà aveva fatto,
come si diceva, “la vita” nascondendogli, pur avendola fatta capire, “tra le
righe”, una certa frequenza in quelle case. Lui, o non afferrò o fece finta di
non capire, le disse che avendola conosciuta in un locale notturno, di questa
sua assiduità, con “molti uomini”, né era sempre stato convinto, ma che non
“dava assolutamente importanza” a questo, per lui non era un problema, era
innamorato di lei e in quei tre quattro mesi di vita in comune, si era ancora
più persuaso che Luisa era veramente, “la sua donna”.
Lei gli aveva raccontato della sua adesione alla RSI e della sua appartenenza al
corpo delle ausiliarie, e anche su questo argomento Giovanni non si preoccupò
più di tanto. Lui, in quei drammatici seicento giorni della storia d’Italia, non
prese posizione, anche se una certa simpatia l’aveva avuta per i reparti
repubblicani, ma, nello stesso tempo, era stato costretto ad ospitare, nella
villa sul Lago di Como, alcuni partigiani che, malgrado tutto, non gli diedero
mai grossi problemi, anzi gli furono utili nell’immediato dopoguerra per certe
operazioni che riuscì a portare in porto, nel campo della sua attività
imprenditoriale, proprio per l’appoggio che ebbe, da influenti personaggi del
CLN lombardo.
Gli ospiti, blasonati e non, vennero alloggiati nelle splendide ville per tre
giorni e alcuni rimasero due giorni in più; tutti parteciparono alla cerimonia,
semplice ed elegante, nella piccola chiesa di San Martino, stipata di gente e
addobbata da una splendida “infiorata”, e al magnifico banchetto nella Villa
Melzi che si protrasse sino a tarda notte. La giornata e la serata furono
allietate dal complesso di Renato Carosone, da quello di Sergio Endrigo, dal
complesso d’archi camerale di Como e dalla flautista di Varese, Caterina
Siniscalchi, che si alternarono nell’esecuzione dei motivi in voga in qui giorni
e anche con tanti motivi degli anni trenta e quaranta oltre all’ “esecuzione di
musiche rinascimentali e di musica da camera, alternati a brani di musica
classica e cameristica.
Il banchetto, concordato dal conte Giovanni e dal suo fido Jacopo Trotti, con
l’organizzatore delle cerimonie nelle più prestigiose ville lariane, un certo
Marchese Paolo Filangeri Carlotti, noto in tutta la regione lombarda per la
perfetta riuscita delle sue “grandi feste”, venne impostato sulla ricostruzione
dei più esclusivi “Gran Gala Rinascimentali” nell’affascinante cornice di Villa
Melzi d’Eril, addobbata come se ci si trovasse in un “fantastico banchetto” di
fine “millequattrocento”, alla corte degli Sforza, con tutto il personale di
servizio, dal cerimoniere, ai cuochi, ai camerieri, ai musicanti, ai “fini
dicitori” che illustrarono le varie portate con poesie di grandi autori di
epoche diverse per arrivare sino ai nostri tempi, con Gabriele D’Annunzio e
Salvatore Quasimodo, recitati da due attori del Piccolo Teatro di Milano,
vestiti con splendidi costumi rinascimentali. Le tavolate erano coperte da un
ricco “tovagliame” similare a quello usato nei grandi banchetti organizzati
dalla sfarzosa corte lombarda del fine quattrocento e del primo cinquecento.
Gli sposi si presentarono in splendidi abiti dell’epoca, ordinati ad una
sartoria specializzata di Bellagio: Luisa indossava un elegante abito, chiamato
“camorra”, dalla linea semplice, chiuso sul davanti con nastrini, bottoni
preziosi, aveva maniche staccate di stoffa che erano allacciate alle vesti con
nastri colorati; la “veste alla milanese” presentava una scollatura quadra,
mentre l’acconciatura si distingueva per i cappelli della donna raccolti in una
rete d’oro che ricadeva dietro in una lunga treccia, avvolta in nastri
variopinti e “svolazzanti”.
Aveva indosso, inoltre, un ampio ed elegante mantello bianco con maniche, lungo
fino a toccare terra, d’origine spagnola, chiamato “monzile”, di un velluto
sottilissimo lavorato con fili di argento e d’oro terminante in un lungo
strascico sostenuto da quattro “damigelle”. Al collo, l’”ex camicia nera”,
portava una catena con un grosso rubino e, ai fianchi, una cintura in lamina
“simil oro” decorata di perle, tratteneva il mantello bianco.
Giovanni indossava un corpetto, chiamato “lupparello” con maniche corte da dove
fuoriuscivano quelle della camicia di tessuto di “ermisino”, simile al “taffetà”,
molto leggero e sottile, trapuntato di piccole “gemme”; sulle spalle portava un
lungo mantello con enormi maniche di stoffa preziosa foderato di seta, che
ricadeva lungo la schiena scendendo sino all’altezza dei polpacci.
In testa, il conte sosteneva una berretta di velluto cesellato con piumaggio
trattenuto da un fermaglio con brillante al centro e le gambe erano fasciate da
calze divisate, una bianca e una gialla, di seta, ripartite in diversi colori,
alternati.
I due sposi, seguiti dalle damigelle, preceduti da alcuni “armigeri”, “arcieri”
e “scudieri”, con “paggetti” in livrea e con le insegne dei conti Bentivoglio
Molza Pellacani, accompagnati, inizialmente da un “rullo di tamburi” e subito
dopo da una splendida marcia nuziale suonata con sapiente maestria dal complesso
d’archi, si andarono a sistemare al tavolo principale dove erano già presenti, i
parenti stretti e gli amici più intimi.
Prima di iniziare il banchetto, che era stato suddiviso in tre parti, entrarono,
vestite come dee dell’Olimpo, una decina di ballerine ad eseguire danze
leggiadre nelle loro vaporose vesti bianche. Tutti i presenti, dai nobili
lombardi ai più “proletari” padani, rimasero veramente affascinati da quell’inizio
così “sfolgorante”, di un banchetto che lasciava intravedere una lunga e
“corposa” “abbuffata” come il menù, al quale si erano limitati a dare un
semplice sguardo, prometteva.
Il “Cerimoniere” illustrò ai convenuti la programmazione degli eventi che
avrebbero avuto inizio al termine della lettura, da parte degli attori, delle
poesie dedicate agli sposi, con una serie di cocktail di benvenuto a base di,
succo d’arance rosse e prosecco, delle coppette di mousse di fegato e di
gelatina al vin santo, di un bicchierino di spuma di bufala e vellutata di
pomodoro, una piccola parmigiana di melanzane, delle bruschette con il cavolo
nero e pancetta salata. Veniva offerto anche, in grandi piatti, del pecorino con
mostarda di pere williams e bastoncini di mela croccante e dei pomodorini
ripieni, alla provenzale.
I vini, che erano stati scelti espressamente dal conte Giovanni, non avevano
particolare riferimento al tempo rinascimentale, ma erano pur sempre i migliori
prodotti delle cantine piemontesi, lombarde e venete, con una presenza anche dei
più importanti “toscani”, passando dai bianchi, ai rossi più pregiati che
venivano costantemente portati sulle “mense” dai solerti camerieri i quali, in
buon numero, versavano in continuazione nei calici che non dovevano mai trovarsi
vuoti, portando via quelli di un certo tipo di vino sostituendoli immediatamente
con altri ricolmi, o dello stesso o di altro tipo, a richiesta del commensale.
I piatti del primo “intermezzo”, che andava dall’inizio del banchetto,
all’incirca alle quattro pomeridiane, erano basati su delle “crespelle
croccanti” e della “gargamella” di pasta fresca con “ragu di manzo alla lama” e
foglie di salvia fritta. Seguì poi un brodo a base di lardo, preparato
appositamente per dare la possibilità ai commensali di poter gustare dei
gustosissimi “fiandonelli”, che non sono altro che dei grossi ravioli di
sfoglia, farciti con ingredienti di vario tipo, sia dolci che salati.
Vi fu poi una presentazione, da parte del cerimoniere, di una serie di piatti
della “cacciagione”: pernici, fagiani con gamberi e lepri, il tutto servito con
abbondanza di mostarda, accompagnata da “marroni cotti alla brace” che venivano
serviti con sale, zucchero e pepe appositamente preparati per addolcire il
palato. A seguire e a concludere il “primo intermezzo”, ci fu l’entrata di un
personaggio che alle mense rinascimentali aveva una grandissima importanza: il
“trinciante”, il quale, munito dei particolari attrezzi per il taglio delle
carni, cominciò a tranciare in aria, pezzi di capriolo che andava a depositare
sul piatto che il suo aiutante gli teneva al fianco, per poi passarlo ai
commensali. Quella operazione destò una grandissima ammirazione da parte di
tutti i partecipanti al banchetto che applaudirono l’abilità e il virtuosismo
del "trinciante".
Il cerimoniere, mentre venivano serviti, digestivi vari, sorbetti ai vari gusti,
amari e caffè, dichiarò sospesa la prima parte del banchetto invitando gli
ospiti ad un riposo di circa due ore, o ad una salutare passeggiata negli
splendidi giardini di Villa Melzi d’Eril, mentre il complesso di Renato Carosone
suonava le più acclamate musiche del suo gruppo, da “Caravan petrol” a “Tu vuò
far l’americano” oltre a “Mambo italiano”, “O saracino” e a tutte le altre del
repertorio che, in quella stagione, faceva impazzire il pubblico italiano, per
merito anche dell’eclettico batterista, Gegè Di Giacomo.
Dopo l’intervallo, passato dai commensali a riposarsi negli eleganti saloni
della villa, o sui divani sistemati sotto ai “bersò” nel giardino, verso le ore
diciannove si apprestarono di nuovo alle tavole prontamente risistemate dal
personale di servizio e di nuovo imbandite con piatti, bicchieri e posateria
raffinatissimi, in porcellana, cristalli e argenteria per “affrontare” la
seconda parte o “secondo intermezzo”.
Il cerimoniere, dopo che vide sistemati ai tavoli tutti i partecipanti, iniziò
ad elencare la serie delle portate che si sarebbero succedute, poi gli attori
iniziarono a declamare alcune poesie che ottennero applausi scroscianti, a
seguire entrò il gruppo musicale di Sergio Endrigo con i suoi musicanti, che si
alternarono con il complesso di musica da camera e con la flautista, per
allietare le ore del tardo pomeriggio, dopo che il balletto interpretò una serie
di danze più languide e “lascive” rispetto a quelle del primo pomeriggio, i
camerieri e le cameriere, iniziarono a disporre sui tavoli i piatti di portata,
con prosciutto di Praga cotto al forno e chiodi di garofano profumato alla
birra, con contorno di purea di patate e ananas, seguirono dei polpettoni di
“capro stufato” in gelatina con salse e condimenti vari a base di “cinnamomo”,
“zenzero”, “peverata”, e “zafferano”.
Arrivò ancora, sulle tavole, una “ginestrata” che non era altro che una specie
di polenta dolce fatta con latte, molto zucchero e farina di riso. Vi erano poi
stati aggiunti datteri, uva secca, pinoli, spezie e molto zafferano che faceva
prendere a quella “polenta” un forte colore giallo.
Chi non avesse gradito quella serie di portate, aveva la possibilità di
affrontare delle gustose “pappardelle”, praticamente delle lasagne cotte nel
latte, accompagnate da “torte d’erbe” fatte in crosta a base di verdura, uova e
formaggi e preparata con un involucro di pasta, con farina, acqua di rose,
zucchero, burro e tuorli d’uovo mentre il ripieno veniva preparato con bietole,
parmigiano, ricotta, chiodi di garofano, noce moscata, cannella e uova.
La scelta, per i più golosi, poteva anche cadere su di una faraona all’uva e
salciccia, oppure su dei bocconcini di pollo alla cacciatora con mandorle e
arance.
Sulle tavole vennero portati, su vasti vassoi, dei cotechini tagliati a fette e
conditi con lenticchie ben augurali. Tutto, come la prima parte, ben innaffiato
dai migliori vini che arrivavano in continuazione e, appena una bottiglia
appariva vuota, veniva immediatamente sostituita. I commensali, pur cercando di
mantenere quella correttezza formale, degna di una cerimonia di tale importanza
e di quello sfarzo, lasciavano intravedere quell’allegria dovuta alle
“libagioni” un po’ “sopra le righe”, le voci diventavano via via più alte e
qualcuno dimostrava di aver raggiunto quel limite al di là del quale si scadeva
nella vera e propria “ubriachezza”.
A quel punto il cerimoniere, invitò i commensali ad una seconda sosta di circa
un oretta, che tutti trascorsero in conversazioni sempre più sostenute, nei
saloni e tanti anche in giardino poiché la serata era particolarmente tiepida e
il passeggiare nei giardini era piacevolissimo, sapendo che ci si doveva
preparare per il terzo e ultimo intermezzo. Molte coppie si abbandonarono alle
danze, sui motivi dolci e “accativanti” del “complessino”, abituato a suonare
nei “night club”, di Sergio Endrigo .
Quando i commensali ritornarono a sedersi alle mense per il “terzo servizio”,
erano già le dieci di sera, e in molti si denotavano i sintomi di una certa
stanchezza. I ballerini si presentarono con costumi “discinti”, seminudi
lanciandosi in danze provocanti e sensuali che fecero riprendere una certa
vivacità e partecipazione alla prosecuzione del banchetto, anche le letture
“poetiche” erano incentrate su argomenti “boccaceschi” e di particolare
atmosfera “erotica”.
Arrivarono sulle tavole, prima della frutta e dei dolci, ancora dei contorni
“sfiziosi”, come uno sformato di patate con prosciutto e formaggi, delle erbette
saltate ai pinoli, delle zucchine trifolate ed una deliziosa insalatina al
sesamo.
Oltre ad elegantissimi vassoi ripieni di frutta fresca di stagione, ciliegie,
albicocche, pesche, mele e frutti esotici, furono servite delle pesche al
vinsanto con cannella e gelato alla crema, delle fragole con gelato di limone e
panna, dei dolcetti di riso alle arance e una torta “tenerina” al cioccolato con
pistacchi di bronte e scorza d’arancia: la conclusione avvenne con una serie di
torte, la prima a base di crema e frutta assortita, la seconda con base di riso
e arance candite ed una torta bianca, nuziale reale marzapanata, altissima che
venne fatta tagliare dai due sposi, come da tradizione. Vi fu poi la
distribuzione, in abbondanza, di confetti bianchi e rosa.
I “complessi” iniziarono a suonare dei “ballabili” e molte coppie ripresero le
danze, mentre ci si alzava dalle tavole per andare al buffet a servirsi di caffè,
grappe, whisky, cognac, amari e digestivi di vario tipo. A mezzanotte gli sposi
salutarono gli ospiti per rientrare nelle loro stanze e subito dopo la
maggioranza degli invitati fece la stessa cosa.
La festa si era conclusa mentre dal giardino di Villa Melzi d’Eril venivano
sparati, nel cielo del Lago di Como, dei fantasmagorici fuochi artificiali che
salutarono in modo gioioso tutti gli intervenuti a quella splendida giornata.
Dopo due giorni, una volta partiti tutti gli ospiti e dopo un riposo, dalle
”fatiche” dello “sposalizio”, di una settimana sul lago, i due “colombi” si
apprestarono a partire per un lungo viaggio di nozze che Giovanni, appassionato
ed esperto pilota di automobili - aveva partecipato anche ad alcune “Mille
Miglia” -volle fare a bordo di una delle sue splendide vetture che teneva nel
garage della villa sul lago. Optò, tra la Rolls Royce, la Ferrari 212 Inter, una
Maserati, la Lancia Aurelia GT, una Jaguar XK120, per la potente, elegantissima
e super veloce, Alfa Romeo 2900B.
L’itinerario, che aveva studiato a lungo, assieme a Luisa, si sarebbe sviluppato
attraverso vari paesi europei: rapida puntata in Svizzera, poi il nord della
Francia, Parigi, la costa atlantica Saint Malò e sosta nella sua dimora di
Biarritz che da qualche anno non frequentava e anche in quella di San
Sebastiano, nei paesi Baschi, dove era proprietario di una bella villetta poi,
attraversati i Pirenei, visita alle principali città della Penisola Iberica con
arrivo a Lisbona e ritorno attraverso il centro della Spagna, sosta a Madrid,
poi Barcellona e rientro in Italia: questo, a grandi linee, l’itinerario che si
era prefissato il conte Giovanni.
Giorgio Campari, subito dopo la conclusione del banchetto, si spostò,
velocemente, con un motoscafo privato, a Dongo dove, nella piazza principale in
riva al lago, furono fucilati dai partigiani del ragionier Walter Audisio, il 28
Aprile 1945, alcuni gerarchi fascisti che erano stati raccolti, in precedenza,
nel salone monumentale del Municipio.
Sul muretto prospiciente il lago vennero allineati e poi falciati da scariche di
mitra: Alessandro Pavolini, Segretario del PFR e comandante delle Brigate Nere,
Francesco Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri
della RSI, Paolo Zerbino, che era stato nominato Ministro degli Inteni nel
Febbraio del 1945 ed era inoltre Commissario del PFR del Piemonte, Ferdinando
Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare durante il periodo della RSI, Ruggero
Romano, Ministro dei Lavori Pubblici, Augusto Liverani, Ministro delle
Comunicazioni, Alfredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna, Paolo Porta,
Federale di Como, Luigi Gatti, Prefetto di Milano, Ernesto Daquanno,
dell’agenzia Stefani, Mario Nudi, impiegato della Confederazione fascista
dell'Agricoltura e "moschettiere del Duce", Nicola Bombacci, ex-fondatore del
Partito Comunista d'Italia negli anni ’20 che aveva aderito poi, al fascismo e
in seguito alla RSI, gli si attribuisce, tra l’altro, il progetto di
socializzazione delle imprese e dei mezzi di produzione, notevolmente
propagandato dal fascismo repubblicano, che era stato approvato dal consiglio
dei ministri della RSI, nel febbraio del 1944. Ancora, il capitano d’aviazione
dell’Aereonautica Repubblicana, Pietro Calistri, Vito Casalinuovo, colonnello
della GNR, ufficiale d'ordinanza e aiutante di Mussolini, Idreno Utimperghe,
Comandante della BN di Lucca, mentre Benito Mussolini e Claretta Petacci, sono
condotti in una casa di Giulino di Mezzegra, dove saranno uccisi, ma ci sono
tantissimi interrogativi e svariate versioni su chi effettivamente abbia sparato
loro.
Giorgio, trovò un “alberghetto” a Dongo, a buon prezzo, dove noleggiò anche una
bicicletta per muoversi liberamente e, tramite indicazioni che aveva avuto al
giornale a Roma e dietro suggerimenti di alcuni politici del Pci, cercò di
contattare, in zona, alcuni personaggi che avrebbero dovuto sapere “parecchie
cose” attorno alla fine del Capo del fascismo e, magari, anche qualche notizia
circa la sparizione dell’ ”oro di Dongo” che in quei mesi “faceva notizia” su
tutta la stampa italiana.
Il giornalista romano ebbe, nella settimana che rimase a Dongo, un serie di
colloqui, con alcune personalità della zona a cominciare dall’ex Sindaco del
paese, dott. Giuseppe Rubini che proprio a causa di quegli avvenimenti di fine
aprile del 1945 diede le dimissioni dal suo incarico e dal frate francescano
Padre Accursio Ferrari.
Entrambi si trovarono perfettamente d’accordo nel valutare che quei giorni, 27 e
28 Aprile, hanno portato una fama sinistra al modesto villaggio sulla sponda
occidentale del Lago di Como a causa del blocco partigiano dell’autocolonna,
dell’eccidio dei suoi componenti e per il trafugamento del tesoro del Partito
Fascista Repubblicano, oltre a tutti i beni che avevano con loro i tanti
esponenti del Fascismo che erano partiti da Milano il giorno 25, malgrado le
forti insistenze di Alessandro Pavolini a non prendere la direzione di Como.
Un altro elemento che a Giorgio apparve subito, molto evidente, è la grossa
responsabilità, se non il vero e proprio tradimento, della scorta tedesca alla
colonna Mussolini. Già lo stesso “Duce”, durante il colloquio in Arcivescovado,
il pomeriggio del 25 a Milano, con il cardinale Ildefonso Schuster ed altri
esponenti del CLN, seppe che il generale Karl Friedrich Wolff , negli ultimi
periodi della guerra, all’insaputa del Governo della RSI, aveva negoziato la
resa di tutte le forze armate tedesche presenti in Italia, causando così la
triste sorte dei fascisti lasciati completamente allo sbando dagli alti comandi
tedeschi ed anche dai tanti “ufficiali e ufficialetti” che comandavano i reparti
tedeschi in tutto il Nord Italia.
Così successe anche a Dongo. Giorgio aveva sempre pensato, in alcune sue
personali ricostruzioni sugli avvenimenti della nostra recente storia della
quale ne era stato anche protagonista e che fece negli anni successivi al suo
ritorno da Coltano, che i tedeschi si fossero comportati, nei nostri confronti
in maniera non corretta e che avessero voluto renderci “pan per focaccia” per i
tradimenti italiani nei loro riguardi.
Difatti, già all’otto Settembre del 1943, ci fu, da parte delle alte autorità
germaniche nel nostro paese, una certa intesa, sottobanco, con il Governo
dell’’Italia del Sud, all’insaputa di Hitler, cosa che consentì al Re, Vittorio
Emanuele III°, di svignarsela in tutta calma e, molto probabilmente, anche
Benito Mussolini fu, “stranamente dimenticato”, sul Gran Sasso, in modo tale da
dare la possibilità al “commando” di Otto Skorzeny, di “liberare”, con una certa
disponibilità d’azione, il Capo del Fascismo.
Che accordi tra tedeschi e angloamericani ci fossero stati lo dimostrano le
tante personalità del mondo germanico, nonostante la messa in scena del
“Processo di Norimberga”, che abbiamo trovato, nell’immediato dopoguerra,
inquadrate e sotto copertura dell’OSS (il servizio segreto) americano e
funzionale agli interessi di questi che, naturalmente, lasciavano intravedere
“contatti” e “accordi”, di vecchia data.
A Dongo, la colonna Mussolini, che si stava recando, dove?, in Svizzera?, in
Valtellina? questo, a Giorgio, nelle sue ricostruzioni, non fu facile riuscire a
capirlo, fu bloccata: ma la stessa era fortemente armata e molti tedeschi ne
facevano parte; come può essere stato possibile che un gruppo di partigiani
della 52° ”Brigata Garibaldi”, “Luigi Clerici”, male armata, seppure scaltra ed
audace, abbia potuto tenere sotto scacco quella formazione italo tedesca? Perché
poi obbligarono Benito Mussolini a travestirsi da tedesco e salire su un camion
con i soldati della Wermacht?
Indubbiamente, ma per Giorgio erano ancora solamente supposizioni, sui tavoli
degli accordi di resa giocati da Wolf, con gli angloamericani e poi conclusi in
Svizzera, entrarono accomodamenti tali da rendere possibile la cattura di
Mussolini, che avrebbe dovuto godere, sino all’ultimo, della protezione tedesca.
E’ pensabile quindi, che in un qualche modo, promesse agli Alleati furono fatte
e, visto che il 26 Aprile gli americani erano ancora ad una certa distanza da
Como, dove si era recato Mussolini assieme a molti gerarchi, queste promesse dei
tedeschi, potevano essere “mantenute” con le “autorità del CLN”.
Inoltre era verosimile che durante le ultime ore di presenza dei reparti
tedeschi in Italia, si dovesse trovare, sia da parte loro sia da parte dei
partigiani, conveniente, mettersi ben d’accordo per agevolare lo sganciamento
dei militari della Wermacht e delle SS in ritirata, senza troppe problematiche.
La consegna diretta di Mussolini agli alleati o ai partigiani, era decisamente
da scartare, in quanto il generale Wolff non avrebbe voluto apparire,
palesemente, come un traditore. La “consegna” di Mussolini avvenne allora, molto
probabilmente, dietro ad una strategia a distanza che parte dal comando tedesco
di Cernobbio, dove si venne a trovare anche il generale Wolff in quelle ore
fatali e l’operazione della “cessione” dell’”ostaggio” venne condotta dal
tenente Fritz Birzer, che faceva parte della scorta del Duce, e che era
incaricato di proteggerlo e di non farlo fuggire all’estero.
Certamente in quella colonna, di tedeschi traditori, spie e traditori italiani,
se ne trovavano molti. Un altro tenente tedesco, addetto alla sorveglianza di
Mussolini, era un certo Otto Kisnattn del quale si seppe che si era eclissato
rapidamente da Milano, e dopo essere transitato per Como, il pomeriggio del 26
Aprile si trovò a Grandola dove si era portato, momentaneamente, da Menaggio.
In quelle ore vennero “allertati” i distaccamenti partigiani dislocati tra,
Como, Domaso e Chiavenna e con ogni probabilità fu a Villa Camisa a Domaso, dove
si erano sistemati alcuni dei comandanti partigiani, che si arrivò a
concretizzare quella “promessa di consegna” del “personaggio”. C’è in giro, sul
Lago, gente che dice che il tenete Kisnatt, nel tardo pomeriggio del 26 Aprile
sia stato portato a Domaso, e non si sa con precisione cosa disse e quale ruolo
stesse recitando.
Ci sono altre voci che corrono e raccontano che il tenente andò con i partigiani
a Musso, per partecipare alle trattative per l’intercettazione della colonna
Mussolini. Inoltre, da Cernobbio, passò, quel pomeriggio, una colonna di
automezzi tedeschi che, nel caso di necessità, avrebbero potuto rinforzare
quella del Duce. Non si può non mettere nel conto che, avendolo voluto, il
comando tedesco di Cernobbio avrebbe avuto l’opportunità di utilizzare quella
colonna per aggregarla alla “colonna Mussolini”.
Giorgio trovò strani e ambigui i comportamenti da parte dei responsabili
tedeschi della “guardia del Duce”; inoltre i germanici fermati a Musso assieme
agli italiani, sotto la mira di pochi e sparuti partigiani del luogo, dopo
qualche “sceneggiata”, entrarono quasi subito nell’idea di risolvere la
situazione, malgrado il tempo che giocava a sfavore, attraverso trattative.
I tedeschi non scelsero mai l’azione diretta, nemmeno quando videro i partigiani
che si erano avvicinati per le trattative, e la tiravano per le lunghe, e non
desistevano nel mantenere lo sbarramento, per arrivare ad una scelta logica,
quella cioè di forzare il passaggio attraverso il combattimento. Anzi il
comandante tedesco accetta di portarsi, assieme ai partigiani, al loro comando
di Chiavenna, per trattare il passaggio della colonna.
Rimane con loro alcune ore, inoltre si accorda con i partigiani per far passare
solo i tedeschi. Ecco che, a questo punto, Mussolini viene invitato, da coloro
che dovevano proteggerlo ad ogni costo, a passare sul loro camion “camuffato” da
tedesco, poi, attraverso un “controllo”, concordato con i partigiani, si và a
scoprire l’ ”ostaggio” che viene completamente “scaricato” nella più totale
indifferenza del suo “controllore”, il tenente Birzer, il quale sapeva bene che
Mussolini, essendo stato “segnalato” attraverso quei controlli, era consapevole
che “lo avrebbero scoperto”.
Giorgio si rese conto, durante i colloqui con la gente del posto, che in quei
giorni di fine Aprile del 1945, giravano sul lago di Como personaggi di dubbia
provenienza, spie inglesi, tedesche, italiane, dove operavano i servizi
informativi di svariate nazioni, dove l’”Intelligence Service” inglese e l’OSS
americano erano i più organizzati. Sul lago, in molte ville, erano presenti,
spesso muniti anche di radio rice-trasmittenti, un gran numero di persone di
nazionalità inglese e americana, permanenza in quelle zone che veniva,
stranamente, tollerata dalle autorità italo tedesche, per motivi di opportunità
e tornaconto.
Nella zona di Tremezzo vi era la villa dell’inglese Landels, che era
notoriamente in contatto con la “Special Force”. Poco lontano dalla casa De
Maria, dove vennero portati Mussolini e la Claretta a trascorrere la loro ultima
notte, c’era la villa di James Henderson, imprenditore e importante uomo
d’affari, nonché fondatore, in Italia del “Rotary Club” (circoli ritenuti da
molti, massonici).
Anche a Dongo in tanti ritenevano che, con la presenza di queste ambigue
componenti, presenti in quella zona, attraverso una sottile rete di contatti e
di interessi, ci sarebbe stata la possibilità di incastrare Mussolini in una
tragica morsa. Ma il capo del fascismo, che teneva fermo, in quei giorni, la sua
irremovibile volontà di non espatriare, si trovava sotto il tiro incrociato di
tanti fuochi.
I tedeschi, che lo stavano consegnando al nemico attraverso un tradimento
inimmaginabile, i fascisti che con svariate interpretazioni della situazione
cercavano di salvarlo e di farlo uscire indenne da una situazione ormai
insostenibile, i comandi partigiani che lo pressavano per poter, al più presto,
attuare la loro vendetta, gli inglesi e gli americani che, per varie ragioni
cercavano di catturarlo per esibirlo all’opinione pubblica mondiale come “capro
espiatorio” della immane tragedia del secondo conflitto mondiale.
I Capi fascisti non furono all’altezza della situazione, Alessandro Pavolini ed
Enrico Vezzalini, in un gesto eroico d’amore verso il Duce, lo raggiunsero, ma
senza un adeguato numero di armati e, seppure in circostanze diverse, vi
trovarono la morte. Tanti altri si fecero invischiare in assurde trattative, con
il tempo che passava e rendevano sempre più pericolosa la situazione dei
fascisti, così sbandati ed esposti ad inevitabili, barbare e violente
conclusioni, nei loro riguardi, in tutto il Nord Italia, ma che vennero,
fondamentalmente, traditi dagli “alleati tedeschi” che, fino a pochi giorni
prima, arroganti come solo loro sanno esserlo, trattavano gli italiani in modo
sprezzante; in realtà, il “grande tradimento” della seconda guerra mondiale è
stato commesso da quelle truppe che si ritenevano invincibili, contro quei
“disperati” fascisti che hanno mantenuto fede, sino all’ultimo, al giuramento
verso quell’ideale nel quale avevano creduto, non solo loro, ma anche gli ex
“camerati tedeschi”.
A Giorgio sembrò di essersi, a distanza di sei anni, calato nuovamente nel clima
allucinante della guerra civile. Ancora, su “quel ramo del lago di Como” si
aggiravano spettri che lui credeva fossero completamente scomparsi. Chi diceva
una cosa e chi l’esatto contrario, molti ricostruivano quei giorni in funzione
della loro ideologia o dei loro particolari interessi, riuscire ad avere un idea
obiettiva non era facile; anche il paesaggio è decisamente contrastante, una
riviera dove si susseguono, una dietro l’altra, ville meravigliose appartenenti
alle più note e ricche famiglie milanesi e lombarde, dove si trova appunto il
contrasto tra la vegetazione esotica proveniente dal lontano Mediterraneo e la
flora alpina e subalpina caratteristica dei monti che costeggiano il “Lario”, è
in questo scenario che si svolge l’ultimo atto del Fascismo e del suo “Capo”.
A Menaggio, la mattina del giorno 26, in casa del Capitano delle Brigate Nere,
Castelli, Mussolini si ferma per riposare alcune ore mentre arrivano da Milano i
gerarchi che vogliono stare con Lui, ma che invece “Lui”, invita ad andarsene
nella vicina Cadenabbia, vuole forse rifugiarsi in Svizzera da solo? Alcuni, a
Menaggio la pensano così.
Il Maresciallo Rodolfo Graziani, che era aggregato alla colonna dei gerarchi, si
defila, dice che deve recarsi a Mandello dove si trova il suo Comando, essendo
egli il Ministro della Guerra e comandante dell’armata ligure, per trattare la
resa e il destino delle sue truppe. In questo modo sarà l’unico, tra ministri,
capi militari e gerarchi, partiti da Milano, a salvarsi. A Menaggio, in quelle
ore, arriva un altro gruppo guidato dal tenente delle SS, Spoegler, che si trova
a “proteggere” Claretta Petacci, l’amante di Benito, che ha al seguito anche il
fratello Marcello con tutta la sua famiglia. Sembra che la “fedele” Claretta,
che veniva da Milano, ed era partita all’insaputa di Mussolini, abbia
dichiarato: “Dove và il padrone và anche il cane”.
Apparentemente sembrava che il Duce volesse far perdere le sue tracce a tutti
quelli che lo seguivano e che volevano restargli vicino, compresa l’
ufficialessa del corpo delle ausiliarie, di ventidue anni, Elena Curti Cucciati
che si dice sia figlia di Angela Curti Cucciati, una delle tanti amanti di
Mussolini. Nel frattempo, Alessandro Pavolini, che era arrivato a Como con i
suoi uomini da Milano, corre da solo a Menaggio per cercare di riportare
indietro Mussolini e indirizzarlo verso quella Valtellina che avrebbe dovuto
essere l’”ultima ridotta” dei fascisti e, a quanto si dice sul lago, pareva che
il Duce avesse accettato, ma i seguaci di Pavolini, a Como non vedendo più il
loro capo, cominciano a disperdersi e il comandante della BN, ritornato in
quella città, non li trovò più. Il caos è generale, gli ordini non li rispetta
più nessuno, ma nessuno è in grado di darli con “cognizione di causa”.
Il Tenente tedesco, Birzer, addetto alla “sicurezza” del Duce, gli rimane sempre
attaccato. Mussolini seguendo il consiglio del capitano Castelli si sposta nella
vicina Grandola, località che porta al vicino confine svizzero. Ma è proprio là
che vuole andare? O è un tentativo di depistare i gerarchi che lo seguono?
Giorgio, nei suoi primi giorni di inchiesta sul Lago, non riesce a decifrarlo,
certo è che Mussolini cerca di seminare il suo “angelo custode”, il quale è
peggio di un segugio, riesce a riagguantare l’Alfa Romeo di Benito, defilatasi
dal gruppo e, assieme alla scorta tedesca vanno a passare la notte in un albergo
di Grandola, il “Miravalle”; anche da questo sito, a detta di alcuni del posto,
Mussolini, assieme alla Petacci che lo aveva raggiunto, cerca di “togliersi di
dosso” la presenza del tedesco, ma inutilmente. E’ questo uno degli elementi che
depone a favore dell’ipotesi del tradimento tedesco e Mussolini, quasi
sicuramente se ne rese conto o quanto meno lo aveva intuito senza però avere più
la forza e la determinazione per reagire lucidamente.
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Giorgio si rende conto che queste versioni non sono altro che “operazioni
diversive” alle quali non è facile dare il giusto peso, ed è sempre più convinto
della responsabilità tedesca nell’aver “sacrificato” il Duce, per le “mene”
degli accordi tra Wolff e gli angloamericani. Su quelle strette strade del lato
occidentale del Lago di Como vi è un traffico difficilmente riscontrabile nelle
ore di punta del centro di Milano, tedeschi e fascisti vanno e vengono, tra
Como, Grandola e Menaggio, arriva da Novara, con una benda sul viso, il Prefetto
di quella città, il modenese Enrico Vezzalini, che era rimasto ferito in un
attacco partigiano sulla strada tra Como e Menaggio, dove erano rimasti uccisi
due militi della sua squadra: la sera del giorno 26, Mussolini dice ai suoi che
vuole ritornare a Menaggio per poi dirigersi verso Merano.
In quella circostanza pare che abbia inviato a Como la “figlia”, Elena Curti
alla ricerca di Pavolini che doveva arrivare con gli aiuti; questa, in
bicicletta, incontra anche dei partigiani, quasi sicuramente quelli che avevano
attaccato il gruppo di Vezzalini; l’ausiliaria ritorna, assieme a Pavolini, a
bordo della famosa autoblinda della “Brigata Nera Mussolini”, ma praticamente
senza il “grosso” dei fascisti, sono con lui solo due camion carichi di
“ragazzini” delle “Fiamme Bianche” e altri due della Brigata Nera di Lucca.
Contemporaneamente arriva anche una colonna con circa 170 soldati tedeschi
guidati dal tenente Hans Fallmeyer, in più il tenente Birzer ha con sé una
quarantina di uomini ben armati.
La mattina del giorno 27, sotto un vero e proprio diluvio, tedeschi e fascisti,
in un'unica colonna, che a detta di molti testimoni dei paesi rivieraschi, era
composta da ben oltre trecento persone, tra tedeschi, famiglie dei gerarchi, e
reparti di fascisti isolati che avevano raggiunto Mussolini attraverso
iniziative personali, si dirigono verso Dongo.
L’autoblinda della Brigata Nera di Lucca del Comandante Idreno Utimperghe, viene
messa in testa alla colonna, ma a pochi chilometri da Dongo il mezzo blindato si
arresta e poco dopo la colonna viene fatta segno da scariche di mitra dei
partigiani appostati sopra ad un costone in una strettoia a poca distanza dalle
prime case del paese.
Il tenente tedesco, Fallmayer, si avvicina ai partigiani sventolando “bandiera
bianca” e qui, si dice, si sia incontrato con tre partigiani che sono poi
risultati essere: il conte Pierluigi Bellini delle Stelle, detto “Pedro”, capo
della 52° brigata comunista, Garibaldi, con lui ci sono il commissario del
Partito Comunista, Michele Moretti e un certo Alois Hofmann, uno svizzero che
viveva con la moglie su una delle tante splendide ville del lago, si trova con
loro anche il partigiano “Bill”, al secolo, Urbano Lazzaro. E qui avviene “il
tradimento”.
Il tedesco contratta con i partigiani che si accorgono che i 28 camion, sono
tutti muniti di una mitragliatrice pesante e molte armi antiaeree, e loro stessi
sono convinti che, se si dovesse arrivare ad uno scontro, le loro esigue forze
sarebbero state polverizzate in brevissimo tempo. Interviene nelle trattative
anche un prete di Musso certo Don Enea Mainetti; sembra quasi che tra tedeschi e
partigiani si sia, “improvvisamente”, instaurata amicizia e comprensione
reciproca tanto da arrivare a scambiarsi anche pacchetti di sigarette. I
fascisti sono rimasti in disparte, preoccupati dall’evolversi della situazione;
i partigiani dicono che intendono consultare il comando partigiano e assieme al
tenente tedesco, si allontanano in auto, con macchina tedesca e autista tedesco.
Alessandro Pavolini è l’unico che sostiene la necessità di uscire da quella
situazione con un’azione di forza, ma i tedeschi tergiversano, i partigiani
hanno promesso di lasciar passare la colonna tedesca ma intendono trattenere gli
italiani.
Il tenente Birzer, intanto, convince Mussolini a salire su un autocarro tedesco
indossando un pastrano militare, facendo scattare l’operazione, “cessione
dell’ostaggio”, ai partigiani.
Ancora il solito Pavolini sembra abbia rivolto l’invito al Duce di restare
assieme ai camerati, ma i tedeschi insistono per portare avanti la loro manovra,
dimostrando di attenersi alle disposizioni ricevute a Milano, dall’ ”entourage”
del Generale Wolff, che avevano previsto il riconoscimento del Duce da parte dei
partigiani. I tedeschi, ottenuto il permesso di proseguire senza intoppi,
lasciano, nelle mani di coloro che avevano ferocemente combattuto, il Capo del
Fascismo Italiano, ridicolizzandolo anche, avendogli fatto vestire l’uniforme di
un loro soldato, dando così la possibilità ai “nemici” di catturare e
sucessivamente di “giustiziare”, “Lui”, assieme a molti dei rappresentanti del
Governo della RSI.
Alcuni fascisti si ribellarono a quella soluzione e cercarono di catturare delle
SS; ci fu uno scontro nei pressi dell’ autoblindata, ma subito sedato poiché i
tedeschi si avvicinarono al mezzo, dove all’interno c’erano alcuni gerarchi, con
un “bazooka”, pronti a farlo saltare, confermando ulteriormente che la “loro
sporca manovra” si doveva completare con la “loro fuga” e con l’abbandono totale
degli “ex alleati”.
I tedeschi proseguono per Dongo dove vengono di nuovo fermati e qui, al
controllo, i partigiani, che erano andati al comando, con il tenente tedesco,
“scoprono” il Duce! completamente senza difesa, dato che i “suoi” erano rimasti
fermi al primo posto di blocco e “le invincibili SS”, che avrebbero dovuto
proteggerlo, a tutti i costi, lasciano che il grande amico del loro capo, venga
arrestato come “un ladro di polli”.
Giorgio, man mano che procedeva nelle sue “indagini” si accorse che, fino a quei
giorni, la stampa italiana aveva raccontato un sacco di “fandonie”, depistando,
procurando falsi “scoop”, avvalorando la tesi dell’ “eroica” azione partigiana
voluta dal Partito Comunista, come copertura, e degli efferati omicidi commessi
e della successiva manovra, nell’ ”occultamento” dell’ “oro di Dongo”.
Furono in molti ad accollarsi il “merito” di aver scoperto il Duce sul camion
tedesco e, in tanti, hanno dato versioni diverse. L’unica certezza che ebbe il
“giovane cronista”, fu quella di trovarsi, letteralmente, in un guazzabuglio
tale di ipotesi, di quasi certezze, di cambiamenti d'idea, di tentennamenti,
dicendosi che certamente, da tutto il materiale raccolto, avrebbe avuto la
possibilità di fare un racconto a più puntate sul suo giornale, ma che la verità
su quei fatti, forse, sarebbe “saltata fuori” a distanza di più lustri. Continuò
ugualmente la sua indagine, in quanto, malgrado queste considerazioni, pensava
di riuscire a scoprire "qualche cosa in più” relativamente alla spietata
esecuzione di Benito Mussolini e di Claretta Petacci.
Ma ritorniamo alla ricostruzione che il giornalista del Tempo cercò di fare, di
quei due drammatici giorni, sulle rive del lago di Como, dove furono uccisi i
quindici fascisti sul “muretto” della Piazza di Dongo, circa alle ore 14 del
giorno 27, dopo che vi fu la selezione dei “fucilandi”, nel salone del
Municipio, da parte di “Valerio” (Walter Audisio), o da parte di “Bill” (Urbano
Lazzaro), e forse anche di “Pedro” (Pier Bellini delle Stelle), da una lista di
trentuno nomi, come Giorgio aveva annotato sul suo taccuino, alle quali bisogna
aggiungere anche il nome di Marcello Petacci, il fratello dell’amante del Duce.
Il Petacci non venne accettato tra i fascisti che dovevano essere fucilati
poiché lo ritenevano solamente un approfittatore, lui tentò la fuga a nuoto ma
venne, prima mezzo linciato dalla folla, poi ucciso dai partigiani, in quel
disperato tentativo di sottrarsi all’esecuzione.
Risultò abbastanza difficoltoso, da parte di Giorgio, il tentativo di
ricostruzione dell’esecuzione di Mussolini e della Petacci: si era portato con
sé, da Roma, alcuni ritagli di giornale, in particolare dell’ “Unità”, il
quotidiano del partito comunista Italiano, che aveva dato, nei primi mesi del
dopoguerra la “versione”, cosi detta, “ufficiale” dei fatti di Dongo, dove il
“merito” e dell’arresto, e della esecuzione, se lo disputavano il rag. Walter
Audisio, Urbano Lazzaro, Aldo Lampredi, Michele Moretti, Luigi Canali, assieme
alla sua donna, la partigiana Gianna, i quali parlavano dell’arresto del Duce a
Dongo e del suo trasferimento, prima a Germasino, nella Caserma della Guardia di
Finanza, poi a Bonzanigo nella casa dei De Maria, indi condotti davanti al
cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra dove, Mussolini e la Petacci
furono uccisi alle 16,30 di quel sabato 28 Aprile, e anche da una ricostruzione
effettuata da un giornalista del “Corriere d’informazione”, certo Ferruccio
Lanfranchi, nell’estate autunno del 1945.
A parere di alcune testimonianze, che Giorgio ascoltò con molta attenzione, da
parte di alcuni residenti nelle località citate, le cose andarono in altro modo.
Secondo due testi, l’esecuzione avvenne, a parere di uno, alle 8,30 del mattino
e dell’altro, verso mezzogiorno, nel cortile della casa De Maria, e quasi per
sbaglio, contrariamente alla volontà del “colonnello Valerio” che parlava di
condurli a Milano, per la fucilazione, mentre quella effettuata davanti al
cancello di Villa Belmonte fu solamente, una “messa in scena”.
Il Valerio, prima, alle 14,20 era a Dongo in piazza per l’ esecuzione dei
gerarchi (unica azione certa di tutta la storia), poi si recò a Giulino di
Mezzegra per la “sceneggiata”. Si “vocifera” anche che il colonnello Valerio non
fosse Walter Audisio, ma uno dei personaggi di vertice del Partito Comunista
Italiano, Luigi Longo, certo è che nel gruppo dei partigiani comaschi era
presente Aldo Lampredi, uomo fidato di Longo.
Altra “voce” che Giorgio raccolse, fu quella relativa alla grossa presenza di
spie inglesi sul posto, i quali ricercavano la morte del Duce per appropriarsi
delle famose “valigie” alle quali dava la caccia lo stesso premier inglese
“Churchill” che, anche in seguito, sul lago e con la scusante di fare “quadretti
artistici” degli splendidi paesaggi del “Lario”, si recò di frequente, in quelle
zone. Dicono, attorno alle case dove si sono verificati i fatti, che un inglese
e un italiano avevano scoperto il posto dove erano stati sistemati i “due
amanti” e che li uccisero a sangue freddo in una stradina laterale a quella
della casa dei De Maria e qui i corpi vi rimasero a lungo, prima di essere
scoperti da Valerio (o da Longo?), di ritorno dall’ “eccidio” di Dongo.
Certo che furono numerosi gli interrogativi che “frullarono in mente” a Giorgio
ad esempio: per quali motivi il Duce non venne fucilato assieme ai gerarchi
nella Piazza di Dongo? E se non subito assieme a loro, perché non finirlo, in un
secondo tempo, nello stesso luogo? Per quale motivo quella mattina di fine
Aprile fu necessario architettare tutta quella messa in scena, con un
fucilazione “doppia”? L’esecuzione, voluta dal Comitato di Liberazione
Nazionale, chi l’ha eseguita in realtà? Cosa realmente accadde?
E il “tesoro del lago”, ovverosia quello che i giornali stanno chiamando il
“giallo dell’ oro di Dongo”, dove è sparito? Quando la colonna fermata in quella
strettoia venne abbandonata dai fascisti catturati, poi trasportati prima della
fucilazione sul muretto del Piazzale, nel Municipio del paese, i più scaltri tra
i partigiani cominciarono a razziare le auto della colonna che erano rimaste
incustodite.
A un certo momento davanti a loro spuntarono le famose valigie che dovevano
contenere i documenti più importanti di Benito Mussolini. Vi erano poi anche
tutte le valigie e i contenitori dei gerarchi con, danaro, oro, gioielli che i
fuggiaschi portavano con loro, oltre ai beni del Governo della Repubblica
Sociale Italiana che erano riusciti a caricare a Milano.
Per cercare di evitare un saccheggio di ben più ampie proporzioni il “capitano
Neri”, nome di battaglia di Luigi Canali, comandante della 52° Brigata
Garibaldi, ordina di portare tutta la “refurtiva” nel Municipio di Dongo e qui
la partigiana, Giuseppina Tuissi, nome di battaglia “Gianna”, che è anche la
“donna di “Neri”, compila l’inventario di tutto quel “ben di Dio” che si era
riusciti a recuperare.
Poi Giorgio viene a sapere che tra i partigiani scoppiò una lite furibonda. Il
segretario del Partito Comunista clandestino di Como, tale Dante Gorreri,
sostiene che tutto quel materiale e tutti quei beni sono di proprietà del
Partito Comunista. Il “capitano Neri” sostiene che al contrario appartengono
allo Stato Italiano e che di conseguenza bisogna consegnarli alla Banca
d'’Italia. Il pomeriggio del 28 Aprile dopo tutto il sangue versato sulle rive
del Lago di Como, in quel piccolo paesino, il tesoro viene trasportato nella
villa delle sorelle Teresa e Luisa Venini a Domaso. All‘alba del giorno dopo, un
gruppo di partigiani bussa alla villa con un foglio in mano timbrato dal Partito
Comunista di Como, prelevano il bottino, caricano il tutto su di una automobile
e si dileguano.
Che fine ha fatto il “tesoro” del Duce e della RSI? Anche a Dongo, a distanza di
alcuni anni, si dice che sia finito nelle casse del Partito Comunista Italiano,
utilizzato per l’acquisto del Palazzo in via delle Botteghe Oscure a Roma sede
di quel Partito, e a finanziare le campagne elettorali del 1946 e del 1948, e le
“forze militari e clandestine”, oltre al finanziamento dell’apparato di cellule
e sezioni in ogni parte d’Italia. Il Giornalista del Tempo si rese conto che
tanti che si erano avvicinati a quel “tesoro” hanno fatto, come si dice, “una
brutta fine”.
Il “capitano Neri”, Luigi Canali, scompare l’8 Maggio, a pochi giorni
dall’esecuzione del Duce e dei gerarchi fascisti, e il suo cadavere non è mai
stato ritrovato. La “sua donna” la partigiana Gianna, Giuseppina Truissi cercava
disperatamente il suo uomo in quelle giornate.
Il 23 Giugno 1945, due fidanzati, al Pizzo di Cernobbio, notano una motocicletta
rossa con due uomini e una donna che scendono verso il lago: poi sentono un urlo
e uno sparo. La motocicletta riparte. Sul posto verrà trovato un giornale sporco
di sangue e budella umane. La “Gianna” è stata sventrata e gettata nel lago.
Pochi giorni dopo, il 4 Luglio, tra Acquasena e Santa Maria Rezzonico, riaffiora
il cadavere di Anna Bianchi, amica della Gianna e sua confidente, colpita con
due pallottole alla nuca e gettata ancora viva nel lago. Il 6 Luglio scompare
Michele Bianchi il padre di Anna. Il suo cadavere riaffiora dal lago il giorno
12, anche lui con due proiettili in testa.
Per finire poi con l’uccisione, a colpi di pugnale, in una strada alla periferia
di Como, il 26 Ottobre 1945, di Gaetano Melker, cittadino svizzero che si dice
abbia trasportato, da Como alla sede del Partito Comunista di Milano, il “tesoro
di Dongo”.
Giorgio si disse che aveva trovato materiale sufficiente per “buttar giù” alcuni
articoli e che, senz’altro, il suo “capo” al giornale sarebbe stato oltremodo
soddisfatto, pertanto la sua permanenza su “quel ramo del Lago di Como” la si
poteva considerare decisamente positiva.
Prima di ripartire per Roma si limitò a valutare come le circostanze avessero
portato le due “ex camicie nere” emiliane, Giorgio e Luisa, a ritrovarsi, per
l’avvio di una nuova e sfolgorante vita per Lei e una “forse”, altrettanto
sfolgorante carriera giornalistica per Lui, dovuta all’uccisione di quell’uomo
politico che era stato la causa delle “grosse difficoltà” alle quali, i due “ex
balilla di Salò”, erano andati incontro nelle loro giovani vite.
Dopo la parentesi “lariana” e dopo aver ricevuto, una volta ritornato nella
“capitale”, i complimenti del suo Direttore che gli pubblicò in cinque puntate
il “reportage” sulla fine di Mussolini e dei suoi gerarchi, si senti “ordinare”
da questo, un ulteriore inchiesta sui delitti e sugli eccidi commessi dai
comunisti nell’immediato dopoguerra nel Nord Italia: il “giovanotto” accettò
l’incarico con la condizione di portarlo avanti senza “pressioni” e in un arco
di tempo abbastanza ampio in quanto, all’Università doveva affrontare gli ultimi
due esami del corso di laurea, in più stava già preparando la tesi che si era
programmato di discutere a Febbraio-Marzo del 1952. Ci fu, in quel periodo,
anche l’incontro con la famiglia di Franca e relativo “fidanzamento ufficiale”,
quando i Giovannoni ritornarono a Roma, da Catania.
Il dott. Gustavo Giovannoni, si trovava a Roma a disposizione del Ministero
degli Interni in attesa del suo trasferimento in Alta Italia, lui si aspettava
la città di Bologna e, dopo l’incontro con il “giornalista”, che gli fece una
bellissima impressione, d’accordo con la moglie Teresa Boldrini, originaria di
Tivoli, volle dare, in occasione del fidanzamento della figlia, un “ricevimento”
degno di quella “bellissima coppia” che, al raggiungimento della Laurea, avrebbe
coronato il “sogno d’amore”, con il matrimonio.
Furono scelti i saloni dell’Hotel Hassler-Villa Medici a “Trinità dei Monti”
proprio di fronte alla famosa scalinata che porta in Piazza di Spagna, uno dei
posti più “esclusivi” della “città eterna” e qui, i due colombi, assaporarono
“in anteprima”, la “cerimonia nuziale” poiché il banchetto fu praticamente
uguale a quello di un matrimonio con la sola esclusione della “torta nuziale”.
L’ ”avvenimento” si tenne una domenica di Settembre con la partecipazione di
tutta la “parentela” dei due ragazzi; da Modena, “che non stavano più nella
pelle”, arrivò la famiglia di Giorgio, papà Giulio Campari, la mamma Marisa
Lotti, con il fratello Marco, già diventato un giovanotto, appena iscritto, dopo
la maturità scientifica, alla facoltà di ingegneria di Bologna: con loro lo zio
Francesco Lotti, c’erano: la moglie Renata Giacobbi e la figlia Elisabetta anche
lei ormai maggiorenne e in procinto di laurearsi in farmacia, Giorgio rimase
“quasi sorpreso”, nel ritrovarsi, praticamente dopo tanto tempo, il fratellino e
la “cuginetta”, ormai adulti, in particolare lei, una donna, tra l’altro molto
bella, irriconoscibile rispetto alla “ragazzotta” che si trovava per casa quando
era rinchiuso nella “prigione” di Via Cesare Battisti.
Alla sua famiglia si “aggregò” l’amico, il vicino di casa, il camerata alla
Brigata Nera, Renato Venturelli del quale non aveva saputo più niente dagli
“anni bui”, anzi lo credevano morto, invece era espatriato e in Francia si era
arruolato nella “Legione Straniera” attraverso varie vicissitudini; attualmente,
stava trascorrendo un periodo di riposo a Modena prima di ritornare a Marsiglia
per essere inviato in Indocina. Riuscirono a ritagliarsi, i due “ex brigatisti
neri”, quasi un’oretta per stare assieme a raccontarsi i loro percorsi dopo il
ritorno dal campo di prigionia di Coltano.
Renato era ritornato nella sua casa a Modena e, come Giorgio, fu “cercato” dai
partigiani che lo avrebbero voluto “giustiziare”, ma fece in tempo a sfuggire a
questi e a rifugiarsi presso un parente a Ventimiglia. Da questa località, al
confine con la Francia, entrò in contatto, nel giro di pochi giorni dal suo
arrivo, con personaggi che “reclutavano” giovani con “trascorsi difficili” e
difatti, molti di quei “ragazzi di Salò’”, braccati dai rossi, si rifugiarono
nei reparti della “Legione” a combattere, da “prezzolati mercenari”, per la
“grandeur” francese. I suoi genitori sapevano dov’era, ma non dissero mai niente
a conoscenti e amici per paura che la notizia trapelasse e che i comunisti
potessero “scoprirlo” per cui, per molto tempo, avvalorano la tesi della
“scomparsa” di Renato, a tutti.
La famiglia del questore si presentò, al completo, assieme a parenti, amici e
amiche di Franca, furono parecchi anche i “regalini” che Giorgio e Franca
ricevettero in particolare dalle “amicizie” più strette, mancava solo la
cerimonia in chiesa, e sarebbe stato tutto come il vero matrimonio, cerimonia
che Franca aveva già preannunciato a Giorgio un giorno che stavano facendo una
passeggiata lungo i “Fori Imperiali”; “ecco disse la ragazza, il giorno
“fatidico” lo verremo a celebrare qui, nella Chiesa di Santa Francesca Romana,
alla quale sono molto affezionata”.
Ovviamente Giorgio chiamò a quella festa un buon numero di amici e colleghi
dell’Università e del “Tempo”, i quali si “trattennero”, dall’espletamento di
tutte quelle forme di “caciara”, di scherzi e battute salaci, che normalmente si
fanno, in circostanze analoghe, tra camerati, amici, e attualmente anche tra
“compagni e compagne” che ormai trovavi negli ambienti della media e alta
borghesia e non solo in quelli del proletariato, solamente perché erano venuti a
conoscenza del ruolo del padre di Franca.
Il “funzionario del Ministero”, abituato a ricevimenti e banchetti, tutti di una
“certa classe”, si accordò con il “maitre” dell’Hotel Hassler - Villa Medici, in
modo da offrire agli ospiti, che venivano da “fuori Roma”, un accurata scelta di
cibi e di vini tipici della capitale e del Lazio. Questi si trovarono a dover
fare delle scelte “imbarazzanti”, dato che sarebbe stato impossibile, poter
“degustare” tutta la varietà dei piatti proposti ai commensali.
Iniziarono con dei deliziosi antipasti a base di “bruschette”, e delle
“crocchette dolci”, dei “Bignè di San Giuseppe”, oltre a degli involtini di
“ricotta con miele di castagno”, delle “panzanelle” alla romana, e dei “fiori di
zucca” ripieni di mozzarella e alici, tutti questi assaggiati in piedi
sorseggiando un buon “spumantino”, conversando e ammirando lo splendido panorama
di Roma dalle ampie finestrature delle sale del Villa Medici.
Sistemati ai tavoli, “romani de Roma” e “polentoni”, videro passare davanti a
loro, e avrebbero anche potuto “godere” di tutte le belle cose che i camerieri
facevano prima osservare, illustrandoli con quel “parlare romanesco”, che
aggiungeva un “tocco in più” alle “succulente” portate che i più giovani si
prepararono ad affrontare cercando di non lasciarne “perdere”, nemmeno una.
Iniziarono con dei “primi piatti” classici: dei “bucatini all’amatriciana”
deliziosi, una “zuppa di pasta e ceci”, che non si poteva lasciare nelle
“zuppiere”, non potevano poi mancare gli “spaghetti alla carbonara”, quasi
mescolati a delle “fetuccine al pesto” delicatissime; volendo si poteva anche
scegliere tra dei “tonnarelli cocuzzolati” o delle “penne alla puttanesca”.
Il buon “questore”, grande estimatore del “vino di qualità”, aveva fatto un
ampia scelta di vini bianchi e rossi con i quali amici e amiche, dei due “futuri
sposi”, avrebbero potuto sbizzarrirsi nelle scelte, a partire dall’Est! Est!
Est! di Montefiascone, a un buon Frascati, oltre a una serie di vini dei Colli
Albani quali, l’Orvieto, il Marino, e alcuni pregiati “rossi” quale un
“Cesanese” di ottima cantina, se poi qualche ospite avesse voluto uscire dalla
cerchia dei vini laziali, la “dispensa” dell’ Hotel Hassler era fornita dei più
prestigiosi vini italiani, dai piemontesi, ai veneti, ai toscani sino al
“canonau” sardo.
Ci fu, dopo i primi, una sosta con “sorbetto” digestivo, onde poter “affrontare”
la “carica”, altrettanto abbondante, dei secondi piatti. Arrivò il “tripudio”
delle carni e dei contorni. D’obbligo un “fantastico abbacchio alla cacciatora”,
delle braciolette “impanate e fritte”, un “assaggio” di “coda alla vaccinara”,
con involtini di fesa di manzo alla giudia e pollo alla romana con peperoni.
Passarono anche con della “trippa” alla romana con la mentuccia che, se non ci
fossero stati tutti i piatti precedenti, poteva essere considerato il “solo ed
unico secondo”. Non mancarono i deliziosi “saltinbocca”, assieme a succulente
“polpette affogate nel sugo di pomodoro”; il tutto contornato da “cicoria
strascinata”, da fiori di zucca fritti, foglie di salvia fritte e da una
“appetitosa” peperonata del cuoco Renato, assieme a una “terrina” di piselli al
prosciutto.
Ci fu “spazio” anche per una serie di dolci che mandarono in “solluchero” molte
signore, le quali, malgrado avessero dichiarato, all’inizio del banchetto, che
avrebbero mangiato “solamente un pochino” arrivarono “ben satolle” a quel punto
e non lesinarono nell’assaggiare: del “budino di menta con cioccolato fondente”,
una “favolosa crostata”, con la marmellata di “visciole”, delle tartine di
fichi, e dei “fagottini” di fragole fresche; per chi l’avesse voluta assaporare
c’era anche una “ricotta romana alla pecorara, con miele di castagno”, il tutto
lo si poteva “innaffiare” con della dolce Malvasia dei castelli romani. A
conclusione di questo “abbondante” pranzo, degno “de li antichi romani”,
abbondanza di digestivi, di sorbetti al limone, di caffè e di “ammazzacaffè”. Il
tutto ebbe conclusione nel tardo pomeriggio con i saluti di rito ai “futuri
sposi”.
Giorgio cercò anche di comunicare la data di quella festa all’amica Luisa, ma
non la trovò. Probabilmente era ancora in giro per il mondo con il suo conte,
difatti in quei mesi, aveva ricevuto, da varie località europee, delle cartoline
con i saluti della ragazza e di Giovanni Bentivoglio. I due “sposi effettivi”
erano ancora in giro con la loro Alfa Romeo, da oltre tre mesi e stavano
decidendo di ritornare a Milano ai primi giorni di Ottobre dopo aver visitato un
numero notevole di località, nel loro vagabondare per la “Vecchia Europa”, come
diceva Giovanni, dopo aver trascorso periodi più lunghi nelle abitazioni di San
Sebastiano e di Biarritz.
Luisa visse quel periodo come se si fosse trovata su un altro pianeta, la
sorprendeva, giorno dopo giorno, la generosità, l’eleganza, la cortesia,
l’affetto, l’amore che le dimostrava quell’uomo sempre più “invaghito”,
“innamorato”, “cotto”, “infatuato”, di lei.
Il mondo dorato che la circondava si apriva per lei, giorno dopo giorno; la vita
nel “Palazzo Reggia” di Milano, la frequenza a incontri importanti con il mondo
dell’aristocrazia e dell’imprenditoria milanese e lombarda, le amicizie che
andava consolidando in quell’ambiente esclusivo, avevano permesso a Luisa, con
la sua cultura e la sua intelligenza, di accattivarsi le simpatie di tante
“dame” influenti ed importanti e di “stringere” delle relazioni prestigiose.
Le cene nelle case più eleganti, attraverso le scelte “oculate” e ben ponderate
anche dal conte Giovanni che non le disdegnava, ma alle quali riteneva opportuno
parteciparvi solamente di tanto in tanto, le frequentazioni ai salotti culturali
più “a la page” della città, l’attenzione alle manifestazioni d’alta moda e alle
sfilate di grande interesse che si svolgevano con una certa frequenza, l’avevano
portata all’attenzione di quel “particolare” mondo.
Le sue giornate erano sempre piene di impegni, aveva imparato a giocare a tennis
iscrivendosi all’”esclusivo” circolo milanese, così come si era dedicata al
bridge frequentando l’altrettanto circolo riservato.
Durante la stagione invernale, restando per un certo periodo di tempo nella
villa di Cortina d’Ampezzo, si era dedicata con successo allo sci, diventando,
nel giro di alcuni anni, una sciatrice di tutto rispetto, invidiata anche da
tanti uomini di montagna. Così come imparò a cavalcare e ad appassionarsi al
mondo dei cavalli, nelle scuderie che il conte aveva nella vicina città di Monza
e, anche in quella disciplina riuscì, dopo alcuni mesi, a competere con le
“amazzoni” più in gamba della sua cerchia di amicizie.
In verità qualsiasi cosa andava ad iniziare, attraverso la sua “precisione”, la
sua “scrupolosità” e la sua “pignoleria”, abbinate ad una buona dose di
predisposizione a tutte le forme di attività motoria, riusciva ad interpretarle
al meglio raggiungendo, in tempi brevi, la “quasi perfezione”-
La grande preoccupazione di Luisa, di tanto in tanto il passato riaffiorava, era
quella di venire smascherata da qualche “ex cliente”; difatti successe che ad
una serata, durante un ricevimento in casa dei Conti Serbelloni, trovò un
marchese, molto conosciuto in Milano per la sua vita mondana dissoluta e
corrotta, che la tenne, costantemente e insistentemente, “osservata”,
“esaminata” e “studiata”. Con quell’uomo, sì, “convegni di un certo tipo”,
c’erano stati e anche abbastanza numerosi, si era poi ricordata delle sue
“particolari perversioni”, e quell’incontro l’aveva messa, decisamente, in
“imbarazzo”.
Cercò, complimentandosi poi con se stessa, di anticiparlo: indubbiamente in lei
c’era stata una certa trasformazione, ma i lineamenti non si erano più di tanto
modificati. L’affrontò con sicurezza, andandogli incontro con un sorriso
smagliante, in un momento che ebbe la possibilità di parlare liberamente, senza
l’ascolto o l’interferenza di altre presenze:
“Vedo, caro marchese, che mi state osservando con molta attenzione da un po’ di
tempo, ci sono forse motivi particolari, le ricordo forse qualche altra persona?
Mi è successo, tempo fa, era presente anche mio marito, che un signore,
certamente in modo non sgarbato, ma altrettanto insolente, mi disse che
assomigliavo ad una ragazza conosciuta anni prima, che “faceva la vita”. Se è
per questo motivo le ripeto quello che dissi a quel tale: la pregherei
vivamente, se le fosse possibile, di presentarmi la “mia sosia”, così anch’io
eviterei di sentirmi imbarazzata di fronte a chi mi “scruta” in modo che
chiamerei, “sconveniente”.
Il marchese, si scusò per quella “gaffe” diventando rosso come un gambero e,
quasi prostrandosi davanti a Luisa, chiese “umilmente” scusa e lei, “altezzosa”
si allontanò alla ricerca del conte Giovanni, dopo aver “incenerito” con lo
sguardo, il malcapitato “guardone”.
Fu quella l’unica volta, in tanti anni, che qualcuno la mise in imbarazzo,
veramente era diventata un “altra”, la trasformazione c’era stata, specialmente
sul piano psicologico e comportamentale, ma anche su quello fisico, il corpo era
ritornato “suo”, quello che aveva fatto con tanti uomini era stato “lavato”,
“cancellato”, “pulito”, come dopo una bella doccia. L’unico rapporto del quale
si ricordava e teneva gelosamente nella sua mente era quello avuto nell’
appartamentino di Piazza San Babila con il “caro” Giorgio.
Un altro "fatto” era ancora, purtroppo, sempre presente in lei, lo stupro
subito, da parte di individui “subumani”, in quel mese di Maggio nella bassa
modenese; era un episodio che “gridava ancora vendetta.”
Anche per Giorgio la vita ebbe a prendere un “ritmo” normale. Dopo l’ottenimento
della Laurea, all’Università di Roma con un bel 108 su 110, era il mese di Marzo
del 1952, continuò per un certo periodo nella collaborazione al giornale, poi, a
Giugno dell’anno dopo, Franca gli comunicò che era rimasta incinta e di
conseguenza, velocemente senza aspettare che anche lei si laureasse, venne
celebrato, nella Chiesa di Santa Francesca Romana, il matrimonio tra i due
ragazzi. Il padre di Franca, nel frattempo, era stato nominato Questore a
Bologna; l’anno dopo, Giorgio, in seguito alla nascita del bambino, si trasferì,
dopo che il dott. Giovannoni l’aveva convinto ad entrare in Polizia, a Bologna,
nel nuovo ruolo di Vice Commissario di quella Questura.
La famigliola andò ad abitare in un bel Palazzo, vicino a Via Indipendenza, in
un appartamento che distava nemmeno cinque minuti dalla sede della Questura dove
si trovava la residenza del papà di Franca e il nuovo ufficio del dott. Giorgio
Campari, calatosi, in brevissimo tempo, nel “nuovo ruolo” di poliziotto. La sua
recente funzione, dopo aver abbandonato la redazione del “Tempo”, la
sistemazione nel capoluogo emiliano che l’aveva fatto avvicinare alla sua
famiglia ancora residente a Modena, l’entusiasmo per la nascita del piccolo
Federico, avevano “caricato” il “neo commissario” che si era subito
“immedesimato” nella nuova attività portandovi tutta la carica della sua ancor
giovane età, dato che, malgrado quello che aveva passato, aveva compiuto, da
poco tempo, ventinove anni.
A Luisa, che era ormai entrata del tutto nel “ruolo” della “gran signora”, di
“grande dama” della nobiltà lombarda, sembrava davvero di esserlo sempre stata,
di essere nata “contessa”.
Aveva sistemato i suoi genitori nelle vicinanze del suo Palazzo di Corso Magenta
a Milano, avendoli così vicini da poterli vedere, volendo, anche tutti i giorni,
aveva risolto tutti i loro problemi economici e il vecchio genitore, che più
aveva subito le conseguenze del travagliato dopoguerra, si era decisamente
ripreso.
All’amica Ginevra, che continuava a restare nel suo appartamentino di Piazza San
Babila e che continuava a lavorare all’”Embassy”, era stato “tassativamente
proibito” di recarsi a “Palazzo”, ma nello stesso tempo la “buona contessa” si
recava di “tanto in tanto” a trovarla, e qualche volta dovette frenare le
“avances” della amica che era ancora “pazzamente” innamorata di lei.
Con Giorgio c’era stato solamente, dopo l’incontro sul lago di Como in occasione
del suo matrimonio, uno scambio di qualche lettera, e da parte di lui l’invio
dei confetti nelle due circostanze e del matrimonio e della nascita del figlio.
Praticamente, a parte queste due figure, Luisa aveva “tagliato completamente i
ponti”, con il suo passato. La “vita dorata” a volte le sembrava “stressante”.
A prescindere dagli incontri mondani, dietro richiesta del Conte Giovanni, Luisa
cominciò anche a rendersi partecipe agli "interessi" di famiglia. Assieme al
commercialista del conte, il rag. Ferruccio Pancaldi, che da anni seguiva
l’amministrazione dei conti Bentivoglio Molza Pellacani, iniziò a prendere
conoscenza delle tante proprietà della famiglia nella quale era entrata a farne
parte in un ruolo determinante.
Si dovette interessare delle spese e dei rapporti con i “dipendenti” del
“palazzo” che, in realtà, erano seguiti oculatamente e con rettitudine dall’uomo
di fiducia del conte, quel Jacopo Trotti, al quale era affidata anche tutta
l’organizzazione di eventi, feste, incontri importanti e tutto quanto era
relativo ai rapporti “politici” con la società milanese. Le fu oltremodo gradito
l’incarico di seguire la tenuta e le scuderie di Monza, di modo che si trovava,
quando doveva recarsi a seguire l’amministrazione di quegli impianti, a
ritagliarsi qualche ora per soddisfare la passione che si era venuta a creare in
lei per i cavalli e per l’equitazione.
Il conte Giovanni, da un po’ di tempo, si stava dedicando, con particolare
attenzione, all’attività imprenditoriale dei pneumatici che, in quegli anni,
stava subendo un accelerazione costante e notevole. Si teneva, ugualmente, uno
spazio anche lui, dall’impegno in fabbrica, per dedicarsi, qualche volta,
assieme a Luisa, a cavalcare uno dei suoi splendidi puledri. Le proprietà fuori
dal territorio milanese, le ville a Portofino, Cortina d’Ampezzo, Bellagio,
Biarritz e San Sebastiano erano seguite dal contabile Pierino Gambuti, che
doveva “tenere dietro” anche ai vari fondi agricoli, sparsi tra Emilia e
Lombardia e alle tante proprietà immobiliari di Milano e di Parma.
Erano veramente entrati in rapporto “perfetto”, interessi, amore, sentimenti,
venivano “portati avanti” con una sintonia completa, si intendevano
magnificamente su ogni cosa, anche sugli argomenti più frivoli, la scelta di un
film, di un opera teatrale o musicale, di un abito o nella scelta di un viaggio,
erano fatti in perfetto accordo e mai vi fu tra loro la minima discussione. In
poche parole, “armonia assoluta”.
A metà Ottobre dell’anno 1955, dopo aver trascorso il lungo periodo estivo tra
la villa di Portofino e quella di Cortina, il conte Giovanni chiese a Luisa di
accompagnarlo a Modena per andare a ritirare la “Ferrari 375 America” che aveva
ordinato qualche tempo prima alla “casa di Maranello” e con la nuova vettura
sarebbero tornati assieme a Milano.
La “contessa” dovette declinare l’invito poiché la sua cavalla favorita,
“Ipazia”, avrebbe dovuto partorire proprio in quei giorni e lei voleva assistere
a tutti i costi al lieto evento. Il conte decise allora di farsi accompagnare
dall’autista di famiglia, Franco Cavalcanti che da molti anni era con lui e che
curava la sua “autorimessa”, oltre ad essere un eccellente meccanico e, quando
serviva, anche un esperto giardiniere; con lui, in qualità di assistente e
“navigatore” aveva partecipato, alla fine degli anni quaranta a due Mille Miglia
consecutive, ottenendo, in entrambe le edizioni ottimi piazzamenti, con l’Alfa
Romeo 2900.
La mattina di Mercoledì 19 Ottobre i due coniugi si alzarono molto presto, lui
per prendere la direzione di Modena assieme all’autista, lei per portarsi alle
scuderie di Monza. Il conte era un “habituè” della scuderia automobilistica
modenese, era entrato da tempo, da quando prese la sua prima auto del cavallino
rampante, in ottimi rapporti con Enzo Ferrari e con alcuni suoi collaboratori
con i quali entrò anche in una stretta amicizia, come con l’ ing. Girolamo
Ferrari Amorotti, detto Mino, che lo attendeva quella mattina, presso la sede
modenese della “Ferrari” e con il quale sarebbero andati a Maranello a ritirare
e a provare, sulla Via Giardini, da Maranello a Serramazzoni, la fiammante “375
America” grigio argentata, una macchina, “carrozzata” Pininfarina che,
attraverso l’eccellenza della meccanica e le linee eleganti la rendevano una
delle vetture più desiderabili sul mercato internazionale, anche se molto
costosa. Uno dei pochi esemplari prodotti di questa splendida vettura venne
realizzata appositamente per il Re Leopoldo del Belgio.
La giornata, tipicamente autunnale, con la nebbia che già alle porte di Milano
accompagnò per tutta la Via Emilia sino a Modena i due milanesi e che aveva
messo di cattivo umore il conte Giovanni tanto da lasciar guidare la vettura al
meccanico autista Franco, cosa inusuale in quanto, normalmente, la “ruzzola” la
voleva sempre tenere in mano lui. Si incontrarono con l’amico, che li ospitò
nella sua casa in Largo Garibaldi, poi il conte volle andare a gustare un buon
piatto di tortellini presso il ristorante “Oreste” del noto “ristoratore
modenese”, Guerrino Cantoni, che fece completare il pranzetto ai tre commensali,
con una portata di “bollito misto”, trinciato al carrello dallo stesso titolare
del locale che faceva gustare le delizie della cucina modenese ai tanti
rappresentanti del cinema e del mondo dello spettacolo, che passavano per Modena
a ritirare il “mito” delle automobili nel mondo. Si gustavano poi i piatti
“impareggiabili” del grande Guerrino, con la loro nuova auto parcheggiata
davanti al locale, nella splendida Piazza Roma prospiciente la magnifica
facciata della “Reggia degli Estensi”, il Palazzo Ducale, sede della Accademia
Militare.
Arrivarono a Maranello alle tre di quel pomeriggio decisamente uggioso, dopo un
lungo colloquio con il “patron” passarono a ritirare la nuova vettura con la
quale andarono, come previsto, a fare un giro di prova sulla strada Statale
dell’Abetone e del Brennero poi, alle sei, il conte Giovanni decise di rientrare
a Milano, per andare in serata fuori a cena con Luisa a festeggiare assieme a
lei, i due nuovi arrivi, la macchina e il “puledrino”.
Luisa aveva passato tutto il giorno in scuderia dopo aver fatto, in mattinata,
una lunga cavalcata nella “brughiera” con la sua puledra preferita-
Quando voleva stare a lungo in sella senza eccessive “forzature” cioè un “andar
tranquilli”, la cara vecchia “Domitilla” era la preferita. Nel tardo pomeriggio,
dopo aver trascorso alcune ore in ufficio a sistemare la contabilità, arrivò il
dott. Mariano Poggioli, il veterinario di fiducia delle scuderie Bentivoglio e
con lui si recò nel box dove era stata allestita la “sala parto” e qui
assistette alla nascita del figlio di Ipazia, un bel puledrino marrone scuro al
quale diede il nome di “Topazio”. Non era passato un quarto d’ora dal lieto
evento, che Luisa ebbe come uno smarrimento, momentaneo, ma molto intenso che le
fece quasi perdere i sensi. Diede la colpa alla tensione che le era stata
trasmessa dalla “sofferenza” della sua amata cavalla la quale, subito dopo,
sembrava felicissima nel vedersi accanto il suo “puledrino”.
In realtà, in quel preciso istante, la “contessa” aveva “sentito” che era
successo “qualcosa di grave”. Si allontanò, scusandosi, per andare a distendersi
sul divano dell’ufficio. Trascorreva il tempo ma il malessere non passava,
quando lo squillare del telefono la fece sobbalzare e un presentimento le creò
un immediato sconforto, provocandole brividi di terrore in tutto il corpo:
“Mio Dio ! Giovanni!”.
Si precipitò alla scrivania sollevando, quasi con rabbia la cornetta mentre
dall’altra parte una voce informale chiedeva:
“Parlo con la signora Luisa Bentivoglio Molza, la contessa?”
“Si sono io, chi parla?”
“Sono il Maresciallo Alfonso Vinciguerra della tenenza dei carabinieri di
Castiglione delle Stiviere, e telefono dall’Ospedale. Mi sente signora?”
Luisa si era accasciata sulla scrivania con un groppo in gola,
“Si, disse con un filo di voce, “la sento, parli pure”.
“E’ successo un grave incidente, suo marito il conte Giovanni Bentivoglio Molza
e stato portato in questo ospedale, e qui con mè c’è il vostro autista Franco
Cavalcanti, che seguiva l’auto di suo marito. Vuole che glielo passi?”
Luisa non riusciva più a controllarsi,
“Ma mio marito come stà, é grave?, allora mi passi Franco”.
“Signora Luisa, è inutile che ci giri intorno, è successa una tragedia. Il conte
Giovanni è uscito di strada con la nuova Ferrari a pochi chilometri da
Castiglione delle Stiviere, dopo Mantova, mentre rientravamo da Modena. E’
morto. Io lo seguivo, a non molta distanza, con l’Alfa Romeo con la quale
eravamo partiti questa mattina e ho visto tutto. Le sarò più preciso in
seguito.”
Il telefono rimase muto alcuni minuti, Luisa era rimasta senza parola, poi
riuscì a dire:
“Franco, la prego, mi aspetti, io vengo subito lì, mi faccio accompagnare dal
capo degli stallieri qui a Monza.”
Lo schianto era avvenuto, nel tardo pomeriggio di quel giorno nefasto, sulla
strada statale n. 236, Mantova Brescia, a poca distanza da Castiglione delle
Stiviere. Giovanni, aveva preferito quel percorso, Modena, Mantova, Brescia,
Milano al posto della solita Via Emilia, perché, aveva detto Franco, voleva
“collaudare” il “bolide” in quanto i pochi chilometri fatti sulle strade delle
colline modenesi non lo avevano convinto e quel percorso già fatto tante volte,
anche durante la Mille Miglia, gli dava la possibilità di verificare il motore
su lunghi tratti rettilinei e su tratti misti di abitati e di zone poco
frequentate. Franco poi raccontò:
“Io lo seguivo a non molta distanza, ma non gli stavo nemmeno troppo vicino, a
volte lo vedevo, a volte lo perdevo di vista, specialmente quando lui trovava i
rettilinei adatti a lanciare l’auto quasi al massimo della velocità
raggiungibile. Non sono riuscito a vedere esattamente la dinamica
dell’incidente, sono arrivato sul posto forse un minuto dopo. La strada non
illuminata, probabilmente una sterzata brusca, una frenata improvvisa per
qualche ostacolo, non improbabile un malore improvviso del conte, difficile
stabilirlo, non c’erano altre macchine, sono arrivato mentre sopraggiungeva,
dalla parte opposta, un Fiat 1400; la Ferrari era ribaltata nei campi, e il
corpo di Giovanni era a una ventina di metri di distanza. Mi sono
immediiatamente attivato, assieme al guidatore dell’altra macchina, per cercare
di dare assistenza al conte, ma ad entrambi è parso che fosse deceduto
all’istante.
Il guidatore della millequattro si è prestato a venirmi in aiuto, ha girato la
sua auto per andare nella vicina cittadina di Castiglione delle Stiviere a
cercare aiuto, difatti, pochi minuti dopo è ritornato assieme ai carabinieri e
ad una autoambulanza e qui, al medico era sembrato che il Giovanni desse ancora
qualche segno di vita, così l’hanno trasportato subito all’ospedale, sembra
anche che il decesso sia sopravvenuto sulla macchina della croce rossa. Alcuni
carabinieri sono rimasti sul posto per i rilievi del caso e per dirigere il
traffico, mentre anch’io e il maresciallo abbiamo seguito Giovanni per poi
telefonare.
La macchina è andata praticamente distrutta e mi hanno detto che è stata
trasportata, con un carro attrezzi, in un “garage” di quel centro.”
Il “dopo” risultò drammatico per Luisa, fortunatamente per lei prese in mano la
situazione il bravo Jacopo che, con capacità e signorilità riuscì ad organizzare
la cerimonia funebre che si svolse nel Duomo di Milano alla presenza di una
grande folla e di tantissime autorità, data la notorietà del personaggio; anche
la stampa diede ampio risalto alla notizia del gravissimo incidente che aveva
stroncato la vita di un imprenditore e di un rappresentante della nobiltà
lombarda conosciuto ed apprezzato in tutto il paese. Furono centinaia i
biglietti, i telegrammi e le lettere di condoglianze che la contessa ricevette,
compresa anche una commovente lettera di Giorgio che non incontrava ormai da
alcuni anni.
Per un lungo periodo la “contessa” tenne un lutto strettissimo, non usciva
praticamente di casa; solamente i suoi genitori e le persone più vicine al conte
avevano la possibilità di confortarla; non voleva vedere nessuno, e per oltre un
anno non frequentò salotti, non andò nelle varie residenze estive, non fece
viaggi, si limitò, dopo alcuni mesi dalla morte di Giovanni, a seguire le
relazioni che gli amministratori delle varie tenute, della fabbrica e di tutte
le proprietà del conte, le facevano avere puntualmente e con regolarità.
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