Parte Terza

La Mandante

Romanzo modenese

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I due giovani “ex repubblichini” emiliani, come venivano genericamente chiamati, in modo “spregiativo”, da certa stampa e dagli avversari ora “padroni del vapore”, rimasero in contatto epistolare per alcuni anni, finché un giorno, all’inizio dell’autunno del 1949, Luisa ricevette una lettera da Giorgio il quale le comunicava che sarebbe arrivato, il giorno 20 Settembre, alla stazione Centrale di Milano, proveniente da Modena e, se fosse stata libera da impegni, avrebbe avuto molto piacere di rivederla.
Quel giorno, il “Roma-Milano” con soli pochi minuti di ritardo sull’orario previsto, si arrestò al binario n. 14. Giorgio, affacciato al finestrino vide immediatamente sul marciapiede, in mezzo alla folla in attesa di amici e parenti, l’inconfondibile figura di Luisa, i capelli a “caschetto”, indossava un elegantissimo tailleur grigio che fasciava la sua snella figura. Bella, forse ancor più bella di quella notte di tanto tempo fa trascorsa in “fitto colloquio” dopo il “salvataggio in extremis” dentro quella “casa” di Modena. Anche lei riconobbe Giorgio all'istante e corse verso il vagone, “sbracciandosi” per farsi vedere tra la gente; lui si precipitò dal treno, appena arrestatosi, per essere immediatamente accolto tra le braccia spalancate di Luisa. Si baciarono e si abbracciarono come due innamorati, quali forse erano, senza mai essersi dichiarati e senza che ci fosse mai stato, anche nella corrispondenza intercorsa in quei lunghi anni, un solo accenno alla parola “amore”.
Giorgio era arrivato a Milano dopo una sosta di due giorni nella sua città a casa dei genitori dove, da quando si era stabilito a Roma, si era recato qualche volta. La situazione politica nel modenese si era notevolmente tranquillizzata, e per la impossibilità da parte dei “rossi” di forzare la condizione geopolitica uscita dalla conferenza di Yalta, per portarla a loro favore, e per la solerte opera delle forze dell’ordine. I carabinieri in particolare, avevano scoperto tanti dei delitti da loro commessi e messe a tacere le ultime “squadre delle volanti rosse” che erano rimaste in “esercizio” per due anni buoni dal termine della guerra; ma ancor più dopo la cocente sconfitta del “Fronte Popolare” alle elezioni del 18 Aprile 1948 quando il Partito Comunista Italiano, sovvenzionato dai rubli sovietici, assieme ai suoi alleati del Partito Socialista, venne sonoramente battuto dalla Democrazia Cristiana, ma in particolare dal popolo italiano che non voleva assolutamente sentir parlare di comunismo, in quello scontro epocale che permise all’Italia di non restare invischiata nella operazione dell’Internazionale rossa, in quanto vide, definitivamente scacciati a “furor di popolo” gli emissari di “Baffone” che, anche in Italia, avrebbero voluto instaurare un bel “Regime” come invece successe nei paesi dell’Est Europeo che, con la violenza e i colpi di stato e mai attraverso libere elezioni, diventarono dei satelliti del “moloch” sovietico.
Più frequentemente, nei primi tempi della sua sistemazione a Roma in Via Montevideo, furono i suoi genitori a recarsi nella capitale a trovare il ragazzo e la famiglia dello zio Adolfo che era sempre stato molto legato alla mamma di Giorgio.
Luisa prese per mano il “modenese-romano” e assieme si incamminarono fuori dalla stazione, chiacchierando e complimentandosi l’uno con l’altra:
“ti trovo benissimo…”,
“ma come sei bella….”,
“sei elegantissima…..”,
“adesso sei proprio un bell’uomo……”
e via così, si guardavano e si studiavano, allegri e sorridenti per fermarsi al primo bar che incontrarono dove trovarono un tavolino appartato in un angolo e qui ebbero la possibilità di scambiarsi le prime considerazioni. Giorgio le comunicò che era arrivato a Milano per lavoro dato che il giornale dove lavorava, “Il Tempo” di Roma, lo aveva inviato nella capitale lombarda per un “servizio speciale” e aveva prenotato per lui una stanza all’Hotel “Gallia”. Sarebbe rimasto in città per parecchi giorni, di conseguenza avrebbero avuto la possibilità di frequentarsi, “sempre se lei lo avesse desiderato”, con una certa assiduità.
“Carissimo Giorgio” precisò subito Luisa, “ io, proprio in questi giorni, sto abbandonando il “lavoro” che avevo intrapreso in quella “Casa” di Modena dove ci siamo conosciuti, “mestiere” che ho portato avanti per tutti questi anni. Ho la possibilità, tramite l’amica “maitresse”, che ha alcune conoscenze “altolocate” anche qui a Milano, di avere documenti nuovi e “puliti”. Noi “puttane” siamo schedate dalla questura e con questo “marchio infamante”, difficilmente riusciamo a trovare altre attività nel momento in cui decidiamo di “smettere”, cambierò completamente il corso della mia vita.
Sono stata in molte case qui a Milano, in Via Chiaravalle, in Via San Giovanni sul Muro, in Via San Carpoforo e sempre in case di “lusso” che mi hanno permesso di mettermi da parte un discreto “gruzzoletto”; attualmente sono in trattativa, dopo che avrò avuto i nuovi documenti, in regola e puliti, che mi potranno dare una nuova “verginità”, non metterti a ridere per questa mia battuta, per entrare poi a lavorare in un “night club”; questi locali stanno incontrando un grande successo qui a Milano dove la gente, oltre al lavoro, ha una gran voglia di divertirsi.
E’ un’ attività “similare” ma non “totalizzante” come quella delle case, in quanto, se vuoi “andare a letto” con un cliente è una tua scelta e non è sempre obbligatorio, anche se il “datore di lavoro” ti può stimolare a farlo. In fondo devi “semplicemente” cercare di far consumare “champagne” e altre bevande al cliente, sei l’”entreneuse” come si dice alla francese, devi saper ben “intrattenere” nel locale quei “gonzi” che vengono per ballare, godersi lo spettacolo delle ballerine e dei giocolieri, gustarsi la musica di brillanti orchestrine; ci sono stata varie volte in questi ultimi tempi, come cliente, assieme al mio “collocatore” che mi sceglierà locali come l’Embassy Night Club o l’Astoria, o il Maxim o altri di grande prestigio che sono frequentati da una clientela ricca e spendacciona e anche dalla “cosidetta” Milano bene.
In questi locali ho trovato brillanti complessi come quello di Renato Carosone, di Bruno Quirinetta, o artisti come, Peter Van Wood, Sergio Endrigo, Bruno Martino, Marino Barreto, Fred Buscaglione e tanti altri. Lavori quindi ascoltando buona musica poi, se qualche cliente ti vorrà portare in una camera d’albergo promettendoti una lauta ricompensa, in fondo non farai altro che ripeterti nel lavoro che per più di tre anni hai fatto quotidianamente, con tanti uomini, uno dietro l’altro, senza sosta.

Al Night sarà tutt’altra cosa, lavori solo di notte dalle dieci alle quattro del mattino, di conseguenza avrò molto più tempo libero rispetto alle “case, che ho frequentato praticamente in tutto il Nord Italia dalle grandi città a quelle più piccole, e ho fatto pure una “puntata”, di un mese, anche nella mia Bologna, in Via delle Oche e in Via dell’Orso”.
“Come ti ho detto”, proseguì Luisa, “in questi giorni sono abbastanza libera e, se vuoi, ti faccio visitare il mio appartamentino che ho acquistato, da poco tempo, in centro in Piazza San Babila, nel quale “sempre se credi” potresti accomodarti per i giorni che resti a Milano; in quei locali, abbastanza vasti, ci abito da sola e non vi faccio mai entrare uomini, anche perché non ho mai intrecciato una relazione “abbastanza seria” con nessuno. Ma con te sono prontissima a fare un “eccezione”.
“Sei sempre troppo carina e gentile con me”, rispose Giorgio, “ma per questa notte sarà opportuno che mi rechi all’albergo che mi ha prenotato il giornale, poiché da lì mi devo tenere in contato con Roma dato che, come ti dissi qualche tempo fa in una lettera, mi hanno assunto, mentre stò frequentando l’Università. Mi trovo molto bene in quella redazione, questo è il mio primo incarico importante fuori sede, pertanto è bene che non “sgarri” subito: magari nei prossimi giorni vedremo cosa sarà possibile fare; intanto questa sera andiamo a cena in qualche “bel posticino” che tu mi indicherai, così avremo il tempo di raccontarci tutto quello che in questi ultimi tempi non siamo riusciti a comunicarci per lettera. Adesso mi accompagni in albergo, così mi cambio e mi metto un vestito che mi possa permettere di non sfigurare con te che sei elegantissima e ormai sono quasi le otto.”
Dopo essere salito nella camera all’Hotel Gallia, rimase sorpreso che il giornale lo avesse trattato così bene alla sua prima esperienza in trasferta e dopo aver indossato il doppio petto grigio che si era portato da Roma, opera della sartoria dello zio, poiché, da quando il ragazzo aveva iniziato a frequentare l’Università, lo voleva sempre elegante e in fondo a Giorgio non dispiaceva il “vestir bene”. Quando Luisa lo vide, lo aveva atteso nella hall dell’albergo, rimase colpita dalla eleganza e dalla prestanza di Giorgio e le prime parole che disse, quando la prese sottobraccio per uscire dal Gallia per recarsi al ristorante, furono:
“speriamo solamente di non incontrare qualche cliente delle “case” perché non vorrei farti fare una brutta figura, considerato che non sempre i “clienti” sono persone educate e corrette e tanti sono abituati a fare, nei “nostri confronti”, battute non molto carine, di conseguenza sarebbe imbarazzante per te.”
“Luisa non ti devi assolutamente preoccupare per questo” la rassicurò il ragazzo, “sono sufficientemente navigato e ho anche la parola facile e con arguzia sono pronto a “stendere” qualsiasi individuo che voglia permettersi un comportamento scorretto e villano nei tuoi riguardi”.
Dall’albergo avevano fatto prenotare un tavolo per due in un grazioso ristorante in Via Bagutta dove, quando entrarono, ben accolti dai camerieri, fecero subito “colpo” poiché in tutti i tavoli, sia gli uomini, sia le donne, ammirarono quella bella ed elegante coppia, e nessuno diede a dimostrare di aver riconosciuto, in quella stupenda ragazza, “una di quelle”.
Dopo aver ordinato, Luisa iniziò col chiedere a Giorgio come andavano avanti i suoi studi e se avesse trovato a Roma, la fidanzata.
“No, cara Luisa, ho conosciuto molte ragazze ma ancora non ho legato con nessuna, sono rare le volte che con la compagnia di mio cugino, più spesso durante il periodo del carnevale, andiamo a ballare al pomeriggio, in uno dei locali del centro di Roma come la “Rupe Tarpea” o la “Casina delle Rose” o alle “Grotte del Piccione” o in qualche altra “balera”. Raramente sono uscito con una ragazza da solo, poiché, almeno con la maggioranza di queste se vuoi, o andare al cinema o semplicemente andare a fare una passeggiata al “Pincio”, loro ci vengono, ma quasi sempre accompagnate dalla mamma. Ma a questo proposito ti voglio raccontare un episodio abbastanza “comico”.
Ero riuscito a “strappare” un appuntamento ad una di queste ragazze che riuscì ad evitare l’accompagnamento della mamma o della sorellina, e durante una passeggiata in uno dei parchi romani, ce ne sono molti e molto belli, eravamo seduti su di una panchina e ci stavamo baciando, quando sentimmo uno “scapannellio” molto vicino, io dissi con mè stesso, ma senti che effetto mi fa baciare questa ragazza, non avrei mai pensato che si potessero udire suoni, che non sono “celestiali”, ma un po’ troppo metallici, e si ripeterono altre due o tre volte.
Ci staccammo, e di fianco a noi è apparso un Vigile urbano in bicicletta, un “pizzardone” che, dopo quella serie di “scampanellate”, correttamente, ci ha accusato di essere in contravvenzione in quanto esiste in Roma un ordinanza del Comune che vieta alle coppie di baciarsi in pubblico.
Siamo rimasti di “stucco” entrambi, io ho cercato di contestare ma non c’è stato niente da fare, anzi a un certo punto ci minacciò di portarci al commissariato, al che la ragazza, pensando che forse le guardie avrebbero chiamato i suoi genitori, si mise a piangere. Il sottoscritto allora mise subito mano al portafoglio per saldare quella contravvenzione che, se ricordo bene mi costò un due o trecento lire. Vedi dunque che è meno rischioso entrare in una delle tue case, piuttosto che uscire “innocentemente” con una ragazza, almeno a Roma.”
Luisa si mise a ridere e lo sollecitò a continuare; Giorgio, che si stava gustando uno squisito risotto alla milanese riprese il suo racconto,
“come ti ho scritto, dopo aver frequentato al Liceo Visconti a Roma, l’ultimo anno, all’esame di stato ne sono uscito con un ottima votazione, mi sono iscritto a Legge e fra pochi giorni inizierò le lezioni del terzo anno. Sono praticamente in pari con gli esami. Mi manca solamente un “diritto”. Dopo aver lasciato il lavoro di commesso in quel negozio di abbigliamento maschile dove mi trovavo abbastanza bene e che mi ha permesso di sostenere le spese del mio primo anno di permanenza nella capitale, all’inizio del secondo anno degli studi universitari, tramite un amico di mio cugino Umberto che è redattore al Tempo, giornale importante e di prestigio, mi hanno assunto come collaboratore alla cronaca giudiziaria e saltuariamente anche alla cronaca sportiva: senz’altro guadagno meno che fare il commesso, ma almeno è una attività molto più interessante e più consona ai miei studi, che vorrei terminare, possibilmente, nell’arco massimo di un quinquennio, cercando di non andare troppo “fuori corso”.
I miei genitori e lo zio mi aiutano, ma vorrei rendermi, “indipendente” in uno-due anni, dall’ottenimento della Laurea. Devo cercare di non lasciarmi prendere troppo da questo impegno di “giornalista”, dato che ci tengo a laurearmi, poiché ho visto che alcuni miei colleghi hanno rinunciato a proseguire gli studi per fare i “corrispondenti a tempo pieno” senza però avere in mano quel “pezzo di carta” al quale ci tengono molto, tutti quelli della mia famiglia.
Ho già fatto alcuni servizi di “cronaca nera”, e di “giudiziaria” ma non disdegno anche di fare qualche pezzo allo stadio, in particolare quando gioca la “Lazio” che è diventata, da quando abito a Roma, la squadra del “cuore”. A Modena sono passato, ma sempre velocemente, alcune volte a trovare i miei genitori che in realtà sono venuti più spesso loro a Roma, e alcuni dei miei amici più stretti.
Dei ragazzi con i quali ho passato otto mesi nella Brigata Nera modenese, non ho più visto, né avuto notizie, di nessuno e di questo sono molto dispiaciuto, poiché alcuni di loro, so con certezza che sono stati uccisi dai partigiani. Degli altri spero ardentemente che, come il sottoscritto, qualcuno sia riuscito a sopravvivere a quella bufera. Mi spiace solamente per la famiglia di non essere rimasto nella mia città, senza poter portare quell’aiuto che avrei potuto dare alla crescita del mio fratellino Marco, che adesso frequenta il Liceo Scientifico”.
“Ma ti rendi conto Luisa”, proseguì il neo corrispondente del “Tempo”, mentre il cameriere versava loro un altro calice di “Franciacorta” ordinato per accompagnare la classica cenetta che, al momento, vedeva sul tavolo una bella “cotoletta alla milanese”, “sono passati quattro anni da quei “giorni maledetti”. Entrambi ne siamo usciti in qualche modo, ma almeno non ci abbiamo lasciato la pelle come purtroppo è capitato a tanti nostri camerati, ai quali non vi è nemmeno la possibilità di andare a portar loro qualche fiore, visto e considerato che non hanno avuto l’ opportunità di essere sepolti dignitosamente in una tomba dove parenti e amici possano andare a trovarli.
Agli altri, quelli che ci sparavano alle spalle, sono stati dedicati mausolei, cippi funerari nei luoghi dove hanno perso la vita e in ogni occasione di ricorrenza vengono celebrati come degli “eroi” mentre per i nostri che sono caduti con addosso una divisa non vi è ancora nessuna possibilità di un degno riconoscimento. Anzi moltissimi stentano a reinserirsi nella vita sociale poiché o epurati o messi al bando dai posti di lavoro, emarginati solamente perché, quando viene chiesto loro, specialmente nel pubblico impiego, un “curriculum”, se fai notare la tua appartenenza ad un corpo militare della Repubblica Sociale Italiana, difficilmente hai la possibilità di essere scelto. Conosco ragazzi e anche persone mature con figli a carico, che vivono nella più completa miseria e che non hanno la possibilità di recuperare il loro precedente posto di lavoro e sono costretti ad andare ad elemosinare, quotidianamente, un pasto alle organizzazioni di assistenza, o presso qualche Istituto ecclesiastico caritatevole che da loro la possibilità di non morire di fame. E’ avvilente vedere in quelle condizioni persone che un tempo conducevano una vita normale, impiegati, insegnanti, persone dabbene che non escono più di casa perché si vergognano a farsi vedere in quelle condizioni e molti di loro si lasciano completamente andare, finendo in ospedali, in manicomi, e tanti anche in carcere perché, pur di sopravvivere, commettono piccoli “furtarelli” che, per la loro assoluta incapacità a delinquere, li mettono in condizione di farsi “pescare” e a peggiorare, di conseguenza, il loro stato psicologico.”

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“Hai ragione Giorgio”, disse la “donnaccia”, “malgrado siano passati quattro anni, il mio ricordo ritorna ogni giorno e ogni notte all’orrenda esperienza che mi hanno fatto passare quei “maiali”, oltretutto mi hanno praticamente costretta a dovermi scegliere una professione che non è proprio quella alla quale aspiravo, ma siamo ancora giovani ed abbiamo realmente tutta la vita davanti a noi, l’importante è non lasciarsi prendere dalla disperazione come hanno fatto tanti nostri camerati; ho trovato qui a Milano alcune delle mie colleghe ausiliarie con le quali abbiamo passato assieme gli ultimi mesi della Repubblica.
Alcune hanno subito violenze e grosse difficoltà a reinserirsi nelle attività lavorative, ma nessuna, a quanto ho saputo, ha passato un “calvario” spaventoso come quello che ho vissuto io; una l’ho trovata, a Varese, in una “casa” a fare il “mestiere”. Chi aveva alle spalle una famiglia benestante è riuscita a venirci fuori, mentre per le altre è stata, ma per molte lo è ancora, durissima, come tu raccontavi per i nostri camerati. L’attività che sono stata costretta a scegliere mi ha, almeno per i primi tempi, quasi completamente “annullata”, andavo a letto “distrutta” e non pensavo quasi più a niente, ero veramente diventata “un'altra”, non mi riconoscevo più, sentivo tutto quello che stavo vivendo come uno stato di degradazione totale, di umiliazione, di sfacelo fisico e morale, poi, gradualmente, mi sono “adeguata” e visto che si guadagna anche bene ho cercato di sfruttare al massimo questa attività.
I miei genitori non sanno assolutamente nulla di questo mio “esercizio”; ho raccontato loro che sono impiegata qui a Milano, e appena ho un po’ di tempo vado a trovarli. Solo mia zia Bice forse “ha mangiato la foglia” ma probabilmente mi pensa a fare una certa vita, ma non dentro a quelle case.
Sono alcuni mesi che sto seriamente pensando di riprendere a studiare per, eventualmente, fare quello che stai facendo a Roma e cioè iscrivermi alla tua stessa facoltà, cosa che, quando frequentavo il Liceo a Bologna e a Mirandola, pensavo di fare. Se riesco a trovare qualcuno che mi dia lezioni o se trovo un Istituto privato che possa permettermi di preparami dignitosamente, vorrei tentare di dare l’esame di stato come privatista.
So bene che questo è un sogno ben difficilmente realizzabile, però adesso che ho un appartamento dove posso stare tranquilla e se và bene in porto l’attività di “entreneuse” o di “accompagnatrice” penso mi resti del tempo libero per studiare. Non posso fare come facesti tu che hai frequentato il terzo anno come un allievo normale. La sottoscritta e per l’età e per la professione che mi ritrovo, difficilmente potrebbe stare a contatto quotidiano con delle ragazzine liceali. Inoltre rimane sempre nei miei pensieri la possibilità di potermi un giorno vendicare per tutto quello che ho subito.
Ho saputo che si erano costituiti dei gruppi con delle “velleità”, non dico di ricostruire quello che è finito, ma di rifarsi all’ideologia sconfitta; una camerata, che ho incontrato qui a Milano, quella che avevamo lasciato in questa città ai primi di Maggio del 1945 e che si è salvata senza aver subito violenze di sorta, mi aveva contattato per cercare di farmi entrare o quanto meno di iscrivermi a quei gruppi, ma ho rifiutato decisamente, non voglio avere niente a che fare con questi “nostalgici” che adesso sono costituiti in regolare partito, tutt’al più potranno avere il mio voto se deciderò di partecipare alle elezioni.
Ma la “vendetta” dovrà avere un sapore particolare, me la dovrò “gustare” e “centellinare” da sola e dedicarla a quelle persone che furono “bestialmente” ammazzate in quel territorio della bassa modenese davanti ai miei occhi, non è ancora giunto il momento per potermi muovere nella direzione che mi sono proposta, ma ho imparato ad avere pazienza, pertanto, che sia fra un anno o fra dieci non importa, la “cambiale“ che hanno firmato con la sottoscritta dovranno, “obbligatoriamente” saldarmela.

Malgrado il “mestieraccio”, adesso sono abbastanza serena, motivata a far soldi e a portare avanti la mia vita senza trascurare quegli studi classici che avevo intrapreso e che la “malasorte” ha voluto interrompere. Assolutamente è finito il tempo delle “case chiuse” e di questi anni sarà opportuno che mi ricordi solamente gli “aspetti positivi” di quella vita. In fondo sono stata sempre ben servita e accudita, le cameriere mi portavano il caffè a letto al mattino, il medico ci teneva sempre controllate anche due volte alla settimana, le addette alle pulizie, almeno nelle case più importanti, ma io ho praticamente e quasi sempre frequentato solo quelle, esclusa qualche eccezione, entravano nella stanza a pulire e a disinfettare dopo ogni “cliente”, e posso dire di avere avuto sempre una clientela di riguardo, professionisti, gente danarosa, perfino alcuni sacerdoti che arrivavano sempre in borghese e che si facevano trovare nel salottino privato e mai in mezzo agli altri clienti.
Certamente mi sono dovuta adeguare alle richieste più strane e alle “perversioni” più incredibili, ho imparato a conoscere la “fauna” umana in tutte le sue “depravazioni” e in tutte le contorsioni mentali possibili, ma fortunatamente, contrariamente a quanto è successo a delle “colleghe”, non ho mai avuto incontri violenti o brutali o troppo aggressivi, quelli me li hanno scaricati addosso solamente quegli “orrendi individui” che oggi vengono considerati degli “eroi”, quando avevo solamente diciotto anni e speravo ancora di incontrare il “mio grande amore” o se vuoi il mio “principe azzurro”; da quel mese di maggio del 1945 non credo più a niente, l’unico uomo che conosce la mia storia sei tu e ringrazio chi sta lassù, se ci sta, di avermi dato la possibilità di conoscere un ragazzo “pulito” come te.
Devi perdonarmi per questa “dichiarazione” ma è la pura verità, io mi sento così bene con te come non mi è capitato mai con nessun altro. Vari uomini mi hanno portato fuori a cena e anche a teatro e sai bene che, per “quel motivo”, hanno conosciuto il mio corpo in tanti, ma la mia testa e ancor più il mio cuore, non li ho mai dati a nessuno.”
Dopo aver ordinato un dolce, Giorgio si limitò a sorridere compiaciuto alla ragazza e a dirle: “vorrei conoscerne di più delle donne come tè, con la tua maturità e la tua saggezza, dato che sino ad oggi ho solamente incontrate ragazze frivole e decisamente poco mature.”
Contemporaneamente diceva a sé stesso:
“Luisa mi piace moltissimo, è molto bella ed anche molto intelligente, ma come faccio a fare una proposta seria ad una donna che fa “quel mestiere”, come posso pensare di fare all’amore con chi è passata tra le braccia e ha conosciuto il sesso di centinaia e centinaia di uomini? Sarà bene che rimanga, la nostra, solamente una buona e magari duratura amicizia e da parte mia cercherò di esserle eternamente riconoscente per quello che ha fatto per mé, ma oltre non posso andare.
Sarò un provinciale, rimasto legato a vecchi principi ma, e ricordo pure le parole che mi ha detto lei, adesso, in ogni uomo che incrociamo e che le butta lo sguardo addosso, anche se solamente in funzione della sua bellezza, penso immediatamente che quel tale la possa aver posseduta a suo piacimento e in una delle forme più “perverse” alle quali si è resa disponibile per tanto tempo facendo il suo “lavoro” e che quest’uomo possa mettersi a ridere alle mie spalle nel vedermi in compagnia di una "sgualdrina".
Come potrei presentarla alla mia famiglia, da sempre legata alle forme più “tradizionali” del modo di vivere e che hanno sempre rifiutato le “trasgressioni”, anche le meno eclatanti? Se sapessero la totale verità come potrebbero giudicare quel loro figliolo che credevano cresciuto nel più assoluto rispetto di quei valori?
E’ difficile “spogliarla” della sua “attività professionale”, della quale sei perfettamente a conoscenza per averla conosciuta nel pieno dell’ ”esercizio delle sue funzioni”. Probabilmente se l’avessi incontrata da qualsiasi altra parte, senza venire a conoscenza della sua “reale attività” avrei anche potuto realmente innamorarmi, dato che sento per lei una grandissima attrazione
Adesso mi trovo veramente in grosse difficoltà pensando al momento in cui rimarremo soli, come mi dovrò comportare? Sento notevole interesse per lei, ma nello stesso tempo non riesco a non pensare che se mi trovassi all’interno di una delle sue “case” mi basterebbe pagare la “marchetta” per ottenere la stessa cosa senza altre preoccupazioni di ordine morale. Non vorrei comportarmi come un “cliente” qualsiasi, d’altra parte se passiamo un po’ di tempo assieme, visto che mi ha invitato in casa sua, dovremo arrivare logicamente a “quella” conclusione
Ugualmente mi dispiacerebbe che lei arrivasse a considerare il mio comportamento come quello di un qualunque individuo che vuole da lei solamente “quella cosa”. Questo imbarazzo penso che lo abbia già interpretato dato che è una donna intelligente e profonda conoscitrice, non solo del corpo ma in particolare della psicologia maschile; prima o poi questo problema dovremo “analizzarlo” assieme poiché dovrebbe essere lei ad aiutarmi per uscire, possibilmente in modo corretto e senza traumi, da questo attuale mio disagio.”
“A cosa pensi Giorgio” chiese Luisa “sei diventato di colpo pensieroso e molto serio, sei forse stanco del viaggio, o preoccupato per il lavoro che domani ti aspetta qui a Milano?”
“No, vagavo un po’ con il pensiero” si giustificò lui ”sono semplicemente andato un po’ a ritroso nel tempo, ripensando alle amicizie perdute e alla nostra giovinezza vissuta in modo così drammatico avendo pagato a caro prezzo, tutti noi, quell’entusiasmo giovanile e quell’ideale che allora pensavamo potesse portarci a chissà quali traguardi.”
Luisa gli accarezzò teneramente una mano, proprio come fanno gli innamorati, guardandolo intensamente negli occhi, tanto che lui si sentì, di nuovo, decisamente turbato, ritornando col pensiero alle preoccupazioni e alle considerazioni di pochi istanti prima, dicendo con se stesso: “e adesso come ne vengo fuori?”
Fu lei a toglierlo dall’imbarazzo dicendogli:
“caro Giorgio, abbiamo passato una splendida serata, ma penso che sia ormai l’ora di rientrare, anche perché siamo rimasti l’ultima coppia del locale che, a quest’ora, dovrà pur chiudere e per te domani sarà una giornata particolarmente impegnativa: anch’io ho un appuntamento con quel tale Franco Alberghini che cura la mia prossima attività, essendosi proposto come mio “agente teatrale” e assieme dobbiamo recarci all’Embassy Night Club per prendere accordi con il proprietario per cercare di firmare, favorevolmente, il contratto per la mia nuova attività di ballerina e di “entreneuse”. Magari ci ritroviamo, se non sei impegnato, domani sera a casa mia dove potremo cenare, in tutta tranquillità, se ti fidi della mia cucina che, non sarà quella del ristorante, ma ugualmente, attraverso i ricordi degli insegnamenti che a suo tempo mi ha dato la mamma, buoni piatti della cucina bolognese sono ancora capace di sfornarli.
Uscirono dal locale mentre vi era un certo via vai di persone per le strade, gente che usciva dai cinema, dai ristoranti e dai locali d’intrattenimento e si respirava quella voglia di divertirsi che in quegli anni, e in modo particolare a Milano aveva pervaso un po’ tutti, giovani e meno giovani; la serata settembrina era ancora piacevolmente tiepida e Giorgio accompagnò Luisa nella sua abitazione in San Babila, e dopo averla salutata con un bacio e un bell’abbraccio che lei accettò con vero piacere, rientrò, immerso in quei pensieri che lo avevano attanagliato al ristorante, nella sua camera, dopo quella “digestiva”, sotto tutti i punti di vista, passeggiata nel centro di Milano sino al Gallia.
La permanenza di Giorgio nella capitale lombarda durò dieci giorni e le due ex camicie nere ebbero modo di incontrarsi quasi tutte le sere. Lei era in uno stato di euforia particolare, aveva smesso proprio in quei giorni di fare il mestiere, ne stava per intraprendere un altro che il suo “agente” le aveva garantito pieno di buone promesse e con possibilità di ottimi guadagni, cosa che le aveva confermato anche il proprietario del Night Club in considerazione del fatto che, sia come ballerina che come “intrattenitrice” avrebbe avuto notevoli possibilità di successo in merito alla sua avvenenza e, per quanto riguardava il ballo non vi era alcun problema per Luisa avendo da ragazzina frequentato per molti anni una scuola di danza a Bologna, oltre ad aver praticato molto sport, si muoveva con eleganza e disinvoltura naturale e poi ballare in un Night Club non sarebbe stato come entrare nel corpo di ballo della “Scala”. La proposta non era niente male un buon “cachet” quindicinale che si aggirava sulle venticinquemila lire fisse, più una buona percentuale sulle consumazioni dei clienti, e, se lo riteneva opportuno, restavano tutti per lei gli “eventuali regalini” dei clienti che si fosse portata a letto.
A Luisa sembrava un notevole passo avanti rispetto alla “schiavitù” della casa di tolleranza. Esternò questa sue “sensazioni positive” a Giorgio con il quale ebbe un colloquio chiarificatore dato che, quella sera al ristorante, aveva “recepito” il pensiero del ragazzo e la sua grossa preoccupazione. In quella occasione, in casa sua, davanti ad un bel piatto di tagliatelle al ragù, come si diceva nel suo ambiente, gli “aprì il libro”:
“Giorgio tu non mi devi nascondere niente, come io devo essere sincera con tè. Ti ho capito subito appena sei arrivato a Milano in stazione, senz’altro avevi una gran voglia di vedermi, e la cosa era reciproca, nello stesso tempo sentivo e sento ancora, che ti piaccio molto e che con me ci stai volentieri, ugualmente ti arrovella il pensiero del mio passato ed anche del mio presente; hai perfettamente ragione ad avere tali perplessità, ma ti assicuro che da tè desidero, pur volendoti ormai anche tanto bene, solamente una forte e duratura amicizia; se pensi di potermela dare senza preoccupazioni di sorta ne sarò molto lieta. Io, al momento, non posso aspettarmi le prospettive classiche che ogni donna spera, non potrò mai illudere un coetaneo, tanto meno una caro ragazzo come te; i medici ginecologi che mi hanno visitata, e sono stati tanti, hanno tutti confermato che è impossibile per mè avere figli, dopo l’aborto subito a Modena che ha favorito anche la mia professione, di conseguenza al momento non intendo legarmi a nessun uomo, un domani, se vi sarà da sfruttare qualche opportunità, con persone più anziane, non mi tirerò indietro ma sarà semplicemente una speculazione.
Non devi avere inquietudini di nessun tipo, la sera che vorrai fermati qui dopo cena e venire a letto con me, sarà molto bello e te ne sarò grata, se poi desidererai o meno fare all’amore, sarà uguale. Non crearti altri problemi, un domani, quando tornerai a Roma, se, e spero che sarà così, incontrerai una brava ragazza, arriverai a sposarti e a fare dei figli, ti prego di farmelo sapere. Adesso cerchiamo solamente di stare bene assieme e di trascorrere nel modo migliore i giorni che resti qui a Milano.”

Giorgio rimase sorpreso dall’analisi fatta dalla ragazza sul loro rapporto, sapeva benissimo che era una donna sveglia e intelligente e si limitò a ringraziarla:
“grazie Luisa per le tue parole, sì, la situazione è come tu l’hai individuata, io ero veramente combattuto ma ti assicuro che l’amicizia tra di noi non subirà flessioni.”
Luisa completò la cenetta con una braciola di maiale e con della frutta fresca, poi riuscì a convincere Giorgio a restare in casa sua ed ovviamente andarono a dormire nel letto matrimoniale nella bella camera che lei aveva da poco finito di arredare. Vi fù perplessità da parte di lui se avvicinarla o meno, ma dopo molte chiacchiere Luisa allungò una mano sotto le coperte sul braccio di Giorgio che lasciò fare, fatto stà che lentamente e molto dolcemente si trovò tra le braccia della ragazza; iniziarono a baciarsi e a toccarsi con sempre maggiore intensità, lui era completamente contratto, tesissimo e cominciò a dire con sé stesso che non ci sarebbe riuscito, e così fu.
Luisa cercò di calmarlo e gli fece capire che non era assolutamente obbligatorio che si dovesse arrivare a fare “sesso”, e che spesso agli uomini succede di avere qualche “debacle” o di fare “cilecca”. Giorgio teso e arrabbiato con sé stesso si girò dall’altra parte mentre Luisa, con poche dolci parole, lo rassicurò che non era successo nessun disastro che provasse pertanto a dormire e a riposarsi, come effettivamente avvenne.
Al mattino, spesso e volentieri, a Giorgio capitava di svegliarsi con delle notevoli erezioni e frequentemente aveva anche delle “polluzioni notturne” di forte intensità; quella mattina si svegliò in quelle condizioni e allungando una mano si trovò quel caldo corpo talmente vicino che gli bastò girarsi e trovarsi immediatamente dentro di lei.
Non aveva mai fatto così bene all’amore, la “cosa” durò a lungo, lei lo lasciò fare sussurrandogli di tanto in tanto dolci parole mentre lo accarezzava sulla schiena, e lo baciava e gli dava piccoli morsi sulle labbra; dopo una lunga cavalcata Giorgio terminò rilassandosi al fianco di Luisa senza dire una parola, sembrava si fosse riaddormentato, ma dopo nemmeno mezz’ora gli ritornò impetuoso il desiderio di ricominciare da capo cosa che si apprestò a fare, mentre lei lo assecondava con grande “maestria”, non avrebbe mai voluto concludere e stranamente anche lei raggiunse il piacere più alto, cosa che non le succedeva da tanto tempo, e finalmente, completamente sazi, si distesero sul letto, poi lei lo abbracciò e lo baciò come non era solita fare durante il suo lavoro, arrivò a ringraziare Giorgio, finalmente rassicurato che la sua virilità non era scomparsa e l’episodio della sera era stato un fatto isolato dovuto alla tensione e a alla stanchezza.

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“Ricordati sempre”, disse Luisa “che se io sono stata di tanti uomini, non è mai stato per mia volontà, difatti, malgrado questi anni di “professione” non ho mai baciato un uomo sulla bocca e ho sempre rifiutato quel contatto da chi me lo chiedeva, tu sei il primo ed unico uomo che mi ha baciato con amore e con trasporto e tu sai benissimo come l’ ho corrisposto, per mè sei stato il primo al quale ho veramente dedicato me stessa, forse non te lo puoi spiegare, ma credimi, per la psicologia femminile è così.”
Continuarono a farsi carezze e complimenti reciproci poi, all’improvviso, al ragazzo sovvenne di guardare l’orologio, constatando che erano già quasi le dieci quando avrebbe dovuto trovarsi in tribunale per seguire quel processo, iniziatosi alle nove, per il quale il suo giornale lo aveva inviato da Roma per fare la cronaca giudiziaria e per seguirlo, cercando di fare anche delle interviste. Si precipitò dal letto indossando in un colpo solo camicia, calzoni e scarpe, prese la sua cartella, dopo avere dato un bacio a Luisa, dicendole che sarebbe ritornato al pomeriggio, dopo aver inviato il suo rapporto a Roma.
Con il taxi si fece portare subito al Palazzo di Giustizia, entrò in aula dopo più di un ora e riuscì ad andare a sedersi a fianco di una sua collega della “Stampa” di Torino, che gli sorrise con sguardo comprensivo poiché sul viso di Giorgio si leggeva “letteralmente” quello che aveva passato nelle ore precedenti. La collega lo rassicurò:
“guarda che ti ho stenografato tutto quello che era necessario e continuo a farlo, perciò rilassati che ci penso io, e al termine ti passo tutto.”
Il ragazzo era ancora sottosopra ma a sentire quelle parole si tranquillizzò, poiché sapeva bene che la collega era una giornalista molto brava ed esperta e avrebbe potuto, in seguito, leggersi tutto il resoconto stenografato, anche perché aveva da poco tempo terminato, a Roma, un corso di “steno” dal quale si era “diplomato” a pieni voti, visto che si era trovato a suo agio nell’interpretare quel metodo di scritturazione veloce, contemporaneamente il suo pensiero era ancora rivolto a quelle deliziose ore passate quella mattina nel letto di Luisa.

Fu quella una settimana, per Giorgio, intensissima, spesso doveva recarsi in tribunale per il processo che riuscì a seguire nel miglior modo possibile inviando correttamente al giornale i suoi resoconti ed anche un intervista con uno dei personaggi di spicco, ma poi correva in San Babila dove Luisa lo aspettava come una “brava mogliettina” e passarono notti e pomeriggi a fare “all’amore” in continuazione.
Si presero una breve pausa una sera che uscirono per cenare nella vicina trattoria, “La Bolognese” dove mangiarono delle ottime lasagne, poi andarono al cinema a vedere uno splendido film americano: “Bellezze al bagno”, con l’attrice americana Esther Williams, che faceva, dentro all’acqua, dei balletti quasi come se fosse su un palcoscenico, il tutto accompagnato con delle scenografie acquatiche mai viste, per correre poi immediatamente a casa a immergersi, totalmente, nella loro “privata piscina”.
L’intensità degli incontri “ravvicinati” si ridusse notevolmente durante gli ultimi giorni di permanenza a Milano del “giornalista” dato che Luisa iniziò il suo lavoro al Night Club Embassy, ebbero, di conseguenza, la possibilità di stare assieme solamente in due o tre occasioni, poi Giorgio dovette ripartire per Roma. Lei lo accompagnò un pomeriggio in stazione e, ovviamente, quello fu un addio triste. Si lasciarono con la solenne promessa di scriversi il più frequentemente possibile e, al momento che lei fosse riuscita ad ottenere l’autorizzazione per sistemarsi in casa il telefono, anche sentirsi qualche volta a voce.
Riprese così, per entrambi, la “routine” normale di tutti i giorni, per Giorgio, lezioni all’ Università, lavoro al “Tempo” e molte ore sui libri per cercare di sostenere gli esami con regolarità; per lei, il lavoro di “intrattenitrice” e di ballerina al night fu il modo di riprendersi da quei giorni di “eccessivo attaccamento” a Giorgio.
Il nuovo lavoro era, come preventivato, decisamente meglio di quello precedente, anche se ci mise parecchio tempo prima di abituarsi al ritmo dei nuovi orari. Il rapporto con i clienti del locale notturno fu per lei molto semplice e si accorse di saperlo gestire con accortezza, fece presto anche a diventare molto amica con Ginevra, una “bella bionda” di Parma, che già da oltre un anno faceva quel lavoro e, assieme cominciarono a frequentare all’esterno qualcuno dei clienti del locale.
Per molte sere si limitò a far bere i frequentatori, a ballare con loro, a fare lo “spettacolino” e a cercare di far divertire gli uomini con “frizzi, lazzi e battute di vario tipo” al massimo a farsi “toccare” ma, in seguito all’intervento del proprietario del locale, che la sollecitò a “lasciarsi andare”, decise, dopo circa una decina di giorni dall’inizio delle “attività”, a farsi portare nella camera dell’albergo, vicino al night, da quell’ “habitué”, più che “accettabile”, il quale, da alcune sere, la “pressava” per portarla a letto.
Pure in questa circostanza la sua preoccupazione era quella di essere conosciuta da qualche cliente delle “case” in quanto non era improbabile che molti uomini, che le visitavano spesso, non fossero anche ”appassionati” frequentatori della vita notturna milanese; lei si era un po’ “rifatta”, con una parrucca ordinata qualche tempo prima ad un “esperto” che la trasformò quasi in un'altra donna, con dei capelli lunghi che, a piacere, le nascondevano anche parte del viso e con il rifacimento delle sopracciglia, oltre, naturalmente, a delle “mise” più consone alla nuova attività. In realtà, per molto tempo, non trovò mai nessuno che fece riferimento a quei posti con “le persiane chiuse”.
Il “regalino” o la “mancia”, che dir si voglia, era sempre decisamente molto più consistente della “marchetta”; il cliente disposto a spendere molti soldi in liquori e champagne per tante sere, pur di riuscire a “conquistare” una delle “bellezze” del locale non lesinava e Luisa, in una sola notte e con un solo cliente, riusciva a mettere nel borsellino cifre decisamente molto consistenti.
I “cummenda”, che disdegnavano di frequentare le “case chiuse”, non facevano nessun tipo di economia quando riuscivano ad ottenere i “favori” di una ragazza che a loro fosse piaciuta, e, ovviamente, erano richieste tutte le prestazioni possibili ed immaginabili. In questo contesto Luisa era favoritissima, bella com’era, di cultura, affascinante affabulatrice, maliziosa quel tanto da far impazzire gli uomini, intelligente e scaltra in ogni circostanza, aveva fatto presto a diventare una delle “ragazze” più ricercate di quel locale.
Il rapporto con Giorgio proseguì intenso continuarono per parecchio tempo, e frequentemente, a scambiarsi nelle lettere, tenere frasi sentimentali e parole di “vero amore”; lui rimase, a lungo, frastornato nel ricordo di quei dieci “incredibili” giorni passati nel letto di Luisa a Milano. Anche per lei quel rimpianto rimase incollato addosso per lungo tempo. Mai aveva vissuto un rapporto così intenso e “totalizzante” con un solo uomo, per di più con il ragazzo che aveva sempre sognato. Si raccontavano le varie situazioni alle quali andavano incontro nelle loro, così diverse, attività.
Giorgio era sempre più preso dagli studi, era praticamente in pari con gli esami, e con l’attività al giornale, inoltre collaborava anche con un settimanale di “cronaca nera” che gli aveva già pubblicato parecchi articoli, pagati abbastanza bene. Luisa gli raccontava, visto che Giorgio nelle sue lettere gli faceva capire che, in fondo, era ancora “innamorato” di lei, gli aspetti più “scabrosi” della sua “professione” di “intrattenitrice”, e della “amicizia pericolosa” che si era venuta a creare con quella sua amica di Parma, Ginevra, la quale si era totalmente e intensamente innamorata della collega. Andavano spesso ad intrattenere clienti, particolarmente danarosi, nelle loro ville sui laghi o in Brianza: Questi erano particolarmente affascinati dalla relazione “lesbica” delle due donne che si prestavano a giochi erotici di una trasgressione inimmaginabile con gli “industrialotti” che, spesso e volentieri, in quelle serate, nelle quali “succedeva di tutto”, si lasciavano andare anche a lunghe “sniffate” con delle abbondanti dosi di cocaina purissima che, attraverso canali diversi, arrivava dall’America.

La bionda “parmigiana” si era innamorata e “infatuata” della collega “mora”. Ormai era totalmente “dipendente”, della più “navigata” bolognese. Luisa ne approfittava un po’ di questa situazione, ma con dolcezza e con tenerezza, si faceva desiderare in modo giusto, ogni tanto, si “concedeva” a lei, anche se raramente riusciva a trovare piacere, ma naturalmente non lo dava a vedere, poiché, a quelle manifestazioni di “amore saffico”, ci era arrivata per ragioni “professionali” e non per una sua “predisposizione”, come invece era successo a Ginevra.
Giorgio si arrabbiava, i primi tempi, nel leggere quel modo di comportarsi di lei ma anche si eccitava a pensare alle cose che andavano facendo quegli “impenitenti” gaudenti, o “sporcaccioni”, sui corpi di quelle ragazze che, se lo doveva sempre dire con forza e mettere bene in testa, lo facevano per mestiere, insomma, erano solamente delle “puttane” e lui non doveva prendersela più di tanto.
Poi, un bel giorno di quell’anno di mezzo secolo, ricevette una lettera da Luisa che lo lasciò perplesso:

Santa Margherita Ligure, 28 Agosto 1950
Carissimo Giorgio,
sono, come ti avevo accennato qualche tempo fa, da circa due mesi a lavorare in riviera ligure e precisamente al “Covo di Nord Est”, bellissimo locale in una posizione stupenda tra Santa Margherita Ligure e Portofino, dove, tramite il proprietario del mio Night Club di Milano, trascorro la stagione portando avanti la mia attività di entreneuse e contemporaneamente facendomi le vacanze in una delle località più esclusive della Liguria.
La zona, e naturalmente i locali come quello nel quale mi trovo, sono frequentati da una clientela “privilegiata”, da personaggi dell’aristocrazia e dell’imprenditoria lombarda e piemontese che, in questo splendido territorio occupano magnifiche ville o sono clienti in alberghi di lusso situati in posizioni incantevoli.
Siamo in questa splendida località e alloggiamo in un albergo modesto ma pulito, dove si mangia molto bene, assieme alla ormai inseparabile amica Ginevra, mi pare di avertene parlato a suo tempo, con la quale andiamo a rendere meno noiose le notti, e anche le giornate, sopra alle loro splendide barche ancorate negli stupendi porticcioli della zona, di questi “signorotti”, notti che vengono poi a trascorrere nel nostro locale, con le loro mogli o con le loro amanti del momento, ritrovi che assieme a pochi altri della riviera, come il “Barracuda” o il “Carillon” a Paraggi e la “Capannina” a Forte dei Marmi, rendono allegre e divertenti le tarde serate dei “ricconi”, notti che, anche noi e in maniera molto “particolare”, contribuiamo a far diventare “eccitanti”.
I guadagni sono considerevoli e in più ci creiamo “la clientela per il prossimo autunno inverno” in quanto la maggioranza dei frequentatori di questi posti sono milanesi, brianzoli, del lago di Como, insomma di zone attorno a Milano e spesso e volentieri si trovano in giro per locali notturni nella capitale lombarda. L’altra sera l’abbiamo trascorsa, con una “combriccola” allegra e divertente, in una splendida villa sul promontorio di Portofino da dove si gode una vista mozzafiato e che ci hanno detto essere di proprietà di un tale che produce, tra l’altro, anche aeroplani.
Abbiamo passato inoltre piacevoli avventure in barca, quando il nostro “capo” ci dava il permesso. Abbiamo contribuito, io e Ginevra, con le nostre abili “performances” ad allietare nelle lussuose cabine dei loro yacht ed anche “all’aria aperta”, quei nostri facoltosissimi clienti; debbo confidarti che il “lavorare” in quel particolare ambiente, con il vento che ti soffia addosso e con il sole che ti riscalda e ti abbronza, non dispiace anche a noi.
Ginevra è sempre più “attaccata” a me. Se lo desiderassi, farebbe qualsiasi cosa potesse saltarmi in testa, ma io cerco di non approfittarne, accontentandola, di tanto in tanto, nelle sue “voglie”. Alcune sere fa, ho conosciuto un personaggio interessante, uomo affascinante, vedovo da non molto tempo, poco più che cinquantenne, di nobile casato, oltre che affermato imprenditore nel campo dei pneumatici. Te ne faccio anche nome e cognome: Conte Giovanni Bentivoglio Molza Pellacani. Dalla sera che l’ho conosciuto non ne perde una pur di stare solo con mè, mi “tampina” in modo incredibile, sono uscita un giorno in barca con lui, possiede uno splendido veliero con un equipaggio di sei uomini più una cuoca fissa, abbiamo cenato a bordo in una atmosfera di quelle che puoi solo sognare e, lo ha dichiarato più volte, vuole la mia compagnia in “esclusiva”; in varie occasioni mi ha espresso la sua “grande ammirazione” dicendosi totalmente “invaghito” della mia persona, anche se la sottoscritta non gli ha ancora concesso, come si suol dire, “i suoi favori”. Penso però che arriverò a concederglieli abbastanza presto, visto e considerato che, oltretutto, mi piace.
Dirai perché ti racconto tutte queste cose, ma sai che tra noi due non c'è mai stato nessun segreto, e che sei l’unico al quale posso veramente confidare tutto, poiché poi, dei tuoi consigli, dei tuoi suggerimenti, delle tue indicazioni, io ne ho sempre fatto tesoro tenendoli sempre in grande considerazione. Ho sentito che i tuoi esami procedono al meglio e che sei sempre sotto pressione al giornale. Sarà forse bene che tu ti distragga maggiormente. Come hai passato l’estate, a proposito? Ti prego di non aspettare troppo a lungo nel rispondere a questa mia.
Al momento ti invio tanti abbracci e tanti baci.
La Tua, per sempre, Luisa

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In quel periodo Giorgio era particolarmente impegnato, il giornale lo aveva incaricato, assieme ad un giornalista più anziano di seguire il caso relativo al bandito siciliano Gaspare Pisciotta che era considerato il vice di Salvatore Giuliano, il capo della banda omonima, noti per essere stati i protagonisti della strage di Portella della Ginestra avvenuta il 1 Maggio del 1947. Proprio in quei giorni, esattamente il 5 Luglio del 1950 per opera delle forze di polizia, durante uno scontro a fuoco a Castelvetrano, almeno questa era la versione ufficiale, fu ucciso il bandito. Il Pisciotta, poco tempo dopo venne catturato e “cacciato” in galera, ma qui il brigante uscì con una clamorosa dichiarazione che contraddiceva quella delle forze dell’ordine. Salvatore Giuliano l’aveva ucciso lui e non il Capitano dei Carabinieri, Antonio Perenzo, dietro istruzioni del Ministro dell’Interno Mario Scelba e dopo aver raggiunto un accordo con il colonnello Luca che dirigeva le forze antibanditismo in Sicilia.
Il caso era clamoroso e tutti i giornali, compreso il Tempo di Roma, si gettarono a capofitto su quelle notizie e a Giorgio toccò anche il compito di recarsi, in Agosto, nell’isola, in più a Luglio aveva dovuto prepararsi per cercare di superare uno tra gli esami più “tosti” di tutto il corso di Studi a Legge. Cosa che riuscì a fare brillantemente.
Poco tempo dopo aver ricevuto la lettera di Luisa, riuscì a trovare il tempo per una risposta:

Roma 15 Settembre 1950
Carissima Luisa,
ho ricevuto giorni orsono la tua graditissima lettera alla quale mi affretto a rispondere. Sento con piacere che stai bene e che ti trovi in posti meravigliosi, non saprei, con precisione, quale consigli indicarti relativamente al comportamento di quel “signore” nei tuoi riguardi. Senz’altro tu hai le capacità e l’intuito di valutare al meglio la posizione in cui ti trovi: prendi le giuste misure, non concederti immediatamente, studia bene la situazione, ma queste sono parole scontate, frasi fatte che lasciano il tempo che trovano.
Certo che, dopo tutte le traversie che hai avuto nella tua giovane esistenza, non sarebbe male trovarti un “periodo sabbatico” di totale distacco dalle tue “attività professionali”, il “giovanotto” mi sembra l’uomo adatto, i soldi ci sono, dici che è bello, è un aristocratico, possiede una barca da fare invidia, frequenta i posti più esclusivi, cosa vuoi di più? Un domani, se la relazione non avrà modo di proseguire nel migliore dei modi potrai sempre tornare nel tuo mondo di “lustrini” e “luci soffuse”.
Al momento cogli la palla al balzo e giocala nel migliore dei modi come sono certo tu riuscirai a fare. Cerca, nello stesso tempo di tenere "sotto controllo" quella tua amica bionda affinché non venga a crearti delle complicazioni all’inizio di questa relazione che potrebbe essere molto importante per te.
Io sono sempre più impegnato, sono pari con gli esami all’Università e stò già impostando, con il mio prof. di diritto pubblico, la tesi di Laurea, ma mi stà impegnando tanto il lavoro al giornale, in questo periodo sono stato notevolmente preso dall’ “affaire” Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta, penso tu ne abbia avuto notizie dai giornali, e per questa ragione sono stato inviato in Sicilia, e qui mi sono pure recato in uno dei posti più belli di questa magnifica terra, restandoci parecchi giorni, ad Acireale vicino a Catania: il lavoro mi aveva portato a Palermo poi, lo zio Adolfo mi consigliò di recarmi, già che mi trovavo in queste terre, a casa di parenti a Catania, dove mi hanno trattato come un principe con una ospitalità che solamente in queste terre ti sanno dare. Abbastanza vicini a questa splendida città si trovano una serie di paesini con delle spiagge meravigliose che, probabilmente, non hanno nulla da invidiare a quelle dove vai a prendere il sole tu.
Ebbene, qui ho trovato la fidanzata: strano eh, tu ti trovi il fidanzato, o “quasi”, e io trovo la fidanzata. Si vede che veramente i nostri destini procedono paralleli. L’ho incontrata ai bagni sulle belle spiaggette tra gli scogli ad Acitrezza, è un ragazza di Roma, figlia del Questore di Catania e, proprio quest’ anno ha frequentato la mia stessa facoltà. Non è bellissima come te, ma è molto carina e sicuramente mi piace tantissimo e ancor più, sicuramente, me ne sono innamorato, il classico “cou de foudre”.
Già ci frequentiamo qui a Roma, visto che, al momento, lei abita da una zia in quanto i suoi genitori aspettano il trasferimento al Ministero a Roma del padre che, in ragione della sua attività viene spesso spostato in giro per l’Italia. Ah, non ti ho ancora detto come si chiama: Franca Giovannoni. Usciamo come fidanzati, la famiglia è stata avvisata a Catania e aspettiamo che arrivino per il fidanzamento ufficiale, anche i miei zii e mio cugino Umberto sono felici per questa mia decisione, ma quello che è più importante, e tu mi comprenderai benissimo, è che noi due siamo, come si suol dire, “cotti” l’uno dell’altra.
Stiamo forse diventando “adulti”? Scherzo cara Luisa, ma obiettivamente fra pochi giorni entrambi andiamo a compiere ventiquattro anni ed è forse giunto il momento di porsi, quanto meno, il problema di “cosa faremo da grandi". Dobbiamo “liberarci”, non tanto in senso ideologico, di quello che ci è caduto addosso ai nostri diciotto anni, eravamo veramente dei ragazzini e siamo stati distrutti moralmente e fisicamente dagli avvenimenti e tu ancor più del sottoscritto ma, come ci dicemmo quella sera in casa della tua amica a Modena, siamo giovani e abbiamo tutto il mondo ai nostri piedi che ci aspetta.
Io e te ci siamo giurati eterna amicizia, e questo è un valore del quale non ci dobbiamo mai dimenticare, per sempre sarò, il tuo Giorgio.

Luisa, abbronzatissima, tornata a Milano dopo il lungo periodo trascorso in Liguria, riprese la sua attività al Night e il suo “principale” la spostò all’”Astoria”; anche in questo locale venne, da subito, inseguita e costantemente “corteggiata” dal conte Giovanni il quale, completamente perso per la bellezza travolgente della ragazza, non si perdeva una serata pur di restare vicino a lei. In due occasioni, si lasciò convincere ad andare a cena con lui in uno dei locali più alla moda del centro di Milano. Ma l’occasione che la lasciò “esterrefatta” fu la serata che passarono assieme nella residenza privata di Giovanni, una serata della seconda settimana di Ottobre. Così Luisa raccontò quell’avventura, all’amica Ginevra, il giorno dopo:
“E’ arrivato a bordo di una fantastica Rolls Royce con autista e, in Piazza San Babila, avevamo gli occhi dei passanti tutti puntati su di noi, si era veramente fermata una piccola folla attorno a quella macchina così appariscente sulla quale, quando sono salita, avevo un vero timore reverenziale; abbiamo fatto un bel giro per Milano e non ti dico la curiosità dei passanti, specialmente quando siamo transitati, quasi a passo d’uomo, in Piazza Duomo a fianco alla Galleria, poi per Corso Venezia per arrivare in Corso Magenta, davanti ad uno splendido Palazzo a tre piani. Attraverso un portone coperto da una balconata sorretta da grosse mensole che si appoggiano sulle spalle di due giganti di marmo, siamo entrati, accolti dal maggiordomo, all’interno di questo palazzo da favola.
Io ero completamente stravolta, ma fortunatamente Giovanni mi è sempre stato vicino e mi sorreggeva, tenendomi sottobraccio, poiché per poco, per l’emozione, stavo quasi per svenire. Attraverso un cortile interno, circondato su tutti i quattro lati da un ampio porticato, abbiamo salito un ampio scalone sino al piano nobile, e qui Giovanni mi ha fatto visitare gli ampi saloni, la biblioteca e i vari locali di rappresentanza, per andare poi a sistemarci in un grazioso salottino con stupendi quadri alle pareti, dove il mio “anfitrione” aveva fatto preparare una splendida tavola, e qui abbiamo cenato a lume di candela, serviti da due cameriere e dal maggiordomo.
Naturalmente, di fronte a quella esibizione di buon gusto e di ricchezza “smodata” sono rimasta a dormire da lui, che ha insistito non poco per farmi restare, ma da parte mia c’è stato, appena appena, un “modestissimo” cenno di diniego; in una stanza, altrettanto superba, arredata con mobili del settecento, con splendidi specchi dentro a cornici intagliate con svariati motivi, insomma non vorrei esagerare nel dirti di essermi trovata in un ambiente “principesco”; abbiamo passato una splendida notte che penso, sia stata, per lui di enorme soddisfazione, da quanto ho potuto capire. Avrò modo di raccontarti in modo più dettagliato questa mia straordinaria esperienza, dato che, pur essendomi trovata, alcune volte a frequentare ambienti signorili, con alcuni dei clienti del night, mai mi sono trovata di fronte ad una esibizione di ricchezza così appariscente.
Ma quello che mi ha particolarmente colpita è stata la sua insistenza, al mattino, quando abbiamo fatto colazione, nel pregarmi di restare con lui, di lasciare andare l’attività nel locale dove lavoriamo e genericamente quel tipo di lavoro, promettendomi di darmi tutto quello che desidero e di lasciarmi completamente libera nel fare le mie scelte, in più di trasferirmi, al più presto, in quella sua fantastica dimora; potrò fare un periodo di prova a mio piacimento, anche di due o tre mesi, per poi fare veramente vita in comune, dato che, e me lo ha ripetuto svariate volte, mi vuole solo per lui. Io gli ho promesso di dare una risposta rapida a questa sua proposta che mi ha lasciato completamente sbalordita ma anche totalmente disponibile. E’ veramente un salto di qualità epocale, se tutto dovesse andare per il meglio.”

Al Night, quando ebbe la possibilità di scambiare “quattro chiacchiere” con Giancarlo, il proprietario del locale, che conosceva “vita morte e miracoli” di mezza Milano; Luisa gli pose immediatamente alcune domande:
“ma chi è realmente questo Conte Giovanni Bentivoglio Molza, tu Giancarlo, che conosci i retroscena di tanti personaggi dell’aristocrazia milanese e del mondo degli industriali, mi puoi raccontare qualche cosa di quest’uomo importante che si è invaghito della sottoscritta, mi ha già portato a cena alcune volte, facendomi delle proposte “particolari”?
“Luisa”, gli rispose il suo attuale datore di lavoro, “sei veramente una donna fortunata, quello che ti fa la corte è uno degli uomini più ricchi, non solo di Milano ma di tutto il Nord Italia, possiede una vera fortuna oltre ad essere, anche, un importante industriale; è rimasto vedovo da poco più di un anno, ed è considerato un personaggio “eccentrico” ma molto corretto sotto tutti i punti di vista, sono molte le “dame” del mondo dell’aristocrazia lombarda che farebbero “salti mortali” per potere entrare nelle sue simpatie.”
“Ma chi era la moglie che mi dici che è scomparsa qualche tempo fa? Le voleva bene o la trascurava? E da quanto tempo frequenta i night club, è un occasionale o un habituè?”
“Luisa, non potevi cascare meglio” disse Giancarlo, “non è mai stato un frequentatore abituale dei nostri ambienti, solamente da quando ha incontrato te, lo si vede di frequente, tutti me ne hanno sempre parlato molto bene, la moglie, morta lo scorso anno, sembra per un brutto male, era una contessa della famiglia Pallavicini, anche lei tra le più blasonate e ricche del milanese, era una grande amica di quella Contessa, Pia Bellentani che, due anni orsono, a Villa d’Este sul Lago di Como, uccise, con un colpo di pistola, l’industriale Carlo Sacchi il quale, da qualche tempo, era diventato il suo amante. Questo episodio, per settimane e settimane, ha riempito le pagine di tutti i giornali italiani.
Te la voglio raccontare la storia della Pia, poiché è emblematica e puoi farne tesoro. Io, da quando frequentavo Cortina, conoscevo molto bene il marito, il Conte Lamberto Bellentani, industriale dei salumi, che assieme alla Pia, avevano messo al mondo due bellissime bambine, Stefania e Flavia.
Lei non era nobile, si chiamava Pia Caroselli e veniva da una ricca famiglia di imprenditori edili dell’Abruzzo, che le aveva dato un’educazione molto religiosa. Conobbe il conte durante una vacanza a Cortina d’Ampezzo; lui si innamorò subito di quella bellissima ragazza abruzzese; si sposarono nel Luglio del 1938 con una cerimonia sfarzosa. Poi, durante una festa all’Hotel des Bains, a Venezia, conobbe un industriale della seta che si era fatto da solo, il Carlo Sacchi, il quale, come si dice, era un gran “puttaniere” e non, come il conte, uomo raffinato, bensì un “soggetto” con una personalità travolgente, con “addosso” tutto il fascino dell’avventura.
Sposato ad una ex ballerina viennese aveva avuto da questa tre figlie, ma contemporaneamente aveva numerose amanti, i cui nomi erano conosciuti anche dalla moglie che era perfettamente a conoscenza della “intensa vita sentimentale” del marito. Durante gli anni della guerra la famiglia Bellentani si trasferì a Cernobbio, e qui i due ebbero numerose occasioni per incontrarsi. Quell’anno il Sacchi perse una figlia e la contessa Pia tentò di consolarlo, ma si innamorò follemente di lui tanto da scrivergli parole d’amore infuocate, di questo tenore:
“Tu hai suscitato in me sensazioni mai conosciute, risvegliato sensazioni nuove, hai sconvolto il mio cuore e i miei sensi, mi hai veramente fatto conoscere quello che si chiama amore e attraverso questo amore io sento di essere oggi una donna completa e questo lo devo a te, e per questo te ne debbo essere sempre molto grata.”
Simili parole dedicava, questa donna passionale, al suo amante, al quale si concesse totalmente, anima e corpo.”
“Allora lei era completamente innamorata e persa di questo “sciupafemmine”. Ma il marito come si comportò?”, chiese Luisa, completamente affascinata dal racconto del suo “principale.”
“Il Sacchi, che non smentiva appunto la sua fama di “donnaiolo” ben presto si mise a frequentare altre donne. La contessa era molto gelosa ma per un po’ di tempo tollerò la situazione fino a chè non comparve sulla scena una nuova amante, una certa Sandra Guidi chiamata Mimì, che sembrava aver completamente monopolizzato l’industriale della seta.
La Bellentani era disperata, ferita nell’orgoglio e in preda alla gelosia più devastante, tentò anche il suicidio gettandosi sotto la macchina del suo amante il quale, furibondo, sterzò improvvisamente poi uscì “imbestialito” dalla vettura aggredendo verbalmente la poveretta, insultandola per avergli ammaccato la sua lussuosa automobile.
Sembrava a tutti che la Pia ci godesse a farsi umiliare, e durante una serata di gala, nello sfarzo di Villa d’Este, dove venivano presentati, al fior fiore della nobiltà e dell’industria lombarda, i modelli della famosa sarta milanese Biki, era la notte del 15 Settembre 1948, successe la tragedia. Il Sacchi, durante tutta la festa, aveva tenuto un comportamento scorretto e arrogante nei confronti della contessa, che andò a prendere la pistola del marito nascosta nel guardaroba e se la mise sotto la stola di ermellino, si avvicinò all’amante e dopo aver pronunciato alcune parole sconnesse colpì il Sacchi a bruciapelo, con un solo colpo, al cuore.
Rivolse poi l’arma contro se stessa ma non successe nulla mentre gridava disperatamente, “non spara più non spara più.” Era presente a quella scena il marito della sarta Biki, rampolla della famiglia proprietaria del “Corriere della Sera”, un ex paracadutista francese, tale Robert Bouyerure, il quale rifilò tre sonori “schiaffoni” alla contessa dicendole:
“Andiamo madame, è chiaro che si è trattato di un noioso incidente.”
“Ma è stata arrestata la donna?” chiese Luisa.
“Certamente, fu chiamata subito la polizia e lei immediatamente dichiarò che si era trattato di un incidente, ma poi affermò che avrebbe voluto suicidarsi di fronte all’amante ma il suo sarcasmo le aveva fatto perdere la testa.”
“Ma perché, cosa le disse?”
“A quanto mi è stato raccontato avvenne questo colloquio quella sera, a Villa d’Este”, continuò Giancarlo:
“Sacchi - Ma cosa ti prende ancora, cosa vuoi da mè?”
“Lei - Nulla, ma stavolta è davvero finita, puoi credermi....”
“Sacchi – Che cosa intendi dire?
“Lei – Che ti posso uccidere, ho qui la pistola.”
“Lui – I soliti romanzi a fumetti di voi donne: i soliti terroni spacconi.”
A questo punto la contessa Pia Bellentani ha sparato direttamente al cuore.”
Luisa era rimasta letteralmente a bocca aperta:
“Ma come, in quel mondo dorato, pieno di soldi, avvengono crimini tali e quali a quelli che succedono negli ambienti più devastati e miserabili? Ma il conte, il marito della Pia, dov’era? Non sapeva nulla di quello che stava facendo la sua “signora”?
“Naturalmente era all’oscuro di tutto, e al momento che sentì alcuni invitati che lanciavano volgari epiteti alla “sua” donna, del tipo: “sgualdrina, puttana” e frasi pesantissime, rimase sbigottito, quando addirittura un conoscente gli disse: “ma tu lo sapevi di esser cornuto…. il tuo nome correva sulla bocca di tutti….” Non seppe come reagire. L’ho incontrato qualche tempo fa, è ancora in corso il processo alla moglie, ma non me ne ha voluto parlare, mi ha solo accennato che a breve si trasferirà a Montecarlo.

Eccoti Luisa, la storia di una persona alla quale potresti assomigliare tra poco, ma solamente per la parte iniziale della storia e non per la conclusione, disse scherzando Giancarlo, salutando la sua "lavoratrice" con un bel sorriso dicendole anche:
“ .. e falli bere quei pirla”.
“Ma Giancarlo, dovevi parlarmi della moglie del conte Giovanni, e invece mi hai parlato di un fatto di amore e di sangue”
“Una di queste sere ti racconterò quel poco che so del Conte Bentivoglio Molza e della sua sfortunata moglie. Al momento ti consiglio di tenertelo vicino il più possibile cercando di comportarti con lui con semplicità e naturalezza, come, d’altra parte, tu sai fare molto bene.”
Dopo alcuni giorni passati con il pensiero costantemente rivolto alla proposta del conte, una sera si decise a dare la risposta affermativa, cosa che mandò l’uomo al “settimo cielo”. Si accordò con Giancarlo per la “sosta”, ma lui fu estremamente comprensivo dicendole che, nel caso la “cosa” non avesse funzionato, un posto ai tavolini dei suoi locali ci sarebbe sempre stato.
Prima di entrare in quella casa sistemò alcune cose nell’appartamentino di San Babila, lasciando le chiavi alla sua amica Ginevra con la preghiera di andare a controllare, di tanto in tanto, se fosse tutto in ordine; così come si recò dal suo medico di fiducia, un ginecologo di chiara fama che, dopo l’uscita dalle case la teneva costantemente sotto osservazione. Voleva presentarsi a Giovanni nelle migliori condizioni fisiche, e il dottore la rassicurò che era completamente a posto e che non correva assolutamente alcun rischio di eventuali malattie veneree e tanto meno avrebbe avuto la possibilità di trasmetterle a chicchessia sempre che, da quei giorni, si limitasse ad avere rapporti con quella sola persona.
Luisa compiva ventiquattro anni e la sua vita, dopo tante traversie, stava subendo una trasformazione radicale; il conte Giovanni aveva dato disposizione, a tutta la servitù del Palazzo di Via Magenta, di accogliere e di aiutare in tutti i modi, la presenza della sua nuova compagna e di assecondarla in ogni sua richiesta. Il maggiordomo, Jacopo Trotti, lontano parente dell’Ambasciatore dei Duchi di Ferrara, uomo raffinatissimo e di notevole cultura, assieme alla signora Maria Bongiovanni, detta “Marietta”, da tanti anni al servizio dei Bentivoglio Molza, avrebbero dovuto mettersi a completa disposizione della nuova venuta.
Non fu difficile alla ex ausiliaria inserirsi in quel contesto, una buona cultura, un intelligenza pronta e vivace, una conoscenza profonda della psicologia, la particolare simpatia che irradiava da ogni suo gesto e dal suo modo di fare, la resero, nel giro di pochi giorni, simpatica e perfettamente accettata a tutto il personale di quella casa da “favola”.

Alcuni mesi dopo, a metà del mese di Aprile dell’anno 1951, l’ex brigatista nero Giorgio Campari, Ginevra Campanini “compagna” di “giochi” nei night, Vincenzo Parenti e Maria Grazioli, papà e mamma di Luisa, la zia Bice Grazioli, Suor Clotilde e Suor Giuliana del convento delle Carmelitane del Baluardo di San Giovanni del Cantone di Modena, le Signore, Genoveffa Manfredini, l’affittacamere della casa di Via Gallucci, Matilde Franciosi, la tenutaria della casa di Via Catecumeno a Modena, il rag. Giancarlo Vezzalini, proprietario dei Night club milanesi, Astoria e Embassy, la Generalessa di Brigata delle SAF (Servizio Ausiliario Femminile), unica generale donna della storia d’Italia, contessa Piera Gatteschi Fondelli, le amiche ausiliarie, Patrizia Melchiorri di Milano e Giuseppina Cavalieri di Mantova con le quali la camicia nera bolognese era rimasta in contatto, i comandanti delle BN di Milano e Modena che, tramite alcuni camerati, riuscì a rintracciare, oltre a tutte le maggiori famiglie dell’aristocrazia milanese e lombarda e a tantissimi industriali, ricevettero, nelle loro case, la partecipazione nuziale che annunciava le nozze tra il Conte Giovanni Bentivoglio Molza Pellacani e la signorina Luisa Parenti Villani, nella chiesetta di San Martino a Griante, sul Lago di Como, con relativo ricevimento e pranzo nella vicina Villa Melzi d’Eril a Bellagio, sempre in quella località, per il giorno 18 Maggio 1951.
La parte dell’organizzazione logistica, per il ricevimento degli ospiti e della loro sistemazione, oltre che a Villa d’Eril, a Villa Carlotta a Cadenabbia e a Villa d’Este, a Cernobbio, era stata affidata dal Conte Giovanni al fidato ed esperto maggiordomo, Jacopo che riuscì ad ottenere l’autorizzazione esclusiva per alcuni battelli onde favorire i vari trasbordi da una località all’altra del lago, degli ospiti oltre a vari motoscafi privati.
Ci fu, ovviamente, da parte di tutti, una enorme sorpresa, in particolare nell’”entourage” degli amici e conoscenti del conte e della famiglia dei Conti Pallavicini, dato che la contessina Elena, sposata a Giovanni, era deceduta da soli due anni, ma la cosa più grave, per tutta questa folla di “nobiluomini e nobildonne” era che la sposa non aveva blasone e non si sapeva bene quali fossero le sue origini. Trapelò solamente la notizia che la ragazza era una bolognese di ”buona famiglia” dato che i genitori erano insegnanti di Liceo, però venne scoperto anche un grosso neo, la ragazza aveva aderito alle formazioni femminili della Repubblica Sociale Italiana, le “famigerate” ausiliarie. Nessuno parlò o venne a sapere, o preferì tenere “la bocca chiusa”, dei trascorsi “discutibili” di quella appariscente bellezza emiliana.
L’arrivo di tutta quella gente nei paesini sul lago, movimentò, per alcuni giorni, la vita tranquilla di quei borghi; gli amici di Luisa e i suoi genitori arrivarono alla “spicciolata” rimanendo anche durante la cerimonia in chiesa, sobria ed elegante nello stesso tempo, poi al pranzo e al ricevimento negli splendidi giardini e nei saloni di Villa Melzi, leggermente defilati dalla “truppa” dei blasonati, tra i quali si distinguevano, i marchesi Belgiojoso Belingeri, i Calderari, conti di Palazzolo, i Meraviglia-Mantegazza, marchesi di Liscate, i marchesi di Castel Rodrigo Omati Oppizzoni, i conti Oltrona Omodej, i coniugi Pietrasanta, conti di Cantù, e principi di San Pietro in Sicilia, i Macrini Marinoni Marliani, conti di Busto Arsizio, i Sartirana Scaccabarozzi Schiaffinati, conti di Busnago, i Martignoni Marzorati, marchesi di Lomazzo, i marchesi Trotti da Castellazzo, conti di Santa Giulietta, i Porta, conti di Rovello – Pozzi, i marchesi Busseri Bussetti, i conti Grassi Varesini Greppi, i duchi Crivelli Visconti, i baroni Cavazzi della Somaglia, i Cicogna-Mozzoni, conti di Peltrengo, e molti altri.
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Luisa restò una sera in compagnia dei suoi genitori che trovò non ancora completamente rimessi, sia fisicamente, in particolare il padre, sia economicamente, dalle batoste subite nell’immediato dopoguerra.
“Mamma, papà, molto probabilmente stanno terminando i problemi anche per voi, lasciate che mi orienti bene nella dimensione che mi è “piovuta addosso” e poi vedrete che troverò una sistemazione ottimale.
La sua soddisfazione fu quella del rendersi perfettamente conto che i “due vecchi” non avevano avuto, in tutti quegli anni, nessun sentore del lavoro della figlia che credevano ben impiegata in una ditta di Milano, e pure loro erano soddisfattissimi della “grande fortuna“ capitatale. Anche il “caro” Giorgio, che arrivò da Roma in fretta e furia, ebbe un lungo colloquio con la futura “contessa”, e sicuramente, le disse, si sarebbe sposato con la fidanzatina, della quale aveva parlato in una delle sue ultime lettere, subito dopo essersi laureato, cosa che a breve sarebbe avvenuta. Naturalmente si complimentò con lei, dicendole che una sistemazione così, Luisa, se la meritava.

Lui avrebbe approfittato di quella trasferta sul lago di Como per andare a fare una visita e possibilmente qualche intervista, nella vicine Dongo e Giulino di Mezzegra, i luoghi del calvario dei gerarchi fascisti e di Benito Mussolini, fucilati in quei posti nell’Aprile del 1945, per farne un servizio al suo giornale.
Luisa, richiamandogli alla mente i giorni trascorsi a Milano, lo “ribaciò” sulla bocca, ricordandogli che sino a quei giorni quei baci erano stati solo ed esclusivamente per lui e che tra loro due rimaneva sempre valido il patto che avevano “stilato” a suo tempo.
Alcune settimane prima della richiesta di matrimonio da parte del conte Giovanni, i due ebbero un lungo colloquio durante il quale misero bene in chiaro le loro personalità compresi alcuni “scheletri” nascosti nei loro personali armadi. Giovanni fece sapere a Luisa che, anni prima, quando tutto filava liscio con la sua prima moglie, in considerazione del fatto che vi era una ottima intesa fisica tra loro, malgrado questo, il figlio, che entrambi avrebbero desiderato, non arrivava.
Dopo tre anni decisero di fare un controllo, la prima a mettersi alla prova con tutti gli esami del caso fu la contessa che risultò non avere problemi di sorta per la procreazione: dopo parecchio tempo anche il conte decise di sottoporsi ai controlli e risultò essere lui il responsabile, mancavano, nei suoi spermatozoi, alcuni elementi determinanti per mettere al mondo figli. Ebbero un periodo di crisi non indifferente, Giovanni cadde in una forma di depressione dalla quale si sollevò nel giro di alcuni mesi, presero in considerazione alcune ipotesi per risolvere quel problema e cioè l’adozione e, addirittura, pensarono anche alla possibilità di fare “ingravidare” la contessa Elena da un “donatore sconosciuto”. Ma non fecero nulla di tutto questo perché, pochi mesi dopo, lei si ammalò gravemente di quel “brutto male” che la portò a morte.
Luisa gli prospettò che anche lei non avrebbe potuto mettere al mondo bambini, e che il “suo passato” non era dei più limpidi, che sì, in realtà aveva fatto, come si diceva, “la vita” nascondendogli, pur avendola fatta capire, “tra le righe”, una certa frequenza in quelle case. Lui, o non afferrò o fece finta di non capire, le disse che avendola conosciuta in un locale notturno, di questa sua assiduità, con “molti uomini”, né era sempre stato convinto, ma che non “dava assolutamente importanza” a questo, per lui non era un problema, era innamorato di lei e in quei tre quattro mesi di vita in comune, si era ancora più persuaso che Luisa era veramente, “la sua donna”.
Lei gli aveva raccontato della sua adesione alla RSI e della sua appartenenza al corpo delle ausiliarie, e anche su questo argomento Giovanni non si preoccupò più di tanto. Lui, in quei drammatici seicento giorni della storia d’Italia, non prese posizione, anche se una certa simpatia l’aveva avuta per i reparti repubblicani, ma, nello stesso tempo, era stato costretto ad ospitare, nella villa sul Lago di Como, alcuni partigiani che, malgrado tutto, non gli diedero mai grossi problemi, anzi gli furono utili nell’immediato dopoguerra per certe operazioni che riuscì a portare in porto, nel campo della sua attività imprenditoriale, proprio per l’appoggio che ebbe, da influenti personaggi del CLN lombardo.

Gli ospiti, blasonati e non, vennero alloggiati nelle splendide ville per tre giorni e alcuni rimasero due giorni in più; tutti parteciparono alla cerimonia, semplice ed elegante, nella piccola chiesa di San Martino, stipata di gente e addobbata da una splendida “infiorata”, e al magnifico banchetto nella Villa Melzi che si protrasse sino a tarda notte. La giornata e la serata furono allietate dal complesso di Renato Carosone, da quello di Sergio Endrigo, dal complesso d’archi camerale di Como e dalla flautista di Varese, Caterina Siniscalchi, che si alternarono nell’esecuzione dei motivi in voga in qui giorni e anche con tanti motivi degli anni trenta e quaranta oltre all’ “esecuzione di musiche rinascimentali e di musica da camera, alternati a brani di musica classica e cameristica.
Il banchetto, concordato dal conte Giovanni e dal suo fido Jacopo Trotti, con l’organizzatore delle cerimonie nelle più prestigiose ville lariane, un certo Marchese Paolo Filangeri Carlotti, noto in tutta la regione lombarda per la perfetta riuscita delle sue “grandi feste”, venne impostato sulla ricostruzione dei più esclusivi “Gran Gala Rinascimentali” nell’affascinante cornice di Villa Melzi d’Eril, addobbata come se ci si trovasse in un “fantastico banchetto” di fine “millequattrocento”, alla corte degli Sforza, con tutto il personale di servizio, dal cerimoniere, ai cuochi, ai camerieri, ai musicanti, ai “fini dicitori” che illustrarono le varie portate con poesie di grandi autori di epoche diverse per arrivare sino ai nostri tempi, con Gabriele D’Annunzio e Salvatore Quasimodo, recitati da due attori del Piccolo Teatro di Milano, vestiti con splendidi costumi rinascimentali. Le tavolate erano coperte da un ricco “tovagliame” similare a quello usato nei grandi banchetti organizzati dalla sfarzosa corte lombarda del fine quattrocento e del primo cinquecento.
Gli sposi si presentarono in splendidi abiti dell’epoca, ordinati ad una sartoria specializzata di Bellagio: Luisa indossava un elegante abito, chiamato “camorra”, dalla linea semplice, chiuso sul davanti con nastrini, bottoni preziosi, aveva maniche staccate di stoffa che erano allacciate alle vesti con nastri colorati; la “veste alla milanese” presentava una scollatura quadra, mentre l’acconciatura si distingueva per i cappelli della donna raccolti in una rete d’oro che ricadeva dietro in una lunga treccia, avvolta in nastri variopinti e “svolazzanti”.
Aveva indosso, inoltre, un ampio ed elegante mantello bianco con maniche, lungo fino a toccare terra, d’origine spagnola, chiamato “monzile”, di un velluto sottilissimo lavorato con fili di argento e d’oro terminante in un lungo strascico sostenuto da quattro “damigelle”. Al collo, l’”ex camicia nera”, portava una catena con un grosso rubino e, ai fianchi, una cintura in lamina “simil oro” decorata di perle, tratteneva il mantello bianco.
Giovanni indossava un corpetto, chiamato “lupparello” con maniche corte da dove fuoriuscivano quelle della camicia di tessuto di “ermisino”, simile al “taffetà”, molto leggero e sottile, trapuntato di piccole “gemme”; sulle spalle portava un lungo mantello con enormi maniche di stoffa preziosa foderato di seta, che ricadeva lungo la schiena scendendo sino all’altezza dei polpacci.
In testa, il conte sosteneva una berretta di velluto cesellato con piumaggio trattenuto da un fermaglio con brillante al centro e le gambe erano fasciate da calze divisate, una bianca e una gialla, di seta, ripartite in diversi colori, alternati.
I due sposi, seguiti dalle damigelle, preceduti da alcuni “armigeri”, “arcieri” e “scudieri”, con “paggetti” in livrea e con le insegne dei conti Bentivoglio Molza Pellacani, accompagnati, inizialmente da un “rullo di tamburi” e subito dopo da una splendida marcia nuziale suonata con sapiente maestria dal complesso d’archi, si andarono a sistemare al tavolo principale dove erano già presenti, i parenti stretti e gli amici più intimi.
Prima di iniziare il banchetto, che era stato suddiviso in tre parti, entrarono, vestite come dee dell’Olimpo, una decina di ballerine ad eseguire danze leggiadre nelle loro vaporose vesti bianche. Tutti i presenti, dai nobili lombardi ai più “proletari” padani, rimasero veramente affascinati da quell’inizio così “sfolgorante”, di un banchetto che lasciava intravedere una lunga e “corposa” “abbuffata” come il menù, al quale si erano limitati a dare un semplice sguardo, prometteva.
Il “Cerimoniere” illustrò ai convenuti la programmazione degli eventi che avrebbero avuto inizio al termine della lettura, da parte degli attori, delle poesie dedicate agli sposi, con una serie di cocktail di benvenuto a base di, succo d’arance rosse e prosecco, delle coppette di mousse di fegato e di gelatina al vin santo, di un bicchierino di spuma di bufala e vellutata di pomodoro, una piccola parmigiana di melanzane, delle bruschette con il cavolo nero e pancetta salata. Veniva offerto anche, in grandi piatti, del pecorino con mostarda di pere williams e bastoncini di mela croccante e dei pomodorini ripieni, alla provenzale.
I vini, che erano stati scelti espressamente dal conte Giovanni, non avevano particolare riferimento al tempo rinascimentale, ma erano pur sempre i migliori prodotti delle cantine piemontesi, lombarde e venete, con una presenza anche dei più importanti “toscani”, passando dai bianchi, ai rossi più pregiati che venivano costantemente portati sulle “mense” dai solerti camerieri i quali, in buon numero, versavano in continuazione nei calici che non dovevano mai trovarsi vuoti, portando via quelli di un certo tipo di vino sostituendoli immediatamente con altri ricolmi, o dello stesso o di altro tipo, a richiesta del commensale.
I piatti del primo “intermezzo”, che andava dall’inizio del banchetto, all’incirca alle quattro pomeridiane, erano basati su delle “crespelle croccanti” e della “gargamella” di pasta fresca con “ragu di manzo alla lama” e foglie di salvia fritta. Seguì poi un brodo a base di lardo, preparato appositamente per dare la possibilità ai commensali di poter gustare dei gustosissimi “fiandonelli”, che non sono altro che dei grossi ravioli di sfoglia, farciti con ingredienti di vario tipo, sia dolci che salati.
Vi fu poi una presentazione, da parte del cerimoniere, di una serie di piatti della “cacciagione”: pernici, fagiani con gamberi e lepri, il tutto servito con abbondanza di mostarda, accompagnata da “marroni cotti alla brace” che venivano serviti con sale, zucchero e pepe appositamente preparati per addolcire il palato. A seguire e a concludere il “primo intermezzo”, ci fu l’entrata di un personaggio che alle mense rinascimentali aveva una grandissima importanza: il “trinciante”, il quale, munito dei particolari attrezzi per il taglio delle carni, cominciò a tranciare in aria, pezzi di capriolo che andava a depositare sul piatto che il suo aiutante gli teneva al fianco, per poi passarlo ai commensali. Quella operazione destò una grandissima ammirazione da parte di tutti i partecipanti al banchetto che applaudirono l’abilità e il virtuosismo del "trinciante".
Il cerimoniere, mentre venivano serviti, digestivi vari, sorbetti ai vari gusti, amari e caffè, dichiarò sospesa la prima parte del banchetto invitando gli ospiti ad un riposo di circa due ore, o ad una salutare passeggiata negli splendidi giardini di Villa Melzi d’Eril, mentre il complesso di Renato Carosone suonava le più acclamate musiche del suo gruppo, da “Caravan petrol” a “Tu vuò far l’americano” oltre a “Mambo italiano”, “O saracino” e a tutte le altre del repertorio che, in quella stagione, faceva impazzire il pubblico italiano, per merito anche dell’eclettico batterista, Gegè Di Giacomo.
Dopo l’intervallo, passato dai commensali a riposarsi negli eleganti saloni della villa, o sui divani sistemati sotto ai “bersò” nel giardino, verso le ore diciannove si apprestarono di nuovo alle tavole prontamente risistemate dal personale di servizio e di nuovo imbandite con piatti, bicchieri e posateria raffinatissimi, in porcellana, cristalli e argenteria per “affrontare” la seconda parte o “secondo intermezzo”.
Il cerimoniere, dopo che vide sistemati ai tavoli tutti i partecipanti, iniziò ad elencare la serie delle portate che si sarebbero succedute, poi gli attori iniziarono a declamare alcune poesie che ottennero applausi scroscianti, a seguire entrò il gruppo musicale di Sergio Endrigo con i suoi musicanti, che si alternarono con il complesso di musica da camera e con la flautista, per allietare le ore del tardo pomeriggio, dopo che il balletto interpretò una serie di danze più languide e “lascive” rispetto a quelle del primo pomeriggio, i camerieri e le cameriere, iniziarono a disporre sui tavoli i piatti di portata, con prosciutto di Praga cotto al forno e chiodi di garofano profumato alla birra, con contorno di purea di patate e ananas, seguirono dei polpettoni di “capro stufato” in gelatina con salse e condimenti vari a base di “cinnamomo”, “zenzero”, “peverata”, e “zafferano”.
Arrivò ancora, sulle tavole, una “ginestrata” che non era altro che una specie di polenta dolce fatta con latte, molto zucchero e farina di riso. Vi erano poi stati aggiunti datteri, uva secca, pinoli, spezie e molto zafferano che faceva prendere a quella “polenta” un forte colore giallo.
Chi non avesse gradito quella serie di portate, aveva la possibilità di affrontare delle gustose “pappardelle”, praticamente delle lasagne cotte nel latte, accompagnate da “torte d’erbe” fatte in crosta a base di verdura, uova e formaggi e preparata con un involucro di pasta, con farina, acqua di rose, zucchero, burro e tuorli d’uovo mentre il ripieno veniva preparato con bietole, parmigiano, ricotta, chiodi di garofano, noce moscata, cannella e uova.
La scelta, per i più golosi, poteva anche cadere su di una faraona all’uva e salciccia, oppure su dei bocconcini di pollo alla cacciatora con mandorle e arance.
Sulle tavole vennero portati, su vasti vassoi, dei cotechini tagliati a fette e conditi con lenticchie ben augurali. Tutto, come la prima parte, ben innaffiato dai migliori vini che arrivavano in continuazione e, appena una bottiglia appariva vuota, veniva immediatamente sostituita. I commensali, pur cercando di mantenere quella correttezza formale, degna di una cerimonia di tale importanza e di quello sfarzo, lasciavano intravedere quell’allegria dovuta alle “libagioni” un po’ “sopra le righe”, le voci diventavano via via più alte e qualcuno dimostrava di aver raggiunto quel limite al di là del quale si scadeva nella vera e propria “ubriachezza”.
A quel punto il cerimoniere, invitò i commensali ad una seconda sosta di circa un oretta, che tutti trascorsero in conversazioni sempre più sostenute, nei saloni e tanti anche in giardino poiché la serata era particolarmente tiepida e il passeggiare nei giardini era piacevolissimo, sapendo che ci si doveva preparare per il terzo e ultimo intermezzo. Molte coppie si abbandonarono alle danze, sui motivi dolci e “accativanti” del “complessino”, abituato a suonare nei “night club”, di Sergio Endrigo .
Quando i commensali ritornarono a sedersi alle mense per il “terzo servizio”, erano già le dieci di sera, e in molti si denotavano i sintomi di una certa stanchezza. I ballerini si presentarono con costumi “discinti”, seminudi lanciandosi in danze provocanti e sensuali che fecero riprendere una certa vivacità e partecipazione alla prosecuzione del banchetto, anche le letture “poetiche” erano incentrate su argomenti “boccaceschi” e di particolare atmosfera “erotica”.
Arrivarono sulle tavole, prima della frutta e dei dolci, ancora dei contorni “sfiziosi”, come uno sformato di patate con prosciutto e formaggi, delle erbette saltate ai pinoli, delle zucchine trifolate ed una deliziosa insalatina al sesamo.
Oltre ad elegantissimi vassoi ripieni di frutta fresca di stagione, ciliegie, albicocche, pesche, mele e frutti esotici, furono servite delle pesche al vinsanto con cannella e gelato alla crema, delle fragole con gelato di limone e panna, dei dolcetti di riso alle arance e una torta “tenerina” al cioccolato con pistacchi di bronte e scorza d’arancia: la conclusione avvenne con una serie di torte, la prima a base di crema e frutta assortita, la seconda con base di riso e arance candite ed una torta bianca, nuziale reale marzapanata, altissima che venne fatta tagliare dai due sposi, come da tradizione. Vi fu poi la distribuzione, in abbondanza, di confetti bianchi e rosa.
I “complessi” iniziarono a suonare dei “ballabili” e molte coppie ripresero le danze, mentre ci si alzava dalle tavole per andare al buffet a servirsi di caffè, grappe, whisky, cognac, amari e digestivi di vario tipo. A mezzanotte gli sposi salutarono gli ospiti per rientrare nelle loro stanze e subito dopo la maggioranza degli invitati fece la stessa cosa.
La festa si era conclusa mentre dal giardino di Villa Melzi d’Eril venivano sparati, nel cielo del Lago di Como, dei fantasmagorici fuochi artificiali che salutarono in modo gioioso tutti gli intervenuti a quella splendida giornata.

Dopo due giorni, una volta partiti tutti gli ospiti e dopo un riposo, dalle ”fatiche” dello “sposalizio”, di una settimana sul lago, i due “colombi” si apprestarono a partire per un lungo viaggio di nozze che Giovanni, appassionato ed esperto pilota di automobili - aveva partecipato anche ad alcune “Mille Miglia” -volle fare a bordo di una delle sue splendide vetture che teneva nel garage della villa sul lago. Optò, tra la Rolls Royce, la Ferrari 212 Inter, una Maserati, la Lancia Aurelia GT, una Jaguar XK120, per la potente, elegantissima e super veloce, Alfa Romeo 2900B.
L’itinerario, che aveva studiato a lungo, assieme a Luisa, si sarebbe sviluppato attraverso vari paesi europei: rapida puntata in Svizzera, poi il nord della Francia, Parigi, la costa atlantica Saint Malò e sosta nella sua dimora di Biarritz che da qualche anno non frequentava e anche in quella di San Sebastiano, nei paesi Baschi, dove era proprietario di una bella villetta poi, attraversati i Pirenei, visita alle principali città della Penisola Iberica con arrivo a Lisbona e ritorno attraverso il centro della Spagna, sosta a Madrid, poi Barcellona e rientro in Italia: questo, a grandi linee, l’itinerario che si era prefissato il conte Giovanni.

Giorgio Campari, subito dopo la conclusione del banchetto, si spostò, velocemente, con un motoscafo privato, a Dongo dove, nella piazza principale in riva al lago, furono fucilati dai partigiani del ragionier Walter Audisio, il 28 Aprile 1945, alcuni gerarchi fascisti che erano stati raccolti, in precedenza, nel salone monumentale del Municipio.
Sul muretto prospiciente il lago vennero allineati e poi falciati da scariche di mitra: Alessandro Pavolini, Segretario del PFR e comandante delle Brigate Nere, Francesco Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri della RSI, Paolo Zerbino, che era stato nominato Ministro degli Inteni nel Febbraio del 1945 ed era inoltre Commissario del PFR del Piemonte, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare durante il periodo della RSI, Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici, Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni, Alfredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna, Paolo Porta, Federale di Como, Luigi Gatti, Prefetto di Milano, Ernesto Daquanno, dell’agenzia Stefani, Mario Nudi, impiegato della Confederazione fascista dell'Agricoltura e "moschettiere del Duce", Nicola Bombacci, ex-fondatore del Partito Comunista d'Italia negli anni ’20 che aveva aderito poi, al fascismo e in seguito alla RSI, gli si attribuisce, tra l’altro, il progetto di socializzazione delle imprese e dei mezzi di produzione, notevolmente propagandato dal fascismo repubblicano, che era stato approvato dal consiglio dei ministri della RSI, nel febbraio del 1944. Ancora, il capitano d’aviazione dell’Aereonautica Repubblicana, Pietro Calistri, Vito Casalinuovo, colonnello della GNR, ufficiale d'ordinanza e aiutante di Mussolini, Idreno Utimperghe, Comandante della BN di Lucca, mentre Benito Mussolini e Claretta Petacci, sono condotti in una casa di Giulino di Mezzegra, dove saranno uccisi, ma ci sono tantissimi interrogativi e svariate versioni su chi effettivamente abbia sparato loro.
Giorgio, trovò un “alberghetto” a Dongo, a buon prezzo, dove noleggiò anche una bicicletta per muoversi liberamente e, tramite indicazioni che aveva avuto al giornale a Roma e dietro suggerimenti di alcuni politici del Pci, cercò di contattare, in zona, alcuni personaggi che avrebbero dovuto sapere “parecchie cose” attorno alla fine del Capo del fascismo e, magari, anche qualche notizia circa la sparizione dell’ ”oro di Dongo” che in quei mesi “faceva notizia” su tutta la stampa italiana.
Il giornalista romano ebbe, nella settimana che rimase a Dongo, un serie di colloqui, con alcune personalità della zona a cominciare dall’ex Sindaco del paese, dott. Giuseppe Rubini che proprio a causa di quegli avvenimenti di fine aprile del 1945 diede le dimissioni dal suo incarico e dal frate francescano Padre Accursio Ferrari.
Entrambi si trovarono perfettamente d’accordo nel valutare che quei giorni, 27 e 28 Aprile, hanno portato una fama sinistra al modesto villaggio sulla sponda occidentale del Lago di Como a causa del blocco partigiano dell’autocolonna, dell’eccidio dei suoi componenti e per il trafugamento del tesoro del Partito Fascista Repubblicano, oltre a tutti i beni che avevano con loro i tanti esponenti del Fascismo che erano partiti da Milano il giorno 25, malgrado le forti insistenze di Alessandro Pavolini a non prendere la direzione di Como.
Un altro elemento che a Giorgio apparve subito, molto evidente, è la grossa responsabilità, se non il vero e proprio tradimento, della scorta tedesca alla colonna Mussolini. Già lo stesso “Duce”, durante il colloquio in Arcivescovado, il pomeriggio del 25 a Milano, con il cardinale Ildefonso Schuster ed altri esponenti del CLN, seppe che il generale Karl Friedrich Wolff , negli ultimi periodi della guerra, all’insaputa del Governo della RSI, aveva negoziato la resa di tutte le forze armate tedesche presenti in Italia, causando così la triste sorte dei fascisti lasciati completamente allo sbando dagli alti comandi tedeschi ed anche dai tanti “ufficiali e ufficialetti” che comandavano i reparti tedeschi in tutto il Nord Italia.

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Così successe anche a Dongo. Giorgio aveva sempre pensato, in alcune sue personali ricostruzioni sugli avvenimenti della nostra recente storia della quale ne era stato anche protagonista e che fece negli anni successivi al suo ritorno da Coltano, che i tedeschi si fossero comportati, nei nostri confronti in maniera non corretta e che avessero voluto renderci “pan per focaccia” per i tradimenti italiani nei loro riguardi.
Difatti, già all’otto Settembre del 1943, ci fu, da parte delle alte autorità germaniche nel nostro paese, una certa intesa, sottobanco, con il Governo dell’’Italia del Sud, all’insaputa di Hitler, cosa che consentì al Re, Vittorio Emanuele III°, di svignarsela in tutta calma e, molto probabilmente, anche Benito Mussolini fu, “stranamente dimenticato”, sul Gran Sasso, in modo tale da dare la possibilità al “commando” di Otto Skorzeny, di “liberare”, con una certa disponibilità d’azione, il Capo del Fascismo.
Che accordi tra tedeschi e angloamericani ci fossero stati lo dimostrano le tante personalità del mondo germanico, nonostante la messa in scena del “Processo di Norimberga”, che abbiamo trovato, nell’immediato dopoguerra, inquadrate e sotto copertura dell’OSS (il servizio segreto) americano e funzionale agli interessi di questi che, naturalmente, lasciavano intravedere “contatti” e “accordi”, di vecchia data.
A Dongo, la colonna Mussolini, che si stava recando, dove?, in Svizzera?, in Valtellina? questo, a Giorgio, nelle sue ricostruzioni, non fu facile riuscire a capirlo, fu bloccata: ma la stessa era fortemente armata e molti tedeschi ne facevano parte; come può essere stato possibile che un gruppo di partigiani della 52° ”Brigata Garibaldi”, “Luigi Clerici”, male armata, seppure scaltra ed audace, abbia potuto tenere sotto scacco quella formazione italo tedesca? Perché poi obbligarono Benito Mussolini a travestirsi da tedesco e salire su un camion con i soldati della Wermacht?
Indubbiamente, ma per Giorgio erano ancora solamente supposizioni, sui tavoli degli accordi di resa giocati da Wolf, con gli angloamericani e poi conclusi in Svizzera, entrarono accomodamenti tali da rendere possibile la cattura di Mussolini, che avrebbe dovuto godere, sino all’ultimo, della protezione tedesca. E’ pensabile quindi, che in un qualche modo, promesse agli Alleati furono fatte e, visto che il 26 Aprile gli americani erano ancora ad una certa distanza da Como, dove si era recato Mussolini assieme a molti gerarchi, queste promesse dei tedeschi, potevano essere “mantenute” con le “autorità del CLN”.
Inoltre era verosimile che durante le ultime ore di presenza dei reparti tedeschi in Italia, si dovesse trovare, sia da parte loro sia da parte dei partigiani, conveniente, mettersi ben d’accordo per agevolare lo sganciamento dei militari della Wermacht e delle SS in ritirata, senza troppe problematiche.
La consegna diretta di Mussolini agli alleati o ai partigiani, era decisamente da scartare, in quanto il generale Wolff non avrebbe voluto apparire, palesemente, come un traditore. La “consegna” di Mussolini avvenne allora, molto probabilmente, dietro ad una strategia a distanza che parte dal comando tedesco di Cernobbio, dove si venne a trovare anche il generale Wolff in quelle ore fatali e l’operazione della “cessione” dell’”ostaggio” venne condotta dal tenente Fritz Birzer, che faceva parte della scorta del Duce, e che era incaricato di proteggerlo e di non farlo fuggire all’estero.
Certamente in quella colonna, di tedeschi traditori, spie e traditori italiani, se ne trovavano molti. Un altro tenente tedesco, addetto alla sorveglianza di Mussolini, era un certo Otto Kisnattn del quale si seppe che si era eclissato rapidamente da Milano, e dopo essere transitato per Como, il pomeriggio del 26 Aprile si trovò a Grandola dove si era portato, momentaneamente, da Menaggio.
In quelle ore vennero “allertati” i distaccamenti partigiani dislocati tra, Como, Domaso e Chiavenna e con ogni probabilità fu a Villa Camisa a Domaso, dove si erano sistemati alcuni dei comandanti partigiani, che si arrivò a concretizzare quella “promessa di consegna” del “personaggio”. C’è in giro, sul Lago, gente che dice che il tenete Kisnatt, nel tardo pomeriggio del 26 Aprile sia stato portato a Domaso, e non si sa con precisione cosa disse e quale ruolo stesse recitando.
Ci sono altre voci che corrono e raccontano che il tenente andò con i partigiani a Musso, per partecipare alle trattative per l’intercettazione della colonna Mussolini. Inoltre, da Cernobbio, passò, quel pomeriggio, una colonna di automezzi tedeschi che, nel caso di necessità, avrebbero potuto rinforzare quella del Duce. Non si può non mettere nel conto che, avendolo voluto, il comando tedesco di Cernobbio avrebbe avuto l’opportunità di utilizzare quella colonna per aggregarla alla “colonna Mussolini”.
Giorgio trovò strani e ambigui i comportamenti da parte dei responsabili tedeschi della “guardia del Duce”; inoltre i germanici fermati a Musso assieme agli italiani, sotto la mira di pochi e sparuti partigiani del luogo, dopo qualche “sceneggiata”, entrarono quasi subito nell’idea di risolvere la situazione, malgrado il tempo che giocava a sfavore, attraverso trattative.
I tedeschi non scelsero mai l’azione diretta, nemmeno quando videro i partigiani che si erano avvicinati per le trattative, e la tiravano per le lunghe, e non desistevano nel mantenere lo sbarramento, per arrivare ad una scelta logica, quella cioè di forzare il passaggio attraverso il combattimento. Anzi il comandante tedesco accetta di portarsi, assieme ai partigiani, al loro comando di Chiavenna, per trattare il passaggio della colonna.
Rimane con loro alcune ore, inoltre si accorda con i partigiani per far passare solo i tedeschi. Ecco che, a questo punto, Mussolini viene invitato, da coloro che dovevano proteggerlo ad ogni costo, a passare sul loro camion “camuffato” da tedesco, poi, attraverso un “controllo”, concordato con i partigiani, si và a scoprire l’ ”ostaggio” che viene completamente “scaricato” nella più totale indifferenza del suo “controllore”, il tenente Birzer, il quale sapeva bene che Mussolini, essendo stato “segnalato” attraverso quei controlli, era consapevole che “lo avrebbero scoperto”.

Giorgio si rese conto, durante i colloqui con la gente del posto, che in quei giorni di fine Aprile del 1945, giravano sul lago di Como personaggi di dubbia provenienza, spie inglesi, tedesche, italiane, dove operavano i servizi informativi di svariate nazioni, dove l’”Intelligence Service” inglese e l’OSS americano erano i più organizzati. Sul lago, in molte ville, erano presenti, spesso muniti anche di radio rice-trasmittenti, un gran numero di persone di nazionalità inglese e americana, permanenza in quelle zone che veniva, stranamente, tollerata dalle autorità italo tedesche, per motivi di opportunità e tornaconto.
Nella zona di Tremezzo vi era la villa dell’inglese Landels, che era notoriamente in contatto con la “Special Force”. Poco lontano dalla casa De Maria, dove vennero portati Mussolini e la Claretta a trascorrere la loro ultima notte, c’era la villa di James Henderson, imprenditore e importante uomo d’affari, nonché fondatore, in Italia del “Rotary Club” (circoli ritenuti da molti, massonici).
Anche a Dongo in tanti ritenevano che, con la presenza di queste ambigue componenti, presenti in quella zona, attraverso una sottile rete di contatti e di interessi, ci sarebbe stata la possibilità di incastrare Mussolini in una tragica morsa. Ma il capo del fascismo, che teneva fermo, in quei giorni, la sua irremovibile volontà di non espatriare, si trovava sotto il tiro incrociato di tanti fuochi.
I tedeschi, che lo stavano consegnando al nemico attraverso un tradimento inimmaginabile, i fascisti che con svariate interpretazioni della situazione cercavano di salvarlo e di farlo uscire indenne da una situazione ormai insostenibile, i comandi partigiani che lo pressavano per poter, al più presto, attuare la loro vendetta, gli inglesi e gli americani che, per varie ragioni cercavano di catturarlo per esibirlo all’opinione pubblica mondiale come “capro espiatorio” della immane tragedia del secondo conflitto mondiale.
I Capi fascisti non furono all’altezza della situazione, Alessandro Pavolini ed Enrico Vezzalini, in un gesto eroico d’amore verso il Duce, lo raggiunsero, ma senza un adeguato numero di armati e, seppure in circostanze diverse, vi trovarono la morte. Tanti altri si fecero invischiare in assurde trattative, con il tempo che passava e rendevano sempre più pericolosa la situazione dei fascisti, così sbandati ed esposti ad inevitabili, barbare e violente conclusioni, nei loro riguardi, in tutto il Nord Italia, ma che vennero, fondamentalmente, traditi dagli “alleati tedeschi” che, fino a pochi giorni prima, arroganti come solo loro sanno esserlo, trattavano gli italiani in modo sprezzante; in realtà, il “grande tradimento” della seconda guerra mondiale è stato commesso da quelle truppe che si ritenevano invincibili, contro quei “disperati” fascisti che hanno mantenuto fede, sino all’ultimo, al giuramento verso quell’ideale nel quale avevano creduto, non solo loro, ma anche gli ex “camerati tedeschi”.
A Giorgio sembrò di essersi, a distanza di sei anni, calato nuovamente nel clima allucinante della guerra civile. Ancora, su “quel ramo del lago di Como” si aggiravano spettri che lui credeva fossero completamente scomparsi. Chi diceva una cosa e chi l’esatto contrario, molti ricostruivano quei giorni in funzione della loro ideologia o dei loro particolari interessi, riuscire ad avere un idea obiettiva non era facile; anche il paesaggio è decisamente contrastante, una riviera dove si susseguono, una dietro l’altra, ville meravigliose appartenenti alle più note e ricche famiglie milanesi e lombarde, dove si trova appunto il contrasto tra la vegetazione esotica proveniente dal lontano Mediterraneo e la flora alpina e subalpina caratteristica dei monti che costeggiano il “Lario”, è in questo scenario che si svolge l’ultimo atto del Fascismo e del suo “Capo”.
A Menaggio, la mattina del giorno 26, in casa del Capitano delle Brigate Nere, Castelli, Mussolini si ferma per riposare alcune ore mentre arrivano da Milano i gerarchi che vogliono stare con Lui, ma che invece “Lui”, invita ad andarsene nella vicina Cadenabbia, vuole forse rifugiarsi in Svizzera da solo? Alcuni, a Menaggio la pensano così.
Il Maresciallo Rodolfo Graziani, che era aggregato alla colonna dei gerarchi, si defila, dice che deve recarsi a Mandello dove si trova il suo Comando, essendo egli il Ministro della Guerra e comandante dell’armata ligure, per trattare la resa e il destino delle sue truppe. In questo modo sarà l’unico, tra ministri, capi militari e gerarchi, partiti da Milano, a salvarsi. A Menaggio, in quelle ore, arriva un altro gruppo guidato dal tenente delle SS, Spoegler, che si trova a “proteggere” Claretta Petacci, l’amante di Benito, che ha al seguito anche il fratello Marcello con tutta la sua famiglia. Sembra che la “fedele” Claretta, che veniva da Milano, ed era partita all’insaputa di Mussolini, abbia dichiarato: “Dove và il padrone và anche il cane”.
Apparentemente sembrava che il Duce volesse far perdere le sue tracce a tutti quelli che lo seguivano e che volevano restargli vicino, compresa l’ ufficialessa del corpo delle ausiliarie, di ventidue anni, Elena Curti Cucciati che si dice sia figlia di Angela Curti Cucciati, una delle tanti amanti di Mussolini. Nel frattempo, Alessandro Pavolini, che era arrivato a Como con i suoi uomini da Milano, corre da solo a Menaggio per cercare di riportare indietro Mussolini e indirizzarlo verso quella Valtellina che avrebbe dovuto essere l’”ultima ridotta” dei fascisti e, a quanto si dice sul lago, pareva che il Duce avesse accettato, ma i seguaci di Pavolini, a Como non vedendo più il loro capo, cominciano a disperdersi e il comandante della BN, ritornato in quella città, non li trovò più. Il caos è generale, gli ordini non li rispetta più nessuno, ma nessuno è in grado di darli con “cognizione di causa”.
Il Tenente tedesco, Birzer, addetto alla “sicurezza” del Duce, gli rimane sempre attaccato. Mussolini seguendo il consiglio del capitano Castelli si sposta nella vicina Grandola, località che porta al vicino confine svizzero. Ma è proprio là che vuole andare? O è un tentativo di depistare i gerarchi che lo seguono? Giorgio, nei suoi primi giorni di inchiesta sul Lago, non riesce a decifrarlo, certo è che Mussolini cerca di seminare il suo “angelo custode”, il quale è peggio di un segugio, riesce a riagguantare l’Alfa Romeo di Benito, defilatasi dal gruppo e, assieme alla scorta tedesca vanno a passare la notte in un albergo di Grandola, il “Miravalle”; anche da questo sito, a detta di alcuni del posto, Mussolini, assieme alla Petacci che lo aveva raggiunto, cerca di “togliersi di dosso” la presenza del tedesco, ma inutilmente. E’ questo uno degli elementi che depone a favore dell’ipotesi del tradimento tedesco e Mussolini, quasi sicuramente se ne rese conto o quanto meno lo aveva intuito senza però avere più la forza e la determinazione per reagire lucidamente.
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Giorgio si rende conto che queste versioni non sono altro che “operazioni diversive” alle quali non è facile dare il giusto peso, ed è sempre più convinto della responsabilità tedesca nell’aver “sacrificato” il Duce, per le “mene” degli accordi tra Wolff e gli angloamericani. Su quelle strette strade del lato occidentale del Lago di Como vi è un traffico difficilmente riscontrabile nelle ore di punta del centro di Milano, tedeschi e fascisti vanno e vengono, tra Como, Grandola e Menaggio, arriva da Novara, con una benda sul viso, il Prefetto di quella città, il modenese Enrico Vezzalini, che era rimasto ferito in un attacco partigiano sulla strada tra Como e Menaggio, dove erano rimasti uccisi due militi della sua squadra: la sera del giorno 26, Mussolini dice ai suoi che vuole ritornare a Menaggio per poi dirigersi verso Merano.
In quella circostanza pare che abbia inviato a Como la “figlia”, Elena Curti alla ricerca di Pavolini che doveva arrivare con gli aiuti; questa, in bicicletta, incontra anche dei partigiani, quasi sicuramente quelli che avevano attaccato il gruppo di Vezzalini; l’ausiliaria ritorna, assieme a Pavolini, a bordo della famosa autoblinda della “Brigata Nera Mussolini”, ma praticamente senza il “grosso” dei fascisti, sono con lui solo due camion carichi di “ragazzini” delle “Fiamme Bianche” e altri due della Brigata Nera di Lucca. Contemporaneamente arriva anche una colonna con circa 170 soldati tedeschi guidati dal tenente Hans Fallmeyer, in più il tenente Birzer ha con sé una quarantina di uomini ben armati.
La mattina del giorno 27, sotto un vero e proprio diluvio, tedeschi e fascisti, in un'unica colonna, che a detta di molti testimoni dei paesi rivieraschi, era composta da ben oltre trecento persone, tra tedeschi, famiglie dei gerarchi, e reparti di fascisti isolati che avevano raggiunto Mussolini attraverso iniziative personali, si dirigono verso Dongo.
L’autoblinda della Brigata Nera di Lucca del Comandante Idreno Utimperghe, viene messa in testa alla colonna, ma a pochi chilometri da Dongo il mezzo blindato si arresta e poco dopo la colonna viene fatta segno da scariche di mitra dei partigiani appostati sopra ad un costone in una strettoia a poca distanza dalle prime case del paese.
Il tenente tedesco, Fallmayer, si avvicina ai partigiani sventolando “bandiera bianca” e qui, si dice, si sia incontrato con tre partigiani che sono poi risultati essere: il conte Pierluigi Bellini delle Stelle, detto “Pedro”, capo della 52° brigata comunista, Garibaldi, con lui ci sono il commissario del Partito Comunista, Michele Moretti e un certo Alois Hofmann, uno svizzero che viveva con la moglie su una delle tante splendide ville del lago, si trova con loro anche il partigiano “Bill”, al secolo, Urbano Lazzaro. E qui avviene “il tradimento”.
Il tedesco contratta con i partigiani che si accorgono che i 28 camion, sono tutti muniti di una mitragliatrice pesante e molte armi antiaeree, e loro stessi sono convinti che, se si dovesse arrivare ad uno scontro, le loro esigue forze sarebbero state polverizzate in brevissimo tempo. Interviene nelle trattative anche un prete di Musso certo Don Enea Mainetti; sembra quasi che tra tedeschi e partigiani si sia, “improvvisamente”, instaurata amicizia e comprensione reciproca tanto da arrivare a scambiarsi anche pacchetti di sigarette. I fascisti sono rimasti in disparte, preoccupati dall’evolversi della situazione; i partigiani dicono che intendono consultare il comando partigiano e assieme al tenente tedesco, si allontanano in auto, con macchina tedesca e autista tedesco.
Alessandro Pavolini è l’unico che sostiene la necessità di uscire da quella situazione con un’azione di forza, ma i tedeschi tergiversano, i partigiani hanno promesso di lasciar passare la colonna tedesca ma intendono trattenere gli italiani.
Il tenente Birzer, intanto, convince Mussolini a salire su un autocarro tedesco indossando un pastrano militare, facendo scattare l’operazione, “cessione dell’ostaggio”, ai partigiani.
Ancora il solito Pavolini sembra abbia rivolto l’invito al Duce di restare assieme ai camerati, ma i tedeschi insistono per portare avanti la loro manovra, dimostrando di attenersi alle disposizioni ricevute a Milano, dall’ ”entourage” del Generale Wolff, che avevano previsto il riconoscimento del Duce da parte dei partigiani. I tedeschi, ottenuto il permesso di proseguire senza intoppi, lasciano, nelle mani di coloro che avevano ferocemente combattuto, il Capo del Fascismo Italiano, ridicolizzandolo anche, avendogli fatto vestire l’uniforme di un loro soldato, dando così la possibilità ai “nemici” di catturare e sucessivamente di “giustiziare”, “Lui”, assieme a molti dei rappresentanti del Governo della RSI.
Alcuni fascisti si ribellarono a quella soluzione e cercarono di catturare delle SS; ci fu uno scontro nei pressi dell’ autoblindata, ma subito sedato poiché i tedeschi si avvicinarono al mezzo, dove all’interno c’erano alcuni gerarchi, con un “bazooka”, pronti a farlo saltare, confermando ulteriormente che la “loro sporca manovra” si doveva completare con la “loro fuga” e con l’abbandono totale degli “ex alleati”.
I tedeschi proseguono per Dongo dove vengono di nuovo fermati e qui, al controllo, i partigiani, che erano andati al comando, con il tenente tedesco, “scoprono” il Duce! completamente senza difesa, dato che i “suoi” erano rimasti fermi al primo posto di blocco e “le invincibili SS”, che avrebbero dovuto proteggerlo, a tutti i costi, lasciano che il grande amico del loro capo, venga arrestato come “un ladro di polli”.

Giorgio, man mano che procedeva nelle sue “indagini” si accorse che, fino a quei giorni, la stampa italiana aveva raccontato un sacco di “fandonie”, depistando, procurando falsi “scoop”, avvalorando la tesi dell’ “eroica” azione partigiana voluta dal Partito Comunista, come copertura, e degli efferati omicidi commessi e della successiva manovra, nell’ ”occultamento” dell’ “oro di Dongo”.
Furono in molti ad accollarsi il “merito” di aver scoperto il Duce sul camion tedesco e, in tanti, hanno dato versioni diverse. L’unica certezza che ebbe il “giovane cronista”, fu quella di trovarsi, letteralmente, in un guazzabuglio tale di ipotesi, di quasi certezze, di cambiamenti d'idea, di tentennamenti, dicendosi che certamente, da tutto il materiale raccolto, avrebbe avuto la possibilità di fare un racconto a più puntate sul suo giornale, ma che la verità su quei fatti, forse, sarebbe “saltata fuori” a distanza di più lustri. Continuò ugualmente la sua indagine, in quanto, malgrado queste considerazioni, pensava di riuscire a scoprire "qualche cosa in più” relativamente alla spietata esecuzione di Benito Mussolini e di Claretta Petacci.
Ma ritorniamo alla ricostruzione che il giornalista del Tempo cercò di fare, di quei due drammatici giorni, sulle rive del lago di Como, dove furono uccisi i quindici fascisti sul “muretto” della Piazza di Dongo, circa alle ore 14 del giorno 27, dopo che vi fu la selezione dei “fucilandi”, nel salone del Municipio, da parte di “Valerio” (Walter Audisio), o da parte di “Bill” (Urbano Lazzaro), e forse anche di “Pedro” (Pier Bellini delle Stelle), da una lista di trentuno nomi, come Giorgio aveva annotato sul suo taccuino, alle quali bisogna aggiungere anche il nome di Marcello Petacci, il fratello dell’amante del Duce.
Il Petacci non venne accettato tra i fascisti che dovevano essere fucilati poiché lo ritenevano solamente un approfittatore, lui tentò la fuga a nuoto ma venne, prima mezzo linciato dalla folla, poi ucciso dai partigiani, in quel disperato tentativo di sottrarsi all’esecuzione.
Risultò abbastanza difficoltoso, da parte di Giorgio, il tentativo di ricostruzione dell’esecuzione di Mussolini e della Petacci: si era portato con sé, da Roma, alcuni ritagli di giornale, in particolare dell’ “Unità”, il quotidiano del partito comunista Italiano, che aveva dato, nei primi mesi del dopoguerra la “versione”, cosi detta, “ufficiale” dei fatti di Dongo, dove il “merito” e dell’arresto, e della esecuzione, se lo disputavano il rag. Walter Audisio, Urbano Lazzaro, Aldo Lampredi, Michele Moretti, Luigi Canali, assieme alla sua donna, la partigiana Gianna, i quali parlavano dell’arresto del Duce a Dongo e del suo trasferimento, prima a Germasino, nella Caserma della Guardia di Finanza, poi a Bonzanigo nella casa dei De Maria, indi condotti davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra dove, Mussolini e la Petacci furono uccisi alle 16,30 di quel sabato 28 Aprile, e anche da una ricostruzione effettuata da un giornalista del “Corriere d’informazione”, certo Ferruccio Lanfranchi, nell’estate autunno del 1945.
A parere di alcune testimonianze, che Giorgio ascoltò con molta attenzione, da parte di alcuni residenti nelle località citate, le cose andarono in altro modo. Secondo due testi, l’esecuzione avvenne, a parere di uno, alle 8,30 del mattino e dell’altro, verso mezzogiorno, nel cortile della casa De Maria, e quasi per sbaglio, contrariamente alla volontà del “colonnello Valerio” che parlava di condurli a Milano, per la fucilazione, mentre quella effettuata davanti al cancello di Villa Belmonte fu solamente, una “messa in scena”.
Il Valerio, prima, alle 14,20 era a Dongo in piazza per l’ esecuzione dei gerarchi (unica azione certa di tutta la storia), poi si recò a Giulino di Mezzegra per la “sceneggiata”. Si “vocifera” anche che il colonnello Valerio non fosse Walter Audisio, ma uno dei personaggi di vertice del Partito Comunista Italiano, Luigi Longo, certo è che nel gruppo dei partigiani comaschi era presente Aldo Lampredi, uomo fidato di Longo.
Altra “voce” che Giorgio raccolse, fu quella relativa alla grossa presenza di spie inglesi sul posto, i quali ricercavano la morte del Duce per appropriarsi delle famose “valigie” alle quali dava la caccia lo stesso premier inglese “Churchill” che, anche in seguito, sul lago e con la scusante di fare “quadretti artistici” degli splendidi paesaggi del “Lario”, si recò di frequente, in quelle zone. Dicono, attorno alle case dove si sono verificati i fatti, che un inglese e un italiano avevano scoperto il posto dove erano stati sistemati i “due amanti” e che li uccisero a sangue freddo in una stradina laterale a quella della casa dei De Maria e qui i corpi vi rimasero a lungo, prima di essere scoperti da Valerio (o da Longo?), di ritorno dall’ “eccidio” di Dongo.
Certo che furono numerosi gli interrogativi che “frullarono in mente” a Giorgio ad esempio: per quali motivi il Duce non venne fucilato assieme ai gerarchi nella Piazza di Dongo? E se non subito assieme a loro, perché non finirlo, in un secondo tempo, nello stesso luogo? Per quale motivo quella mattina di fine Aprile fu necessario architettare tutta quella messa in scena, con un fucilazione “doppia”? L’esecuzione, voluta dal Comitato di Liberazione Nazionale, chi l’ha eseguita in realtà? Cosa realmente accadde?
E il “tesoro del lago”, ovverosia quello che i giornali stanno chiamando il “giallo dell’ oro di Dongo”, dove è sparito? Quando la colonna fermata in quella strettoia venne abbandonata dai fascisti catturati, poi trasportati prima della fucilazione sul muretto del Piazzale, nel Municipio del paese, i più scaltri tra i partigiani cominciarono a razziare le auto della colonna che erano rimaste incustodite.
A un certo momento davanti a loro spuntarono le famose valigie che dovevano contenere i documenti più importanti di Benito Mussolini. Vi erano poi anche tutte le valigie e i contenitori dei gerarchi con, danaro, oro, gioielli che i fuggiaschi portavano con loro, oltre ai beni del Governo della Repubblica Sociale Italiana che erano riusciti a caricare a Milano.
Per cercare di evitare un saccheggio di ben più ampie proporzioni il “capitano Neri”, nome di battaglia di Luigi Canali, comandante della 52° Brigata Garibaldi, ordina di portare tutta la “refurtiva” nel Municipio di Dongo e qui la partigiana, Giuseppina Tuissi, nome di battaglia “Gianna”, che è anche la “donna di “Neri”, compila l’inventario di tutto quel “ben di Dio” che si era riusciti a recuperare.
Poi Giorgio viene a sapere che tra i partigiani scoppiò una lite furibonda. Il segretario del Partito Comunista clandestino di Como, tale Dante Gorreri, sostiene che tutto quel materiale e tutti quei beni sono di proprietà del Partito Comunista. Il “capitano Neri” sostiene che al contrario appartengono allo Stato Italiano e che di conseguenza bisogna consegnarli alla Banca d'’Italia. Il pomeriggio del 28 Aprile dopo tutto il sangue versato sulle rive del Lago di Como, in quel piccolo paesino, il tesoro viene trasportato nella villa delle sorelle Teresa e Luisa Venini a Domaso. All‘alba del giorno dopo, un gruppo di partigiani bussa alla villa con un foglio in mano timbrato dal Partito Comunista di Como, prelevano il bottino, caricano il tutto su di una automobile e si dileguano.
Che fine ha fatto il “tesoro” del Duce e della RSI? Anche a Dongo, a distanza di alcuni anni, si dice che sia finito nelle casse del Partito Comunista Italiano, utilizzato per l’acquisto del Palazzo in via delle Botteghe Oscure a Roma sede di quel Partito, e a finanziare le campagne elettorali del 1946 e del 1948, e le “forze militari e clandestine”, oltre al finanziamento dell’apparato di cellule e sezioni in ogni parte d’Italia. Il Giornalista del Tempo si rese conto che tanti che si erano avvicinati a quel “tesoro” hanno fatto, come si dice, “una brutta fine”.
Il “capitano Neri”, Luigi Canali, scompare l’8 Maggio, a pochi giorni dall’esecuzione del Duce e dei gerarchi fascisti, e il suo cadavere non è mai stato ritrovato. La “sua donna” la partigiana Gianna, Giuseppina Truissi cercava disperatamente il suo uomo in quelle giornate.
Il 23 Giugno 1945, due fidanzati, al Pizzo di Cernobbio, notano una motocicletta rossa con due uomini e una donna che scendono verso il lago: poi sentono un urlo e uno sparo. La motocicletta riparte. Sul posto verrà trovato un giornale sporco di sangue e budella umane. La “Gianna” è stata sventrata e gettata nel lago.
Pochi giorni dopo, il 4 Luglio, tra Acquasena e Santa Maria Rezzonico, riaffiora il cadavere di Anna Bianchi, amica della Gianna e sua confidente, colpita con due pallottole alla nuca e gettata ancora viva nel lago. Il 6 Luglio scompare Michele Bianchi il padre di Anna. Il suo cadavere riaffiora dal lago il giorno 12, anche lui con due proiettili in testa.
Per finire poi con l’uccisione, a colpi di pugnale, in una strada alla periferia di Como, il 26 Ottobre 1945, di Gaetano Melker, cittadino svizzero che si dice abbia trasportato, da Como alla sede del Partito Comunista di Milano, il “tesoro di Dongo”.
Giorgio si disse che aveva trovato materiale sufficiente per “buttar giù” alcuni articoli e che, senz’altro, il suo “capo” al giornale sarebbe stato oltremodo soddisfatto, pertanto la sua permanenza su “quel ramo del Lago di Como” la si poteva considerare decisamente positiva.

Prima di ripartire per Roma si limitò a valutare come le circostanze avessero portato le due “ex camicie nere” emiliane, Giorgio e Luisa, a ritrovarsi, per l’avvio di una nuova e sfolgorante vita per Lei e una “forse”, altrettanto sfolgorante carriera giornalistica per Lui, dovuta all’uccisione di quell’uomo politico che era stato la causa delle “grosse difficoltà” alle quali, i due “ex balilla di Salò”, erano andati incontro nelle loro giovani vite.
Dopo la parentesi “lariana” e dopo aver ricevuto, una volta ritornato nella “capitale”, i complimenti del suo Direttore che gli pubblicò in cinque puntate il “reportage” sulla fine di Mussolini e dei suoi gerarchi, si senti “ordinare” da questo, un ulteriore inchiesta sui delitti e sugli eccidi commessi dai comunisti nell’immediato dopoguerra nel Nord Italia: il “giovanotto” accettò l’incarico con la condizione di portarlo avanti senza “pressioni” e in un arco di tempo abbastanza ampio in quanto, all’Università doveva affrontare gli ultimi due esami del corso di laurea, in più stava già preparando la tesi che si era programmato di discutere a Febbraio-Marzo del 1952. Ci fu, in quel periodo, anche l’incontro con la famiglia di Franca e relativo “fidanzamento ufficiale”, quando i Giovannoni ritornarono a Roma, da Catania.
Il dott. Gustavo Giovannoni, si trovava a Roma a disposizione del Ministero degli Interni in attesa del suo trasferimento in Alta Italia, lui si aspettava la città di Bologna e, dopo l’incontro con il “giornalista”, che gli fece una bellissima impressione, d’accordo con la moglie Teresa Boldrini, originaria di Tivoli, volle dare, in occasione del fidanzamento della figlia, un “ricevimento” degno di quella “bellissima coppia” che, al raggiungimento della Laurea, avrebbe coronato il “sogno d’amore”, con il matrimonio.
Furono scelti i saloni dell’Hotel Hassler-Villa Medici a “Trinità dei Monti” proprio di fronte alla famosa scalinata che porta in Piazza di Spagna, uno dei posti più “esclusivi” della “città eterna” e qui, i due colombi, assaporarono “in anteprima”, la “cerimonia nuziale” poiché il banchetto fu praticamente uguale a quello di un matrimonio con la sola esclusione della “torta nuziale”.
L’ ”avvenimento” si tenne una domenica di Settembre con la partecipazione di tutta la “parentela” dei due ragazzi; da Modena, “che non stavano più nella pelle”, arrivò la famiglia di Giorgio, papà Giulio Campari, la mamma Marisa Lotti, con il fratello Marco, già diventato un giovanotto, appena iscritto, dopo la maturità scientifica, alla facoltà di ingegneria di Bologna: con loro lo zio Francesco Lotti, c’erano: la moglie Renata Giacobbi e la figlia Elisabetta anche lei ormai maggiorenne e in procinto di laurearsi in farmacia, Giorgio rimase “quasi sorpreso”, nel ritrovarsi, praticamente dopo tanto tempo, il fratellino e la “cuginetta”, ormai adulti, in particolare lei, una donna, tra l’altro molto bella, irriconoscibile rispetto alla “ragazzotta” che si trovava per casa quando era rinchiuso nella “prigione” di Via Cesare Battisti.
Alla sua famiglia si “aggregò” l’amico, il vicino di casa, il camerata alla Brigata Nera, Renato Venturelli del quale non aveva saputo più niente dagli “anni bui”, anzi lo credevano morto, invece era espatriato e in Francia si era arruolato nella “Legione Straniera” attraverso varie vicissitudini; attualmente, stava trascorrendo un periodo di riposo a Modena prima di ritornare a Marsiglia per essere inviato in Indocina. Riuscirono a ritagliarsi, i due “ex brigatisti neri”, quasi un’oretta per stare assieme a raccontarsi i loro percorsi dopo il ritorno dal campo di prigionia di Coltano.
Renato era ritornato nella sua casa a Modena e, come Giorgio, fu “cercato” dai partigiani che lo avrebbero voluto “giustiziare”, ma fece in tempo a sfuggire a questi e a rifugiarsi presso un parente a Ventimiglia. Da questa località, al confine con la Francia, entrò in contatto, nel giro di pochi giorni dal suo arrivo, con personaggi che “reclutavano” giovani con “trascorsi difficili” e difatti, molti di quei “ragazzi di Salò’”, braccati dai rossi, si rifugiarono nei reparti della “Legione” a combattere, da “prezzolati mercenari”, per la “grandeur” francese. I suoi genitori sapevano dov’era, ma non dissero mai niente a conoscenti e amici per paura che la notizia trapelasse e che i comunisti potessero “scoprirlo” per cui, per molto tempo, avvalorano la tesi della “scomparsa” di Renato, a tutti.
La famiglia del questore si presentò, al completo, assieme a parenti, amici e amiche di Franca, furono parecchi anche i “regalini” che Giorgio e Franca ricevettero in particolare dalle “amicizie” più strette, mancava solo la cerimonia in chiesa, e sarebbe stato tutto come il vero matrimonio, cerimonia che Franca aveva già preannunciato a Giorgio un giorno che stavano facendo una passeggiata lungo i “Fori Imperiali”; “ecco disse la ragazza, il giorno “fatidico” lo verremo a celebrare qui, nella Chiesa di Santa Francesca Romana, alla quale sono molto affezionata”.
Ovviamente Giorgio chiamò a quella festa un buon numero di amici e colleghi dell’Università e del “Tempo”, i quali si “trattennero”, dall’espletamento di tutte quelle forme di “caciara”, di scherzi e battute salaci, che normalmente si fanno, in circostanze analoghe, tra camerati, amici, e attualmente anche tra “compagni e compagne” che ormai trovavi negli ambienti della media e alta borghesia e non solo in quelli del proletariato, solamente perché erano venuti a conoscenza del ruolo del padre di Franca.

Il “funzionario del Ministero”, abituato a ricevimenti e banchetti, tutti di una “certa classe”, si accordò con il “maitre” dell’Hotel Hassler - Villa Medici, in modo da offrire agli ospiti, che venivano da “fuori Roma”, un accurata scelta di cibi e di vini tipici della capitale e del Lazio. Questi si trovarono a dover fare delle scelte “imbarazzanti”, dato che sarebbe stato impossibile, poter “degustare” tutta la varietà dei piatti proposti ai commensali.
Iniziarono con dei deliziosi antipasti a base di “bruschette”, e delle “crocchette dolci”, dei “Bignè di San Giuseppe”, oltre a degli involtini di “ricotta con miele di castagno”, delle “panzanelle” alla romana, e dei “fiori di zucca” ripieni di mozzarella e alici, tutti questi assaggiati in piedi sorseggiando un buon “spumantino”, conversando e ammirando lo splendido panorama di Roma dalle ampie finestrature delle sale del Villa Medici.
Sistemati ai tavoli, “romani de Roma” e “polentoni”, videro passare davanti a loro, e avrebbero anche potuto “godere” di tutte le belle cose che i camerieri facevano prima osservare, illustrandoli con quel “parlare romanesco”, che aggiungeva un “tocco in più” alle “succulente” portate che i più giovani si prepararono ad affrontare cercando di non lasciarne “perdere”, nemmeno una. Iniziarono con dei “primi piatti” classici: dei “bucatini all’amatriciana” deliziosi, una “zuppa di pasta e ceci”, che non si poteva lasciare nelle “zuppiere”, non potevano poi mancare gli “spaghetti alla carbonara”, quasi mescolati a delle “fetuccine al pesto” delicatissime; volendo si poteva anche scegliere tra dei “tonnarelli cocuzzolati” o delle “penne alla puttanesca”.
Il buon “questore”, grande estimatore del “vino di qualità”, aveva fatto un ampia scelta di vini bianchi e rossi con i quali amici e amiche, dei due “futuri sposi”, avrebbero potuto sbizzarrirsi nelle scelte, a partire dall’Est! Est! Est! di Montefiascone, a un buon Frascati, oltre a una serie di vini dei Colli Albani quali, l’Orvieto, il Marino, e alcuni pregiati “rossi” quale un “Cesanese” di ottima cantina, se poi qualche ospite avesse voluto uscire dalla cerchia dei vini laziali, la “dispensa” dell’ Hotel Hassler era fornita dei più prestigiosi vini italiani, dai piemontesi, ai veneti, ai toscani sino al “canonau” sardo.
Ci fu, dopo i primi, una sosta con “sorbetto” digestivo, onde poter “affrontare” la “carica”, altrettanto abbondante, dei secondi piatti. Arrivò il “tripudio” delle carni e dei contorni. D’obbligo un “fantastico abbacchio alla cacciatora”, delle braciolette “impanate e fritte”, un “assaggio” di “coda alla vaccinara”, con involtini di fesa di manzo alla giudia e pollo alla romana con peperoni.
Passarono anche con della “trippa” alla romana con la mentuccia che, se non ci fossero stati tutti i piatti precedenti, poteva essere considerato il “solo ed unico secondo”. Non mancarono i deliziosi “saltinbocca”, assieme a succulente “polpette affogate nel sugo di pomodoro”; il tutto contornato da “cicoria strascinata”, da fiori di zucca fritti, foglie di salvia fritte e da una “appetitosa” peperonata del cuoco Renato, assieme a una “terrina” di piselli al prosciutto.
Ci fu “spazio” anche per una serie di dolci che mandarono in “solluchero” molte signore, le quali, malgrado avessero dichiarato, all’inizio del banchetto, che avrebbero mangiato “solamente un pochino” arrivarono “ben satolle” a quel punto e non lesinarono nell’assaggiare: del “budino di menta con cioccolato fondente”, una “favolosa crostata”, con la marmellata di “visciole”, delle tartine di fichi, e dei “fagottini” di fragole fresche; per chi l’avesse voluta assaporare c’era anche una “ricotta romana alla pecorara, con miele di castagno”, il tutto lo si poteva “innaffiare” con della dolce Malvasia dei castelli romani. A conclusione di questo “abbondante” pranzo, degno “de li antichi romani”, abbondanza di digestivi, di sorbetti al limone, di caffè e di “ammazzacaffè”. Il tutto ebbe conclusione nel tardo pomeriggio con i saluti di rito ai “futuri sposi”.

Giorgio cercò anche di comunicare la data di quella festa all’amica Luisa, ma non la trovò. Probabilmente era ancora in giro per il mondo con il suo conte, difatti in quei mesi, aveva ricevuto, da varie località europee, delle cartoline con i saluti della ragazza e di Giovanni Bentivoglio. I due “sposi effettivi” erano ancora in giro con la loro Alfa Romeo, da oltre tre mesi e stavano decidendo di ritornare a Milano ai primi giorni di Ottobre dopo aver visitato un numero notevole di località, nel loro vagabondare per la “Vecchia Europa”, come diceva Giovanni, dopo aver trascorso periodi più lunghi nelle abitazioni di San Sebastiano e di Biarritz.
Luisa visse quel periodo come se si fosse trovata su un altro pianeta, la sorprendeva, giorno dopo giorno, la generosità, l’eleganza, la cortesia, l’affetto, l’amore che le dimostrava quell’uomo sempre più “invaghito”, “innamorato”, “cotto”, “infatuato”, di lei.
Il mondo dorato che la circondava si apriva per lei, giorno dopo giorno; la vita nel “Palazzo Reggia” di Milano, la frequenza a incontri importanti con il mondo dell’aristocrazia e dell’imprenditoria milanese e lombarda, le amicizie che andava consolidando in quell’ambiente esclusivo, avevano permesso a Luisa, con la sua cultura e la sua intelligenza, di accattivarsi le simpatie di tante “dame” influenti ed importanti e di “stringere” delle relazioni prestigiose.
Le cene nelle case più eleganti, attraverso le scelte “oculate” e ben ponderate anche dal conte Giovanni che non le disdegnava, ma alle quali riteneva opportuno parteciparvi solamente di tanto in tanto, le frequentazioni ai salotti culturali più “a la page” della città, l’attenzione alle manifestazioni d’alta moda e alle sfilate di grande interesse che si svolgevano con una certa frequenza, l’avevano portata all’attenzione di quel “particolare” mondo.
Le sue giornate erano sempre piene di impegni, aveva imparato a giocare a tennis iscrivendosi all’”esclusivo” circolo milanese, così come si era dedicata al bridge frequentando l’altrettanto circolo riservato.
Durante la stagione invernale, restando per un certo periodo di tempo nella villa di Cortina d’Ampezzo, si era dedicata con successo allo sci, diventando, nel giro di alcuni anni, una sciatrice di tutto rispetto, invidiata anche da tanti uomini di montagna. Così come imparò a cavalcare e ad appassionarsi al mondo dei cavalli, nelle scuderie che il conte aveva nella vicina città di Monza e, anche in quella disciplina riuscì, dopo alcuni mesi, a competere con le “amazzoni” più in gamba della sua cerchia di amicizie.
In verità qualsiasi cosa andava ad iniziare, attraverso la sua “precisione”, la sua “scrupolosità” e la sua “pignoleria”, abbinate ad una buona dose di predisposizione a tutte le forme di attività motoria, riusciva ad interpretarle al meglio raggiungendo, in tempi brevi, la “quasi perfezione”-
La grande preoccupazione di Luisa, di tanto in tanto il passato riaffiorava, era quella di venire smascherata da qualche “ex cliente”; difatti successe che ad una serata, durante un ricevimento in casa dei Conti Serbelloni, trovò un marchese, molto conosciuto in Milano per la sua vita mondana dissoluta e corrotta, che la tenne, costantemente e insistentemente, “osservata”, “esaminata” e “studiata”. Con quell’uomo, sì, “convegni di un certo tipo”, c’erano stati e anche abbastanza numerosi, si era poi ricordata delle sue “particolari perversioni”, e quell’incontro l’aveva messa, decisamente, in “imbarazzo”.
Cercò, complimentandosi poi con se stessa, di anticiparlo: indubbiamente in lei c’era stata una certa trasformazione, ma i lineamenti non si erano più di tanto modificati. L’affrontò con sicurezza, andandogli incontro con un sorriso smagliante, in un momento che ebbe la possibilità di parlare liberamente, senza l’ascolto o l’interferenza di altre presenze:
“Vedo, caro marchese, che mi state osservando con molta attenzione da un po’ di tempo, ci sono forse motivi particolari, le ricordo forse qualche altra persona? Mi è successo, tempo fa, era presente anche mio marito, che un signore, certamente in modo non sgarbato, ma altrettanto insolente, mi disse che assomigliavo ad una ragazza conosciuta anni prima, che “faceva la vita”. Se è per questo motivo le ripeto quello che dissi a quel tale: la pregherei vivamente, se le fosse possibile, di presentarmi la “mia sosia”, così anch’io eviterei di sentirmi imbarazzata di fronte a chi mi “scruta” in modo che chiamerei, “sconveniente”.
Il marchese, si scusò per quella “gaffe” diventando rosso come un gambero e, quasi prostrandosi davanti a Luisa, chiese “umilmente” scusa e lei, “altezzosa” si allontanò alla ricerca del conte Giovanni, dopo aver “incenerito” con lo sguardo, il malcapitato “guardone”.
Fu quella l’unica volta, in tanti anni, che qualcuno la mise in imbarazzo, veramente era diventata un “altra”, la trasformazione c’era stata, specialmente sul piano psicologico e comportamentale, ma anche su quello fisico, il corpo era ritornato “suo”, quello che aveva fatto con tanti uomini era stato “lavato”, “cancellato”, “pulito”, come dopo una bella doccia. L’unico rapporto del quale si ricordava e teneva gelosamente nella sua mente era quello avuto nell’ appartamentino di Piazza San Babila con il “caro” Giorgio.
Un altro "fatto” era ancora, purtroppo, sempre presente in lei, lo stupro subito, da parte di individui “subumani”, in quel mese di Maggio nella bassa modenese; era un episodio che “gridava ancora vendetta.”
Anche per Giorgio la vita ebbe a prendere un “ritmo” normale. Dopo l’ottenimento della Laurea, all’Università di Roma con un bel 108 su 110, era il mese di Marzo del 1952, continuò per un certo periodo nella collaborazione al giornale, poi, a Giugno dell’anno dopo, Franca gli comunicò che era rimasta incinta e di conseguenza, velocemente senza aspettare che anche lei si laureasse, venne celebrato, nella Chiesa di Santa Francesca Romana, il matrimonio tra i due ragazzi. Il padre di Franca, nel frattempo, era stato nominato Questore a Bologna; l’anno dopo, Giorgio, in seguito alla nascita del bambino, si trasferì, dopo che il dott. Giovannoni l’aveva convinto ad entrare in Polizia, a Bologna, nel nuovo ruolo di Vice Commissario di quella Questura.
La famigliola andò ad abitare in un bel Palazzo, vicino a Via Indipendenza, in un appartamento che distava nemmeno cinque minuti dalla sede della Questura dove si trovava la residenza del papà di Franca e il nuovo ufficio del dott. Giorgio Campari, calatosi, in brevissimo tempo, nel “nuovo ruolo” di poliziotto. La sua recente funzione, dopo aver abbandonato la redazione del “Tempo”, la sistemazione nel capoluogo emiliano che l’aveva fatto avvicinare alla sua famiglia ancora residente a Modena, l’entusiasmo per la nascita del piccolo Federico, avevano “caricato” il “neo commissario” che si era subito “immedesimato” nella nuova attività portandovi tutta la carica della sua ancor giovane età, dato che, malgrado quello che aveva passato, aveva compiuto, da poco tempo, ventinove anni.

A Luisa, che era ormai entrata del tutto nel “ruolo” della “gran signora”, di “grande dama” della nobiltà lombarda, sembrava davvero di esserlo sempre stata, di essere nata “contessa”.
Aveva sistemato i suoi genitori nelle vicinanze del suo Palazzo di Corso Magenta a Milano, avendoli così vicini da poterli vedere, volendo, anche tutti i giorni, aveva risolto tutti i loro problemi economici e il vecchio genitore, che più aveva subito le conseguenze del travagliato dopoguerra, si era decisamente ripreso.
All’amica Ginevra, che continuava a restare nel suo appartamentino di Piazza San Babila e che continuava a lavorare all’”Embassy”, era stato “tassativamente proibito” di recarsi a “Palazzo”, ma nello stesso tempo la “buona contessa” si recava di “tanto in tanto” a trovarla, e qualche volta dovette frenare le “avances” della amica che era ancora “pazzamente” innamorata di lei.
Con Giorgio c’era stato solamente, dopo l’incontro sul lago di Como in occasione del suo matrimonio, uno scambio di qualche lettera, e da parte di lui l’invio dei confetti nelle due circostanze e del matrimonio e della nascita del figlio.
Praticamente, a parte queste due figure, Luisa aveva “tagliato completamente i ponti”, con il suo passato. La “vita dorata” a volte le sembrava “stressante”.
A prescindere dagli incontri mondani, dietro richiesta del Conte Giovanni, Luisa cominciò anche a rendersi partecipe agli "interessi" di famiglia. Assieme al commercialista del conte, il rag. Ferruccio Pancaldi, che da anni seguiva l’amministrazione dei conti Bentivoglio Molza Pellacani, iniziò a prendere conoscenza delle tante proprietà della famiglia nella quale era entrata a farne parte in un ruolo determinante.
Si dovette interessare delle spese e dei rapporti con i “dipendenti” del “palazzo” che, in realtà, erano seguiti oculatamente e con rettitudine dall’uomo di fiducia del conte, quel Jacopo Trotti, al quale era affidata anche tutta l’organizzazione di eventi, feste, incontri importanti e tutto quanto era relativo ai rapporti “politici” con la società milanese. Le fu oltremodo gradito l’incarico di seguire la tenuta e le scuderie di Monza, di modo che si trovava, quando doveva recarsi a seguire l’amministrazione di quegli impianti, a ritagliarsi qualche ora per soddisfare la passione che si era venuta a creare in lei per i cavalli e per l’equitazione.
Il conte Giovanni, da un po’ di tempo, si stava dedicando, con particolare attenzione, all’attività imprenditoriale dei pneumatici che, in quegli anni, stava subendo un accelerazione costante e notevole. Si teneva, ugualmente, uno spazio anche lui, dall’impegno in fabbrica, per dedicarsi, qualche volta, assieme a Luisa, a cavalcare uno dei suoi splendidi puledri. Le proprietà fuori dal territorio milanese, le ville a Portofino, Cortina d’Ampezzo, Bellagio, Biarritz e San Sebastiano erano seguite dal contabile Pierino Gambuti, che doveva “tenere dietro” anche ai vari fondi agricoli, sparsi tra Emilia e Lombardia e alle tante proprietà immobiliari di Milano e di Parma.
Erano veramente entrati in rapporto “perfetto”, interessi, amore, sentimenti, venivano “portati avanti” con una sintonia completa, si intendevano magnificamente su ogni cosa, anche sugli argomenti più frivoli, la scelta di un film, di un opera teatrale o musicale, di un abito o nella scelta di un viaggio, erano fatti in perfetto accordo e mai vi fu tra loro la minima discussione. In poche parole, “armonia assoluta”.
A metà Ottobre dell’anno 1955, dopo aver trascorso il lungo periodo estivo tra la villa di Portofino e quella di Cortina, il conte Giovanni chiese a Luisa di accompagnarlo a Modena per andare a ritirare la “Ferrari 375 America” che aveva ordinato qualche tempo prima alla “casa di Maranello” e con la nuova vettura sarebbero tornati assieme a Milano.
La “contessa” dovette declinare l’invito poiché la sua cavalla favorita, “Ipazia”, avrebbe dovuto partorire proprio in quei giorni e lei voleva assistere a tutti i costi al lieto evento. Il conte decise allora di farsi accompagnare dall’autista di famiglia, Franco Cavalcanti che da molti anni era con lui e che curava la sua “autorimessa”, oltre ad essere un eccellente meccanico e, quando serviva, anche un esperto giardiniere; con lui, in qualità di assistente e “navigatore” aveva partecipato, alla fine degli anni quaranta a due Mille Miglia consecutive, ottenendo, in entrambe le edizioni ottimi piazzamenti, con l’Alfa Romeo 2900.
La mattina di Mercoledì 19 Ottobre i due coniugi si alzarono molto presto, lui per prendere la direzione di Modena assieme all’autista, lei per portarsi alle scuderie di Monza. Il conte era un “habituè” della scuderia automobilistica modenese, era entrato da tempo, da quando prese la sua prima auto del cavallino rampante, in ottimi rapporti con Enzo Ferrari e con alcuni suoi collaboratori con i quali entrò anche in una stretta amicizia, come con l’ ing. Girolamo Ferrari Amorotti, detto Mino, che lo attendeva quella mattina, presso la sede modenese della “Ferrari” e con il quale sarebbero andati a Maranello a ritirare e a provare, sulla Via Giardini, da Maranello a Serramazzoni, la fiammante “375 America” grigio argentata, una macchina, “carrozzata” Pininfarina che, attraverso l’eccellenza della meccanica e le linee eleganti la rendevano una delle vetture più desiderabili sul mercato internazionale, anche se molto costosa. Uno dei pochi esemplari prodotti di questa splendida vettura venne realizzata appositamente per il Re Leopoldo del Belgio.
La giornata, tipicamente autunnale, con la nebbia che già alle porte di Milano accompagnò per tutta la Via Emilia sino a Modena i due milanesi e che aveva messo di cattivo umore il conte Giovanni tanto da lasciar guidare la vettura al meccanico autista Franco, cosa inusuale in quanto, normalmente, la “ruzzola” la voleva sempre tenere in mano lui. Si incontrarono con l’amico, che li ospitò nella sua casa in Largo Garibaldi, poi il conte volle andare a gustare un buon piatto di tortellini presso il ristorante “Oreste” del noto “ristoratore modenese”, Guerrino Cantoni, che fece completare il pranzetto ai tre commensali, con una portata di “bollito misto”, trinciato al carrello dallo stesso titolare del locale che faceva gustare le delizie della cucina modenese ai tanti rappresentanti del cinema e del mondo dello spettacolo, che passavano per Modena a ritirare il “mito” delle automobili nel mondo. Si gustavano poi i piatti “impareggiabili” del grande Guerrino, con la loro nuova auto parcheggiata davanti al locale, nella splendida Piazza Roma prospiciente la magnifica facciata della “Reggia degli Estensi”, il Palazzo Ducale, sede della Accademia Militare.
Arrivarono a Maranello alle tre di quel pomeriggio decisamente uggioso, dopo un lungo colloquio con il “patron” passarono a ritirare la nuova vettura con la quale andarono, come previsto, a fare un giro di prova sulla strada Statale dell’Abetone e del Brennero poi, alle sei, il conte Giovanni decise di rientrare a Milano, per andare in serata fuori a cena con Luisa a festeggiare assieme a lei, i due nuovi arrivi, la macchina e il “puledrino”.
Luisa aveva passato tutto il giorno in scuderia dopo aver fatto, in mattinata, una lunga cavalcata nella “brughiera” con la sua puledra preferita-
Quando voleva stare a lungo in sella senza eccessive “forzature” cioè un “andar tranquilli”, la cara vecchia “Domitilla” era la preferita. Nel tardo pomeriggio, dopo aver trascorso alcune ore in ufficio a sistemare la contabilità, arrivò il dott. Mariano Poggioli, il veterinario di fiducia delle scuderie Bentivoglio e con lui si recò nel box dove era stata allestita la “sala parto” e qui assistette alla nascita del figlio di Ipazia, un bel puledrino marrone scuro al quale diede il nome di “Topazio”. Non era passato un quarto d’ora dal lieto evento, che Luisa ebbe come uno smarrimento, momentaneo, ma molto intenso che le fece quasi perdere i sensi. Diede la colpa alla tensione che le era stata trasmessa dalla “sofferenza” della sua amata cavalla la quale, subito dopo, sembrava felicissima nel vedersi accanto il suo “puledrino”.
In realtà, in quel preciso istante, la “contessa” aveva “sentito” che era successo “qualcosa di grave”. Si allontanò, scusandosi, per andare a distendersi sul divano dell’ufficio. Trascorreva il tempo ma il malessere non passava, quando lo squillare del telefono la fece sobbalzare e un presentimento le creò un immediato sconforto, provocandole brividi di terrore in tutto il corpo:
“Mio Dio ! Giovanni!”.
Si precipitò alla scrivania sollevando, quasi con rabbia la cornetta mentre dall’altra parte una voce informale chiedeva:
“Parlo con la signora Luisa Bentivoglio Molza, la contessa?”
“Si sono io, chi parla?”
“Sono il Maresciallo Alfonso Vinciguerra della tenenza dei carabinieri di Castiglione delle Stiviere, e telefono dall’Ospedale. Mi sente signora?”
Luisa si era accasciata sulla scrivania con un groppo in gola,
“Si, disse con un filo di voce, “la sento, parli pure”.
“E’ successo un grave incidente, suo marito il conte Giovanni Bentivoglio Molza e stato portato in questo ospedale, e qui con mè c’è il vostro autista Franco Cavalcanti, che seguiva l’auto di suo marito. Vuole che glielo passi?”
Luisa non riusciva più a controllarsi,
“Ma mio marito come stà, é grave?, allora mi passi Franco”.
“Signora Luisa, è inutile che ci giri intorno, è successa una tragedia. Il conte Giovanni è uscito di strada con la nuova Ferrari a pochi chilometri da Castiglione delle Stiviere, dopo Mantova, mentre rientravamo da Modena. E’ morto. Io lo seguivo, a non molta distanza, con l’Alfa Romeo con la quale eravamo partiti questa mattina e ho visto tutto. Le sarò più preciso in seguito.”
Il telefono rimase muto alcuni minuti, Luisa era rimasta senza parola, poi riuscì a dire:
“Franco, la prego, mi aspetti, io vengo subito lì, mi faccio accompagnare dal capo degli stallieri qui a Monza.”
Lo schianto era avvenuto, nel tardo pomeriggio di quel giorno nefasto, sulla strada statale n. 236, Mantova Brescia, a poca distanza da Castiglione delle Stiviere. Giovanni, aveva preferito quel percorso, Modena, Mantova, Brescia, Milano al posto della solita Via Emilia, perché, aveva detto Franco, voleva “collaudare” il “bolide” in quanto i pochi chilometri fatti sulle strade delle colline modenesi non lo avevano convinto e quel percorso già fatto tante volte, anche durante la Mille Miglia, gli dava la possibilità di verificare il motore su lunghi tratti rettilinei e su tratti misti di abitati e di zone poco frequentate. Franco poi raccontò:
“Io lo seguivo a non molta distanza, ma non gli stavo nemmeno troppo vicino, a volte lo vedevo, a volte lo perdevo di vista, specialmente quando lui trovava i rettilinei adatti a lanciare l’auto quasi al massimo della velocità raggiungibile. Non sono riuscito a vedere esattamente la dinamica dell’incidente, sono arrivato sul posto forse un minuto dopo. La strada non illuminata, probabilmente una sterzata brusca, una frenata improvvisa per qualche ostacolo, non improbabile un malore improvviso del conte, difficile stabilirlo, non c’erano altre macchine, sono arrivato mentre sopraggiungeva, dalla parte opposta, un Fiat 1400; la Ferrari era ribaltata nei campi, e il corpo di Giovanni era a una ventina di metri di distanza. Mi sono immediiatamente attivato, assieme al guidatore dell’altra macchina, per cercare di dare assistenza al conte, ma ad entrambi è parso che fosse deceduto all’istante.
Il guidatore della millequattro si è prestato a venirmi in aiuto, ha girato la sua auto per andare nella vicina cittadina di Castiglione delle Stiviere a cercare aiuto, difatti, pochi minuti dopo è ritornato assieme ai carabinieri e ad una autoambulanza e qui, al medico era sembrato che il Giovanni desse ancora qualche segno di vita, così l’hanno trasportato subito all’ospedale, sembra anche che il decesso sia sopravvenuto sulla macchina della croce rossa. Alcuni carabinieri sono rimasti sul posto per i rilievi del caso e per dirigere il traffico, mentre anch’io e il maresciallo abbiamo seguito Giovanni per poi telefonare.
La macchina è andata praticamente distrutta e mi hanno detto che è stata trasportata, con un carro attrezzi, in un “garage” di quel centro.”
Il “dopo” risultò drammatico per Luisa, fortunatamente per lei prese in mano la situazione il bravo Jacopo che, con capacità e signorilità riuscì ad organizzare la cerimonia funebre che si svolse nel Duomo di Milano alla presenza di una grande folla e di tantissime autorità, data la notorietà del personaggio; anche la stampa diede ampio risalto alla notizia del gravissimo incidente che aveva stroncato la vita di un imprenditore e di un rappresentante della nobiltà lombarda conosciuto ed apprezzato in tutto il paese. Furono centinaia i biglietti, i telegrammi e le lettere di condoglianze che la contessa ricevette, compresa anche una commovente lettera di Giorgio che non incontrava ormai da alcuni anni.
Per un lungo periodo la “contessa” tenne un lutto strettissimo, non usciva praticamente di casa; solamente i suoi genitori e le persone più vicine al conte avevano la possibilità di confortarla; non voleva vedere nessuno, e per oltre un anno non frequentò salotti, non andò nelle varie residenze estive, non fece viaggi, si limitò, dopo alcuni mesi dalla morte di Giovanni, a seguire le relazioni che gli amministratori delle varie tenute, della fabbrica e di tutte le proprietà del conte, le facevano avere puntualmente e con regolarità.

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