Parte Seconda

La Mandante

Romanzo modenese

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Il giorno 6 Febbraio 1946, dopo tante indecisioni, ripensamenti, tentennamenti, rinvii, Giorgio decise di “mettere il naso fuori dalla porta”. Aveva studiato un programmino, modesto, che lo avrebbe portato a riprendere gradualmente contatto con la gente e con la sua città, trascorrendo alcune ore fuori da quelle quattro mura.
Alcune volte, mamma Mirella e papà Giulio, mai assieme e a distanza di più giorni l’uno dall’altro, si erano recati a casa dello zio Francesco, a trovare il ragazzo, usando tutti gli accorgimenti utili, quasi fossero dei delinquenti, tendenti a “dirottare” eventuali “pedinatori male intenzionati”. Erano certi di essere sorvegliati, dopo le visite avute a casa, di persone “poco raccomandabili”, alla ricerca di Giorgio, in quanto i “rossi sapevano” che il ragazzo era stato “dimesso” da Coltano e che, probabilmente, era nascosto da qualche parte.
Erano terrorizzati, i genitori, anche da quanto erano venuti a sapere dei molti amici e camerati di Giorgio, reduci da quel campo, che erano stati prelevati dalle loro case dai partigiani sguinzagliati per la città dall’organizzazione poliziesca del partito comunista, alla caccia dei fascisti sconfitti per completare la “pulizia etnica” che da parecchi mesi stavano portando avanti in tutto il Nord Italia, in particolare nella provincia modenese, e mai più ritornati.
Quotidianamente, ma era difficile sapere con precisione certe notizie, poiché i giornali ne pubblicavano solamente alcune che riguardavano il ritrovamento di cadaveri di fascisti, civili e militari, mentre nulla si sapeva di coloro che venivano fatti letteralmente scomparire dagli uomini, assetati di sangue, della “volante rossa”, di loro si perdevano le tracce e la vittima entrava nella lunghissima lista degli “scomparsi” e i familiari non avevano nemmeno la possibilità di andare a piangere sulla tomba del congiunto, che veniva fatto, “completamente sparire”. La serie di questi continui omicidi continuava ancora a otto, dieci mesi di distanza dalla fine della guerra e ancora, i “becchini rossi” giravano impuniti, a caccia delle loro prede.
Giorgio sapeva bene che il rischio c’era, ad uscire per Modena, ma il desiderio di ritornare alla “normalità” da parte di un ragazzo di diciannove anni era altrettanto forte, oltretutto, in coscienza, sapeva di non aver mai commesso atti deprecabili, ma nello stesso tempo era bene a conoscenza che, per il solo fatto di avere indossato la camicia nera in quella brigata che adesso veniva demonizzata quale ricettacolo di delinquenti e covo di tutte le forme di perversione, era ancora da considerarsi come una condanna a morte.
Comunicò alla zia la sua intenzione di fare quella “scappatella”, e lei si fece quasi prendere dal panico e nello stesso tempo gli fece un sacco di raccomandazioni, sapendo bene che, cercare di “bloccarlo”, sarebbe stato un tentativo impossibile. Giorgio indossò un vecchio cappotto dello zio, così come si mise in testa un vecchio “Borsalino” ancora elegante e ben tenuto, con il bavero alzato uscì di casa per trovarsi in un attimo sotto il portico della Via Emilia in un orario, le tre e mezzo di un pomeriggio, fortunatamente per lui, molto nebbioso e umido.
Era la sua prima uscita, da “civile”, dalla fine della guerra e si meravigliò nel vedere le vetrine con parecchie novità, ma cercò di non soffermarsi troppo a lungo davanti a queste, allungò il passo per raggiungere il cinema Splendor che si trovava poco distante dal centro, dove aveva appena superato l’edicola della “Rosina”, luogo nel quale si soffermava frequentemente a guardare i giornali e le riviste esposte: aveva appunto letto che in quel cinema si stava programmando, in quei giorni, un film della nuova produzione italiana del dopoguerra intitolato: “La vita ricomincia”, con la partecipazione di alcuni attori già famosi nel periodo fascista, che Giorgio particolarmente amava quali, Fosco Giacchetti, Alida Valli, Eduardo De Filippo, Carlo Romano, e con la regia di Mario Mattoli.
Era quasi un anno che non entrava in una sala cinematografica, lui che amava moltissimo il cinema e che abitudinariamente frequentava le sale modenesi. Fu con una certa emozione che entrò in una delle sue sale preferite. Il titolo del film era un invito stimolante per la sua attuale situazione di “reduce-prigioniero”; si accinse pertanto ad entrare, dopo aver acquistato il biglietto, in quella sala fumosa e già abbastanza affollata, mentre stava per iniziare la seconda proiezione pomeridiana. Trovò una poltroncina libera in una delle ultime file, dove si accomodò lasciandosi scivolare il più possibile verso il basso, sempre con la preoccupazione di non farsi notare.
Il film raccontava la vicenda di un uomo che era partito per la guerra nel 1940 e che, dopo aver trascorso alcuni anni in un campo di prigionia inglese in India, era ritornato, alla fine del conflitto, finalmente, in Italia. Ritrova la moglie Patrizia e il figlio Sandrino e, come vicino di casa, un personaggio particolare, un professore di filosofia che commentava, con sarcasmo, le vicende attuali e quelle passate dell’Italia.
Sembrava un ritorno tranquillo alla normalità, ma dopo un po’ di tempo lo insospettisce lo strano comportamento della moglie. Infatti arriva il colpo di scena: la moglie viene arrestata con l’accusa di omicidio di un oscuro personaggio, potente e facoltoso. Effettivamente negli anni bui della guerra la moglie Patrizia si era concessa a quell’uomo onde aiutare il figlio gravemente ammalato che necessitava di cure molto costose che lei non poteva assolutamente permettersi.
Quest’uomo, quando la vide ritornare con il marito, cercò di riaverla minacciandola di rivelare tutto quello che c’era stato tra loro. I due amanti si trovano, in segreto, per un colloquio chiarificatore che si conclude, dopo una lite furibonda, con la morte dell’uomo.
La situazione familiare del reduce crolla, cerca ugualmente di aiutare la moglie che al processo viene assolta; a questo punto vorrebbe lasciarla, incapace di superare il tradimento subito, ma qui subentra il vicino di casa, il professore di filosofia, che durante un lungo colloquio lo convince a perdonare, onde cercare di ricostruire la famiglia. Il reduce si rende conto che questa è l’unica soluzione e il film termina con il gruppo a tavola che cerca di “ricominciare a vivere”.
Giorgio era rimasto inchiodato alla poltrona affascinato, e dal racconto e dalla recitazione della sua attrice preferita, in più si era totalmente immedesimato nella drammatica storia del reduce dicendosi che, in realtà, anche lui era un reduce della guerra devastante che aveva sconvolto il mondo anche se si sentiva ancora un perseguitato e non totalmente fuori da quell’incubo.
La vita però, si disse, anche per lui avrebbe dovuto ricominciare, sempre che non gli succeda di venire “pescato” dai “vampiri rossi”, assetati di sangue fascista.
Attese l’inizio della rappresentazione successiva dopo aver guardato il documentario e il cine giornale, e al buio si alzò per uscire, soddisfatto per aver ripreso la sua “vita normale” con la visione di un buon film di ottima fattura e bene interpretato malgrado la storia triste.
Si trovò, di nuovo, sulla Via Emilia, era già notte, in una dimensione, almeno per lui, nuova: le luci per le strade, le vetrine illuminate, era molto tempo che non le vedeva. La gente numerosa, come prima della guerra, sotto al Portico del Collegio che chiacchierava passeggiando, o conversava davanti al Caffè Nazionale, luogo di incontro, classico, per tanti modenesi.
Non si azzardò ad entrare perché, una delle ultime volte che vi “mise piede”, fu l’anno prima, ancora in piena guerra, quando, assieme a due colleghi fu inviato dal Comandante la sua compagnia, in quel sito, per procedere all’arresto di un sospetto di appartenere al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) modenese; era, più o meno, l’orario in cui vi si trovava in quel giorno, ma “tirò via” velocemente, con la paura che, entrando in quel locale, con molta probabilità qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo e chiamare “gli addetti ai lavori” al “repulisti” dei fascisti.
“Tirem innanz”, disse un personaggio dei primi tempi del secolo novecento e così fece Giorgio superando l’angolo, distrutto, del Portico del Collegio, ancora pieno di macerie dopo che venne centrato da una bomba americana nel Maggio 1944 al secondo grosso bombardamento su Modena, arrivando, in un attimo, nella vicina Via Università dove si trovò, guidato, quasi telepaticamente, davanti al GUF, il Bar frequentato per tanto tempo negli anni “giovanili” (quasi che adesso fosse vecchio), ma anche questo, al momento, era considerato “off limits”, poiché avrebbe trovato, entrando, amici del tempo passato o conoscenti che, forse, si sarebbero ricordati di quella volta che, con la sua pattuglia della Brigata Nera, davanti al bancone del bar, trovarono un “gagà”, un damerino azzimato, al quale “per sfregio”, tagliarono la cravatta, visto e considerato che tutti i suoi coetanei si stavano sacrificando sui fronti europei e questi “snob” perdevano il loro tempo a gironzolare per locali o a giocare a “boccette e a carambola” nelle sale che venivano frequentate dalla gioventù modenese in tempo di pace, quando la situazione era ben diversa dai momenti tragici della guerra civile e probabilmente, qualcuno, ricordandosi quei fatti, avrebbe potuto denunciarlo alla “solerte guardia rossa” che, con molta facilità avrebbe tagliato, anziché la cravatta, la testa al malcapitato fascista.
Accelerò pertanto il passo e, rasentando i muri, pensò bene di recarsi pochi metri più avanti, in Via Castellaro, in quel negozietto, prima di Piazza Grande, dove acquistò i “ciacci”, frittelle fatte con farina di castagne, che una volta gli piacevano tanto, oltre ad una fetta di zucca cotta, era il posto, molto frequentato anche quando era di pattuglia, dove si abbuffava di caldarroste, castagne, castagnacci e di “calzagatti”, quelli fritti, dei quali era sempre stato particolarmente goloso.

Andò, per “godersi in pace” il suo spuntino, sotto i portici dell’attiguo Palazzo Comunale, quando gli sovvenne che pochi metri più avanti vi era l’ingresso del Comune, diventato ormai la “sede” dei rossi, i nuovi padroni, e in quel posto avrebbe potuto facilmente incontrare qualcuno della “volante rossa” o della nuova polizia, sempre di quel colore, con la probabilità di essere riconosciuto; fece immediatamente “marcia indietro” e andò a consumare la sua “merenda” sotto al porticato del “baroccheggiante” Palazzo di Giustizia, prospiciente la Piazza Grande, da dove poteva godersi la visione della parte laterale del Duomo, sempre stupenda, seppure con un “bel buco” sopra alla Porta dei Principi a ricordo del passaggio dei “liberatori” il 13 Maggio 1944.
Era vicinissimo a casa e stava pensando di rientrare, ma ancora voleva assaporare qualche istante di libertà e gli sovvenne che, a poca distanza, dopo aver attraversato Piazza Venti Settembre, passando davanti al negozio dove era commessa la ragazza con la quale aveva “pomiciato” ai giardini pubblici, (probabilmente c’era ancora ma sarebbe andata a trovarla un'altra volta), si trovava quell’altra “casa” dove, al compimento dei diciotto anni, aveva fatto la sua prima “esperienza” e nella quale si era recato alcune volte. Qui, pensò, “probabilmente riuscirò a restare tranquillo per un po’ di tempo” e, contemporaneamente, potrò rinnovare quell’ ”esercizio” al quale manco ormai da tanto tempo.”
Si recò, senza altri ripensamenti nella vicina via Catecumeno e, al n. 9, si ritrovò in quello stanzone al piano terra dove, l’ultima volta, era entrato ancora con la divisa della brigata nera addosso e con il mitra sulle spalle, in compagnia dei suoi camerati.

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Mantenne in testa il suo “Borsalino"” e, con il bavero del cappotto sempre alzato, andò a sedersi in un divano d’angolo. Vi si trovavano, quella sera, parecchie persone, ma il “via vai”, per salire e scendere le scale da parte delle “coppiette”, era scarso. La “signora”, sembrò a Giorgio sempre quella del tempo passato, come al solito, invitava i clienti a salire in camera, le ragazze si sedevano e si alzavano in continuazione vicino agli uomini, “sculettando” o mostrando i seni, più o meno prosperosi, o facendo schioccare la lingua ripetutamente, con mosse “assai allusive”, ridendo e scherzando con questi, tra i quali, di tanto in tanto uno si alzava, dopo aver fatto la sua scelta, per salire in camera.
La “maitresse”, in continuazione, quasi come un disco rotto, sottolineava la “bravura” delle sue ragazze e declamava l’ “abilità” della “milanese” o della “napoletana” ma, in particolare, sottolineava l’avvenenza, reale ed evidente, oltre che la specialità, di una certa “arte”, della “bolognese”.
Questa si trovava vicina a due tipi che parlottavano fittamente tra loro e che, di tanto in tanto, guardavano, con una certa attenzione, nella direzione di Giorgio il quale, a un certo momento, vide venirgli incontro la “bellezza” decantata dalla signora che, con movimenti lenti ed invitanti, si era alzata dalla sua postazione per andare a prendergli le mani, sussurrandogli in un orecchio:
“presto, non dire niente, vieni con mè e seguimi senza preoccuparti”;
Nello stesso tempo la ragazza fece un cenno convenzionale alla “signora” che la ricambiò, facendole l’”occhiolino”, dimostrandole di aver capito tutto. Giorgio era rimasto colpito dalla bellezza e dalla procacità della “bolognese” e del suo modo di fare, si alzò immediatamente seguendola sulle scale sino al secondo piano dove entrarono in una stanza che gli sembrò molto più bella ed accogliente di quelle già visitate nel passato.
“Sono Luisa”, disse la ragazza, “Luisa Parenti Villani, tu, sei per caso Giorgio Campari?”
Giorgio rimase, a quel punto, molto perplesso, pensò immediatamente al peggio, oltre alle preoccupazioni che lo avevano tormentato tutto il pomeriggio:
“Sì, così mi chiamo, ma come fai a conoscere il mio nome?”
“Ora stai zitto, ascoltami solo, ti spiegherò tutto dopo” disse la ragazza.
“Ero seduta in sala, vicina a quei due soggetti i quali, quando ti hanno notato, si sono “dati di gomito” e, in dialetto, che per tua fortuna conosco bene, si sono detti:
“Vè Mario, vadet qual là cun al capel negher! Mè al cgnas. Le cal fascesta ed Giorgio Campari, l’e un ed la “brigata nera”, l’era un amig ed c’leter fascesta ca iam fat fora in via Cialdini.” (Guarda Mario, lo vedi quel tipo là con il capello nero. Io lo conosco. E’ quel fascista di Giorgio Campari, è uno della brigata nera, era un amico di quell’altro fascista che abbiamo ucciso in via Cialdini).
“Ma et proprio sicur”, (Ma sei proprio sicuro?) gli ha detto l’altro.
“Al cento per cento, am l’arcord bein, perché l’era qual c’al scriviva quand i m’an purtè in Academia per l’interugatori ch’i m’an fat, e per fortuna c’le fini bein, perché a iò ciapè sol dù sganasoun. Anzi c’al tip là, al m’à purtè anch’ un bicer d’acqua. Ma l’ò al scriviva sol”. (Al cento per cento, lo ricordo bene, perché era quello che scriveva quando mi hanno portato in Accademia per l’interrogatorio che mi hanno fatto e che per fortuna è finito bene, perché ho preso solamente due schiaffoni. Anzi quel tipo là, mi ha anche portato un bicchiere d’acqua. Ma lui scriveva solamente.) A quel punto il tizio che si chiamava Mario gli rispose:
“Alora dai c’al ciapam quand al vin forà dal casot e al purtam subet dal noster cmandant, Thompson, intant ag lasam fer l’ultma ciaveda, premà ed seplirel;.” (Allora dai che lo prendiamo quando esce dal casino e lo portiamo subito dal nostro comandante Thompson. Intanto gli lasciamo fare l’ultima scopata prima di metterlo sottoterra)
“Io, disse Luisa, conosco bene il dialetto e mi sono permessa di venire in aiuto a un camerata perché sono una ex ausiliaria e quei “porci” me ne hanno fatte passare di tutti i colori. Pertanto, e sono d’accordo con la “signora” che mi ha capita al volo, perché è sempre stata ideologicamente vicino a noi, per cercare di farti uscire da qui, dandoti tutto l’aiuto possibile.
Ora ti accompagno fuori, facendoti uscire dal cortiletto interno che porta sulla strada parallela a questa, in Via Scarpa e subito, attraversando via Canalino, arriviamo al primo portone di Via dei Servi, in un locale al secondo piano dove abbiamo un nostro appartamento riservato, qui ci sono due camere da letto ed è tenuto dalla cuoca della “nostra casa” che è una delle “nostre”, dato che è stata, durante il periodo della Repubblica Sociale, capo cuoca nel vicino ospedale militare in Via San Geminano, a poca distanza da dove ci troviamo, ed è stata epurata perché iscritta al Partito.
Andiamo subito, disse Luisa, che, dopo aver indossato un cappotto, accompagnò Giorgio fuori dalla stanza facendo a ritroso il percorso ma, anziché nella sala si trovarono nel cortile descritto e Giorgio, che a quel punto non era ancora riuscito a “spiccicare parola” si trovò, in brevissimo tempo nell’appartamentino dove trovarono la signora Ada, una donna senz’altro oltre i cinquanta anni, ma ancora ben portati, molto affabile e gentile che ricevette il ragazzo con cortesia, dimostrando subito grande disponibilità; dopo che Luisa raffigurò la situazione, dicendogli che si sarebbe potuto fermare e riposare in quel sito per quanto tempo voleva e, logicamente, almeno per quella notte.
Giorgio, che era ancora frastornato riuscì a dire qualcosa, ringraziò le due donne e, rivolgendosi a Luisa, le chiese un favore:
“Per piacere Luisa, ti prego di dare, quando puoi, un colpo di telefono a mio zio comunicandogli di non preoccuparsi del fatto che questa notte rimango a dormire fuori casa e che, senz’altro, rientrerò domani”.
Luisa prese il numero di telefono e lo rassicurò, dicendogli di stare tranquillo, che più tardi sarebbe ritornata per rimanere alcune ore con lui a raccontargli “alcune cose”. Si accomiatò da Giorgio dato che doveva, ovviamente, farsi vedere “al lavoro”, sia per rassicurare la “signora” che l’ ”operazione” era andata in porto, sia per controllare i “due sicari”.
Prima di entrare in sala si mise d’accordo con tre ”colleghe” le quali si misero a fare un po’ di “manfrina” davanti ai due “monatti”, in modo tale da permettere a Luisa di entrare in sala senza farsi vedere da loro e accomodarsi sul divano più distante. Quando questi si accorsero della presenza della “bolognese” si guardarono attorno alla ricerca di Giorgio e, non vedendolo, uno dei due si avvicinò a Luisa chiedendole sgarbatamente:
“dov’è andato il tizio che era salito in camera con tè?”
Lei, facendo finta di non aver sentito, si fece ripetere la domanda rispondendo tranquillamente:
“mi pare che sia appena uscito.”
Al che i due “ceffi” si precipitarono immediatamente all’esterno rimanendo, ovviamente, con un palmo di naso per essersi lasciati sfuggire la “preda”. Luisa passò ancora due ore buone nel suo “ambiente di lavoro”, poi, dopo essersi data una riassettata e ad aver indossato un abito abbastanza “castigato” si recò nella vicina Via dei Servi.
Trovò Giorgio che stava chiacchierando con la signora Ada Neviani la quale, da brava cuoca, aveva preparato una buona cenetta, graditissima al giovane che, inizialmente, si era sentito molto imbarazzato per essersi lasciato sorprendere, alla sua prima uscita, in una situazione alquanto delicata, tra persone sconosciute, in un ambiente “insolito”, oltre all’aver messo in difficoltà donne che avrebbero potuto incontrare, in seguito, problemi abbastanza gravi.
Andava, però, gradualmente “distendendosi” valutando, tra l’altro, che era stato molto fortunato e, quanto meno, il suo “stellone” o il suo “angelo custode” l’avevano ben protetto. Valutò inoltre che le perplessità avute in quei giorni si erano rivelate più che fondate, la situazione a Modena, non era ancora favorevole a quelli come lui dato che, “tirava una brutta aria”.
Quando Luisa arrivò, fece a Giorgio un bel sorriso mettendosi a sedere e versandosi subito un “dito” di “doppio Kummel” dalla bottiglia che Ada aveva messo sulla tavola nell’ intento di offrire al “giovanotto”, dopo la buona cenetta, il digestivo d’obbligo; adducendo poi la scusante di dover fare alcuni lavoretti, si ritirò nella sua stanza, lasciando soli i due.
Vi fu un attimo di silenzio, poi Luisa lo fissò a lungo e gli disse:
”immagino che anche tu avrai passato guai simili ai miei, non dirmi una sola parola di ringraziamento in quanto mi è parso logico, oltre che opportuno, che due camerati in difficoltà, debbano aiutarsi, se per loro è possibile, reciprocamente, e tu, in quei momenti, lo eri. Ho telefonato a tuo zio, ha capito subito la situazione e, malgrado nell’immediato fosse piuttosto preoccupato, si è ben rassicurato dopo le mie spiegazioni, dicendomi di consigliarti di muoverti da questo posto, per rientrare a casa, nelle prime ore del pomeriggio di domani prestando, ovviamente, molta attenzione.”
“Ti ringrazio ugualmente”, disse Giorgio, “per tutto quello che state facendo per me e a questo punto, visto che siamo qui ben rilassati, fumiamoci anche una sigaretta, però devi raccontare subito qualcosa di te, e come mai ti trovi in quella casa, sempre che tu te la senta. Io sono stato prigioniero a Coltano, dopo che gli americani ci presero, con i camerati della Brigata Nera, modenese, poi avrò modo di raccontarti le mie “disavventure”, ma adesso che ti guardo bene, mi pare, e credo di non sbagliarmi, di averti notata, dato che lo sai di essere molto bella, come lo eri anche quel giorno di Marzo dello scorso anno, alla caserma della GNR di Mirandola, assieme alle altre ausiliarie, presenti all’incontro che abbiamo avuto per una cerimonia ufficiale avvenuta in quei locali, e che, purtroppo non poté prolungarsi più di tanto, dal momento che, nelle primissime ore del pomeriggio, inviarono il nostro reparto a partecipare ad un rastrellamento, nella vicina Concordia, dopo che i partigiani avevano ucciso, in un agguato, tre dei nostri camerati”.
“Ecco allora dove ci siamo visti”, disse Luisa, “ti avevo notato anch’io e prima, quando ti ho visto in sala, anche se avevi il cappello in testa e il bavero del cappotto alzato mi sono detta: “io quella faccia lì l’ho già vista da qualche parte”. In ogni caso stai tranquillo che i due “banditi” che ti volevano “prelevare” per, probabilmente, farti fare la fine di tanti dei “nostri”, sono stati “dirottati” per altri lidi e, di certo, non potranno restare a lungo in giro per Modena a cercarti, ma naturalmente, questa notte, per maggiore sicurezza, resti a dormire nella stanza qui a fianco dove, qualche volta, io e la signora Matilde, la “tenutaria” della casa, veniamo a distrarci e a riposarci un po’, fuori da quelle “camere”. Di lei, ti assicuro, puoi completamente fidarti poiché il suo uomo, che attualmente si è rifugiato in Spagna, era un grosso esponente del Fascio e lei ne era, e lo è ancora, l’ amante; lui vorrebbe farla trasferire a Madrid, come mi ha confidato, ma non si sente ancora pronta a compiere quel passo, così come devi stare tranquillo per la signora Ada, come detto, anche lei della nostra idea.

Giorgio la guardava estasiato e sempre più affascinato da quella giovane donna, di una bellezza fuori dal comune, capelli corvini lunghi e fluenti, occhi grandi, neri e mobilissimi, una pelle bianca e liscia come porcellana e, vista così, in casa, con un semplice abito della quotidianità al posto dei veli e dei lustrini, senza l’abbondante rossetto sulla labbra carnose e sensuali, come invece le era apparsa solamente qualche ora prima, si faceva vedere come una di quelle bellezze, acqua e sapone, che apparivano sulle riviste tipo “Grandi Firme” o Annabella”.
“Come ti ho detto,” proseguì lei, “mi chiamo Luisa, Luisa Parenti, ma attualmente Luisella Villani, sono nata a Bologna, dove ho abitato sino al primo pesantissimo bombardamento anglo americano, che costò alla mia città migliaia di morti e che distrusse anche la nostra casa in Via Galliera, dalle parti della stazione Centrale e dei Giardini Margherita. Qui frequentavo la seconda classe al Liceo Classico “Marco Minghetti”, poi ci trasferimmo, con le poche cose salvate e tirate fuori dalle macerie, fortunatamente ci salvammo tutti poiché nessuno della famiglia si trovava in casa, in un appartamento presso dei parenti che abitano a Mirandola, dove mi iscrissi presso il locale Liceo “Pico” nel quale, tra l’altro, vi insegnava la moglie di mio zio”.
“Ah”, fece Giorgio “siamo dunque coetanei e con la stessa carriera scolastica alle spalle, anch’io frequentavo, e spero ancora di potermi iscrivere, all’inizio del prossimo anno scolastico, all’ultimo anno del Liceo Muratori qui a Modena, per poter frequentare subito dopo l’Università. Ma tu, poi, cos’hai combinato?”.
“In casa mia”, proseguì Luisa, “ho avuto una educazione improntata ai classici schemi del fascismo, con una impostazione tipica di una borghesia non ricca, ma ugualmente benestante, legata alle motivazioni lanciate dal regime ma senza alcuna “fanatizzazione” come invece molti, vi si erano dedicati durante il “ventennio”; sia mamma che papà sono stati iscritti al partito e si frequentavano alcune istituzioni tipiche, create in quel periodo.
Al termine del penultimo anno del Liceo, quando anch’io avrei dovuto frequentare il terzo anno, avendo saputo che era stato istituito il Corpo delle Ausiliarie e ritenendo che anche noi ragazze dovevamo cercare di contribuire ai destini della Patria, mi sono sentita in dovere di partecipare alla lotta immane che tutti i nostri coetanei maschi andavano combattendo sul nostro territorio, invaso e devastato dal nemico. Avevo ricevuto un’educazione cattolica e tradizionalista, seppure non bigotta, che si coniugava bene con tutto quello che mi avevano insegnato nelle scuole fasciste e, “Credere, Obbedire e Combattere” era diventato il mio motto al quale mi sono totalmente dedicata.
Mi sono arruolata, nel mese di Ottobre, dopo aver trascorso un estate tranquilla a casa di miei zii in Liguria a Lerici, e la definitiva causa che mi fece prendere quella decisione fu la notizia della consegna della medaglia d’oro, alla memoria, ad una ausiliaria, Franca Barbier uccisa dai partigiani il 25 Luglio del 1944 a Champorcher, in Val d’Aosta, con una motivazione che mi fece piangere calde lacrime, in quanto i ”banditi”, prima di fucilarla le chiesero di passare “armi e bagagli” con loro per fare l’informatrice, ma lei si rifiutò sdegnosamente urlando “Viva l’’Italia”, prima di cadere falciata da una spietata scarica di mitra.
Dal 5 Novembre, sino a pochi giorni prima di Natale, ho partecipato al corso di addestramento, denominato, “Giovinezza” a Como. Eravamo tutte ragazze giovanissime; io avevo compiuto diciotto anni da pochi giorni, e tante delle mie colleghe avevano solamente diciasette anni, ma tutte eravamo spinte da un entusiasmo e da una fede assoluta, pronte anche al sacrificio supremo, in quanto sapevamo già di qualche camerata, che aveva partecipato ai corsi precedenti al nostro, uccisa e di tante che venivano perseguitate dai “ribelli”, di conseguenza eravamo bene al corrente a cosa andavamo incontro.
Fui aggregata, con molte delle mie colleghe del corso di Como, alla Brigata Nera milanese “Aldo Resega” dove abbiamo prestato servizio in vari settori, ma ricordo con particolare entusiasmo il giorno 18 Dicembre, quando il nostro corso prestò giuramento, assieme ad altri reparti, al Duce e alla Repubblica Sociale Italiana al Castello Sforzesco a Milano durante le tre giornate entusiasmanti della visita di Mussolini.”
“Ah”, disse Giorgio, “c’ero anch’io al Lirico e in giro per Milano in quei giorni, come vedi un'altra circostanza ci accomuna, oltre all’incontro fortuito a Mirandola”; a questo punto volle fare una battuta:
“ci fanno avvicinare tre M, forse in ricordo del nostro amato Mussolini, Mirandola, Modena e Milano”.
Luisa abbozzò un sorriso e continuò a descrivere, per sommi capi, il periodo da lei trascorso a Milano narrando anche dei particolari di quando soccorse alcuni feriti, durante un mitragliamento aereo, nel quale, per poco, non venne colpita anche lei.
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“Dove ti sei trovata nei giorni attorno al 25 Aprile quando tutto stava crollando?”, chiese ancora alla ragazza la quale, si era accorto, aveva un gran desiderio di parlare e di sfogarsi con qualcuno dei “suoi”.
“Mi trovavo ancora a Como la mattina del 18 Aprile, nei locali del Comando delle Ausiliarie in Via Zezio, assieme alla nostra Comandante, Piera Gatteschi Fondelli, dopo che Alessandro Pavolini aveva assistito al giuramento delle ausiliarie dell’ultimo corso di addestramento, denominato “18 Aprile”, durante il quale aveva appuntato i gladi sui baveri delle ragazze schierate e felici di aver terminato il loro corso, ma ignare che stavano andando incontro, in tante, alla morte, senza nemmeno aver preso parte ad un giorno di lotta.
La guerra stava terminando, lo stesso Pavolini aveva messo in guardia la Comandante, consigliandola di cercare di fare tutto il possibile per mettere in salvo le ragazze e bruciare tutti i documenti. Poi, un gruppo di noi seguì il Prefetto Renato Celio e il Federale di Como, Paolo Porta e ci recammo a Milano; ormai avevamo saputo che il fronte aveva ceduto e che gli angloamericani stavano dilagando nella Pianura Padana, e qui si pensava potessero riunirsi tutti i reparti per dirigersi verso il famoso ridotto della Valtellina del quale, negli ultimi tempi, tanto si era parlato, ci sistemarono in un Ospedale Militare e molte ragazze, quelle appena uscite dall’ultimo corso, furono immesse come infermiere a disposizione di quella struttura.
Ritornammo in caserma dove la maggioranza delle giovani venne consegnata, con lo scopo di trattenerle lì, poiché il ritorno alle proprie case, in forma individuale, avrebbe significato morte certa.
Veramente ormai regnava il caos; io mi recai con una pattuglia in Prefettura dove trovammo Mussolini che stava partendo, mentre Pavolini gli urlava di “non andare”; poi altre auto, dove si trovavano i gerarchi, lo seguirono, assieme ad automezzi tedeschi; vi era da parte di molti, compreso il prefetto, la sensazione che, in considerazione del grosso concentramento di forze armate in Milano, a breve avrebbe potuto verificarsi un bombardamento aereo di quelli molto pesanti. Circolavano le voci più assurde, come il grosso raggruppamento di forze partigiane alle periferia della città e molti parlavano di tradimento tedesco; eravamo a questo punto al “si salvi chi può” e ciascuna di noi, doveva valutare, in tutta fretta, cosa fare e “a quale santo votarsi”.
Mi trovai, con altre tre ragazze della mia squadra, una delle quali aveva un recapito in città, a suo dire abbastanza sicuro, così decidemmo di recarci in quel sito che, tra l’altro, era abbastanza vicino alla Prefettura.
In quell’appartamento restammo alcuni giorni dopo esserci messe in abiti borghesi trovati dalla nostra collega milanese da alcune sue amiche, quando il 28 Aprile, nel pomeriggio, dalla radio, apprendiamo della fucilazione di Mussolini e degli altri gerarchi sul lago di Como.
Eravamo tutte e quattro avvilite, ci scendevano le lacrime agli occhi, prese da uno sconforto indicibile. Un amica della nostra camerata milanese riuscì a farci mettere in contatto con l’organizzazione dell’assistenza Pontificia di Milano che in quei giorni cercava di aiutare i fascisti, facendo trovar loro i lasciapassare, rilasciati dai comandi del CLN, per far si che molti sbandati, gradualmente, potessero tornare alle loro case, senza troppi ostacoli.
Dopo quattro o cinque giorni riuscimmo ad ottenere tre lasciapassare, per me, per l’amica Giulietta di Bologna e per Franca, originaria di Ravenna. Il giorno 4 Maggio, trovammo un mezzo che, ci dissero, sarebbe arrivato sino a Mantova poi, da quella città avremmo dovuto provvedere per conto nostro, pur avendoci dato un riferimento che da quel posto, o alla sera o il giorno dopo, sarebbe dovuto partire, per l’Emilia Romagna, un mezzo della Pontificia Commissione di assistenza, proveniente da Brescia.
Decidemmo di correre il rischio di partire, convinte che i nostri lasciapassare ci mettessero nella condizione di viaggiare tranquille. Ci abbracciammo con la nostra collega milanese che aveva deciso di restare rinchiusa per un po’ di tempo nella sua città e, da Piazzale Cordusio, abbiamo intrapreso il viaggio, assieme ad altri “disperati” tutti fiduciosi di arrivare, al più presto, alle rispettive famiglie.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo, una serie di soste a Lodi, a Cremona, quelle che ricordo, dove ai posti di blocco ci venivano controllati i documenti e tutto filò liscio sino a Mantova dove, in una piazza vicino al lago, siamo rimasti quattro o cinque ore in attesa del camion che raccolse otto dieci del nostro gruppo, comprese noi tre, che avremmo dovuto raggiungere, prima Modena, poi Bologna e Ravenna.
Dopo aver attraversato, avventurosamente, su di un ponte di barche, il Pò, entrammo in una zona di controlli più severi e “cattivi”. Già al primo, subito dopo San Benedetto ci tennero fermi più di un ora e vennero fatti scendere in tre, per essere portati al comando partigiano di quel paese per maggiori accertamenti; cominciammo a preoccuparci, anche perché i tre non rientrarono e il camion venne fatto ripartire, malgrado alcuni di questi “nuovi poliziotti” volessero farci scendere tutti. Altro veloce controllo a Moglia poi, entrati in Provincia di Modena, a Novi ulteriore posto di blocco, quì ci fecero scendere con modi bruschi e violenti e, dopo avere preso a tutti i permessi, li trattennero e, anziché farci proseguire per Carpi, ci dirottarono nella vicina Concordia dove un altro gruppo di partigiani ci prese “sotto controllo” poi ci accusarono di essere tutti delle, ”sporche spie fasciste”, pertanto ci avrebbero portati alle carceri di Mirandola per ulteriori accertamenti.
Io cominciai a preoccuparmi e non poco, a Mirandola mi conoscevano, mi avevano visto, spesso e volentieri, anche in divisa da ausiliaria, nello stesso tempo speravo di poter avere la possibilità di contattare i miei, colà sfollati presso parenti, ma su questo non avevo troppa fiducia, visto e considerato come ci stavano trattando. Scendemmo alla ex caserma della Gnr, in via Pico, luogo da me ben conosciuto, e subito “sbattuti” nelle celle dove trovammo tanti fascisti del posto, ma con i quali non avemmo, né la voglia, né la forza, di scambiare “quattro chiacchiere”, visto che eravamo tutti distrutti dopo un viaggio massacrante come quello che avevamo appena terminato.
Ci lasciarono tutti assieme, maschi e femmine in alcuni stanzoni con davanti alle porte alcuni di “loro” armati di mitra e di bombe a mano alla cintura. Il tanfo in quel luogo era insopportabile, vi era chi, costretto da necessità improrogabili, urinava o defecava nella stanza, senza alcun ritegno, alcuni di quelli che trovammo lì dentro vi erano stati rinchiusi da parecchi giorni; quasi tutti avevano volti tumefatti, segno di continue percosse, emaciati per non aver avuto cibo e in un angolo vi era un secchio con un mestolo che serviva per “abbeverare” i reclusi.
Di tanto in tanto entrava uno dei partigiani di guardia, si avvicinava ad uno dei poveri disgraziati, lo chiamava per nome poi, con il calcio del fucile o del mitra, gli sferrava un colpo violentissimo in faccia dicendogli:
“Ti ricordi di quando andavi in giro a fare i rastrellamenti?. Per adesso beccati questo che domani ti dovrai scavare la fossa da solo perciò ti deve rimanere un po’ di energia.”
E dopo poco toccava ad un altro. Noi tre ci eravamo rifugiate in un angolo tutte abbracciate, quando due di questi “ceffi” si avvicinarono e trascinandoci per i capelli, ci portarono al centro della stanza:
“eccole qua, tre puttane fasciste, cosa eravate, ausiliarie?, quali servizi facevate ai vostri camerati?” cominciarono a darci una serie di schiaffi che ci fecero cadere per terra, mentre loro, con grida e calci, ci urlavano di rialzarci per picchiarci ancora, quando improvvisamente entrò un tizio, assieme ad altri tre, che molto probabilmente era il capo della “banda”, dal momento che i nostri “picchiatori” si fermarono e lui si limitò a dire che dovevano smetterla e non picchiarci più, poiché il giorno dopo avrebbero dovuto portarci a Modena per un interrogatorio, in quanto eravamo in possesso di un permesso del CLN lombardo e non si dovevano commettere errori di sorta, anzi ci chiese scusa per il trattamento che ci avevano riservato quei “zoticoni” facendoli uscire immediatamente dal carcere.”

Giorgio la lasciò sfogare e si rese conto che la parte più “pesante della storia” di quella ragazza, non era ancora arrivata:
“ma allora i lasciapassare che vi avevano rilasciato i comandi del CLN lombardo non sono serviti a niente”, rilanciò il ragazzo.
“Proprio così” continuò Luisa, “ci dissero che erano carta straccia e che tutti noi, maschi e femmine, eravamo solamente degli “sporchi fascisti” ai quali erano venuti in aiuto i preti e il Vaticano, ma che presto, anche gli “scarafaggi” con la sottana, sarebbero stati completamente annientati, come stavano facendo con i fascisti. A quel punto ci rendemmo conto che la nostra sorte era ormai segnata e nessuno sarebbe venuto in nostro aiuto.
Passammo tutto il giorno in quel luogo, sempre più maleodorante, senza avere il conforto di un pezzo di pane, con la possibilità di bagnarci solamente le labbra, poiché nel secchio era rimasto praticamente un solo mestolo d’acqua che non serviva a dissetare tutta quella gente distrutta, nel fisico e nel morale.
Imparammo a conoscerci e a raccontarci le provenienze, quali erano i nostri reparti e come eravamo caduti e cadute, nelle mani dei partigiani. Dopo aver trascorso una notte terrificante, senza la possibilità di riposarci, dato che, dal locale vicino a quello dove eravamo stipati, provenivano delle urla bestiali e i lamenti dei poveri disgraziati che venivano torturati e sottoposti a sevizie incredibili, i partigiani cercavano di appurare l’appartenenza a quali formazioni fasciste facessero parte i prigionieri, ma era solamente il sadismo di questi personaggi che si scatenava su di noi.
Il mattino dopo, era il 9 Maggio, ci misero in disparte in una decina, confermandoci che avevano ricevuto l’ordine dal CLN di trasportarci a Modena per essere sottoposti ad indagini accurate tendenti ad accertare nostre eventuali responsabilità e sulla nostra posizione durante il periodo della RSI.
Ci caricarono su di un camion, appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana di Mirandola, al quale avevano cancellato grossolanamente le sigle e i fasci che ancora si vedevano bene; eravamo accompagnati da sei “scagnozzi” che, senza tanti complimenti, usando su di noi, violentemente, il calcio del fucile, ci intimarono di restare in silenzio dopo che ci ebbero legate le mani con del filo di ferro.
Eravamo, di quel gruppo, noi tre ragazze provenienti da Milano, io e, come ti ho detto, le altre due ausiliarie, la bolognese Giulietta Minardi e la ravennate Franca Bongiovanni; compagni di sventura, si trovarono con noi: il maggiore della GNR Ettore Tabacchi di sessantadue anni, personaggio abbastanza noto a Mirandola, con il figlio Fernando Tabacchi, anche lui milite della Guardia, era pure presente un altro “pezzo grosso”, il colonnello, sempre della Gnr di Mirandola, di cinquanta anni, Mario Cecchi, oltre ai tenenti, di quel reparto, Domenico Patrinieri, di trentadue anni e Claudio Spezzani, di anni ventidue.
Salirono sul mezzo anche due nostre colleghe del posto, le ausiliare, Giulia Castellini, di quaranta anni e Gina Malagoli, di ventitre anni. Eravamo dunque, cinque donne e cinque uomini. La nostra speranza era quella che ci portassero veramente al Comando superiore del CLN provinciale, visto e considerato che erano presenti alcuni personaggi di spicco della caserma di Mirandola.
Ci accompagnavano sei partigiani seduti sul cassone con noi e due in cabina di guida, armatissimi e con modi di fare duri e sprezzanti nei nostri riguardi. Li comandava, al momento conoscemmo i soli nomi di battaglia con i quali si chiamavano l’uno con l’altro, ma in seguito, purtroppo, imparai anche le vere generalità di ciascuno di loro, un certo “Bill”, poi, in successione, sul camion, assieme ai prigionieri, si accomodarono: “Ultimo”, “Basco”, “Poldo”, “Raffica”, “Balilla” e, in cabina di guida, “Vladimiro” e “Cartuccia”.
Il Camion s’avviò, prendendo la strada Statale Abetone - Brennero, chiamata Canaletto, diretto verso Modena quando, giunti in località San Prospero, ce ne accorgemmo dopo poco, deviò a destra prendendo una strada dissestata che ci portò, dopo un breve tragitto e dopo aver superato un piccolo borgo, denominato San Martino, vicino all’argine di un fiume, che quelli del posto dissero chiamarsi “Secchia”, nessuno capiva del perché di quella deviazione, quando improvvisamente il loro capo, Bill, ci ordinò di scendere con “male parole” dicendo che il viaggio era terminato.
Una volta a terra ci rendemmo conto che la nostra sorte era segnata; eravamo tutti diventati di un colore terreo e sui nostri volti era disegnato letteralmente il terrore. Ci guardammo attorno, il posto era completamente deserto, non si vedevano case nelle vicinanze, solamente filari di pioppi e l’argine del fiume; era una bella giornata, il sole, malgrado fosse ancora prima mattina, era già alto, una leggera nebbiolina all’orizzonte, sui campi di grano e di erba medica, dava la sensazione che ci avessero portato a fare una scampagnata, mancavano solamente gli approvvigionamenti e le coperte da stendere sull’erba per fare uno spuntino, o le reticelle per andare a caccia di farfalle; ma l’atmosfera non era assolutamente “bucolica”, tutt’altro: gli otto “energumeni” si schierarono con i mitra e con i fucili spianati, tutt’intorno a noi che ci eravamo raggruppati, stringendoci gli uni alle altre.
Il “comandante” Bill e i suoi “sgherri” ci costrinsero a salire e poi a scendere dall’argine, arrivammo così sulla riva del fiume dove scorreva, lentamente, il corso d’acqua, chiara ed invitante per poterci fare una bella gita in barca, come mi era capitato, nel passato, assieme ad amiche ed amici, quando frequentavo il Liceo a Mirandola e si andavano a fare lunghi giri in bicicletta sul fiume Po’ e, penso, sempre su quelle acque, ma in un punto diverso, si facevano percorsi su di una barca a remi arrivando tante volte sino ad una zona dove vi era il rimessaggio di barche da canottaggio sulle quali, spesso, i ragazzi ingaggiavano delle competizioni accanite poi, allora, si facevano veramente le merende sull’erba. Ma la situazione quella mattina non era così idilliaca. A un certo momento il “bruto” iniziò una “concione” in lingua italiana, la cosa mi sembrò strana poiché li avevo sentiti parlare solamente in dialetto, infarcita di “strafalcioni” ma molto chiara nella sostanza.
Quelli della sua squadra avevano deciso di formare “un tribunale del popolo” che ci avrebbe giudicato, senza bisogno di portarci sino a Modena da quelli del Comitato di Liberazione, in quanto la guerra partigiana l’avevano fatta loro e il “regolamento dei conti” con le “carogne fasciste” l’avrebbero fatto i “veri combattenti della resistenza” e non quelli che erano rimasti dietro le scrivanie e negli uffici in città; a quel punto ci accusò di essere tutti delle “spie” e dei “collaborazionisti” del tedesco invasore, pertanto venivamo condannati a morte; la sentenza sarebbe avvenuta in quel luogo, per mano degli stessi “giudici” presenti che si dichiararono favorevoli al giudizio dato dal loro comandante.
Tutti noi ci mettemmo a urlare, più o meno forte, accusandoli di non essere stati alle regole, che era un arbitrio, un sopruso, dovevano portarci davanti ad un vero tribunale, nel frattempo sempre spingendoci con i fucili, con rabbia e con violenza tale da lasciare i segni sui nostri corpi, già martoriati, ci separarono, maschi da una parte e femmine a una decina di metri di distanza: e qui, caro Giorgio, mi sono trovata al centro di una scena orrenda ed allucinante: agli uomini furonop date in mano due vanghe e due badili, e furono costretti dai “rossi” a scavare due grandi buche; uno dei due tenenti, Domenico Paltrinieri, ebbe un gesto di ribellione e si scaglio con la vanga contro uno dei partigiani che, vista quella reazione, immediatamente gli scaricò addosso una raffica di mitra che lo lasciò a terra in un lago di sangue.
Tutti gli altri puntarono i fucili contro i quattro uomini superstiti che rimasero completamente “traumatizzati”, cosi come lo fummo noi ragazze: ma Bill, sempre urlando, obligò agli uomini di continuare a scavare e contemporaneamente ordinò a tre dei “suoi”, di spogliare tre di noi: e di prenderci a piacimento; vennero subito denudate e gettate sul greto del fiume le due ausiliare, Giulia Castellini e Gina Malagoli oltre ad una delle mie amiche, Franca Bongiovanni che cercò di scappare, ma con una violentissima strattonata, venne gettata brutalmente a terra.

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 La sottoscritta invece, fu presa da Bill per un braccio e spostata da una parte, mentre il capo partigiano urlava:
“Quasta chè, am la tagn per mè, vueter fev tottì che gli etri, e tott quant”. (Questa la tengo per mè, voi fatevi pure tutte le altre e fatelo tutti).
Tieni presente che io non avevo mai toccato, neppure baciato, un uomo e non conoscevo ancora niente del sesso, se non solamente qualche “discorsetto” fattomi da un’amica più “navigata”.
La scena era allucinante, nel frattempo, altri due uomini, il giovane figlio del maggiore Tabacchi, Fernando e, il colonnello Mario Cecchi, vennero fatti inginocchiare e due dei “sicari” estrassero due grosse pistole, probabilmente tedesche, mi ricordavo di averle viste nelle mani di questi, e le puntarono alla nuca dei disgraziati, sentii due colpi in rapida successione e vidi raggomitolarsi a terra, senza vita, i loro corpi; mi sembrava tutto così irreale che non riuscivo, ad emettere alcun suono, e non avevo alcuna sensazione dentro di me, il mio cervello era completamente bloccato, tanto meno avevo le lacrime agli occhi, che erano completamente asciutti e apertissimi a guardare quel sangue, quei corpi nudi, quei gesti sconci, quelle frasi sguaiate, quelle urla strazianti, sia dei ragazzi che delle ragazze, prese da più di una di quelle belve assetate di sangue e completamente “infoiate”; le buche poco profonde ma abbastanza ampie erano state quasi completate, quando anche gli altri furono fatti inginocchiare.
Io guardavo in particolare l’espressione del maggiore Ettore Tabacchi che aveva visto uccidere il figlio, poco prima, mi parve sereno e probabilmente stava dicendo con se stesso che finalmente si sarebbe ricongiunto con Fernando e così fu.
Anche per lui il colpo alla nuca, così come, rapidamente, altri due “vampiri rossi” uccisero il giovane Claudio Spezzani e la mia collega Giulietta Minardi, dopo che era stata presa, più volte, sotto ai miei occhi.
A quel punto subii la stessa sorte. Bill, mi strappò il vestito e le mutandine, mi scagliò violentemente al suolo e lì mi prese con una rabbia tale che io non feci altro che cacciare due urla disumane, per poi zittirmi completamente sino a che non ebbe concluso, mentre ero rimasta ad occhi chiusi a subire quell’affronto che non dimenticherò mai, non solamente per quello che era stato fatto a me, ma per la scena orrenda alla quale mi era toccato assistere, con lo strazio totale di tutti quei corpi.
Avevo visto brutte cose durante i mesi della guerra, corpi straziati dalle bombe, fucilazioni, prepotenze, ma una “cosa”, talmente devastante mai; non avrei assolutamente potuto pensare che l’uomo potesse arrivare a tali bassezze e a esprimere la violenza in modo così “bestiale”. Fu in quel momento che mi dissi e giurai con me stessa: “se sopravvivo”, questi, “prima o poi”, la pagheranno cara.
Calò sul posto un silenzio assordante, ero rimasta solamente io con quel gruppo di assassini e stupratori: poi Bill si rivolse ai “compagni” dicendo loro:
“finiamo di sotterrare questi cadaveri e, se siete d’accordo, questa “bella puttanella fascista” la teniamo in vita, così ce la “godiamo per un po’ di tempo”; “a la purtam a cà di Trebbi dove a g’am tgnu, cla bela figa, come l’as ciameva? ah, am’arcord, l’Irma, c’as la sam fata tott, per quesi quendes gioren e po’ a l’am seplida”.
(la portiamo alla casa dei Trebbi, dove ci abbiamo tenuto, quella bella ragazza, come si chiamava, ah, ecco mi ricordo, l’Irma, che ce la siamo goduta tutti per quasi quindici giorni e poi l’abbiamo sepolta).
Sentendo quelle parole, pur frastornata com’ero, non potei non farmi venire in mente, ciò che ci diceva la nostra insegnante di lettere al Liceo, commentando la grande poetessa americana Emily Dickinson, la quale affermava che c'è un limite alla sopportabilità del dolore e dell'angoscia, una difesa che scatta in modo naturale quando questo limite è ormai superato. Ma l'aggiramento dell'angoscia, lo sfuggire a un eccesso di dolore è un processo molto labile, bisogna trattenere il respiro, non pronunciare parola, altrimenti vincerebbe il prorompere di quell'angoscia che stiamo cercando di esorcizzare.
Mi ero innamorata di quella poetessa; e ora mi trovavo in una situazione di attesa e di sospensione tra la vita e la morte, morte che aveva falciato tutte quelle vite attorno a me, e mi sovvenne quel volto di granito della stessa, che diventa esempio da imitare, un silenzio che supera il potere della parola come diceva la sua poesia che, stranamente, in quel frangente riuscii a declamare a me stessa:

Dai un po' d'Angoscia,
I vivi si logoreranno
Danne Valanghe,
E l'aggireranno
Raddrizzandosi - cercando cauti il respiro
Ma non diranno sillaba, come la Morte -
Che mostra solo il suo volto di Granito
Qualcosa di più sublime - della Parola.

Intanto i “becchini” finirono di coprire con la terra, tutto quello scempio, pensai a quanto tempo avrebbero potuto restare coperti quei poveri resti, poi o il fiume o la pioggia avrebbe scoperto tutto, cercai di mettermi in testa una “piantina” virtuale della zona poiché, un domani, nel caso il destino avesse voluto aiutarmi, avrei potuto ritrovare quel “sito”, onde far sì di riportare ai parenti, quello che si sarebbe potuto ritrovare, delle mie camerate e degli altri fascisti uccisi, in modo così orripilante.
Mi gettarono addosso un sacco di tela greggia, che si trovava sul camion, dopo averci tagliato con un pugnale appuntito e affilatissimo, tre fori per la testa e le braccia e, dopo avermi letteralmente buttata come un sacco di spazzatura sul cassone, salirono tutti e ripartimmo da quel posto maledetto, per raggiungere, in circa dieci minuti, una casa di campagna isolata, dove trovammo un gruppo di contadini che ci venne incontro. Dopo che eravamo tutti scesi, chiesero al comandante Bill, cos’era successo, come mai erano ritornati al loro casolare e chi era quella “cosa” ricoperta di un sacco, che avevano con loro. Questi, si rivolse al tipo più anziano:

“Vè Tonino, a n’avam fat fora soquant ed chi fascesta merz e c’a iam sepli, luntan, in dal Sacià, e quasta chè a la tgnam in dal cius o in dla stala, come a iam fat cun cl’etra, a m’arcmand c’lan dev menga scaper, intant se i to fio i la volen ciaver is polen tirer zò el bregh e fer qual chi volen, nuater quand a g’avram voia ed fersla arivam chè a deregh du colp.”
(Guarda Tonino ne abbiamo uccisi un po’ di quei fascisti marci, che poi abbiamo sepolto, lontano da qui, sul fiume Secchia e questa ragazza la teniamo chiusa o nel posto per i maiali o nella stalla, come abbiamo fatto con l’altra e mi raccomando, non lasciatevela scappare. Intanto se i tuoi figli se la vogliano prendere si possono abbassare i pantaloni e fare tutto quello che desiderano, noi quando avremo voglia di “farcela” arriviamo qui a darci due colpi.”)
Tonino Trebbi, che era il capo di quella famiglia disse che andava bene, anche perché non era “indicato” contrastare l’opinione di quei “soggetti” che non andavano tanto per il sottile, oltre tutto la sua famiglia era considerata una famiglia di antifascisti, poi gli avevano ucciso un figlio, a Carpi, in una rappresaglia assieme ad altri partigiani del posto, solamente qualche mese prima. Difatti, saltò fuori una ragazza che si scaglio immediatamente contro di me urlando:
“sporca carogna fascista, avete ucciso mio marito, adesso ci penso io a sistemarti, brutta puttana, sono rimasta vedova, con un bambino nato da poco che non ha potuto conoscere suo padre che, quando è morto, aveva solamente ventitrè anni.”
Contemporaneamente, con le sue mani ruvide e pesanti, da contadina avvezza ai lavori dei campi, mi rifilò quattro ceffoni che mi lasciarono sulle guance il segno, per alcuni giorni:
“Cesira, a m’arcmand, stà bouna almeno per soquant dè adesa ic peinsen sti zuvnot che, a deregh la giosta punizioun e is stosen na bela sudisfazioun, vest cla per anch na bela figa, e po’ magari, arivarà al to turen.”
(“Cesira, mi raccomando, stai buona almeno per un po’ di tempo, al momento ci pensano questi “giovanotti” a darle la giusta punizione, prendendone anche una bella soddisfazione, visto e considerato che sembra una bella donna, poi magari arriverà il tuo turno”).
Cesira Losi, sposata a Battista Trebbi da poco più di un anno, aveva avuto un bambino da pochi mesi, si scagliò di nuovo contro la sottoscritta urlandomi in faccia:
"sicur, a voi c’am la mitidi in del me man quand ai avri fini ed ciaverla, acs’è ag far paser la voia a sta troia che, al cuntrari ed me ch’i man mazè al me am, le la sin pol fer, tott i dè, quant al nin vol”.
(“sicuro, voglio che la mettiate nelle mie mani quando avrete finito di scoparvela, così le farò passare la voglia a questa troia, che al contrario di me, che mi hanno ucciso il mio uomo, lei se ne può “fare” tutti i giorni, quanti ne vuole.”)

Rimasero zitti, sino a quel momento, i due figli di Tonino Trebbi, Arturo di venticinque anni e Manlio di venti, mentre assistevano da una certa distanza, vicini alla casa, la moglie Antonia Parenti di circa cinquanta anni, e il vecchio padre di Tonino, Zelindo Trebbi, che di anni ne aveva quasi ottanta. Queste informazioni le ebbi, man mano, in tutti i giorni che rimasi prigioniera in quella “graziosa casetta.”
Subito dopo i due fratelli Trebbi si preso ”cura”, si fa per dire, della mia persona, si consultarono e anziché nel “chiuso” per i maiali, decisero di sistemarmi nella stalla dove, probabilmente, potevo stare un po’ di più al caldo, anche in funzione di tutte le “operazioni” che avrei dovuto compiere, dovendo restare, cosi dicevano i ragazzi, per lunghi periodi di tempo, scoperta.
Mi misero al collo un bel collare per cani, sicuramente era servito a un bastardo di pastore tedesco che al momento si aggirava libero per l'aia, quando veniva messo alla catena, legato ad un lungo filo che scorreva tra la casa colonica e la stalla. Entrammo nel locale ampio con quattro recinti per le mucche, per parte, con un ampia corsia centrale, i box erano occupati da quattro mucche e da un cavallo. Sistemarono di conseguenza la sottoscritta nel primo dei recinti dopo l’ingresso, dove vi era della paglia sulla quale mi fecero “accucciare” mentre legarono il “guinzaglio del mio collare” ad un anello di ferro fissato al muro, mi diedero due coperte stinte e sporche che probabilmente servivano al cavallo e che buttarono sopra alla mangiatoia dicendomi che dovevano servirmi per mettermi in posizione prona, (non dissero proprio così, ma usarono il termine, “alla cagnina”) per poter “soddisfare” tutti i “compagni” quando sarebbero venuti a trovarmi, ma che servivano anche per tenermi più riparata durante la notte malgrado nella stalla, effettivamente, non ci fosse freddo. Per quanto riguardava i servizi igienici, mi confermarono che avrei potuto fare tutto nell’angolo opposto, dove era raccolta un pò di paglia, che sarebbe stata cambiata di tanto in tanto, come d’altra parte, facevano per le mucche.
A quel punto i fratelli mi lasciarono sola, dicendomi che sarebbero tornati per il “servizio” tra poco tempo, mentre la banda di Bill salì sul camion, augurandomi “buon divertimento” e “assicurandomi” che anche loro sarebbero ritornati molto presto.
Era così trascorsa quell’allucinante mattinata, avevo visto uccidere, spietatamente nove persone, ero stata stuprata in modo brutale, messa al guinzaglio come un animale, “sputacchiata” e schiaffeggiata, trattata peggio di una di quelle bestie alle quali mi avevano messo a fare compagnia e adesso mi aspettavano giornate altrettanto “pesanti”. Mi chiedevo perché il Signore non avesse chiesto per me la fine come quella delle mie camerate che avevano finito di soffrire, mentre io avrei dovuto continuare, chissà per quanto tempo, la mia “Via Crucis”.
Mi ero distesa sopra la paglia e cercai di riposarmi un po’, erano le prime ore del pomeriggio, non ricordo con precisione, anche perché non mi avevano lasciato niente addosso.
A Mirandola mi era stato tolto l’orologio e la catenina d’oro che portavo al collo, regalo dei miei genitori per il mio diciottesimo compleanno, quando mi sentii toccare delicatamente; era la moglie di Tonino che mi aveva portato un secchio d’acqua perché potessi, prima dissetarmi e poi lavarmi, in modo particolare nelle parti basse che mi bruciavano fortemente dopo lo stupro e la violenza subita.
Mi fece cenno di star zitta, poiché gli uomini e la nuora non dovevano sapere che mi stava aiutando e che, probabilmente in serata, se ci riusciva, mi avrebbe portato qualcosa da mangiare. La guardai, quasi fosse la mia salvatrice e la ringraziai con un sussurro, anche perchè non avevo più voce, e le strinsi le mani in un gesto di comprensione che lei contraccambiò quasi con affetto. Allora, anche in un contesto di squallore e di violenza, qualche anima buona ancora la si trovava. Si allontanò subito, così potei dissetarmi e fare un briciolo di pulizia intima, sebbene un po’ impedita dal guinzaglio.”
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Giorgio era rimasto senza parola: non sapeva cosa dire pensando a tutto quello che aveva passato quella povera ragazza, eppure era lì davanti a lui, bellissima e apparentemente, malgrado l’attività che svolgeva adesso, ancora piena di voglia di vivere. La pregò, se se la sentiva, di continuare per arrivare alla fine della storia di quella persecuzione alla quale era stata sottoposta.
“Sì Giorgio, ormai mi sono confidata, ti ho raccontato tutto, anche se mi ero detta che non l’avrei mai fatto con nessuno e che sarebbe rimasto un segreto, ma ho fiducia in te, l’ho avuta sin dal primo momento che sei entrato nella “nostra casa”, di conseguenza cercherò di raccontarti anche quello che mi successe dopo quella tragica mattina.
Ero rimasta al momento che mi venne a trovare la madre di quei ragazzi che, contrariamente a quanto mi era stata d’aiuto lei, loro furono invece i miei carnefici: ritornarono dopo avermi lasciata accucciata sulla paglia, mi trovarono un po’ migliorata dopo che mi ero lavata il viso e dopo le abluzioni alle parti intime; non tardarono a “rovistarmi”, uno dopo l’altro, chiamando al “festino” anche i due “bovari” che lavoravano presso di loro, tali, Giacinto Ferrari e Marino Gobbi, entrambi sui trent’anni, che erano venuti nella stalla per la mungitura delle vacche: mi buttarono sopra la mangiatoia, come mi avevano detto, dopo averci appoggiato le due coperte e così mi hanno presa ripetutamente, mentre io piangevo come un agnellino e non riuscivo ad aprire bocca, anzi, tra volgarità di ogni tipo, mi presero in entrambi i miei orifizi, lasciandomi sporca del loro seme, in modo per me “sconvolgente”.
Non sapevo se urlare o cosa fare, ma non mi usciva alcun suono, e per il male fisico che mi avevano fatto e per la sensazione di impotenza totale, da parte mia, dato che non avevo la minima possibilità di reagire a tale devastazione, della mia anima e del mio corpo.
Era rimasta un po’ d’acqua nel secchio, cosi potei di nuovo lavarmi dal lordume che mi avevano buttato addosso poi, mentre gli uomini nella stalla facevano i loro lavori di pulizia delle bestie e di mungitura delle stesse, dopo la devastazione delle mie parti intime, mi venne urgente necessita di espletare le mie funzioni organiche che riuscii a fare nell’angolino, coprendo il tutto con la paglia. Poi, anche loro uscirono e finalmente, ormai era già buio, arrivò, furtivamente, la mamma dei miei stupratori a portarmi un piatto di pasta e fagioli calda e un tozzo di pane, che mangiai avidamente dato che erano più di due giorni, che non avevo toccato cibo.
Non ero più abituata a dire le preghiere prima di dormire, ma quella sera, prima di appisolarmi, pregai nostro Signore, chiedendogli cosa mai avevo fatto di male nella vita per aver dovuto subire tanta violenza e se questo era giusto, solamente per aver indossato la “camicia nera”, avendo sempre e solamente cercato di fare il bene degli altri, aiutandoli e sorreggendoli nei loro momenti di difficoltà.
Non avevo mai portato rancore a nessuno, non avevo mai odiato il prossimo, ma da quel giorno il mio cuore si è avvolto in una corazza impenetrabile, ho sentito fortemente dentro di me crescere, non solo la rabbia, ma l’odio per quelle persone che niente avevano di umano e mi dissi che, mai più mi atterrò a quei valori che la chiesa e la famiglia mi avevano inculcato, non porgerò mai più “l’altra guancia” e porterò solamente odio e la ricerca della vendetta più spietata, nei confronti di chi mi stava facendo tanto male.
I giorni seguenti passarono in uno stato di torpore totale, praticamente estraniata dal mondo, sentivo che i miei aguzzini venivano e mi prendevano, a turno, delle volte arrivavano in quattro o cinque con il camioncino, alcune volte arrivavano in due in motocicletta, anche più volte al giorno, facevano il loro “servizio” e se ne andavano poi, nel tardo pomeriggio o prima della notte, toccava ai due fratelli e agli altri due addetti alla stalla; fortunatamente la “signora” Trebbi riusciva, praticamente tutti i giorni, a portarmi un piatto di minestra e dei pezzi di pane. Poi un giorno, sentii il comandante Bill che chiacchierava con alcuni dei suoi tra i quali mi parve si trovassero, “Ultimo”, “Raffica” e “Balilla” e dai loro discorsi capii che parlavamo di me e della mia sorte.
Avevano stabilito che al massimo sarei rimasta ancora quattro o cinque giorni, e poi mi avrebbero “sepolta” in una buca che avevano già preparato vicino all’argine del Secchia, anche perché i due Trebbi, marito e moglie, si erano stancati di una presenza così “ingombrante” in casa loro. In più, la “vedovella”, che sentivo frequentemente cullare e allattare il suo piccino nelle vicinanze della stalla era impaziente di “sistemarmi”. Per due volte entrò, quando non c’era nessuno, e alzandomi anche lei il “sacco” che mi vestiva (era ancora quello che mi misero addosso il giorno dello “stupro” e delle uccisioni “collettive”), come facevano gli uomini, e urlandomi i soliti improperi, con uno “staffile” mi dava una serie di frustate. Non troppo forti, perché non mi dovevano restare i segni, altrimenti gli uomini se ne sarebbero accorti e si sarebbero senz’altro arrabbiati. Ma ugualmente le “scudisciate” mi facevano un male atroce. Poi mi lasciava dicendomi a bassa voce:
“ades po’ quand is deciden, as un po’ mè a feret fora, brotà troia”.
(“adesso quando si decidono, sarò poi io ad ucciderti, brutta troia”.) Sentivo che stavano per arrivare le mie ultime ore di vita, se per un verso speravo che la conclusione arrivasse al più presto, nello stesso tempo c’era qualcosa, nel pensiero più recondito, che mi diceva di trovare tutti gli appigli possibili per cercare di sopravvivere e, magari, di scappare da quel posto “maledetto”. Quella notte, praticamente, non presi sonno cercando di escogitare qualcosa e studiarmi un piano per poter realizzare quel pensiero, due giorni dopo, ci fu l’opportunità per mettere in atto l’ ”operazione salvataggio”.

Arrivava, alcune volte da solo, il partigiano “Basco”, a cavalcioni di una motocicletta tedesca ”requisita” nei giorni di aprile, a qualche pattuglia in fuga verso il nord, era, tra l’altro, un bel ragazzo, in mezzo a tutti quei “buzzurri”, con tratti gentili, anche se l’avevo visto uccidere spietatamente una delle mie amiche e uno degli ufficiali della milizia, oltre a compiere lo stupro sulle donne del gruppo, quella “maledetta” giornata e, nei giorni a seguire, anche con mè; quel giorno pensai di “accattivarmelo” e, mentre mi stava prendendo, gli dissi :
“ma sai, malgrado siate già entrati dentro di mè in tanti, io non ho ancora visto da vicino “l’attrezzo” con il quale voi uomini date, a volte piacere, ma fate anche tanto male, a noi donne.
Il ragazzo a quel punto si fermò dall’azione che stava compiendo, mi girò e fece trovare innanzi al mio viso “l’oggetto”, mi accarezzò sui capelli e delicatamente sulle gote chiedendomi, con voce dolce:
“Me lo daresti un bacio?. però, se non vuoi, come non detto”; lo guardai negli occhi e poi a lungo guardai la sua virilità sfacciata di fronte a me, e gli dissi:
“e perché nò, so che alcune ragazze lo fanno”.
Romano, così si chiamava il partigiano “Basco”, mi disse, a quel punto, visto che praticamente avevo accondisceso a fare “quella cosa”:
“scusami, ma per sicurezza, e non me ne devi volere, non vorrei che tu, in un momento di rabbia, possa darmi un morso violento, pertanto, almeno inizialmente, ti punto alla gola questo acuminato pugnale, che farebbe presto a sgozzarti appena tu cercassi di farmi del male.”
Così mi apprestai a compiere, il mio primo, “coito orale”, con la “spada di Damocle”, anziché sulla testa, a minacciare la mia gola. Completai l’azione lentamente, traendone, e me ne vergognai, anche un momento di piacere. Così come stava succedendo a lui, visto che la cosa gli diede immenso godimento e dopo aver concluso, lasciando cadere a terra il pugnale, si chinò, mi prese la testa tra le sue mani e mi baciò a lungo, dandomi un ulteriore fremito di piacere.
Con quel gesto si era installato tra noi qualche cosa di indefinibile, nessuno dei due riuscì a dire parola, continuammo però a guardarci intensamente negli occhi, poi lui si staccò e, cosa che non era mai successa, mi diede un ulteriore “bacio con buffetto” sulle guance, mi salutò, dicendomi “torno domani”.
Cominciai a nutrire un filo di speranza e iniziai a controllare ogni azione e ogni gesto dei miei aguzzini. Notai che la chiave del mio collare, per essere più precisi, del collare del cane, veniva appoggiata, dopo i vari servizi, sul davanzale della finestrella della stalla alla quale si accedeva solo dall’ esterno. Presi nota degli orari, della presenza o meno di persone, anche nell’ aia e nelle vicinanze dei fabbricati, difatti all’ora di pranzo, all’incirca a mezzogiorno e nelle prime ore del pomeriggio, tanti di loro andavano o a riposare o si recavano all’osteria del Cantone, distante circa due chilometri, a fare una partita a carte. Al massimo si poteva trovare in giro il vecchio nonno Zelindo che, tra l’altro, non aveva una buona vista, tanto meno un buon udito.
Romano tornò il giorno seguente, come promesso, fu oltremodo gentile, pur eseguendo il suo “rituale”, compreso il “nuovo servizio”, ma mi sussurrava parole dolci dicendomi che alla notte non aveva dormito poiché il suo pensiero era sempre rivolto a mè. Mi disse:
“senti Luisa, i miei compagni hanno deciso di “eliminarti” tra tre-quattro giorni. Non ho detto niente, ma non posso accettare questa soluzione, pertanto ho pensato di portarti via, poi me la vedrò con loro (farò credere che qualcuno di noi, probabilmente anche il sottoscritto, dopo aver fatto quello che andiamo facendo in questi giorni, forse si è dimenticato di chiudere bene il collare, visto che la chiave è al suo posto, di conseguenza tu ne hai approfittato per fuggire), perciò, domani a quest’ora, arrivo con la motocicletta, ci comportiamo come abbiamo fatto in questi giorni, poi, anziché rimetterti il collarino, lascio la chiave sulla finestra, ti carico sulla motocicletta e ci dirigiamo immediatamente verso Modena, per le strade basse che io conosco bene, senza passare dalla zona di Cortile dove potremmo incontrare i fratelli Trebbi o i due bovari. A Modena, ti porto al Convento delle Carmelitane dove c’è mia sorella suora, che, lo spero, ti aiuterà e ti proteggerà per un po’ di tempo, dandoti ospitalità in qualche stanza di quel grande edificio dove si trovano tante suore, poi vedremo il da farsi.”
Lo abbracciai e lo ringraziai; il giorno dopo, come stabilito, facemmo le “nostre cose”, salii dietro di lui sulla motocicletta che partì come se nulla fosse, difatti nessuno si affacciò a controllare, non incontrammo anima viva per un lungo tratto, anche procedendo a bassa velocità essendo quelle strade di campagna abbastanza sconnesse, siamo arrivati alla periferia della città in poco più di mezz’ora, dopo poco raggiungemmo, in Via San Giovanni del Cantone, il Convento, dove Romano entrò, lasciandomi davanti al portone con la motocicletta, per cercare la sorella.
Dopo circa un quarto d’ora lo vidi arrivare assieme ad una suorina, piccola, senz’altro più vecchia del fratello, con un viso molto dolce che, con un bel sorriso, mi disse:
“sono Suor Clotilde, la sorella di Romano. Mi ha spiegato ogni cosa, cercherò di fare tutto il possibile per darti protezione e aiuto, adesso salutatevi.”
Con un abbraccio veloce mi augurò buona permanenza dicendomi:
“non ti preoccupare, tornerò tra tre giorni, mia sorella avrà cura di te.”
Ero ritornata nel mondo civile, mi sembrava di rinascere, Suor Clotilde mi accompagnò nella sua stanza e la prima cosa che mi disse fu:
“adesso ti preparo una bella tinozza di acqua calda così potrai fare un bel bagno, in quanto vedo che non sei tanto pulita e in più emani un profumino che non è proprio di rose. Devi averne passate di tutti i colori, ma non voglio sapere niente, cerca solamente di riprenderti, ti faccio preparare, dalle consorelle, una stanza, così, dopo il bagno, potrai riposarti quanto vorrai."

Non avrei potuto trovare persona più gentile e disponibile vista anche la premura che metteva in ogni suo gesto e in ogni suo dire, mi presentò le due “consorelle” che silenziosissime si misero subito a disposizione dicendomi che dopo, nella stanza che andavano a prepararmi, mi avrebbero portato anche qualcosa da mangiare. Io non sapevo se ridere o piangere tanto ero contenta, rimasi dentro alla tinozza un tempo lunghissimo, dove vidi, via via, l’acqua diventare di un colore sempre più scuro, d’altronde ero rimasta chiusa in una stalla e trattata peggio delle bestie per otto lunghissimi giorni. Avvolta in un grande telo bianco e pulitissimo, mi andai a sdraiare in un letto, altrettanto lindo e profumato. Con l’aiuto di Suor Clotilde mi alzai e sul tavolino mi venne portato un piatto caldo di quadrucci in brodo, che trovai deliziosi, oltre a una bella cotoletta, assieme a due “michette” di pane bianco, come da tanto tempo non vedevo e non mangiavo.
Dall’inferno al Paradiso, e non era un luogo comune. Sono rimasta in quel convento, dove vi erano suore normali, ma anche un certo numero di quelle che non escono mai, le suore di clausura, oltre un mese. Per circa una settimana sono rimasta quasi sempre a letto in quanto mi ci volle un po’ di tempo per riprendermi, tanto che Suor Clotilde mi fece anche visitare dal loro medico il quale mi ordinò un lungo periodo di riposo e una certa dose di ricostituenti.
Dopo circa otto giorni riuscii a presentarmi in ottime condizioni a Romano quando venne a trovarmi e riuscimmo anche a conversare a lungo in “parlatorio”; mi disse che si sarebbe allontanato da Modena per un certo periodo di tempo poiché il Partito lo aveva mandato, per una missione speciale, al Sud. Seppi poi, a distanza di tempo, che era invece stato inviato, sempre dalle organizzazioni del PCI, in Cecoslovacchia, assieme ad altri “compagni” che avevano avuto pendenze con la giustizia e dei quali per molto tempo si persero le tracce. Rimasi tranquilla per un periodo abbastanza lungo, durante il quale avevo in continuazione degli incubi e costantemente mi si riproponeva la scena della “mattanza”. Cercai, in quei giorni, di memorizzare tutti i nomi dei miei carnefici e degli spietati aguzzini delle mie camerate e dei miei camerati trascritti poi in un “libriccino” che conservo gelosamente, dove sono annotati alcuni pensieri relativi a quei giorni. Ugualmente, i nominativi li ho tutti “memorizzati”.
Sono, il comandante “Bill”, il partigiano di circa trentacinque anni, di Soliera che si chiama, in realtà, Renato Carretti, perito meccanico e titolare di una officina nel suo paese di origine, a seguire ho annotato gli altri “eroici partigiani” e cioè, “Ultimo”, un artigiano di venticinque anni di Carpi, che ha fatto le scuole di avviamento professionale, si chiama Arturo Aguzzoli, e abita nel grosso centro della bassa modenese. Di quella località è pure il mio “persecutore-salvatore”, il partigiano “Basco”, di ventiquattro anni, anche lui ha frequentato la scuola di avviamento e si chiama Romano Bisi.
Del paese di Soliera sono ancora, “Raffica” e “Balilla” il primo è un meccanico di ventiquattro anni e si chiama, Mario Bertoni, ha fatto la quinta elementare, come il secondo di venticinque anni, che fa il contadino e si chiama Plinio Medici.
Abitano invece a Bomporto, il partigiano “Poldo”, di ventotto anni, di professione fa l’impiegato ed è diplomato ragioniere, e si chiama Giuliano Pini, mentre l’altro “bomportese”, il partigiano “Cartuccia” ha ventidue anni, fa il contadino ed è in possesso della licenza elementare, si chiama Torquato Parmeggiani. Mentre è di Albareto, una piccolo frazione vicina a Modena, lo studente universitario in ingegneria, di ventitré anni, Gino Siena, che aveva il soprannome di “Vladimiro”. Poi ci sono i due fratelli Trebbi che, a quanto ne so, si sono limitati allo stupro della sottoscritta e non credo abbiano commesso omicidi, entrambi fanno i contadini nel loro podere all’Uccivello di Cavezzo, Arturo Trebbi di anni venticinque e Manlio Trebbi di ventidue anni, entrambi in possesso di licenza elementare, cosi come i due fratelli, hanno partecipato alla mia violenza carnale, i due bovari, lavoratori in casa Trebbi di ventotto e ventinove anni, Giacinto Ferrari e Marino Gobbi, dei quali non credo vi sia stata partecipazione ad esecuzione di fascisti; aggiungo poi alla “lista dei cattivi” anche la “ragazza”, di casa Trebbi che voleva uccidermi a tutti i costi e che si chiama Cesira Losi di ventuno anni.
Un bel giorno, mi accorsi di un certo ”ritardo”: sicuramente ero rimasta “incinta”; chissà chi era il padre di quell’ embrione che stava dentro alla mia pancia. Iniziai col dire a me stessa che proprio non volevo un figlio senz’altro generato da un assassino e, dopo tutto ciò che mi era stato fatto, quello sarebbe stato il “castigo” definitivo poiché, per tutta la vita la sua presenza mi avrebbe ricordato le giornate allucinanti passate tra le loro “grinfie”.
Cominciai a ritornare in “depressione”, confidai il mio problema a Suor Giuliana, una delle due consorelle di Suor Clotilde del primo giorno, con la quale si era venuta a creare una buona amicizia. Fu lei a consigliarmi di recarmi presso una sua conoscente che abitava in Via Gallucci, sempre in questa zona, in quanto avrebbe potuto trovarmi un alloggio e darmi le indicazioni del caso per “abortire”. Mi decisi ed andai a quell’indirizzo accompagnata da Suor Giuliana, trovammo questa signora, Genoveffa Marchesini, la quale teneva a pensione ragazze che avevano dei problemi e le aiutava anche a rivolgersi alle persone giuste che provvedevano a “sgravare”, le donne in difficoltà.
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Io avevo però un grosso problema, non avevo in tasca il “becco di un quattrino”, non avevo ancora preso contatto con i miei genitori, nèmmeno con i parenti di Mirandola. Se questi erano ancora vivi, come speravo ardentemente, mi avrebbero aiutato senz’altro ad affrontare le spese della “mammana” e della stanza a pensione. Ne parlai con Suor Giuliana, mi disse che lei aveva da parte una certa cifra e mi avrebbe aiutata, poiché era sicurissima che, appena ne avessi avuto la possibilità, avrei restituito le somme che mi avrebbe prestato. Cercai subito di mettermi in contatto con gli zii di Mirandola, cosa che avevo aspettato a fare poiché volevo presentarmi a loro in condizioni decenti, così come avevo aspettato a vedere i miei dato che anche loro, molto probabilmente, avranno avuto, alla fine di Aprile i loro problemi. Riuscii a telefonare alla zia, Bice Grazioli che è la sorella di mia madre Maria e che era una delle poche famiglie, la sua, ad avere, a Mirandola, il telefono in casa.
Appena ne ebbi la possibilità presi in mano il telefono e riuscii a parlare con lei, che esultò di gioia quando sentì la mia voce e quando le dissi che stavo bene: mi diede anche le informazioni sulla sorte toccata ai miei genitori che furono trattenuti in carcere per circa una settimana. Mio padre aveva subito percosse e stava per essere fucilato, ma fu salvato all’ultimo momento da un partigiano che lo riconobbe e giurò che era una persona per bene, che non aveva mai fatto del male a nessuno, aveva avuto semplicemente alcuni incarichi nel Partito. A mia madre era andata un po’ meglio: subì solamente qualche ingiuria in carcere, ma non ha subito violenze; ora era stato tutto superato e la loro angoscia era stata quella di non aver saputo più nulla dell’amata figlia Luisa. Adesso quando sapranno la notizia risulteranno notevolmente più sollevati, però concordò con me, che era meglio, ancora per un po’ di tempo, aspettare ad andarli a trovare e senz’altro, anche loro, avrebbero capito la ragione. Gli parlai del problema economico, mi disse che nel giro di due, tre giorni sarebbe venuta a Modena: Fissammo l’appuntamento davanti al Teatro Storchi per una mattina, e lei mi avrebbe portato il denaro che mi occorreva e che le quantificai.

Mi trovai con la zia Bice e ci mettemmo a sedere a un tavolino del bar d’angolo del Teatro e qui, dopo i rituali scambi di baci e abbracci, ci siamo prese una bella coppa di gelato; ovviamente ha voluto sapere cosa mi era successo in tutto quel periodo, le raccontai della avventura a Milano e dell’arresto, nascondendole completamente il “dramma” che avevo subito e della ragione per cui era meglio per me restare ancora nascosta, quei “soldini” che mi aveva portato sarebbero serviti per pagarmi la pensione dove avevo trovato alloggio. Mi trovò bene e non volle sapere altri particolari mentre me ne raccontò lei sulla situazione dei miei genitori, che aveva contattato dopo la mia telefonata e pure loro esultarono nel sentire che avevo superato “indenne” le traversie del dopo 25 Aprile, non ancora completamente digerite da mio padre e nel corpo e nello spirito, e naturalmente la loro speranza era quella di congiungersi al più presto con mè, ma nello stesso tempo avevano suggerito alla zia di consigliarmi “molta prudenza” e cercare di stare nascosta, possibilmente in un posto sicuro, il più a lungo possibile.
Con il danaro che mi aveva portato riuscii a pagare, in anticipo, e per un certo periodo, la pensione, chiesi alla signora se poteva andare a comprarmi un vestitino decente, un paio di scarpe e un po’ di biancheria intima, dato che avevo addosso quelle poche cose che mi aveva dato Suor Giuliana, alla quale, assieme a Suor Clotilde, mandai anche un bel regalino per ringraziarle di tutte le attenzioni che avevano avuto per me, nel periodo di mia permanenza al Convento.
Mi rimase ancora una cifra discreta che dedicai, in parte, al pagamento dell’ ”intervento” al quale mi sottoposi pochi giorni dopo. La Signora Genoveffa, mi è stata di notevole aiuto in quei giorni che fui costretta a subire un' altro “devastante” trattamento alla mia “tormentata” “topina”, mi ha accompagnato e sostenuta durante l’”operazione” effettuata da una “ostetrica” abusiva, ma molto esperta, tale Milena.
Il suo “studio” o “ambulatorio” era situato in una villetta, nascosta in mezzo al verde, in un bel viale cittadino, “Viale Moreali”, mi rassicurò dicendomi innanzitutto di stare tranquilla poiché, nel caso “qualcosa” fosse andato storto, sarebbe intervenuto un medico disposto a compiere tali interventi, anche se “proibiti”. Andò tutto abbastanza bene e riuscii a tornare a casa sulle mie gambe, aiutata dalla signora Genoveffa, dopo avere “lautamente” ricompensata quella tale Milena, della quale non conobbi il cognome.
Non sono stata bene per alcuni giorni, poi, gradualmente, mi sono ripresa, anche perché a casa di quella signora mangiavo abbondantemente, ma il mio problema era, “e adesso cosa faccio?”: il pensiero ritornava e ritorna in continuazione alla esperienza “animalesca” che mi era stata somministrata da quelle “belve”, avrei dovuto anche cercare di guadagnare qualche cosa, ma quale lavoro potevo intraprendere?
Al momento i miei genitori non avrebbero potuto portarmi alcun aiuto, dopo tutto quello che avevano passato, anche a loro era stato portato via tutto, comprese quelle poche cose che avevano in casa e in più, mio padre “epurato” dal suo lavoro; non potevo in continuazione chiedere soldi a mia zia; a Ottobre mi sarebbe piaciuto ritornare a scuola per terminare il Liceo, ma avrei potuto farlo?; ne parlai con la padrona di casa, che ormai era diventata la mia confidente, e mi disse:
“o cambi città, ma dove vai?, oppure c’è un mestiere che per una bella ragazza come te può essere fonte di buoni guadagni, se ci sai fare ti può dare la possibilità di conoscere gente importante e di conseguenza aprirti strade impensabili o, quanto meno, guadagnarti quel tanto necessario per poter continuare gli studi e frequentare l’università in un secondo tempo, non spaventarti per quello che ti dico, ma quel mestiere è “la puttana”, sì, vendere il proprio corpo per poter crearsi un bel gruzzolo e poi fare quello che vuoi.”

Rimasi sorpresa e sbalordita da quella proposta, non riuscii a dir niente al momento, lei mi guardò e ancora mi disse:
“spero che non ti sia offesa ma, Luisa, attenta, sono in tante che lo fanno, e molte, che poi sono riuscite a smettere di fare “il mestiere”, si sono trovate perfettamente a loro agio, oltre a trovare uomini facoltosi che, o le hanno sposate, o le mantengono. Rifletti su quello che ti ho detto, non c’è fretta. Qui vicino a noi c’è una di quelle “case” e la proprietaria o la tenutaria è una mia amica con la quale, se lo vorrai, potrò farti avere un colloquio.”
“Lasciai trascorre alcuni giorni, poi, pensando a tutto quello che avevo passato, a cosa mi avevano fatto gli uomini (ma quelli cos’erano?): perché non approfittarne? Tutti mi dicono che sono bella e procace, quando passo per la strada si voltano tutti a guardarmi e a farmi complimenti e anche proposte che, una volta, consideravo “sconvenienti”: Perché dunque abbandonare questa prospettiva?: mi pare, viste le mie condizioni di spirito e di “borsellino”, che sembri abbastanza favorevole.
Cercherò di farlo, per un periodo di tempo limitato, poi potrò iscrivermi all’Università in qualche città fuori dalla Regione, magari ritornare a Milano, all’ amore, (ma può esistere il vero amore?) ci penserò in un secondo tempo, poi dovrò mettere in atto un piano per la mia “vendetta”, che dovrà dare soddisfazione alla sottoscritta e ricordare le mie camerate e i miei camerati uccisi in quel modo bestiale. Quel ricordo non mi abbandona, mi sveglio tutte le notti con degli incubi sconvolgenti, può darsi che, una volta che quelle “bestie” abbiano pagato, con la “loro vita” il “debito che hanno con noi”, la mia possa finalmente riprendere un corso regolare.
Ormai stava terminando l’estate, anzi era già iniziato l’autunno, quando mi decisi di riparlare dell’argomento con la Signora Genoveffa che mi fissò un appuntamento con la “tenutaria” della casa di Via Catecumeno a cento metri di distanza dalla camera di Via Gallucci.”
Fu molto corretta la padrona dell’appartamento dove ero andata ad abitare: invitò da noi la Signora Matilde Franciosi, la proprietaria della casa di tolleranza la quale si dimostrò, da subito, una persona disponibile, ovviamente aveva la prospettiva di “accaparrarsi” una nuova “prestatrice d’opera”. Al nostro incontro, ”mi squadrò” con “competenza”, e subito mi disse:
“Si, come mi è stato detto sei molto bella e appariscente, la tua avvenenza non può sbagliare nel nostro “ambiente”, però bisogna saperci fare e non avere remore di nessun tipo, ti possono capitare uomini belli, brutti, probabilmente più brutti che belli, ma tu devi essere totalmente, e dico totalmente, disponibile. Dopo ne parliamo di quello che intendo per totalmente, ma adesso dimmi qualcosa di te, non mi nascondere niente, devo diventare, se entrerai nella mia casa, come una sorella più grande alla quale confidare anche i segreti più intimi, e questo non perché io possa, in seguito, approfittare di te, ma semplicemente per poterti dare utili suggerimenti e far si che tu possa destreggiarti al meglio, in questo mondo che potrebbe farti guadagnare molti quattrini, ma che bisogna conoscere bene per non farsi “mettere i piedi in testa” dalle colleghe e tanto meno dagli uomini che incontrerai, numerosi e tutti i giorni.”
“Le raccontai la mia storia, senza soffermarmi troppo sulla parte più “devastante”, sulla mia appartenenza al corpo delle ausiliarie, della situazione attuale, dell’aborto, e delle prospettive che avevo per il proseguimento degli studi, non nascondendole che molti uomini avevano abusato di me, ma che, in realtà, non conoscevo bene la psicologia maschile.”
La signora Matilde, mi guardò, mi sorrise e mi disse:
“non ho spesso a che fare con ragazze colte ed intelligenti come tu mi sembri, anzi come tu penso sia, sento che hai passato esperienze non piacevoli, e ti vedo ugualmente determinata ad uscire dalla tua situazione economica e morale; un aspetto positivo è quello che, almeno al momento, non hai rapporti sentimentali di nessun tipo, e ti consiglio di cercare di innamorarti il più tardi possibile.
Io sarò con te in ogni caso, devo dirti che sono legata da parecchio tempo ad un ex gerarca fascista di Modena, attualmente rifugiatosi in Spagna e io stessa ho avuto rapporti con le istituzioni fasciste negli anni passati e ideologicamente sono ancora schierata da quella parte, ma nel nostro mestiere è meglio lasciar perdere qualsiasi tipo di ideologia e tener fede solamente al “Dio quattrino”.
Sempre nel caso tu decida di fare questa scelta, ti assicuro che ti seguirò per un periodo di tempo sino a quando, vedrai che farai presto, riuscirai a cavartela da sola. Prima ti ho parlato della totale disponibilità che devi avere con gli uomini ed accondiscendere ad ogni loro richiesta, e a tutte le varie forme di “perversione sessuale” che come mi hai raccontato in parte già conosci per averle subite con “brutale violenza” ma adesso devono essere applicate con “partecipazione” e con estrema disinvoltura, anzi certe “deviazioni” gli uomini le apprezzano e le pagano profumatamente, pertanto colei che riesce a metterci impegno, volontà, partecipazione ne andrà a trarre tutte le soddisfazioni economiche possibili.
Per quanto riguarda la soddisfazione fisica personale la devi completamente dimenticare, man mano ti indicherò i metodi migliori per evitare qualsiasi tipo di “godimento”, dovrai semplicemente ricordarti, “sempre”, che il tuo è un “lavoro”, sarai controllata dal nostro dottore; chiamato anche “il tubista”, il quale anche lui ti consiglierà tutti i sistemi per non arrivare a partecipare con passione, anche se ti verrai a trovare a dare soddisfazione a uomini che ti potranno essere graditi e con i quali potresti arrivare a prendere il “tuo” piacere fisico; la condizione attuale ti dovrebbe favorire ad intraprendere, nel modo migliore, questo genere di lavoro. Nelle prime settimane ti avvierò gradualmente a questa “attività” e non ti farò avere più di cinque sei uomini al giorno, così ti ci potrai abituare, ma in seguito e te ne renderai conto da sola, potrai arrivare a molti di più. Mediamente, le ragazze più in gamba riescono a farsi, anche dalle trenta alle quaranta “prestazioni” giornaliere.

Pensaci, se decidi per il sì ricordati bene che non è facile fare marcia indietro se non dopo del tempo e sarai tu stessa a giudicare quando arriverà il momento di smettere. In questi giorni, prima del tuo “inizio”, cercherò di farti avere un nuovo documento d’identità, avendo io certe conoscenze in questura, così ne avrai una nuova, dato che devi avere più di ventuno anni per “iniziare a lavorare” nelle case, a meno che una non sia sposata, ma tu non li hai ancora compiuti e non sei sposata ma, anche per il tuo recente passato, non è male cambiare completamente nome e cognome, la tua data e luogo di nascita, ma questo puoi lasciarlo a Bologna, mentre potrai prendere il nome e cognome di Luisella Villani; dovrò trattenere, dalle tue prime prestazioni, l’importo per i costi che bisogna sostenere per questa operazione che, vedrai, ti tornerà molto utile e, nello stesso tempo obbligatoria, per quanto riguarda l’età; il costo è abbastanza sostenuto, ma, nel giro di qualche settimana, riuscirai a pagare completamente il debito: prenderai per le tue prestazioni il cinquanta per cento di ogni “marchetta” che ti potranno rendere, mediamente, dalle cinquanta alle sessantamila lire al mese e anche di più, in rapporto alle “prestazioni particolari”, che saprai praticare. Non è male, se pensi che lo stipendio di un operaio và dalle dieci alle quindicimila lire e quello di un buon impiegato non supera le ventimila. L’altra metà di quello che incassi spetta a mé per la gestione, e per il vitto e l’alloggio, ti consiglierò anche un “collocatore” che potrà seguirti, dietro compenso, ovviamente, per i tuoi futuri “cambi di casa” nelle varie città dove sarai costretta a recarti di tanto in tanto, e questa persona ti sarà molto utile per trovarti la “sistemazione” nelle case migliori e più remunerative, appena sarà il momento te lo presenterò.”
Era la prima settimana di Ottobre e una mattina entrai in quella casa di Via Catecumeno dove mi hai trovata e dove resterò ancora per un po’ di tempo dato che la signora Matilde mi ha prospettato la possibilità di entrare in alcune case di “lusso”, o a Bologna o a Milano, dove potrò guadagnare tanto di più rispetto alle già buone “quindicine” attuali ma, molto probabilmente, sceglierò Milano, essendo Bologna la mia città dove ero abbastanza conosciuta e per la mia attività nel Fascio Repubblicano e per la mia frequenza al Liceo Classico.
Eccoti, Giorgio, narrata la mia storia, ma al momento, ad avere dei problemi sei tu, abbiamo fatto le ore piccole e sarà opportuno andare a riposarci, tu rimani qui nella stanza che ti ha fatto vedere la signora Ada, mentre io me ne ritorno in “casotto” che ormai è già chiuso, domattina ci ritroviamo qui cosi facciamo colazione assieme.”
Si avviarono alle loro stanze, Giorgio ancora frastornato dagli avvenimenti di quella giornata e dalla storia veramente sconvolgente della ragazza; pensare che era uscito di casa per ritrovarsi, dopo tanti mesi di “clausura”, tra campo di concentramento e l’ “autocarcerazione”, in un pomeriggio di poche ore di libertà, ad essere individuato dai suoi “persecutori” che, per poco, non l’avevano catturato e certamente gli avrebbero fatto fare la fine dell’amico Emilio Rebecchi se non ci fosse stato il provvidenziale “salvamento” di quell’angelo di ragazza che, dentro “quella casa”, dove era entrato per togliersi un “piacere”, lo aveva tratto dai “pasticci” con un gesto di altruismo e di generosità difficilmente riscontrabile in quei tempi.
Si trovarono il mattino dopo, mettendo insieme colazione e pranzo essendosi alzato, Giorgio, a mezzogiorno, dopo una bella “dormita” seguita alle tensioni subite il giorno precedente; la signora Ada preparò due abbondanti caffè, anche per Luisa la quale aveva atteso che il ragazzo si svegliasse e, poco dopo, li fece accomodare alla tavola dove preparò loro un bel piatto di tagliatelle al ragù ed una deliziosa "cotoletta" alla milanese, accompagnata da un insalatina tenerissima. Si dispiacque di non aver potuto preparare il dolce, poiché non aveva in casa i necessari ingredienti per fare qualcosa di “decente”.
“Allora Giorgio, ti sei riposato, adesso cosa pensi di fare?” chiese Luisa mentre sorbiva un altro caffè al termine della colazione-pranzo appena terminata.
“Cara, carissima Luisa sei stata la mia salvatrice, ti devo la vita,” disse d’impeto il ragazzo “ero venuto in quella casa per fare “certe cose” invece ho incontrato il mio angelo custode, la mia protettrice, la mia benefattrice, e con te alcune altre persone alle quali devo tutto, grazie Ada e ringraziami anche la signora Matilde.
Ma adesso è bene che ritorni a casa, come promesso allo zio il quale, sono sicuro, sarà già in pensiero e ritengo che, molto probabilmente, come d’altra parte mi aveva già accennato farà in modo di “spedirmi” a Roma per farmi terminare gli studi e per togliermi dalla situazione "pericolosa" nella quale mi trovo qui a Modena.
Luisa, però io ci tengo tanto alla tua amicizia e cercherò di esserti riconoscente per tutta la vita. Appena saprò dove andrò a collocarmi vedrò ti fartelo sapere, scriverò a questo indirizzo per farti avere il mio, teniamoci almeno in contatto epistolare, tu sei anche in possesso del numero di telefono di mio zio al quale potrai sempre telefonare, se cambi “casa” cerca di comunicarmelo, io al momento, pur conoscendoti da un solo giorno, posso dirti di volerti un gran bene, sei così bella, sei stata tanta buona con mè di conseguenza non posso far altro che innamorarmi di una donna così.” Si alzò in piedi, abbracciò e baciò a lungo Luisa, diede un altro abbraccio alla signora Ada e senza profferire altre parole prese la porta e uscì da quella casa che lo aveva salvato da sicura morte.
Si trovò in Via dei Servi, che erano appena scoccate le quattro del pomeriggio, e da lì, attraversando via Albinelli, poi Piazza Grande, si trovò in pochi attimi a salire le scale del palazzo di Via Cesare Battisti dove gli venne ad aprire la porta lo zio Francesco, che lo stava aspettando in ansia.
“Finalmente Giorgio sei arrivato, la telefonata di quella tua amica mi aveva inizialmente preoccupato, poi invece mi ha rassicurato e tranquillizzato, deve essere veramente una gran brava ragazza: oggi pomeriggio verranno qui anche tuo padre e tua madre, così assieme vedremo di prendere i giusti provvedimenti per questa situazione ancora imbarazzante. Nonostante si vada incontro ad una normalizzazione e il clima generale vada via via tranquillizzandosi, alcune “squadracce rosse” circolano ancora, in modo del tutto arbitrario, visto e considerato che il controllo della vita civile è stato preso in mano dai carabinieri che comiciano a farsi rispettare e quella che era la “polizia partigiana” si stà completamente “smantellando”. Ma ancora oggi, e tra poco sarà trascorso un anno dalla fine della guerra, si sente parlare dell’ ”eliminazione” di fascisti o di “presunti tali.”
“Zio”, disse il ragazzo a capo chino, “so di aver commesso, ieri, una stupidaggine e di averti creato dei problemi, ma credimi, non ne potevo più di stare chiuso in casa.”
“Non è il caso Giorgio di recriminare, né di chiedere scusa, ti capisco benissimo, fortunatamente è andato tutto per il meglio” disse lo zio Francesco, il quale voleva molto bene a quel ragazzo che mai aveva dato problemi alla famiglia e che si era sempre comportato in modo correttissimo con tutti i componenti della stessa.
“Adesso vai in camera tua, senza farti vedere dai nostri coinquilini, io devo andare in ambulatorio, perciò ci troviamo questa sera a cena, assieme ai tuoi.”
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Così, dopo una giornata di “libera uscita”, Giorgio si ritrovò dentro quelle quattro mura dove era stato rinchiuso per più di tre mesi, si buttò sul letto ripensando e riflettendo su quell’incontro dicendosi che, in fondo, a lui era andato sempre tutto bene, sofferenze fisiche, se si esclude qualche modesto episodio a Coltano, quasi niente; morali, una cosa giusta, sì il crollo dell’ideologia nella quale aveva fortemente creduto lo aveva colpito nel profondo ma, si diceva, è tutto rimediabile, la vita potrà offrirmi chissà quali altre possibilità; “sono giovane e davanti a mè si aprono tante strade, ho la fortuna di avere una famiglia alle spalle benestante, che mi aiuterà in tutto quello che vorrò intraprendere”, disse con sé stesso, “se penso poi a Luisa e a tutto quello che mi ha raccontato, di come veramente la sua vita sia stata distrutta da un destino ben peggiore del mio, ecco che devo ringraziare il mio “santo protettore” o la mia “fortuna sfacciata”, e non solo in una circostanza, ma in varie occasioni, l’amico Maletti, i frati francescani, lo zio Francesco, e adesso questa “bellezza ferita” alla quale dovrò eterna riconoscenza e che spero, nel futuro, di poter contraccambiare l’enorme favore che mi ha fatto.”
Nel tardo pomeriggio, arrivarono, alla “chetichella” e distanziati uno dall’altra come erano soliti fare, papà Giulio, poi mamma Marisa, assieme al fratellino Marco e tutti e tre si abbracciarono il loro Giorgio teneramente e a lungo; il redivivo raccontò loro le ultime vicissitudini, trascurando, ovviamente, il luogo dell’incontro con quella “sua” amica che poi l’aveva protetto. All’ora di cena si trovarono tutti attorno alla tavola, la famiglia di Giorgio e quella dello zio Francesco Lotti, assieme alla moglie, Renata Giacobbi e alla loro figlia Elisabetta, di quindici anni, studentessa al Liceo Scientifico Tassoni, che fece grandi feste al cugino e al cuginetto Marco, che non vedeva da un po’ di tempo.
Parlarono del “più e del meno” interessandosi tutti della situazione scolastica dei due studenti, della ripresa economica, dell’azienda del papà di Giorgio, mentre quella dell’oculista era abbastanza tranquilla poi, come era previsto, l’argomento s’incentrò sulla “precaria situazione” dell’”ex repubblichino”. Tutti gli adulti si trovarono d’accordo che era bene, a quel punto, per il ragazzo “cambiare aria”. Si pensò immediatamente a Roma in quanto il terzo fratello di Francesco e di Marisa Lotti, viveva da molti anni in quella città dove era titolare di un grosso negozio di abbigliamento maschile a Piazza Ungheria.
“Domani telefono allo zio Adolfo, che sarà molto lieto di aiutarti, di questo sono certo”, disse subito zio Francesco, “ti darà una mano a trovare un appartamentino in affitto dato che, sò di sicuro, a casa loro molto spazio non ne hanno, malgrado abbiano un appartamento molto grande, ma sono in tanti in famiglia; sai bene che troverai laggiù tuo cugino Umberto, combattente della X° Mas che, fortunosamente è riuscito a rientrare a Roma dopo il 25 Aprile e con il quale avrete tante cose da raccontarvi, poi ci sono la cugina più grande Teresa, sposata con un avvocato “un po’ azzeccagarbugli” ma bravo ragazzo, questi hanno un bambino piccolo di due anni, poi vi è il fratello più giovane, Riccardo di diciassette anni, studente, oltre al nonno, il papà della moglie di Adolfo, Adele, che ha oltre ottanta anni e si chiama Vincenzo De Angelis; come vedi un nucleo abbastanza numeroso, nello stesso tempo stanno abbastanza bene economicamente e senza essere ricchi, si possono considerare benestanti.”
Giorgio, sentendo questa proposta, fu abbastanza soddisfatto anche perché si sarebbe finalmente incontrato con il cugino Umberto che durante l’estate del ’44, gli aveva scritto che sarebbe passato a trovarlo a Modena, cosa che non poté fare poiché dal Piemonte venne inviato direttamente, con il suo reparto, in Venezia Giulia.
La mamma intervenne dicendogli:
“vedrai Giorgio ti troverai molto bene, mio fratello Adolfo è sempre stato una gran brava persona, gran lavoratore, tutto dedito alla famiglia, la sua attività è conosciutissima in Roma, e sono sicura ti troverà anche qualcosa da fare, o nel suo commercio o tramite le sue conoscenze, così tu potrai renderti indipendente e prepararti per riprendere gli studi, in quanto, penso tu li voglia proseguire per iscriverti poi all’Università, però è bene, dopo quello che è successo, che tu parta al più presto da Modena, alcuni “tipi poco raccomandabili” sono venuti a cercarti per due volte a casa e io ho dovuto versare “calde lacrime” dicendo loro che, dopo il tuo rilascio da Coltano, non abbiamo avuto più notizie, e questi mi dissero, entrambe le volte, che se tu fossi tornato, avresti dovuto recarti immediatamente, per accertamenti, al comando partigiano. Vedi dunque che sei ancora nel “loro mirino.”
Papà Giulio intervenne:
“nel frattempo a casa ti prepariamo le valigie, poi o con la macchina dello zio o con una presa a noleggio, ti accompagniamo al treno, a Bologna, meglio non farsi vedere in stazione a Modena; in questi giorni mi recherò al Liceo Muratori per cercare di avere i documenti della tua frequenza per il trasferimento e per l’iscrizione all’ultimo anno alla scuola alla quale ti andrai a iscrivere, intanto potrai informarti quale sarà quella più adatta per te. E, se posso darti un consiglio, cerca di stare lontano dalle beghe politiche, non lasciarti abbindolare da sirene di qualsiasi tipo, specialmente da quei movimenti “nostalgici” dei quali si sente parlare, tu ne hai già passate troppe.”

Passarono all’incirca una decina di giorni e tutto fu pronto per la partenza di Giorgio: zio Francesco e zio Adolfo si sentirono per telefono e il “romano” disse che era ben felice di “prendersi a carico” Giorgio, non c’era spazio in casa però, abbastanza vicino a Piazza Ungheria, un suo amico aveva un piccolo appartamento situato in una bella palazzina di Via Montevideo, aveva già provveduto a fermarlo firmando un contratto abbastanza lungo, di conseguenza non vi era nessun ostacolo e il ragazzo poteva arrivare a Roma al più presto, dato che vi era urgenza di farlo uscire dal “mefitico” clima modenese.
Con una macchina privata presa a noleggio dal garage “Macchia” il “giovanotto” venne accompagnato in stazione a Bologna; dopo un viaggio di circa sedici ore, la rete ferroviaria era ancora notevolmente dissestata in seguito a tutti i bombardamenti subiti, i viadotti e i tunnel sulla tratta Bologna-Firenze si dovevano percorrere a “passo d’uomo”, arrivò a Roma, alla stazione Termini alle ore diciotto, dove trovò ad accoglierlo, al binario n. 8, il caro cugino Umberto; baci, abbracci, convenevoli di rito poi, in taxi, che era semplicemente una camionetta riciclata dell’esercito americano con due “panchette” come sedili, per la quale dovettero anche discutere, per ottenerne il servizio, con alcuni militari che pretendevano di essere in fila prima di loro, riuscirono a districarsi dal traffico caotico attorno alla stazione e a Piazza Esedra, per arrivare poi tranquillamente a Piazza Ungheria. Umberto lo accompagnò prima all’appartamentino di Via Montevideo, graziosissimo, composto da un piccolo ingresso, da una cucina grande, da una camera da letto di discrete dimensioni, da un bel bagno e da uno studiolo che aveva una bellissima veranda, il tutto arredato con discreto gusto e con mobilio di recente fattura, ma in particolare fu colpito dallo splendido terrazzino, ampio, con molte piante e una bella vetrata scorrevole, che guardava direttamente in un vasto giardino. Disse subito al cugino:
“ma è bellissimo, non avrei mai pensato di trovare immediatamente un sistemazione così confortevole”.
“Aho, a voi der nord, ve dovemo trattar bene, sennò….” gli rispose scherzando in perfetto romanesco il cugino:
“vedi Giorgio, mia madre ha sistemato tutto quanto, adesso ti aiuto a disfare le valigie, poi andiamo a cena, stasera “ce semo tutti, an vedi che festa te famo”, poi io e te avremo modo di stare assieme e in libertà, nei prossimi giorni, così ci racconteremo con calma tutto quello che ci è capitato in questi ultimi tempi, dagli ultimi mesi della Repubblica Sociale ai giorni del dopoguerra sino ad oggi, che ho saputo tu hai passato come un recluso, poi voglio dirti che verrai senz’altro a mangiare anche da noi abbastanza spesso, ma per renderti più autonomo, sarà bene tu prenda contatto con l’ ottima trattoria che si trova qui a pochi passi e che tiene a pensione qualche studente e alcuni professionisti che lavorano in zona e sò per certo che si trovano tutti molto bene, anche noi, qualche volta, ceniamo dal “sor Renato” dove c’é una buona cucina “de noartri”, non sarà come la vostra modenese, ma vedrai che la troverai ugualmente all’altezza.”
In casa di Umberto, quando arrivarono, c’era già tutta la famiglia; lo zio Adolfo aveva appena chiuso il negozio, la zia Adele De Angelis, la mamma di Umberto stava armeggiando attorno ai fornelli aiutata dalla figlia Teresa, mentre il marito di questa, l’avvocato Emanuele Gasparri, teneva in braccio il figlioletto Giovanni, aiutato dal fratello più piccolo di Umberto, Riccardo, mentre il vecchio nonno Vincenzo era già seduto alla tavola imbandita, in attesa di gustarsi la buona cenetta preparata dalla figliola.
La zia Adele, con la figlia Teresa aveva preparato, in onore dell’ospite modenese, un classico “cenone romano”: Giorgio si trovò in successione, a doversi confrontare con un antipasto di bruschette olio e aglio, con supplì, e pecorino. Un intervallo dove si scambiarono battute di vario tipo a proposito della supremazia della cucina emiliana-modenese rispetto alla romana, poi zia Adele arrivò con dei “bucatini all’amatriciana” che il modenese trovò assolutamente “fenomenali”, e subito dopo un assaggio di “carbonara” come non aveva mai mangiato, Umberto cominciava a prenderlo in giro:
“non mi dire che alla Brigata Nera mangiavate piatti del genere, mentre noi alla Decima Mas questi ce li facevamo tutti i giorni”, Giorgio non si scompose e subito rispose al cugino:
“noi invece, ad ogni pasto, avevamo il classico zampone modenese, e prima un superbo piatto di tortellini in brodo e concludevano il nostro “rancio” con una incredibile zuppa inglese e, se proprio lo si voleva gradire, anche un bel piatto di prosciutto o un bel cotechino con le lenticchie.”

La tavolata era tutta in allegria, gli “sfottò” verso il modenese erano continui, ma detti tutti in chiave simpatica e con una vivacità che aveva contagiato anche il “nordico” padano, che innaffiando i gustosi piatti della zia Adele con dell’ottimo vinello dei colli albani, cominciava a sciogliere la lingua riuscendo a “rintuzzare” la coalizione dei “romani” con arguzia e molta intelligenza, tanto da ottenere i complimenti dello zio Adolfo che si gustava la “partecipazione” della famiglia a quella bella serata.
Dopo l’abbondanza dei “primi” arrivarono in tavola una serie di secondi che “impressionarono” il padano: una coda alla vaccinara sublime, dei saltinbocca alla romana, accompagnati da fiori di zucca fritta, da spinaci e “carciofi alla giudia”, che fecero sobbalzare Giorgio con esclamazioni di esultanza che da tempo non era abituato a fare, poi arrivò anche qualche taglio di abbacchio al forno, squisito, che il modenese non riuscì a gustare completamente in quanto era completamente satollo. Poi, per completare, oltre al vino dei castelli, un dessert di crema pasticcera accompagnato da un passito di Pantelleria da lasciare senza fiato.
La conversazione era continuata sempre vivacissima mentre sorseggiavano un buon caffè accompagnato dal classico “ammazzacaffè romano” e nessuno, opportunamente, aveva preso l’iniziativa di affrontare temi politici o “scabrosi” relativi ai due ragazzi ancora considerati, ovviamente non in famiglia, degli sconfitti senza futuro, mentre il marito della sorella di Umberto, l’avvocato, era schierato con il partito socialista, pertanto era bene cercare di non creare inopportune conflittualità.
Battute, barzellette, canti, intonati dalla bella voce di Teresa, che spaziavano dagli stornelli romani, alle canzonette di moda al momento, come ad esempio “Dove stà Zazà”, “Un ora sola ti vorrei”, “Vento, vento portami via con tè”, “Lili Marlein”, ed altre, mentre zio Adolfo, pur partecipando all’allegria dei giovani, si raccomandava in continuazione di tenere basso il tono della voce per cercare di dare meno disturbo possibile agli inquilini del palazzo. Poi tutti gli uomini scesero in strada per accompagnare Giorgio nella sua nuova abitazione, mentre le donne riassettavano la cucina e la sala da pranzo, contente per aver preparato al giovane modenese una bella cenetta ed aver trascorso assieme a lui una piacevolissima serata.
Il giorno dopo Umberto andò a prendere il cugino Giorgio e lo portò a fare una bella passeggiata nella zona dei Parioli e, camminando camminando, si raccontavano le loro vicissitudini raggiungendo, senza accorgersene, il centro storico della città.
“Allora Giorgio”, aveva iniziato l’ex marò della Decima, “ho saputo che sei stato “rintanato” a lungo, raccontami qualcosa della tua avventura e come ti sei salvato dalla bufera del dopo guerra.”
“Sono stato, in verità, molto fortunato,” rispose l’ex brigatista nero, “poiché moltissimi camerati del mio reparto sono caduti nelle mani dei partigiani e subito sono stati uccisi, molti di loro sono stati ritrovati nelle campagne attorno a Modena, ma di tanti altri non si è saputo più nulla. A casa mia svariate volte i “rossi” mi hanno cercato ma, pur sempre restando in città, sono riuscito a tenermi rintanato, all’inizio, tramite un amico partigiano, presso il convento dei frati cappuccini poi, dopo la lunga parentesi del campo di prigionia di Coltano, ritornato a Modena, lo zio Francesco mi ha tenuto chiuso in una stanza nel suo appartamento in centro a Modena, dal quale sono uscito dopo tre mesi poiché non ne potevo più, ma i “comunisti” mi hanno “beccato”, ti dirò poi dove, ma per fortuna mi ha tirato fuori dai guai una ausiliaria che, per puro caso, si è trovata presente quando i partigiani mi hanno scoperto. Ma raccontami piuttosto di tè, dato che io sono rimasto alla lettera che mi hai inviato, mi pare a Settembre del ’44, dove mi dicevi che saresti dovuto passare da Modena durante un trasferimento del tuo reparto dal Piemonte alla Venezia Giulia. Da allora non avevo avuto più notizie ma, ovviamente, sei riuscito a salvarti; anche i reparti della Decima, hanno subito parecchie perdite e i partigiani non hanno risparmiato neppure voi.”

“Come avrai avuto modo di sapere a quel tempo” prese a dire Umberto, “siamo stati a lungo sul fronte di Nettuno, dove, assieme ai camerati tedeschi, per poco non abbiamo ributtato a mare gli invasori americani, abbiamo avuto anche molte perdite, eravamo assieme alla 715° divisione tedesca di fanteria e con noi c’era anche un battaglione delle SS italiane, il “Degli Oddi”, che si è battuto con molto onore, oltre a reparti paracadutisti della “Nembo”, e tutti ci siamo “scontrati”, anche in combattimenti ravvicinati, all’arma bianca, dove quasi sempre riuscivamo a prevalere, sui “rangers” americani.
Eravamo schierati sul litorale romano, tra il lago di Fogliano e il Canale Mussolini, poi, verso la metà di Maggio il giorno 24 ci ordinano di ripiegare, ormai la battaglia per la difesa di Roma è persa; ci ritiriamo, avrei voluto fare un salto a casa per salutare i miei, ma non è stato possibile, con un gruppo di circa duecento uomini ancora il 4 Giugno siamo stati gli ultimi a contrastare l’avanzata americana tra la via Appia e la Tuscolana, poi gradualmente ci siamo ritirati per rientrare alla nostra base a La Spezia
Il “Barbarigo” è stato il primo reparto di Fanteria di Marina della Decima Mas ad essere formato e fu anche il primo reparto italiano, dopo la costituzione della RSI, a cercare di rivendicare l’onore delle armi schierandosi assieme agli alleati germanici. Prima di arrivare al fronte, il nostro battaglione era composto da poco più di milleottocento uomini e dopo la partenza da La Spezia, il 19 Febbraio 1944, ci fermammo a Roma dove il 21 sfilammo per le strade, acclamatissimi dalla popolazione, tra i quali, naturalmente, erano presenti anche i miei che vennero a salutarmi prima della partenza per il fronte, in un clima di entusiasmo mai più ritrovato, tanti eravamo noi romani in questo battaglione.
Io facevo parte della 1° Compagnia che ha avuto fior di comandanti, dal capitano, Mario Betti, agli altri capitani, Giovanni Feliziani, Renato Scordia, sino all’ultimo, Calliope Santandrea, per non dimenticarmi del comandante in capo del Battaglione, il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli che venne ucciso, come ti scrissi nella mia lettera, a Ozegna nel Canavese in un agguato tesogli dai partigiani e il suo posto venne preso dal Tenente di Vascello Giulio Cencetti.
Ti giuro che eravamo veramente tutti orgogliosi di appartenere a quel reparto che si sciolse a Padova il 30 Aprile 1945. Dopo una sosta di circa due settimane al centro di La Spezia ci trasferirono in Piemonte, dove abbiamo avuto violentissimi scontri con le bande partigiane.
Ma quello che subimmo pesantemente fu l’agguato dell’8 Luglio; eravamo arrivati in zona da poco, quando quel giorno, il nostro comandante, assieme ad alcuni ufficiali si fermò nella piazza di Ozegna dove sostava anche un gruppo di partigiani della “banda” di “Piero Pieri”, vi fu un colloquio che si prolungò a lungo tra i due gruppi, sembrava un semplice e pacato discorso politico, Bardelli cercava di far capire agli “altri” del perché si era schierato con la Repubblica, i partigiani dicevano di essere dei militari sbandati che non volevano creare conflitti con i “marò”, la discussione andava avanti da una buona mezz’ora e si manteneva sempre su un piano di estrema correttezza, ma i capi partigiani avevano accettato di discutere con Umberto Bardelli e il piccolo gruppetto fascista, con uno scopo ben preciso, stavano arrivando un centinaio di ribelli, che bloccarono le strade di accesso alla piazza, quando il gruppo dei partigiani, che discuteva con i Comandante, si rese conto che la manovra era conclusa, si allontanarono e subito dopo si scatenò l’inferno.
Un tempesta di fuoco si abbatté sugli uomini della Decima, il comandante, malauguratamente, si accorse di essere caduto in un agguato, cercò di resistere ma gli fu impossibile e assieme a lui rimasero uccisi altri dodici tra ufficiali e marò, molti furono i feriti ed altri vennero fatti prigionieri. A seguito di questo eccidio il Comando della Decima decise di portare in tutto il Canavese un azione tendente a reprimere la guerriglia che si protrasse per tutto il mese di Luglio, e a quel gigantesco rastrellamento parteciparono anche il Comandante della Decima, Junio Valerio Borghese, e il Comandante generale delle Brigate Nere, Alessandro Pavolini.
Dopo un breve periodo di riposo, a fine Ottobre, ci siamo spostati in Venezia Giulia e alla fine del mese ci trovammo di stanza a Vittorio Veneto. In quella zona, sino a quella del Bosco del Cansiglio, nel bellunese, si era infiltrato, con l’aiuto delle bande italiane, uno schieramento di reparti titini del “IX° Corpus” con i quali ci sono stati svariati scontri e dove abbiamo causato loro notevoli perdite. Ci spostammo poi a Gorizia e sul fronte dell’Isonzo abbiamo continuato ad avere violenti combattimenti con i “partigiani yugoslavi” appoggiati dai comunisti italiani.
In questa italianissima città siamo stati accolti da entusiastiche manifestazioni dalla popolazione che si sentiva oppressa dalla presenza nelle zone carsiche dei partigiani titini che commettevano soprusi di ogni tipo, abbiamo avuto scontri sempre cruenti e violentissimi, compreso quello della notte di Natale del 1944. In seguito fummo spostati sul fronte sud, e ci trovammo, verso la fine di Marzo, nel ravennate e qui, nei primi giorni del mese di Aprile, ci sono stati anche alcuni combattimenti “fratricidi”, durante i quali abbiamo catturato molti prigionieri, con reparti del esercito italiano del Sud.
Ci spostavamo in continuazione nella zona di Codigoro, Porto Garibaldi, poi con l’arretramento del fronte e con il dilagare nella pianura padana degli anglo americani, scontrandoci ancora con altri reparti italiani della Divisione “Cremona” che era aggregata alla 8° Divisione Britannica, ancora il 25 Aprile ad Adria, dopo che avevamo attraversato il Pò nei pressi di Goro, abbiamo ricevuto la visita del Comandante della Divisione Decima, generale Corrado, che ci ha elogiato per la perfetta efficienza del reparto; l’ultimo scontro l’abbiamo avuto con i partigiani al Ponte di Bassanello, mentre ci stavamo dirigendo verso Padova e qui il nostro reparto, il 29 Aprile, (avevamo appena saputo dell'esecuzione del Capo del Fascismo), venne sciolto dopo che avevamo ottenuto l’onore delle armi da una compagnia inglese; fummo, poco dopo, trasportati in direzione del campo di concentramento POW 209 di Afragola, nelle vicinanze di Napoli, ma durante il trasferimento, in una sosta a Pescara, io, assieme ad altri due camerati romani siamo riusciti ad allontanarci dal gruppo, senza che nessuno se ne accorgesse. Siamo stati fortunati a trovare in un casolare vicino a Fontanelle, degli abiti borghesi, pagati profumatamente, sicché il 12 Maggio, dopo aver usufruito di vari passaggi, nella maggioranza su automezzi americani, siamo arrivati a casa.”
Giorgio lo aveva ascoltato attentamente e gli disse:
“almeno tu hai combattuto realmente contro quelli che hanno invaso il nostro territorio, oltretutto avete avuto gli onori militari da parte dell’avversario, mentre invece noi abbiamo dovuto combattere solamente contro i nostri fratelli in un lotta spietata, e alla fine ci hanno continuato a perseguitare sia fisicamente che moralmente, non ti dico le epurazioni che stanno avvenendo ancora oggi in tutto il Nord, padri di famiglia, giovani e anziani cacciati dai posti di lavoro, solamente perché, anche per semplici ragioni contingenti, avevano aderito al Partito Fascista Repubblicano. Inoltre qui la guerra fratricida praticamente è durata pochi mesi e, a parte l’episodio delle fosse Ardeatine effettuato dalle truppe tedesche per reazione all’attentato contro dei loro soldati in Via Rasella, non vi sono stati episodi di lotta tra fratelli come da noi.
Ma dimmi, con gli studi come va?, a tavola mi hai detto che hai ripreso a frequentare la facoltà di legge e che cercherai di dare qualche esame anche in questa sessione, ma gli esaminatori sono severi come prima della guerra, oppure sono ancora “comprensivi” nei riguardi particolarmente di chi ha combattuto? Vorrei terminare gli studi al Liceo Classico per iscrivermi poi, anch’io, a Giurisprudenza o a Medicina, ma penso che sia meglio frequentare regolarmente piuttosto che presentarsi come “privatista” all’esame di stato; cosa ne pensi e cosa mi consigli?”
“Certamente caro cugino” prese a dire Umberto “ ti consiglio, in concreto, quello che hai già detto tu, molto meglio frequentare l’ultimo anno di Liceo, vai subito a prendere informazioni al Liceo Classico “Ennio Quirino Visconti” in Piazza del Collegio Romano che ho frequentato pure io, piuttosto che presentarti come privatista, perderai praticamente un altro anno ma ti tornerà molto più utile farti conoscere ai corsi universitari con la provenienza da un Liceo come il Visconti che, vedrai, ti darà una formazione perfetta, sia che tu voglia iscriverti a medicina o a giurisprudenza, dato che mi hai detto che sei ancora indeciso su quale scelta fare.
Certo che in questi ultimi tempi, all’Università ci sono stati momenti di permissivismo e di arroganza da parte degli studenti. I docenti, di fronte a manifestazioni di prepotenza, si arrendevano e davano il voto sul libretto a piacere degli esaminandi. Ho saputo, che alcuni di questi si sono presentati appoggiando sul tavolo dell’esame una “pistola” con pallottola in canna, pertanto il professore arrivava anche a scrivere un bel “trenta” praticamente chiacchierando del “più e del meno” con lo studente: Adesso la situazione si stà normalizzando e agli esami è meglio presentarsi ben preparati. Anzi a te consiglio, dato che dovrai iscriverti per il prossimo anno scolastico, di cominciare a prendere di nuovo in mano i libri del terzo anno e riprendere confidenza con materie come il greco e la matematica che, mi dicevi, sono i tuoi punti deboli e così potrai ripresentarti al regolare corso di studi non del tutto digiuno, dopo la pesante sosta della guerra, che ti ha fatto perdere due anni,.
Io, in effetti, ho frequentato, appena iscrittomi a Giurisprudenza, solamente poche lezioni, poi mi sono arruolato nella Decima senza aver dato alcun esame; da alcuni mesi ho ripreso a frequentare l'università e penso di essere pronto per sostenere, nei prossimi giorni, i miei primi due esami. Quando ritorniamo a casa andiamo a vedere in camera mia se vi sono ancora dei testi della frequenza al Liceo così te li passo, consigliandoti anche i punti suoi quali è meglio prepararsi, vedrò pure di aiutarti laddove mi è possibile”.

Nei giorni seguenti Giorgio si recò alla Segreteria del Liceo dove si fece elencare i documenti necessari per la futura iscrizione oltre ai libri di testo adottati nelle ultime due classi; la presa di possesso dell’appartamento in Via Montevideo, la presenza del cugino Umberto e della sua famiglia misero il giovane modenese in uno stato di tranquillità e nello stesso tempo di euforia per la sua nuova vita: Lo zio Adolfo gli aveva trovato anche una sistemazione come commesso in un negozio di abbigliamento maschile di un suo collega in Viale Liegi, abbastanza vicino a casa, dove gli era stato promesso uno stipendio mensile di quindicimila lire che lo rendevano totalmente indipendente, visto che anche da casa, mensilmente gli inviavano un vaglia di ottomila lire; inviò anche il suo indirizzo all’ “amica” Luisa narrandole della sua nuova sistemazione e rinnovandole i ringraziamenti per tutto quello che lei e le sue “colleghe” avevano fatto per lui; lei rispose che ancora per un po’ di tempo sarebbe rimasta nella “casa” di Modena, ma che sicuramente si sarebbe trasferita, in seguito, a Milano.
Giorgio, ormai da alcuni mesi nella capitale, si sentiva praticamente un “romano de Roma”, aveva fatto amicizia con molti conoscenti di Umberto nel quartiere di Piazza Ungheria e della facoltà di Legge, inoltre era corteggiato da alcune ragazze che avevano trovato nel bell’emiliano, un ragazzo brillante, allegro e simpatico con il quale era molto piacevole trattenersi in compagnia. Restava volentieri a chiacchierare e a passeggiare con una certa Giuliana, una “morettina” che abitava al quartiere Prati, ma alla quale ancora non si decideva a “chiedere” una amicizia più impegnativa, non si erano nemmeno baciati, ma nello stesso tempo era molto perplesso se fare questo passo con lei, dato che nel suo “giro” vi era anche un'altra presenza, molto interessante, che lo aveva particolarmente “colpito”, ma con la quale non vi era ancora stata la possibilità, semplicemente, di avere un breve colloquio; era molto bella, ma altezzosa, “Ginevra” non dava molta confidenza ai ragazzi che si limitavano a “sospirare” per lei.
Umberto, dopo il suo rientro avventuroso a Roma, era stato contattato, da alcuni suoi ex commilitoni, appartenenti al Battaglione Barbarigo, che gli avevano prospettato la possibilità della costituzione, “segreta”, di un “Esercito clandestino anticomunista”, trasformatosi poi in “Esercito nazionale anticomunista”, con alcuni ex camerati quali, Roberto Mieville, molto attivo a Roma negli ambienti del “neo fascismo”, di Franco Petronio, di Enzo Erra, e di altri uomini che non intendevano “mollare tutto”, e che pertanto andavano predicando che era necessario ricostituire le file, seppure con nuove metodologie e con prospettive più avanzate, di un movimento da contrapporre al comunismo avanzante e al capitalismo vincitore del secondo conflitto mondiale.
Si trattava di collegare una serie di gruppi che facevano riferimento al fascismo di Salò e che si stavano ricostituendo in molte parti d’Italia alla ricerca di una forma di lotta antiamericana e anticomunista, in modo clandestino. Erano pur sempre gruppuscoli, limitati a poche unita territoriali ma che, organizzati e collegati sul territorio nazionale, avrebbero potuto avere una certa consistenza.
Il gruppo più attivo e consistente, che richiamava attorno ad uomini quali Pino Rauti, Clemente Graziani e Pino Romualdi, altri gruppuscoli di minore consistenza, era quello dei FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria) che si era dotato di una vera e propria struttura partitica, e aveva come scopo il “proseguimento” di un azione rivoluzionaria tendente all’avvio di una “guerra partigiana” contro gli americani.
Le formazioni clandestine si “presentarono” ai romani con alcune azioni “eclatanti”, come quella del 28 Aprile, quando, dopo aver fatto celebrare presso la Chiesa dei “Sette Santi Fondatori” a Roma, una messa in suffragio per Benito Mussolini, un “commando” di questi “nuovi fascisti” fece irruzione negli studi di Radio III a Monte Mario e, dopo avere imbavagliato i due tecnici presenti, con un giradischi mandarono nell’etere la canzone “Giovinezza”, mentre un altro “commando” lanciava due bombe davanti alla sede del Partito Comunista e davanti alla sede del giornale socialista “L’Avanti”. Queste azioni, dimostrative, assieme ad altre, hanno fatto scalpore in città e qualche mese dopo, sulla torre delle Milizie, in Via 4 Novembre, venne issato un gagliardetto nero in occasione del 28 Ottobre, anniversario della Marcia su Roma
Umberto parlò a Giorgio di questi suoi “contatti” e una sera si recarono assieme ad una riunione “semiclandestina” in un appartamento di un amico in Viale Angelico, dove venne proposto ai due cugini di iscriversi a quella formazione; i ragazzi si consultarono e subito declinarono l’invito, rassicurando i “capi” che, concettualmente, sarebbero rimasti vicini a quelle idee, ma al momento, in quanto molto impegnati con gli esami e con l’attività lavorativa non avrebbero potuto dare un “buon contributo alla causa”.
In realtà entrambi concordavano che questi ”camerati” erano, oltre che degli illusi, anche dei visionari in quanto, se si voleva continuare a prestare fede alla ideologia per la quale avevano combattuto e si erano notevolmente sacrificati, sarebbe stato opportuno, con le forze di occupazione ancora massicciamente presenti sul nostro territorio, cercare di adeguarsi al nuovo sistema “democratico” e inserirsi correttamente in questo per propugnare l’idea che non andava rinnegata.

Difatti, pochi mesi dopo, entrambi si avvicinarono al nuovo schieramento politico costitutosi in Roma nello studio di Arturo Michelini, per merito di uomini quali: Giorgio Almirante, Giorgio Bacchi, Pino Romualdi, (era appena uscito dai Far) e che ormai si stavano sciogliendo, oltre a Cesco Giulio Baghino, Marco Cassiano, Biagio Pace e Giovanni Tondelli; questa formazione prese il nome di Movimento Sociale Italiano, strutturatosi immediatamente in partito omogeneo nel quale confluirono molti dei gruppi eterogenei che videro, in questa struttura, da subito organizzatasi su tutto il territorio nazionale, l’unica possibilità di “non rinnegare e non restaurare” quell’ideologia che aveva perso la guerra.
I due cugini si dissero, e lo ripeterono agli amici e ai camerati, che al momento sarebbero rimasti vicini ideologicamente, ma che avrebbero preso posizione in un secondo tempo, dopo aver ben visionato il comportamento di queste nuove formazioni. Difatti, di tanto in tanto, si trovavano con i “marò” della Decima Mas, che in Roma erano numerosi, in serate “conviviali” dove anche Giorgio riuscì ad inserirsi perfettamente poiché, quale milite della Brigata Nera modenese aveva avuto una partecipazione di rilievo in quella sanguinosa guerra civile, dalla quale lui, in realtà, non ne era ancora completamente uscito.

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