Parte Seconda
La Mandante
Romanzo modenese
Il giorno 6 Febbraio 1946, dopo tante
indecisioni, ripensamenti, tentennamenti, rinvii, Giorgio decise di “mettere il
naso fuori dalla porta”. Aveva studiato un programmino, modesto, che lo avrebbe
portato a riprendere gradualmente contatto con la gente e con la sua città,
trascorrendo alcune ore fuori da quelle quattro mura.
Alcune volte, mamma Mirella e papà Giulio, mai assieme e a distanza di più
giorni l’uno dall’altro, si erano recati a casa dello zio Francesco, a trovare
il ragazzo, usando tutti gli accorgimenti utili, quasi fossero dei delinquenti,
tendenti a “dirottare” eventuali “pedinatori male intenzionati”. Erano certi di
essere sorvegliati, dopo le visite avute a casa, di persone “poco
raccomandabili”, alla ricerca di Giorgio, in quanto i “rossi sapevano” che il
ragazzo era stato “dimesso” da Coltano e che, probabilmente, era nascosto da
qualche parte.
Erano terrorizzati, i genitori, anche da quanto erano venuti a sapere dei molti
amici e camerati di Giorgio, reduci da quel campo, che erano stati prelevati
dalle loro case dai partigiani sguinzagliati per la città dall’organizzazione
poliziesca del partito comunista, alla caccia dei fascisti sconfitti per
completare la “pulizia etnica” che da parecchi mesi stavano portando avanti in
tutto il Nord Italia, in particolare nella provincia modenese, e mai più
ritornati.
Quotidianamente, ma era difficile sapere con precisione certe notizie, poiché i
giornali ne pubblicavano solamente alcune che riguardavano il ritrovamento di
cadaveri di fascisti, civili e militari, mentre nulla si sapeva di coloro che
venivano fatti letteralmente scomparire dagli uomini, assetati di sangue, della
“volante rossa”, di loro si perdevano le tracce e la vittima entrava nella
lunghissima lista degli “scomparsi” e i familiari non avevano nemmeno la
possibilità di andare a piangere sulla tomba del congiunto, che veniva fatto,
“completamente sparire”. La serie di questi continui omicidi continuava ancora a
otto, dieci mesi di distanza dalla fine della guerra e ancora, i “becchini
rossi” giravano impuniti, a caccia delle loro prede.
Giorgio sapeva bene che il rischio c’era, ad uscire per Modena, ma il desiderio
di ritornare alla “normalità” da parte di un ragazzo di diciannove anni era
altrettanto forte, oltretutto, in coscienza, sapeva di non aver mai commesso
atti deprecabili, ma nello stesso tempo era bene a conoscenza che, per il solo
fatto di avere indossato la camicia nera in quella brigata che adesso veniva
demonizzata quale ricettacolo di delinquenti e covo di tutte le forme di
perversione, era ancora da considerarsi come una condanna a morte.
Comunicò alla zia la sua intenzione di fare quella “scappatella”, e lei si fece
quasi prendere dal panico e nello stesso tempo gli fece un sacco di
raccomandazioni, sapendo bene che, cercare di “bloccarlo”, sarebbe stato un
tentativo impossibile. Giorgio indossò un vecchio cappotto dello zio, così come
si mise in testa un vecchio “Borsalino” ancora elegante e ben tenuto, con il
bavero alzato uscì di casa per trovarsi in un attimo sotto il portico della Via
Emilia in un orario, le tre e mezzo di un pomeriggio, fortunatamente per lui,
molto nebbioso e umido.
Era la sua prima uscita, da “civile”, dalla fine della guerra e si meravigliò
nel vedere le vetrine con parecchie novità, ma cercò di non soffermarsi troppo a
lungo davanti a queste, allungò il passo per raggiungere il cinema Splendor che
si trovava poco distante dal centro, dove aveva appena superato l’edicola della
“Rosina”, luogo nel quale si soffermava frequentemente a guardare i giornali e
le riviste esposte: aveva appunto letto che in quel cinema si stava
programmando, in quei giorni, un film della nuova produzione italiana del
dopoguerra intitolato: “La vita ricomincia”, con la partecipazione di alcuni
attori già famosi nel periodo fascista, che Giorgio particolarmente amava quali,
Fosco Giacchetti, Alida Valli, Eduardo De Filippo, Carlo Romano, e con la regia
di Mario Mattoli.
Era quasi un anno che non entrava in una sala cinematografica, lui che amava
moltissimo il cinema e che abitudinariamente frequentava le sale modenesi. Fu
con una certa emozione che entrò in una delle sue sale preferite. Il titolo del
film era un invito stimolante per la sua attuale situazione di
“reduce-prigioniero”; si accinse pertanto ad entrare, dopo aver acquistato il
biglietto, in quella sala fumosa e già abbastanza affollata, mentre stava per
iniziare la seconda proiezione pomeridiana. Trovò una poltroncina libera in una
delle ultime file, dove si accomodò lasciandosi scivolare il più possibile verso
il basso, sempre con la preoccupazione di non farsi notare.
Il film raccontava la vicenda di un uomo che era partito per la guerra nel 1940
e che, dopo aver trascorso alcuni anni in un campo di prigionia inglese in
India, era ritornato, alla fine del conflitto, finalmente, in Italia. Ritrova la
moglie Patrizia e il figlio Sandrino e, come vicino di casa, un personaggio
particolare, un professore di filosofia che commentava, con sarcasmo, le vicende
attuali e quelle passate dell’Italia.
Sembrava un ritorno tranquillo alla normalità, ma dopo un po’ di tempo lo
insospettisce lo strano comportamento della moglie. Infatti arriva il colpo di
scena: la moglie viene arrestata con l’accusa di omicidio di un oscuro
personaggio, potente e facoltoso. Effettivamente negli anni bui della guerra la
moglie Patrizia si era concessa a quell’uomo onde aiutare il figlio gravemente
ammalato che necessitava di cure molto costose che lei non poteva assolutamente
permettersi.
Quest’uomo, quando la vide ritornare con il marito, cercò di riaverla
minacciandola di rivelare tutto quello che c’era stato tra loro. I due amanti si
trovano, in segreto, per un colloquio chiarificatore che si conclude, dopo una
lite furibonda, con la morte dell’uomo.
La situazione familiare del reduce crolla, cerca ugualmente di aiutare la moglie
che al processo viene assolta; a questo punto vorrebbe lasciarla, incapace di
superare il tradimento subito, ma qui subentra il vicino di casa, il professore
di filosofia, che durante un lungo colloquio lo convince a perdonare, onde
cercare di ricostruire la famiglia. Il reduce si rende conto che questa è
l’unica soluzione e il film termina con il gruppo a tavola che cerca di
“ricominciare a vivere”.
Giorgio era rimasto inchiodato alla poltrona affascinato, e dal racconto e dalla
recitazione della sua attrice preferita, in più si era totalmente immedesimato
nella drammatica storia del reduce dicendosi che, in realtà, anche lui era un
reduce della guerra devastante che aveva sconvolto il mondo anche se si sentiva
ancora un perseguitato e non totalmente fuori da quell’incubo.
La vita però, si disse, anche per lui avrebbe dovuto ricominciare, sempre che
non gli succeda di venire “pescato” dai “vampiri rossi”, assetati di sangue
fascista.
Attese l’inizio della rappresentazione successiva dopo aver guardato il
documentario e il cine giornale, e al buio si alzò per uscire, soddisfatto per
aver ripreso la sua “vita normale” con la visione di un buon film di ottima
fattura e bene interpretato malgrado la storia triste.
Si trovò, di nuovo, sulla Via Emilia, era già notte, in una dimensione, almeno
per lui, nuova: le luci per le strade, le vetrine illuminate, era molto tempo
che non le vedeva. La gente numerosa, come prima della guerra, sotto al Portico
del Collegio che chiacchierava passeggiando, o conversava davanti al Caffè
Nazionale, luogo di incontro, classico, per tanti modenesi.
Non si azzardò ad entrare perché, una delle ultime volte che vi “mise piede”, fu
l’anno prima, ancora in piena guerra, quando, assieme a due colleghi fu inviato
dal Comandante la sua compagnia, in quel sito, per procedere all’arresto di un
sospetto di appartenere al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) modenese;
era, più o meno, l’orario in cui vi si trovava in quel giorno, ma “tirò via”
velocemente, con la paura che, entrando in quel locale, con molta probabilità
qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo e chiamare “gli addetti ai lavori” al
“repulisti” dei fascisti.
“Tirem innanz”, disse un personaggio dei primi tempi del secolo novecento e così
fece Giorgio superando l’angolo, distrutto, del Portico del Collegio, ancora
pieno di macerie dopo che venne centrato da una bomba americana nel Maggio 1944
al secondo grosso bombardamento su Modena, arrivando, in un attimo, nella vicina
Via Università dove si trovò, guidato, quasi telepaticamente, davanti al GUF, il
Bar frequentato per tanto tempo negli anni “giovanili” (quasi che adesso fosse
vecchio), ma anche questo, al momento, era considerato “off limits”, poiché
avrebbe trovato, entrando, amici del tempo passato o conoscenti che, forse, si
sarebbero ricordati di quella volta che, con la sua pattuglia della Brigata
Nera, davanti al bancone del bar, trovarono un “gagà”, un damerino azzimato, al
quale “per sfregio”, tagliarono la cravatta, visto e considerato che tutti i
suoi coetanei si stavano sacrificando sui fronti europei e questi “snob”
perdevano il loro tempo a gironzolare per locali o a giocare a “boccette e a
carambola” nelle sale che venivano frequentate dalla gioventù modenese in tempo
di pace, quando la situazione era ben diversa dai momenti tragici della guerra
civile e probabilmente, qualcuno, ricordandosi quei fatti, avrebbe potuto
denunciarlo alla “solerte guardia rossa” che, con molta facilità avrebbe
tagliato, anziché la cravatta, la testa al malcapitato fascista.
Accelerò pertanto il passo e, rasentando i muri, pensò bene di recarsi pochi
metri più avanti, in Via Castellaro, in quel negozietto, prima di Piazza Grande,
dove acquistò i “ciacci”, frittelle fatte con farina di castagne, che una volta
gli piacevano tanto, oltre ad una fetta di zucca cotta, era il posto, molto
frequentato anche quando era di pattuglia, dove si abbuffava di caldarroste,
castagne, castagnacci e di “calzagatti”, quelli fritti, dei quali era sempre
stato particolarmente goloso.
Andò, per “godersi in pace” il suo spuntino, sotto i portici dell’attiguo
Palazzo Comunale, quando gli sovvenne che pochi metri più avanti vi era
l’ingresso del Comune, diventato ormai la “sede” dei rossi, i nuovi padroni, e
in quel posto avrebbe potuto facilmente incontrare qualcuno della “volante
rossa” o della nuova polizia, sempre di quel colore, con la probabilità di
essere riconosciuto; fece immediatamente “marcia indietro” e andò a consumare la
sua “merenda” sotto al porticato del “baroccheggiante” Palazzo di Giustizia,
prospiciente la Piazza Grande, da dove poteva godersi la visione della parte
laterale del Duomo, sempre stupenda, seppure con un “bel buco” sopra alla Porta
dei Principi a ricordo del passaggio dei “liberatori” il 13 Maggio 1944.
Era vicinissimo a casa e stava pensando di rientrare, ma ancora voleva
assaporare qualche istante di libertà e gli sovvenne che, a poca distanza, dopo
aver attraversato Piazza Venti Settembre, passando davanti al negozio dove era
commessa la ragazza con la quale aveva “pomiciato” ai giardini pubblici,
(probabilmente c’era ancora ma sarebbe andata a trovarla un'altra volta), si
trovava quell’altra “casa” dove, al compimento dei diciotto anni, aveva fatto la
sua prima “esperienza” e nella quale si era recato alcune volte. Qui, pensò,
“probabilmente riuscirò a restare tranquillo per un po’ di tempo” e,
contemporaneamente, potrò rinnovare quell’ ”esercizio” al quale manco ormai da
tanto tempo.”
Si recò, senza altri ripensamenti nella vicina via Catecumeno e, al n. 9, si
ritrovò in quello stanzone al piano terra dove, l’ultima volta, era entrato
ancora con la divisa della brigata nera addosso e con il mitra sulle spalle, in
compagnia dei suoi camerati.
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Mantenne in testa il suo “Borsalino"” e, con il bavero del cappotto sempre
alzato, andò a sedersi in un divano d’angolo. Vi si trovavano, quella sera,
parecchie persone, ma il “via vai”, per salire e scendere le scale da parte
delle “coppiette”, era scarso. La “signora”, sembrò a Giorgio sempre quella del
tempo passato, come al solito, invitava i clienti a salire in camera, le ragazze
si sedevano e si alzavano in continuazione vicino agli uomini, “sculettando” o
mostrando i seni, più o meno prosperosi, o facendo schioccare la lingua
ripetutamente, con mosse “assai allusive”, ridendo e scherzando con questi, tra
i quali, di tanto in tanto uno si alzava, dopo aver fatto la sua scelta, per
salire in camera.
La “maitresse”, in continuazione, quasi come un disco rotto, sottolineava la
“bravura” delle sue ragazze e declamava l’ “abilità” della “milanese” o della
“napoletana” ma, in particolare, sottolineava l’avvenenza, reale ed evidente,
oltre che la specialità, di una certa “arte”, della “bolognese”.
Questa si trovava vicina a due tipi che parlottavano fittamente tra loro e che,
di tanto in tanto, guardavano, con una certa attenzione, nella direzione di
Giorgio il quale, a un certo momento, vide venirgli incontro la “bellezza”
decantata dalla signora che, con movimenti lenti ed invitanti, si era alzata
dalla sua postazione per andare a prendergli le mani, sussurrandogli in un
orecchio:
“presto, non dire niente, vieni con mè e seguimi senza preoccuparti”;
Nello stesso tempo la ragazza fece un cenno convenzionale alla “signora” che la
ricambiò, facendole l’”occhiolino”, dimostrandole di aver capito tutto. Giorgio
era rimasto colpito dalla bellezza e dalla procacità della “bolognese” e del suo
modo di fare, si alzò immediatamente seguendola sulle scale sino al secondo
piano dove entrarono in una stanza che gli sembrò molto più bella ed accogliente
di quelle già visitate nel passato.
“Sono Luisa”, disse la ragazza, “Luisa Parenti Villani, tu, sei per caso Giorgio
Campari?”
Giorgio rimase, a quel punto, molto perplesso, pensò immediatamente al peggio,
oltre alle preoccupazioni che lo avevano tormentato tutto il pomeriggio:
“Sì, così mi chiamo, ma come fai a conoscere il mio nome?”
“Ora stai zitto, ascoltami solo, ti spiegherò tutto dopo” disse la ragazza.
“Ero seduta in sala, vicina a quei due soggetti i quali, quando ti hanno notato,
si sono “dati di gomito” e, in dialetto, che per tua fortuna conosco bene, si
sono detti:
“Vè Mario, vadet qual là cun al capel negher! Mè al cgnas. Le cal fascesta ed
Giorgio Campari, l’e un ed la “brigata nera”, l’era un amig ed c’leter fascesta
ca iam fat fora in via Cialdini.” (Guarda Mario, lo vedi quel tipo là con il
capello nero. Io lo conosco. E’ quel fascista di Giorgio Campari, è uno della
brigata nera, era un amico di quell’altro fascista che abbiamo ucciso in via
Cialdini).
“Ma et proprio sicur”, (Ma sei proprio sicuro?) gli ha detto l’altro.
“Al cento per cento, am l’arcord bein, perché l’era qual c’al scriviva quand i
m’an purtè in Academia per l’interugatori ch’i m’an fat, e per fortuna c’le fini
bein, perché a iò ciapè sol dù sganasoun. Anzi c’al tip là, al m’à purtè anch’
un bicer d’acqua. Ma l’ò al scriviva sol”. (Al cento per cento, lo ricordo bene,
perché era quello che scriveva quando mi hanno portato in Accademia per
l’interrogatorio che mi hanno fatto e che per fortuna è finito bene, perché ho
preso solamente due schiaffoni. Anzi quel tipo là, mi ha anche portato un
bicchiere d’acqua. Ma lui scriveva solamente.) A quel punto il tizio che si
chiamava Mario gli rispose:
“Alora dai c’al ciapam quand al vin forà dal casot e al purtam subet dal noster
cmandant, Thompson, intant ag lasam fer l’ultma ciaveda, premà ed seplirel;.”
(Allora dai che lo prendiamo quando esce dal casino e lo portiamo subito dal
nostro comandante Thompson. Intanto gli lasciamo fare l’ultima scopata prima di
metterlo sottoterra)
“Io, disse Luisa, conosco bene il dialetto e mi sono permessa di venire in aiuto
a un camerata perché sono una ex ausiliaria e quei “porci” me ne hanno fatte
passare di tutti i colori. Pertanto, e sono d’accordo con la “signora” che mi ha
capita al volo, perché è sempre stata ideologicamente vicino a noi, per cercare
di farti uscire da qui, dandoti tutto l’aiuto possibile.
Ora ti accompagno fuori, facendoti uscire dal cortiletto interno che porta sulla
strada parallela a questa, in Via Scarpa e subito, attraversando via Canalino,
arriviamo al primo portone di Via dei Servi, in un locale al secondo piano dove
abbiamo un nostro appartamento riservato, qui ci sono due camere da letto ed è
tenuto dalla cuoca della “nostra casa” che è una delle “nostre”, dato che è
stata, durante il periodo della Repubblica Sociale, capo cuoca nel vicino
ospedale militare in Via San Geminano, a poca distanza da dove ci troviamo, ed è
stata epurata perché iscritta al Partito.
Andiamo subito, disse Luisa, che, dopo aver indossato un cappotto, accompagnò
Giorgio fuori dalla stanza facendo a ritroso il percorso ma, anziché nella sala
si trovarono nel cortile descritto e Giorgio, che a quel punto non era ancora
riuscito a “spiccicare parola” si trovò, in brevissimo tempo nell’appartamentino
dove trovarono la signora Ada, una donna senz’altro oltre i cinquanta anni, ma
ancora ben portati, molto affabile e gentile che ricevette il ragazzo con
cortesia, dimostrando subito grande disponibilità; dopo che Luisa raffigurò la
situazione, dicendogli che si sarebbe potuto fermare e riposare in quel sito per
quanto tempo voleva e, logicamente, almeno per quella notte.
Giorgio, che era ancora frastornato riuscì a dire qualcosa, ringraziò le due
donne e, rivolgendosi a Luisa, le chiese un favore:
“Per piacere Luisa, ti prego di dare, quando puoi, un colpo di telefono a mio
zio comunicandogli di non preoccuparsi del fatto che questa notte rimango a
dormire fuori casa e che, senz’altro, rientrerò domani”.
Luisa prese il numero di telefono e lo rassicurò, dicendogli di stare
tranquillo, che più tardi sarebbe ritornata per rimanere alcune ore con lui a
raccontargli “alcune cose”. Si accomiatò da Giorgio dato che doveva, ovviamente,
farsi vedere “al lavoro”, sia per rassicurare la “signora” che l’ ”operazione”
era andata in porto, sia per controllare i “due sicari”.
Prima di entrare in sala si mise d’accordo con tre ”colleghe” le quali si misero
a fare un po’ di “manfrina” davanti ai due “monatti”, in modo tale da permettere
a Luisa di entrare in sala senza farsi vedere da loro e accomodarsi sul divano
più distante. Quando questi si accorsero della presenza della “bolognese” si
guardarono attorno alla ricerca di Giorgio e, non vedendolo, uno dei due si
avvicinò a Luisa chiedendole sgarbatamente:
“dov’è andato il tizio che era salito in camera con tè?”
Lei, facendo finta di non aver sentito, si fece ripetere la domanda rispondendo
tranquillamente:
“mi pare che sia appena uscito.”
Al che i due “ceffi” si precipitarono immediatamente all’esterno rimanendo,
ovviamente, con un palmo di naso per essersi lasciati sfuggire la “preda”. Luisa
passò ancora due ore buone nel suo “ambiente di lavoro”, poi, dopo essersi data
una riassettata e ad aver indossato un abito abbastanza “castigato” si recò
nella vicina Via dei Servi.
Trovò Giorgio che stava chiacchierando con la signora Ada Neviani la quale, da
brava cuoca, aveva preparato una buona cenetta, graditissima al giovane che,
inizialmente, si era sentito molto imbarazzato per essersi lasciato sorprendere,
alla sua prima uscita, in una situazione alquanto delicata, tra persone
sconosciute, in un ambiente “insolito”, oltre all’aver messo in difficoltà donne
che avrebbero potuto incontrare, in seguito, problemi abbastanza gravi.
Andava, però, gradualmente “distendendosi” valutando, tra l’altro, che era stato
molto fortunato e, quanto meno, il suo “stellone” o il suo “angelo custode”
l’avevano ben protetto. Valutò inoltre che le perplessità avute in quei giorni
si erano rivelate più che fondate, la situazione a Modena, non era ancora
favorevole a quelli come lui dato che, “tirava una brutta aria”.
Quando Luisa arrivò, fece a Giorgio un bel sorriso mettendosi a sedere e
versandosi subito un “dito” di “doppio Kummel” dalla bottiglia che Ada aveva
messo sulla tavola nell’ intento di offrire al “giovanotto”, dopo la buona
cenetta, il digestivo d’obbligo; adducendo poi la scusante di dover fare alcuni
lavoretti, si ritirò nella sua stanza, lasciando soli i due.
Vi fu un attimo di silenzio, poi Luisa lo fissò a lungo e gli disse:
”immagino che anche tu avrai passato guai simili ai miei, non dirmi una sola
parola di ringraziamento in quanto mi è parso logico, oltre che opportuno, che
due camerati in difficoltà, debbano aiutarsi, se per loro è possibile,
reciprocamente, e tu, in quei momenti, lo eri. Ho telefonato a tuo zio, ha
capito subito la situazione e, malgrado nell’immediato fosse piuttosto
preoccupato, si è ben rassicurato dopo le mie spiegazioni, dicendomi di
consigliarti di muoverti da questo posto, per rientrare a casa, nelle prime ore
del pomeriggio di domani prestando, ovviamente, molta attenzione.”
“Ti ringrazio ugualmente”, disse Giorgio, “per tutto quello che state facendo
per me e a questo punto, visto che siamo qui ben rilassati, fumiamoci anche una
sigaretta, però devi raccontare subito qualcosa di te, e come mai ti trovi in
quella casa, sempre che tu te la senta. Io sono stato prigioniero a Coltano,
dopo che gli americani ci presero, con i camerati della Brigata Nera, modenese,
poi avrò modo di raccontarti le mie “disavventure”, ma adesso che ti guardo
bene, mi pare, e credo di non sbagliarmi, di averti notata, dato che lo sai di
essere molto bella, come lo eri anche quel giorno di Marzo dello scorso anno,
alla caserma della GNR di Mirandola, assieme alle altre ausiliarie, presenti
all’incontro che abbiamo avuto per una cerimonia ufficiale avvenuta in quei
locali, e che, purtroppo non poté prolungarsi più di tanto, dal momento che,
nelle primissime ore del pomeriggio, inviarono il nostro reparto a partecipare
ad un rastrellamento, nella vicina Concordia, dopo che i partigiani avevano
ucciso, in un agguato, tre dei nostri camerati”.
“Ecco allora dove ci siamo visti”, disse Luisa, “ti avevo notato anch’io e
prima, quando ti ho visto in sala, anche se avevi il cappello in testa e il
bavero del cappotto alzato mi sono detta: “io quella faccia lì l’ho già vista da
qualche parte”. In ogni caso stai tranquillo che i due “banditi” che ti volevano
“prelevare” per, probabilmente, farti fare la fine di tanti dei “nostri”, sono
stati “dirottati” per altri lidi e, di certo, non potranno restare a lungo in
giro per Modena a cercarti, ma naturalmente, questa notte, per maggiore
sicurezza, resti a dormire nella stanza qui a fianco dove, qualche volta, io e
la signora Matilde, la “tenutaria” della casa, veniamo a distrarci e a riposarci
un po’, fuori da quelle “camere”. Di lei, ti assicuro, puoi completamente
fidarti poiché il suo uomo, che attualmente si è rifugiato in Spagna, era un
grosso esponente del Fascio e lei ne era, e lo è ancora, l’ amante; lui vorrebbe
farla trasferire a Madrid, come mi ha confidato, ma non si sente ancora pronta a
compiere quel passo, così come devi stare tranquillo per la signora Ada, come
detto, anche lei della nostra idea.
Giorgio la guardava estasiato e sempre più affascinato da quella giovane donna,
di una bellezza fuori dal comune, capelli corvini lunghi e fluenti, occhi
grandi, neri e mobilissimi, una pelle bianca e liscia come porcellana e, vista
così, in casa, con un semplice abito della quotidianità al posto dei veli e dei
lustrini, senza l’abbondante rossetto sulla labbra carnose e sensuali, come
invece le era apparsa solamente qualche ora prima, si faceva vedere come una di
quelle bellezze, acqua e sapone, che apparivano sulle riviste tipo “Grandi
Firme” o Annabella”.
“Come ti ho detto,” proseguì lei, “mi chiamo Luisa, Luisa Parenti, ma
attualmente Luisella Villani, sono nata a Bologna, dove ho abitato sino al primo
pesantissimo bombardamento anglo americano, che costò alla mia città migliaia di
morti e che distrusse anche la nostra casa in Via Galliera, dalle parti della
stazione Centrale e dei Giardini Margherita. Qui frequentavo la seconda classe
al Liceo Classico “Marco Minghetti”, poi ci trasferimmo, con le poche cose
salvate e tirate fuori dalle macerie, fortunatamente ci salvammo tutti poiché
nessuno della famiglia si trovava in casa, in un appartamento presso dei parenti
che abitano a Mirandola, dove mi iscrissi presso il locale Liceo “Pico” nel
quale, tra l’altro, vi insegnava la moglie di mio zio”.
“Ah”, fece Giorgio “siamo dunque coetanei e con la stessa carriera scolastica
alle spalle, anch’io frequentavo, e spero ancora di potermi iscrivere,
all’inizio del prossimo anno scolastico, all’ultimo anno del Liceo Muratori qui
a Modena, per poter frequentare subito dopo l’Università. Ma tu, poi, cos’hai
combinato?”.
“In casa mia”, proseguì Luisa, “ho avuto una educazione improntata ai classici
schemi del fascismo, con una impostazione tipica di una borghesia non ricca, ma
ugualmente benestante, legata alle motivazioni lanciate dal regime ma senza
alcuna “fanatizzazione” come invece molti, vi si erano dedicati durante il
“ventennio”; sia mamma che papà sono stati iscritti al partito e si
frequentavano alcune istituzioni tipiche, create in quel periodo.
Al termine del penultimo anno del Liceo, quando anch’io avrei dovuto frequentare
il terzo anno, avendo saputo che era stato istituito il Corpo delle Ausiliarie e
ritenendo che anche noi ragazze dovevamo cercare di contribuire ai destini della
Patria, mi sono sentita in dovere di partecipare alla lotta immane che tutti i
nostri coetanei maschi andavano combattendo sul nostro territorio, invaso e
devastato dal nemico. Avevo ricevuto un’educazione cattolica e tradizionalista,
seppure non bigotta, che si coniugava bene con tutto quello che mi avevano
insegnato nelle scuole fasciste e, “Credere, Obbedire e Combattere” era
diventato il mio motto al quale mi sono totalmente dedicata.
Mi sono arruolata, nel mese di Ottobre, dopo aver trascorso un estate tranquilla
a casa di miei zii in Liguria a Lerici, e la definitiva causa che mi fece
prendere quella decisione fu la notizia della consegna della medaglia d’oro,
alla memoria, ad una ausiliaria, Franca Barbier uccisa dai partigiani il 25
Luglio del 1944 a Champorcher, in Val d’Aosta, con una motivazione che mi fece
piangere calde lacrime, in quanto i ”banditi”, prima di fucilarla le chiesero di
passare “armi e bagagli” con loro per fare l’informatrice, ma lei si rifiutò
sdegnosamente urlando “Viva l’’Italia”, prima di cadere falciata da una spietata
scarica di mitra.
Dal 5 Novembre, sino a pochi giorni prima di Natale, ho partecipato al corso di
addestramento, denominato, “Giovinezza” a Como. Eravamo tutte ragazze
giovanissime; io avevo compiuto diciotto anni da pochi giorni, e tante delle mie
colleghe avevano solamente diciasette anni, ma tutte eravamo spinte da un
entusiasmo e da una fede assoluta, pronte anche al sacrificio supremo, in quanto
sapevamo già di qualche camerata, che aveva partecipato ai corsi precedenti al
nostro, uccisa e di tante che venivano perseguitate dai “ribelli”, di
conseguenza eravamo bene al corrente a cosa andavamo incontro.
Fui aggregata, con molte delle mie colleghe del corso di Como, alla Brigata Nera
milanese “Aldo Resega” dove abbiamo prestato servizio in vari settori, ma
ricordo con particolare entusiasmo il giorno 18 Dicembre, quando il nostro corso
prestò giuramento, assieme ad altri reparti, al Duce e alla Repubblica Sociale
Italiana al Castello Sforzesco a Milano durante le tre giornate entusiasmanti
della visita di Mussolini.”
“Ah”, disse Giorgio, “c’ero anch’io al Lirico e in giro per Milano in quei
giorni, come vedi un'altra circostanza ci accomuna, oltre all’incontro fortuito
a Mirandola”; a questo punto volle fare una battuta:
“ci fanno avvicinare tre M, forse in ricordo del nostro amato Mussolini,
Mirandola, Modena e Milano”.
Luisa abbozzò un sorriso e continuò a descrivere, per sommi capi, il periodo da
lei trascorso a Milano narrando anche dei particolari di quando soccorse alcuni
feriti, durante un mitragliamento aereo, nel quale, per poco, non venne colpita
anche lei.
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“Dove ti sei trovata nei giorni attorno al 25 Aprile quando tutto stava
crollando?”, chiese ancora alla ragazza la quale, si era accorto, aveva un gran
desiderio di parlare e di sfogarsi con qualcuno dei “suoi”.
“Mi trovavo ancora a Como la mattina del 18 Aprile, nei locali del Comando delle
Ausiliarie in Via Zezio, assieme alla nostra Comandante, Piera Gatteschi
Fondelli, dopo che Alessandro Pavolini aveva assistito al giuramento delle
ausiliarie dell’ultimo corso di addestramento, denominato “18 Aprile”, durante
il quale aveva appuntato i gladi sui baveri delle ragazze schierate e felici di
aver terminato il loro corso, ma ignare che stavano andando incontro, in tante,
alla morte, senza nemmeno aver preso parte ad un giorno di lotta.
La guerra stava terminando, lo stesso Pavolini aveva messo in guardia la
Comandante, consigliandola di cercare di fare tutto il possibile per mettere in
salvo le ragazze e bruciare tutti i documenti. Poi, un gruppo di noi seguì il
Prefetto Renato Celio e il Federale di Como, Paolo Porta e ci recammo a Milano;
ormai avevamo saputo che il fronte aveva ceduto e che gli angloamericani stavano
dilagando nella Pianura Padana, e qui si pensava potessero riunirsi tutti i
reparti per dirigersi verso il famoso ridotto della Valtellina del quale, negli
ultimi tempi, tanto si era parlato, ci sistemarono in un Ospedale Militare e
molte ragazze, quelle appena uscite dall’ultimo corso, furono immesse come
infermiere a disposizione di quella struttura.
Ritornammo in caserma dove la maggioranza delle giovani venne consegnata, con lo
scopo di trattenerle lì, poiché il ritorno alle proprie case, in forma
individuale, avrebbe significato morte certa.
Veramente ormai regnava il caos; io mi recai con una pattuglia in Prefettura
dove trovammo Mussolini che stava partendo, mentre Pavolini gli urlava di “non
andare”; poi altre auto, dove si trovavano i gerarchi, lo seguirono, assieme ad
automezzi tedeschi; vi era da parte di molti, compreso il prefetto, la
sensazione che, in considerazione del grosso concentramento di forze armate in
Milano, a breve avrebbe potuto verificarsi un bombardamento aereo di quelli
molto pesanti. Circolavano le voci più assurde, come il grosso raggruppamento di
forze partigiane alle periferia della città e molti parlavano di tradimento
tedesco; eravamo a questo punto al “si salvi chi può” e ciascuna di noi, doveva
valutare, in tutta fretta, cosa fare e “a quale santo votarsi”.
Mi trovai, con altre tre ragazze della mia squadra, una delle quali aveva un
recapito in città, a suo dire abbastanza sicuro, così decidemmo di recarci in
quel sito che, tra l’altro, era abbastanza vicino alla Prefettura.
In quell’appartamento restammo alcuni giorni dopo esserci messe in abiti
borghesi trovati dalla nostra collega milanese da alcune sue amiche, quando il
28 Aprile, nel pomeriggio, dalla radio, apprendiamo della fucilazione di
Mussolini e degli altri gerarchi sul lago di Como.
Eravamo tutte e quattro avvilite, ci scendevano le lacrime agli occhi, prese da
uno sconforto indicibile. Un amica della nostra camerata milanese riuscì a farci
mettere in contatto con l’organizzazione dell’assistenza Pontificia di Milano
che in quei giorni cercava di aiutare i fascisti, facendo trovar loro i
lasciapassare, rilasciati dai comandi del CLN, per far si che molti sbandati,
gradualmente, potessero tornare alle loro case, senza troppi ostacoli.
Dopo quattro o cinque giorni riuscimmo ad ottenere tre lasciapassare, per me,
per l’amica Giulietta di Bologna e per Franca, originaria di Ravenna. Il giorno
4 Maggio, trovammo un mezzo che, ci dissero, sarebbe arrivato sino a Mantova
poi, da quella città avremmo dovuto provvedere per conto nostro, pur avendoci
dato un riferimento che da quel posto, o alla sera o il giorno dopo, sarebbe
dovuto partire, per l’Emilia Romagna, un mezzo della Pontificia Commissione di
assistenza, proveniente da Brescia.
Decidemmo di correre il rischio di partire, convinte che i nostri lasciapassare
ci mettessero nella condizione di viaggiare tranquille. Ci abbracciammo con la
nostra collega milanese che aveva deciso di restare rinchiusa per un po’ di
tempo nella sua città e, da Piazzale Cordusio, abbiamo intrapreso il viaggio,
assieme ad altri “disperati” tutti fiduciosi di arrivare, al più presto, alle
rispettive famiglie.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo, una serie di soste a Lodi, a Cremona,
quelle che ricordo, dove ai posti di blocco ci venivano controllati i documenti
e tutto filò liscio sino a Mantova dove, in una piazza vicino al lago, siamo
rimasti quattro o cinque ore in attesa del camion che raccolse otto dieci del
nostro gruppo, comprese noi tre, che avremmo dovuto raggiungere, prima Modena,
poi Bologna e Ravenna.
Dopo aver attraversato, avventurosamente, su di un ponte di barche, il Pò,
entrammo in una zona di controlli più severi e “cattivi”. Già al primo, subito
dopo San Benedetto ci tennero fermi più di un ora e vennero fatti scendere in
tre, per essere portati al comando partigiano di quel paese per maggiori
accertamenti; cominciammo a preoccuparci, anche perché i tre non rientrarono e
il camion venne fatto ripartire, malgrado alcuni di questi “nuovi poliziotti”
volessero farci scendere tutti. Altro veloce controllo a Moglia poi, entrati in
Provincia di Modena, a Novi ulteriore posto di blocco, quì ci fecero scendere
con modi bruschi e violenti e, dopo avere preso a tutti i permessi, li
trattennero e, anziché farci proseguire per Carpi, ci dirottarono nella vicina
Concordia dove un altro gruppo di partigiani ci prese “sotto controllo” poi ci
accusarono di essere tutti delle, ”sporche spie fasciste”, pertanto ci avrebbero
portati alle carceri di Mirandola per ulteriori accertamenti.
Io cominciai a preoccuparmi e non poco, a Mirandola mi conoscevano, mi avevano
visto, spesso e volentieri, anche in divisa da ausiliaria, nello stesso tempo
speravo di poter avere la possibilità di contattare i miei, colà sfollati presso
parenti, ma su questo non avevo troppa fiducia, visto e considerato come ci
stavano trattando. Scendemmo alla ex caserma della Gnr, in via Pico, luogo da me
ben conosciuto, e subito “sbattuti” nelle celle dove trovammo tanti fascisti del
posto, ma con i quali non avemmo, né la voglia, né la forza, di scambiare
“quattro chiacchiere”, visto che eravamo tutti distrutti dopo un viaggio
massacrante come quello che avevamo appena terminato.
Ci lasciarono tutti assieme, maschi e femmine in alcuni stanzoni con davanti
alle porte alcuni di “loro” armati di mitra e di bombe a mano alla cintura. Il
tanfo in quel luogo era insopportabile, vi era chi, costretto da necessità
improrogabili, urinava o defecava nella stanza, senza alcun ritegno, alcuni di
quelli che trovammo lì dentro vi erano stati rinchiusi da parecchi giorni; quasi
tutti avevano volti tumefatti, segno di continue percosse, emaciati per non aver
avuto cibo e in un angolo vi era un secchio con un mestolo che serviva per
“abbeverare” i reclusi.
Di tanto in tanto entrava uno dei partigiani di guardia, si avvicinava ad uno
dei poveri disgraziati, lo chiamava per nome poi, con il calcio del fucile o del
mitra, gli sferrava un colpo violentissimo in faccia dicendogli:
“Ti ricordi di quando andavi in giro a fare i rastrellamenti?. Per adesso
beccati questo che domani ti dovrai scavare la fossa da solo perciò ti deve
rimanere un po’ di energia.”
E dopo poco toccava ad un altro. Noi tre ci eravamo rifugiate in un angolo tutte
abbracciate, quando due di questi “ceffi” si avvicinarono e trascinandoci per i
capelli, ci portarono al centro della stanza:
“eccole qua, tre puttane fasciste, cosa eravate, ausiliarie?, quali servizi
facevate ai vostri camerati?” cominciarono a darci una serie di schiaffi che ci
fecero cadere per terra, mentre loro, con grida e calci, ci urlavano di
rialzarci per picchiarci ancora, quando improvvisamente entrò un tizio, assieme
ad altri tre, che molto probabilmente era il capo della “banda”, dal momento che
i nostri “picchiatori” si fermarono e lui si limitò a dire che dovevano
smetterla e non picchiarci più, poiché il giorno dopo avrebbero dovuto portarci
a Modena per un interrogatorio, in quanto eravamo in possesso di un permesso del
CLN lombardo e non si dovevano commettere errori di sorta, anzi ci chiese scusa
per il trattamento che ci avevano riservato quei “zoticoni” facendoli uscire
immediatamente dal carcere.”
Giorgio la lasciò sfogare e si rese conto che la parte più “pesante della
storia” di quella ragazza, non era ancora arrivata:
“ma allora i lasciapassare che vi avevano rilasciato i comandi del CLN lombardo
non sono serviti a niente”, rilanciò il ragazzo.
“Proprio così” continuò Luisa, “ci dissero che erano carta straccia e che tutti
noi, maschi e femmine, eravamo solamente degli “sporchi fascisti” ai quali erano
venuti in aiuto i preti e il Vaticano, ma che presto, anche gli “scarafaggi” con
la sottana, sarebbero stati completamente annientati, come stavano facendo con i
fascisti. A quel punto ci rendemmo conto che la nostra sorte era ormai segnata e
nessuno sarebbe venuto in nostro aiuto.
Passammo tutto il giorno in quel luogo, sempre più maleodorante, senza avere il
conforto di un pezzo di pane, con la possibilità di bagnarci solamente le
labbra, poiché nel secchio era rimasto praticamente un solo mestolo d’acqua che
non serviva a dissetare tutta quella gente distrutta, nel fisico e nel morale.
Imparammo a conoscerci e a raccontarci le provenienze, quali erano i nostri
reparti e come eravamo caduti e cadute, nelle mani dei partigiani. Dopo aver
trascorso una notte terrificante, senza la possibilità di riposarci, dato che,
dal locale vicino a quello dove eravamo stipati, provenivano delle urla bestiali
e i lamenti dei poveri disgraziati che venivano torturati e sottoposti a sevizie
incredibili, i partigiani cercavano di appurare l’appartenenza a quali
formazioni fasciste facessero parte i prigionieri, ma era solamente il sadismo
di questi personaggi che si scatenava su di noi.
Il mattino dopo, era il 9 Maggio, ci misero in disparte in una decina,
confermandoci che avevano ricevuto l’ordine dal CLN di trasportarci a Modena per
essere sottoposti ad indagini accurate tendenti ad accertare nostre eventuali
responsabilità e sulla nostra posizione durante il periodo della RSI.
Ci caricarono su di un camion, appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana
di Mirandola, al quale avevano cancellato grossolanamente le sigle e i fasci che
ancora si vedevano bene; eravamo accompagnati da sei “scagnozzi” che, senza
tanti complimenti, usando su di noi, violentemente, il calcio del fucile, ci
intimarono di restare in silenzio dopo che ci ebbero legate le mani con del filo
di ferro.
Eravamo, di quel gruppo, noi tre ragazze provenienti da Milano, io e, come ti ho
detto, le altre due ausiliarie, la bolognese Giulietta Minardi e la ravennate
Franca Bongiovanni; compagni di sventura, si trovarono con noi: il maggiore
della GNR Ettore Tabacchi di sessantadue anni, personaggio abbastanza noto a
Mirandola, con il figlio Fernando Tabacchi, anche lui milite della Guardia, era
pure presente un altro “pezzo grosso”, il colonnello, sempre della Gnr di
Mirandola, di cinquanta anni, Mario Cecchi, oltre ai tenenti, di quel reparto,
Domenico Patrinieri, di trentadue anni e Claudio Spezzani, di anni ventidue.
Salirono sul mezzo anche due nostre colleghe del posto, le ausiliare, Giulia
Castellini, di quaranta anni e Gina Malagoli, di ventitre anni. Eravamo dunque,
cinque donne e cinque uomini. La nostra speranza era quella che ci portassero
veramente al Comando superiore del CLN provinciale, visto e considerato che
erano presenti alcuni personaggi di spicco della caserma di Mirandola.
Ci accompagnavano sei partigiani seduti sul cassone con noi e due in cabina di
guida, armatissimi e con modi di fare duri e sprezzanti nei nostri riguardi. Li
comandava, al momento conoscemmo i soli nomi di battaglia con i quali si
chiamavano l’uno con l’altro, ma in seguito, purtroppo, imparai anche le vere
generalità di ciascuno di loro, un certo “Bill”, poi, in successione, sul
camion, assieme ai prigionieri, si accomodarono: “Ultimo”, “Basco”, “Poldo”,
“Raffica”, “Balilla” e, in cabina di guida, “Vladimiro” e “Cartuccia”.
Il Camion s’avviò, prendendo la strada Statale Abetone - Brennero, chiamata
Canaletto, diretto verso Modena quando, giunti in località San Prospero, ce ne
accorgemmo dopo poco, deviò a destra prendendo una strada dissestata che ci
portò, dopo un breve tragitto e dopo aver superato un piccolo borgo, denominato
San Martino, vicino all’argine di un fiume, che quelli del posto dissero
chiamarsi “Secchia”, nessuno capiva del perché di quella deviazione, quando
improvvisamente il loro capo, Bill, ci ordinò di scendere con “male parole”
dicendo che il viaggio era terminato.
Una volta a terra ci rendemmo conto che la nostra sorte era segnata; eravamo
tutti diventati di un colore terreo e sui nostri volti era disegnato
letteralmente il terrore. Ci guardammo attorno, il posto era completamente
deserto, non si vedevano case nelle vicinanze, solamente filari di pioppi e
l’argine del fiume; era una bella giornata, il sole, malgrado fosse ancora prima
mattina, era già alto, una leggera nebbiolina all’orizzonte, sui campi di grano
e di erba medica, dava la sensazione che ci avessero portato a fare una
scampagnata, mancavano solamente gli approvvigionamenti e le coperte da stendere
sull’erba per fare uno spuntino, o le reticelle per andare a caccia di farfalle;
ma l’atmosfera non era assolutamente “bucolica”, tutt’altro: gli otto
“energumeni” si schierarono con i mitra e con i fucili spianati, tutt’intorno a
noi che ci eravamo raggruppati, stringendoci gli uni alle altre.
Il “comandante” Bill e i suoi “sgherri” ci costrinsero a salire e poi a scendere
dall’argine, arrivammo così sulla riva del fiume dove scorreva, lentamente, il
corso d’acqua, chiara ed invitante per poterci fare una bella gita in barca,
come mi era capitato, nel passato, assieme ad amiche ed amici, quando
frequentavo il Liceo a Mirandola e si andavano a fare lunghi giri in bicicletta
sul fiume Po’ e, penso, sempre su quelle acque, ma in un punto diverso, si
facevano percorsi su di una barca a remi arrivando tante volte sino ad una zona
dove vi era il rimessaggio di barche da canottaggio sulle quali, spesso, i
ragazzi ingaggiavano delle competizioni accanite poi, allora, si facevano
veramente le merende sull’erba. Ma la situazione quella mattina non era così
idilliaca. A un certo momento il “bruto” iniziò una “concione” in lingua
italiana, la cosa mi sembrò strana poiché li avevo sentiti parlare solamente in
dialetto, infarcita di “strafalcioni” ma molto chiara nella sostanza.
Quelli della sua squadra avevano deciso di formare “un tribunale del popolo” che
ci avrebbe giudicato, senza bisogno di portarci sino a Modena da quelli del
Comitato di Liberazione, in quanto la guerra partigiana l’avevano fatta loro e
il “regolamento dei conti” con le “carogne fasciste” l’avrebbero fatto i “veri
combattenti della resistenza” e non quelli che erano rimasti dietro le scrivanie
e negli uffici in città; a quel punto ci accusò di essere tutti delle “spie” e
dei “collaborazionisti” del tedesco invasore, pertanto venivamo condannati a
morte; la sentenza sarebbe avvenuta in quel luogo, per mano degli stessi
“giudici” presenti che si dichiararono favorevoli al giudizio dato dal loro
comandante.
Tutti noi ci mettemmo a urlare, più o meno forte, accusandoli di non essere
stati alle regole, che era un arbitrio, un sopruso, dovevano portarci davanti ad
un vero tribunale, nel frattempo sempre spingendoci con i fucili, con rabbia e
con violenza tale da lasciare i segni sui nostri corpi, già martoriati, ci
separarono, maschi da una parte e femmine a una decina di metri di distanza: e
qui, caro Giorgio, mi sono trovata al centro di una scena orrenda ed
allucinante: agli uomini furonop date in mano due vanghe e due badili, e furono
costretti dai “rossi” a scavare due grandi buche; uno dei due tenenti, Domenico
Paltrinieri, ebbe un gesto di ribellione e si scaglio con la vanga contro uno
dei partigiani che, vista quella reazione, immediatamente gli scaricò addosso
una raffica di mitra che lo lasciò a terra in un lago di sangue.
Tutti gli altri puntarono i fucili contro i quattro uomini superstiti che
rimasero completamente “traumatizzati”, cosi come lo fummo noi ragazze: ma Bill,
sempre urlando, obligò agli uomini di continuare a scavare e contemporaneamente
ordinò a tre dei “suoi”, di spogliare tre di noi: e di prenderci a piacimento;
vennero subito denudate e gettate sul greto del fiume le due ausiliare, Giulia
Castellini e Gina Malagoli oltre ad una delle mie amiche, Franca Bongiovanni che
cercò di scappare, ma con una violentissima strattonata, venne gettata
brutalmente a terra.
La sottoscritta invece, fu presa da Bill per un braccio e spostata da una
parte, mentre il capo partigiano urlava:
“Quasta chè, am la tagn per mè, vueter fev tottì che gli etri, e tott quant”.
(Questa la tengo per mè, voi fatevi pure tutte le altre e fatelo tutti).
Tieni presente che io non avevo mai toccato, neppure baciato, un uomo e non
conoscevo ancora niente del sesso, se non solamente qualche “discorsetto”
fattomi da un’amica più “navigata”.
La scena era allucinante, nel frattempo, altri due uomini, il giovane figlio del
maggiore Tabacchi, Fernando e, il colonnello Mario Cecchi, vennero fatti
inginocchiare e due dei “sicari” estrassero due grosse pistole, probabilmente
tedesche, mi ricordavo di averle viste nelle mani di questi, e le puntarono alla
nuca dei disgraziati, sentii due colpi in rapida successione e vidi
raggomitolarsi a terra, senza vita, i loro corpi; mi sembrava tutto così irreale
che non riuscivo, ad emettere alcun suono, e non avevo alcuna sensazione dentro
di me, il mio cervello era completamente bloccato, tanto meno avevo le lacrime
agli occhi, che erano completamente asciutti e apertissimi a guardare quel
sangue, quei corpi nudi, quei gesti sconci, quelle frasi sguaiate, quelle urla
strazianti, sia dei ragazzi che delle ragazze, prese da più di una di quelle
belve assetate di sangue e completamente “infoiate”; le buche poco profonde ma
abbastanza ampie erano state quasi completate, quando anche gli altri furono
fatti inginocchiare.
Io guardavo in particolare l’espressione del maggiore Ettore Tabacchi che aveva
visto uccidere il figlio, poco prima, mi parve sereno e probabilmente stava
dicendo con se stesso che finalmente si sarebbe ricongiunto con Fernando e così
fu.
Anche per lui il colpo alla nuca, così come, rapidamente, altri due “vampiri
rossi” uccisero il giovane Claudio Spezzani e la mia collega Giulietta Minardi,
dopo che era stata presa, più volte, sotto ai miei occhi.
A quel punto subii la stessa sorte. Bill, mi strappò il vestito e le mutandine,
mi scagliò violentemente al suolo e lì mi prese con una rabbia tale che io non
feci altro che cacciare due urla disumane, per poi zittirmi completamente sino a
che non ebbe concluso, mentre ero rimasta ad occhi chiusi a subire quell’affronto
che non dimenticherò mai, non solamente per quello che era stato fatto a me, ma
per la scena orrenda alla quale mi era toccato assistere, con lo strazio totale
di tutti quei corpi.
Avevo visto brutte cose durante i mesi della guerra, corpi straziati dalle
bombe, fucilazioni, prepotenze, ma una “cosa”, talmente devastante mai; non
avrei assolutamente potuto pensare che l’uomo potesse arrivare a tali bassezze e
a esprimere la violenza in modo così “bestiale”. Fu in quel momento che mi dissi
e giurai con me stessa: “se sopravvivo”, questi, “prima o poi”, la pagheranno
cara.
Calò sul posto un silenzio assordante, ero rimasta solamente io con quel gruppo
di assassini e stupratori: poi Bill si rivolse ai “compagni” dicendo loro:
“finiamo di sotterrare questi cadaveri e, se siete d’accordo, questa “bella
puttanella fascista” la teniamo in vita, così ce la “godiamo per un po’ di
tempo”; “a la purtam a cà di Trebbi dove a g’am tgnu, cla bela figa, come l’as
ciameva? ah, am’arcord, l’Irma, c’as la sam fata tott, per quesi quendes gioren
e po’ a l’am seplida”.
(la portiamo alla casa dei Trebbi, dove ci abbiamo tenuto, quella bella ragazza,
come si chiamava, ah, ecco mi ricordo, l’Irma, che ce la siamo goduta tutti per
quasi quindici giorni e poi l’abbiamo sepolta).
Sentendo quelle parole, pur frastornata com’ero, non potei non farmi venire in
mente, ciò che ci diceva la nostra insegnante di lettere al Liceo, commentando
la grande poetessa americana Emily Dickinson, la quale affermava che c'è un
limite alla sopportabilità del dolore e dell'angoscia, una difesa che scatta in
modo naturale quando questo limite è ormai superato. Ma l'aggiramento
dell'angoscia, lo sfuggire a un eccesso di dolore è un processo molto labile,
bisogna trattenere il respiro, non pronunciare parola, altrimenti vincerebbe il
prorompere di quell'angoscia che stiamo cercando di esorcizzare.
Mi ero innamorata di quella poetessa; e ora mi trovavo in una situazione di
attesa e di sospensione tra la vita e la morte, morte che aveva falciato tutte
quelle vite attorno a me, e mi sovvenne quel volto di granito della stessa, che
diventa esempio da imitare, un silenzio che supera il potere della parola come
diceva la sua poesia che, stranamente, in quel frangente riuscii a declamare a
me stessa:
Dai un po' d'Angoscia,
I vivi si logoreranno
Danne Valanghe,
E l'aggireranno
Raddrizzandosi - cercando cauti il respiro
Ma non diranno sillaba, come la Morte -
Che mostra solo il suo volto di Granito
Qualcosa di più sublime - della Parola.
Intanto i “becchini” finirono di coprire con la terra, tutto quello scempio,
pensai a quanto tempo avrebbero potuto restare coperti quei poveri resti, poi o
il fiume o la pioggia avrebbe scoperto tutto, cercai di mettermi in testa una
“piantina” virtuale della zona poiché, un domani, nel caso il destino avesse
voluto aiutarmi, avrei potuto ritrovare quel “sito”, onde far sì di riportare ai
parenti, quello che si sarebbe potuto ritrovare, delle mie camerate e degli
altri fascisti uccisi, in modo così orripilante.
Mi gettarono addosso un sacco di tela greggia, che si trovava sul camion, dopo
averci tagliato con un pugnale appuntito e affilatissimo, tre fori per la testa
e le braccia e, dopo avermi letteralmente buttata come un sacco di spazzatura
sul cassone, salirono tutti e ripartimmo da quel posto maledetto, per
raggiungere, in circa dieci minuti, una casa di campagna isolata, dove trovammo
un gruppo di contadini che ci venne incontro. Dopo che eravamo tutti scesi,
chiesero al comandante Bill, cos’era successo, come mai erano ritornati al loro
casolare e chi era quella “cosa” ricoperta di un sacco, che avevano con loro.
Questi, si rivolse al tipo più anziano:
“Vè Tonino, a n’avam fat fora soquant ed chi fascesta merz e c’a iam sepli,
luntan, in dal Sacià, e quasta chè a la tgnam in dal cius o in dla stala, come a
iam fat cun cl’etra, a m’arcmand c’lan dev menga scaper, intant se i to fio i la
volen ciaver is polen tirer zò el bregh e fer qual chi volen, nuater quand a g’avram
voia ed fersla arivam chè a deregh du colp.”
(Guarda Tonino ne abbiamo uccisi un po’ di quei fascisti marci, che poi abbiamo
sepolto, lontano da qui, sul fiume Secchia e questa ragazza la teniamo chiusa o
nel posto per i maiali o nella stalla, come abbiamo fatto con l’altra e mi
raccomando, non lasciatevela scappare. Intanto se i tuoi figli se la vogliano
prendere si possono abbassare i pantaloni e fare tutto quello che desiderano,
noi quando avremo voglia di “farcela” arriviamo qui a darci due colpi.”)
Tonino Trebbi, che era il capo di quella famiglia disse che andava bene, anche
perché non era “indicato” contrastare l’opinione di quei “soggetti” che non
andavano tanto per il sottile, oltre tutto la sua famiglia era considerata una
famiglia di antifascisti, poi gli avevano ucciso un figlio, a Carpi, in una
rappresaglia assieme ad altri partigiani del posto, solamente qualche mese
prima. Difatti, saltò fuori una ragazza che si scaglio immediatamente contro di
me urlando:
“sporca carogna fascista, avete ucciso mio marito, adesso ci penso io a
sistemarti, brutta puttana, sono rimasta vedova, con un bambino nato da poco che
non ha potuto conoscere suo padre che, quando è morto, aveva solamente ventitrè
anni.”
Contemporaneamente, con le sue mani ruvide e pesanti, da contadina avvezza ai
lavori dei campi, mi rifilò quattro ceffoni che mi lasciarono sulle guance il
segno, per alcuni giorni:
“Cesira, a m’arcmand, stà bouna almeno per soquant dè adesa ic peinsen sti
zuvnot che, a deregh la giosta punizioun e is stosen na bela sudisfazioun, vest
cla per anch na bela figa, e po’ magari, arivarà al to turen.”
(“Cesira, mi raccomando, stai buona almeno per un po’ di tempo, al momento ci
pensano questi “giovanotti” a darle la giusta punizione, prendendone anche una
bella soddisfazione, visto e considerato che sembra una bella donna, poi magari
arriverà il tuo turno”).
Cesira Losi, sposata a Battista Trebbi da poco più di un anno, aveva avuto un
bambino da pochi mesi, si scagliò di nuovo contro la sottoscritta urlandomi in
faccia:
"sicur, a voi c’am la mitidi in del me man quand ai avri fini ed ciaverla, acs’è
ag far paser la voia a sta troia che, al cuntrari ed me ch’i man mazè al me am,
le la sin pol fer, tott i dè, quant al nin vol”.
(“sicuro, voglio che la mettiate nelle mie mani quando avrete finito di
scoparvela, così le farò passare la voglia a questa troia, che al contrario di
me, che mi hanno ucciso il mio uomo, lei se ne può “fare” tutti i giorni, quanti
ne vuole.”)
Rimasero zitti, sino a quel momento, i due figli di Tonino Trebbi, Arturo di
venticinque anni e Manlio di venti, mentre assistevano da una certa distanza,
vicini alla casa, la moglie Antonia Parenti di circa cinquanta anni, e il
vecchio padre di Tonino, Zelindo Trebbi, che di anni ne aveva quasi ottanta.
Queste informazioni le ebbi, man mano, in tutti i giorni che rimasi prigioniera
in quella “graziosa casetta.”
Subito dopo i due fratelli Trebbi si preso ”cura”, si fa per dire, della mia
persona, si consultarono e anziché nel “chiuso” per i maiali, decisero di
sistemarmi nella stalla dove, probabilmente, potevo stare un po’ di più al
caldo, anche in funzione di tutte le “operazioni” che avrei dovuto compiere,
dovendo restare, cosi dicevano i ragazzi, per lunghi periodi di tempo, scoperta.
Mi misero al collo un bel collare per cani, sicuramente era servito a un
bastardo di pastore tedesco che al momento si aggirava libero per l'aia, quando
veniva messo alla catena, legato ad un lungo filo che scorreva tra la casa
colonica e la stalla. Entrammo nel locale ampio con quattro recinti per le
mucche, per parte, con un ampia corsia centrale, i box erano occupati da quattro
mucche e da un cavallo. Sistemarono di conseguenza la sottoscritta nel primo dei
recinti dopo l’ingresso, dove vi era della paglia sulla quale mi fecero
“accucciare” mentre legarono il “guinzaglio del mio collare” ad un anello di
ferro fissato al muro, mi diedero due coperte stinte e sporche che probabilmente
servivano al cavallo e che buttarono sopra alla mangiatoia dicendomi che
dovevano servirmi per mettermi in posizione prona, (non dissero proprio così, ma
usarono il termine, “alla cagnina”) per poter “soddisfare” tutti i “compagni”
quando sarebbero venuti a trovarmi, ma che servivano anche per tenermi più
riparata durante la notte malgrado nella stalla, effettivamente, non ci fosse
freddo. Per quanto riguardava i servizi igienici, mi confermarono che avrei
potuto fare tutto nell’angolo opposto, dove era raccolta un pò di paglia, che
sarebbe stata cambiata di tanto in tanto, come d’altra parte, facevano per le
mucche.
A quel punto i fratelli mi lasciarono sola, dicendomi che sarebbero tornati per
il “servizio” tra poco tempo, mentre la banda di Bill salì sul camion,
augurandomi “buon divertimento” e “assicurandomi” che anche loro sarebbero
ritornati molto presto.
Era così trascorsa quell’allucinante mattinata, avevo visto uccidere,
spietatamente nove persone, ero stata stuprata in modo brutale, messa al
guinzaglio come un animale, “sputacchiata” e schiaffeggiata, trattata peggio di
una di quelle bestie alle quali mi avevano messo a fare compagnia e adesso mi
aspettavano giornate altrettanto “pesanti”. Mi chiedevo perché il Signore non
avesse chiesto per me la fine come quella delle mie camerate che avevano finito
di soffrire, mentre io avrei dovuto continuare, chissà per quanto tempo, la mia
“Via Crucis”.
Mi ero distesa sopra la paglia e cercai di riposarmi un po’, erano le prime ore
del pomeriggio, non ricordo con precisione, anche perché non mi avevano lasciato
niente addosso.
A Mirandola mi era stato tolto l’orologio e la catenina d’oro che portavo al
collo, regalo dei miei genitori per il mio diciottesimo compleanno, quando mi
sentii toccare delicatamente; era la moglie di Tonino che mi aveva portato un
secchio d’acqua perché potessi, prima dissetarmi e poi lavarmi, in modo
particolare nelle parti basse che mi bruciavano fortemente dopo lo stupro e la
violenza subita.
Mi fece cenno di star zitta, poiché gli uomini e la nuora non dovevano sapere
che mi stava aiutando e che, probabilmente in serata, se ci riusciva, mi avrebbe
portato qualcosa da mangiare. La guardai, quasi fosse la mia salvatrice e la
ringraziai con un sussurro, anche perchè non avevo più voce, e le strinsi le
mani in un gesto di comprensione che lei contraccambiò quasi con affetto.
Allora, anche in un contesto di squallore e di violenza, qualche anima buona
ancora la si trovava. Si allontanò subito, così potei dissetarmi e fare un
briciolo di pulizia intima, sebbene un po’ impedita dal guinzaglio.”
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Giorgio era rimasto senza parola: non sapeva cosa dire pensando a tutto quello
che aveva passato quella povera ragazza, eppure era lì davanti a lui, bellissima
e apparentemente, malgrado l’attività che svolgeva adesso, ancora piena di
voglia di vivere. La pregò, se se la sentiva, di continuare per arrivare alla
fine della storia di quella persecuzione alla quale era stata sottoposta.
“Sì Giorgio, ormai mi sono confidata, ti ho raccontato tutto, anche se mi ero
detta che non l’avrei mai fatto con nessuno e che sarebbe rimasto un segreto, ma
ho fiducia in te, l’ho avuta sin dal primo momento che sei entrato nella “nostra
casa”, di conseguenza cercherò di raccontarti anche quello che mi successe dopo
quella tragica mattina.
Ero rimasta al momento che mi venne a trovare la madre di quei ragazzi che,
contrariamente a quanto mi era stata d’aiuto lei, loro furono invece i miei
carnefici: ritornarono dopo avermi lasciata accucciata sulla paglia, mi
trovarono un po’ migliorata dopo che mi ero lavata il viso e dopo le abluzioni
alle parti intime; non tardarono a “rovistarmi”, uno dopo l’altro, chiamando al
“festino” anche i due “bovari” che lavoravano presso di loro, tali, Giacinto
Ferrari e Marino Gobbi, entrambi sui trent’anni, che erano venuti nella stalla
per la mungitura delle vacche: mi buttarono sopra la mangiatoia, come mi avevano
detto, dopo averci appoggiato le due coperte e così mi hanno presa
ripetutamente, mentre io piangevo come un agnellino e non riuscivo ad aprire
bocca, anzi, tra volgarità di ogni tipo, mi presero in entrambi i miei orifizi,
lasciandomi sporca del loro seme, in modo per me “sconvolgente”.
Non sapevo se urlare o cosa fare, ma non mi usciva alcun suono, e per il male
fisico che mi avevano fatto e per la sensazione di impotenza totale, da parte
mia, dato che non avevo la minima possibilità di reagire a tale devastazione,
della mia anima e del mio corpo.
Era rimasta un po’ d’acqua nel secchio, cosi potei di nuovo lavarmi dal lordume
che mi avevano buttato addosso poi, mentre gli uomini nella stalla facevano i
loro lavori di pulizia delle bestie e di mungitura delle stesse, dopo la
devastazione delle mie parti intime, mi venne urgente necessita di espletare le
mie funzioni organiche che riuscii a fare nell’angolino, coprendo il tutto con
la paglia. Poi, anche loro uscirono e finalmente, ormai era già buio, arrivò,
furtivamente, la mamma dei miei stupratori a portarmi un piatto di pasta e
fagioli calda e un tozzo di pane, che mangiai avidamente dato che erano più di
due giorni, che non avevo toccato cibo.
Non ero più abituata a dire le preghiere prima di dormire, ma quella sera, prima
di appisolarmi, pregai nostro Signore, chiedendogli cosa mai avevo fatto di male
nella vita per aver dovuto subire tanta violenza e se questo era giusto,
solamente per aver indossato la “camicia nera”, avendo sempre e solamente
cercato di fare il bene degli altri, aiutandoli e sorreggendoli nei loro momenti
di difficoltà.
Non avevo mai portato rancore a nessuno, non avevo mai odiato il prossimo, ma da
quel giorno il mio cuore si è avvolto in una corazza impenetrabile, ho sentito
fortemente dentro di me crescere, non solo la rabbia, ma l’odio per quelle
persone che niente avevano di umano e mi dissi che, mai più mi atterrò a quei
valori che la chiesa e la famiglia mi avevano inculcato, non porgerò mai più
“l’altra guancia” e porterò solamente odio e la ricerca della vendetta più
spietata, nei confronti di chi mi stava facendo tanto male.
I giorni seguenti passarono in uno stato di torpore totale, praticamente
estraniata dal mondo, sentivo che i miei aguzzini venivano e mi prendevano, a
turno, delle volte arrivavano in quattro o cinque con il camioncino, alcune
volte arrivavano in due in motocicletta, anche più volte al giorno, facevano il
loro “servizio” e se ne andavano poi, nel tardo pomeriggio o prima della notte,
toccava ai due fratelli e agli altri due addetti alla stalla; fortunatamente la
“signora” Trebbi riusciva, praticamente tutti i giorni, a portarmi un piatto di
minestra e dei pezzi di pane. Poi un giorno, sentii il comandante Bill che
chiacchierava con alcuni dei suoi tra i quali mi parve si trovassero, “Ultimo”,
“Raffica” e “Balilla” e dai loro discorsi capii che parlavamo di me e della mia
sorte.
Avevano stabilito che al massimo sarei rimasta ancora quattro o cinque giorni, e
poi mi avrebbero “sepolta” in una buca che avevano già preparato vicino
all’argine del Secchia, anche perché i due Trebbi, marito e moglie, si erano
stancati di una presenza così “ingombrante” in casa loro. In più, la “vedovella”,
che sentivo frequentemente cullare e allattare il suo piccino nelle vicinanze
della stalla era impaziente di “sistemarmi”. Per due volte entrò, quando non
c’era nessuno, e alzandomi anche lei il “sacco” che mi vestiva (era ancora
quello che mi misero addosso il giorno dello “stupro” e delle uccisioni
“collettive”), come facevano gli uomini, e urlandomi i soliti improperi, con uno
“staffile” mi dava una serie di frustate. Non troppo forti, perché non mi
dovevano restare i segni, altrimenti gli uomini se ne sarebbero accorti e si
sarebbero senz’altro arrabbiati. Ma ugualmente le “scudisciate” mi facevano un
male atroce. Poi mi lasciava dicendomi a bassa voce:
“ades po’ quand is deciden, as un po’ mè a feret fora, brotà troia”.
(“adesso quando si decidono, sarò poi io ad ucciderti, brutta troia”.) Sentivo
che stavano per arrivare le mie ultime ore di vita, se per un verso speravo che
la conclusione arrivasse al più presto, nello stesso tempo c’era qualcosa, nel
pensiero più recondito, che mi diceva di trovare tutti gli appigli possibili per
cercare di sopravvivere e, magari, di scappare da quel posto “maledetto”. Quella
notte, praticamente, non presi sonno cercando di escogitare qualcosa e studiarmi
un piano per poter realizzare quel pensiero, due giorni dopo, ci fu
l’opportunità per mettere in atto l’ ”operazione salvataggio”.
Arrivava, alcune volte da solo, il partigiano “Basco”, a cavalcioni di una
motocicletta tedesca ”requisita” nei giorni di aprile, a qualche pattuglia in
fuga verso il nord, era, tra l’altro, un bel ragazzo, in mezzo a tutti quei
“buzzurri”, con tratti gentili, anche se l’avevo visto uccidere spietatamente
una delle mie amiche e uno degli ufficiali della milizia, oltre a compiere lo
stupro sulle donne del gruppo, quella “maledetta” giornata e, nei giorni a
seguire, anche con mè; quel giorno pensai di “accattivarmelo” e, mentre mi stava
prendendo, gli dissi :
“ma sai, malgrado siate già entrati dentro di mè in tanti, io non ho ancora
visto da vicino “l’attrezzo” con il quale voi uomini date, a volte piacere, ma
fate anche tanto male, a noi donne.
Il ragazzo a quel punto si fermò dall’azione che stava compiendo, mi girò e fece
trovare innanzi al mio viso “l’oggetto”, mi accarezzò sui capelli e
delicatamente sulle gote chiedendomi, con voce dolce:
“Me lo daresti un bacio?. però, se non vuoi, come non detto”; lo guardai negli
occhi e poi a lungo guardai la sua virilità sfacciata di fronte a me, e gli
dissi:
“e perché nò, so che alcune ragazze lo fanno”.
Romano, così si chiamava il partigiano “Basco”, mi disse, a quel punto, visto
che praticamente avevo accondisceso a fare “quella cosa”:
“scusami, ma per sicurezza, e non me ne devi volere, non vorrei che tu, in un
momento di rabbia, possa darmi un morso violento, pertanto, almeno inizialmente,
ti punto alla gola questo acuminato pugnale, che farebbe presto a sgozzarti
appena tu cercassi di farmi del male.”
Così mi apprestai a compiere, il mio primo, “coito orale”, con la “spada di
Damocle”, anziché sulla testa, a minacciare la mia gola. Completai l’azione
lentamente, traendone, e me ne vergognai, anche un momento di piacere. Così come
stava succedendo a lui, visto che la cosa gli diede immenso godimento e dopo
aver concluso, lasciando cadere a terra il pugnale, si chinò, mi prese la testa
tra le sue mani e mi baciò a lungo, dandomi un ulteriore fremito di piacere.
Con quel gesto si era installato tra noi qualche cosa di indefinibile, nessuno
dei due riuscì a dire parola, continuammo però a guardarci intensamente negli
occhi, poi lui si staccò e, cosa che non era mai successa, mi diede un ulteriore
“bacio con buffetto” sulle guance, mi salutò, dicendomi “torno domani”.
Cominciai a nutrire un filo di speranza e iniziai a controllare ogni azione e
ogni gesto dei miei aguzzini. Notai che la chiave del mio collare, per essere
più precisi, del collare del cane, veniva appoggiata, dopo i vari servizi, sul
davanzale della finestrella della stalla alla quale si accedeva solo dall’
esterno. Presi nota degli orari, della presenza o meno di persone, anche nell’
aia e nelle vicinanze dei fabbricati, difatti all’ora di pranzo, all’incirca a
mezzogiorno e nelle prime ore del pomeriggio, tanti di loro andavano o a
riposare o si recavano all’osteria del Cantone, distante circa due chilometri, a
fare una partita a carte. Al massimo si poteva trovare in giro il vecchio nonno
Zelindo che, tra l’altro, non aveva una buona vista, tanto meno un buon udito.
Romano tornò il giorno seguente, come promesso, fu oltremodo gentile, pur
eseguendo il suo “rituale”, compreso il “nuovo servizio”, ma mi sussurrava
parole dolci dicendomi che alla notte non aveva dormito poiché il suo pensiero
era sempre rivolto a mè. Mi disse:
“senti Luisa, i miei compagni hanno deciso di “eliminarti” tra tre-quattro
giorni. Non ho detto niente, ma non posso accettare questa soluzione, pertanto
ho pensato di portarti via, poi me la vedrò con loro (farò credere che qualcuno
di noi, probabilmente anche il sottoscritto, dopo aver fatto quello che andiamo
facendo in questi giorni, forse si è dimenticato di chiudere bene il collare,
visto che la chiave è al suo posto, di conseguenza tu ne hai approfittato per
fuggire), perciò, domani a quest’ora, arrivo con la motocicletta, ci comportiamo
come abbiamo fatto in questi giorni, poi, anziché rimetterti il collarino,
lascio la chiave sulla finestra, ti carico sulla motocicletta e ci dirigiamo
immediatamente verso Modena, per le strade basse che io conosco bene, senza
passare dalla zona di Cortile dove potremmo incontrare i fratelli Trebbi o i due
bovari. A Modena, ti porto al Convento delle Carmelitane dove c’è mia sorella
suora, che, lo spero, ti aiuterà e ti proteggerà per un po’ di tempo, dandoti
ospitalità in qualche stanza di quel grande edificio dove si trovano tante
suore, poi vedremo il da farsi.”
Lo abbracciai e lo ringraziai; il giorno dopo, come stabilito, facemmo le
“nostre cose”, salii dietro di lui sulla motocicletta che partì come se nulla
fosse, difatti nessuno si affacciò a controllare, non incontrammo anima viva per
un lungo tratto, anche procedendo a bassa velocità essendo quelle strade di
campagna abbastanza sconnesse, siamo arrivati alla periferia della città in poco
più di mezz’ora, dopo poco raggiungemmo, in Via San Giovanni del Cantone, il
Convento, dove Romano entrò, lasciandomi davanti al portone con la motocicletta,
per cercare la sorella.
Dopo circa un quarto d’ora lo vidi arrivare assieme ad una suorina, piccola,
senz’altro più vecchia del fratello, con un viso molto dolce che, con un bel
sorriso, mi disse:
“sono Suor Clotilde, la sorella di Romano. Mi ha spiegato ogni cosa, cercherò di
fare tutto il possibile per darti protezione e aiuto, adesso salutatevi.”
Con un abbraccio veloce mi augurò buona permanenza dicendomi:
“non ti preoccupare, tornerò tra tre giorni, mia sorella avrà cura di te.”
Ero ritornata nel mondo civile, mi sembrava di rinascere, Suor Clotilde mi
accompagnò nella sua stanza e la prima cosa che mi disse fu:
“adesso ti preparo una bella tinozza di acqua calda così potrai fare un bel
bagno, in quanto vedo che non sei tanto pulita e in più emani un profumino che
non è proprio di rose. Devi averne passate di tutti i colori, ma non voglio
sapere niente, cerca solamente di riprenderti, ti faccio preparare, dalle
consorelle, una stanza, così, dopo il bagno, potrai riposarti quanto vorrai."
Non avrei potuto trovare persona più gentile e disponibile vista anche la
premura che metteva in ogni suo gesto e in ogni suo dire, mi presentò le due
“consorelle” che silenziosissime si misero subito a disposizione dicendomi che
dopo, nella stanza che andavano a prepararmi, mi avrebbero portato anche
qualcosa da mangiare. Io non sapevo se ridere o piangere tanto ero contenta,
rimasi dentro alla tinozza un tempo lunghissimo, dove vidi, via via, l’acqua
diventare di un colore sempre più scuro, d’altronde ero rimasta chiusa in una
stalla e trattata peggio delle bestie per otto lunghissimi giorni. Avvolta in un
grande telo bianco e pulitissimo, mi andai a sdraiare in un letto, altrettanto
lindo e profumato. Con l’aiuto di Suor Clotilde mi alzai e sul tavolino mi venne
portato un piatto caldo di quadrucci in brodo, che trovai deliziosi, oltre a una
bella cotoletta, assieme a due “michette” di pane bianco, come da tanto tempo
non vedevo e non mangiavo.
Dall’inferno al Paradiso, e non era un luogo comune. Sono rimasta in quel
convento, dove vi erano suore normali, ma anche un certo numero di quelle che
non escono mai, le suore di clausura, oltre un mese. Per circa una settimana
sono rimasta quasi sempre a letto in quanto mi ci volle un po’ di tempo per
riprendermi, tanto che Suor Clotilde mi fece anche visitare dal loro medico il
quale mi ordinò un lungo periodo di riposo e una certa dose di ricostituenti.
Dopo circa otto giorni riuscii a presentarmi in ottime condizioni a Romano
quando venne a trovarmi e riuscimmo anche a conversare a lungo in “parlatorio”;
mi disse che si sarebbe allontanato da Modena per un certo periodo di tempo
poiché il Partito lo aveva mandato, per una missione speciale, al Sud. Seppi
poi, a distanza di tempo, che era invece stato inviato, sempre dalle
organizzazioni del PCI, in Cecoslovacchia, assieme ad altri “compagni” che
avevano avuto pendenze con la giustizia e dei quali per molto tempo si persero
le tracce. Rimasi tranquilla per un periodo abbastanza lungo, durante il quale
avevo in continuazione degli incubi e costantemente mi si riproponeva la scena
della “mattanza”. Cercai, in quei giorni, di memorizzare tutti i nomi dei miei
carnefici e degli spietati aguzzini delle mie camerate e dei miei camerati
trascritti poi in un “libriccino” che conservo gelosamente, dove sono annotati
alcuni pensieri relativi a quei giorni. Ugualmente, i nominativi li ho tutti
“memorizzati”.
Sono, il comandante “Bill”, il partigiano di circa trentacinque anni, di Soliera
che si chiama, in realtà, Renato Carretti, perito meccanico e titolare di una
officina nel suo paese di origine, a seguire ho annotato gli altri “eroici
partigiani” e cioè, “Ultimo”, un artigiano di venticinque anni di Carpi, che ha
fatto le scuole di avviamento professionale, si chiama Arturo Aguzzoli, e abita
nel grosso centro della bassa modenese. Di quella località è pure il mio
“persecutore-salvatore”, il partigiano “Basco”, di ventiquattro anni, anche lui
ha frequentato la scuola di avviamento e si chiama Romano Bisi.
Del paese di Soliera sono ancora, “Raffica” e “Balilla” il primo è un meccanico
di ventiquattro anni e si chiama, Mario Bertoni, ha fatto la quinta elementare,
come il secondo di venticinque anni, che fa il contadino e si chiama Plinio
Medici.
Abitano invece a Bomporto, il partigiano “Poldo”, di ventotto anni, di
professione fa l’impiegato ed è diplomato ragioniere, e si chiama Giuliano Pini,
mentre l’altro “bomportese”, il partigiano “Cartuccia” ha ventidue anni, fa il
contadino ed è in possesso della licenza elementare, si chiama Torquato
Parmeggiani. Mentre è di Albareto, una piccolo frazione vicina a Modena, lo
studente universitario in ingegneria, di ventitré anni, Gino Siena, che aveva il
soprannome di “Vladimiro”. Poi ci sono i due fratelli Trebbi che, a quanto ne
so, si sono limitati allo stupro della sottoscritta e non credo abbiano commesso
omicidi, entrambi fanno i contadini nel loro podere all’Uccivello di Cavezzo,
Arturo Trebbi di anni venticinque e Manlio Trebbi di ventidue anni, entrambi in
possesso di licenza elementare, cosi come i due fratelli, hanno partecipato alla
mia violenza carnale, i due bovari, lavoratori in casa Trebbi di ventotto e
ventinove anni, Giacinto Ferrari e Marino Gobbi, dei quali non credo vi sia
stata partecipazione ad esecuzione di fascisti; aggiungo poi alla “lista dei
cattivi” anche la “ragazza”, di casa Trebbi che voleva uccidermi a tutti i costi
e che si chiama Cesira Losi di ventuno anni.
Un bel giorno, mi accorsi di un certo ”ritardo”: sicuramente ero rimasta
“incinta”; chissà chi era il padre di quell’ embrione che stava dentro alla mia
pancia. Iniziai col dire a me stessa che proprio non volevo un figlio senz’altro
generato da un assassino e, dopo tutto ciò che mi era stato fatto, quello
sarebbe stato il “castigo” definitivo poiché, per tutta la vita la sua presenza
mi avrebbe ricordato le giornate allucinanti passate tra le loro “grinfie”.
Cominciai a ritornare in “depressione”, confidai il mio problema a Suor
Giuliana, una delle due consorelle di Suor Clotilde del primo giorno, con la
quale si era venuta a creare una buona amicizia. Fu lei a consigliarmi di
recarmi presso una sua conoscente che abitava in Via Gallucci, sempre in questa
zona, in quanto avrebbe potuto trovarmi un alloggio e darmi le indicazioni del
caso per “abortire”. Mi decisi ed andai a quell’indirizzo accompagnata da Suor
Giuliana, trovammo questa signora, Genoveffa Marchesini, la quale teneva a
pensione ragazze che avevano dei problemi e le aiutava anche a rivolgersi alle
persone giuste che provvedevano a “sgravare”, le donne in difficoltà.
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Io avevo però un grosso problema, non avevo in tasca il “becco di un quattrino”,
non avevo ancora preso contatto con i miei genitori, nèmmeno con i parenti di
Mirandola. Se questi erano ancora vivi, come speravo ardentemente, mi avrebbero
aiutato senz’altro ad affrontare le spese della “mammana” e della stanza a
pensione. Ne parlai con Suor Giuliana, mi disse che lei aveva da parte una certa
cifra e mi avrebbe aiutata, poiché era sicurissima che, appena ne avessi avuto
la possibilità, avrei restituito le somme che mi avrebbe prestato. Cercai subito
di mettermi in contatto con gli zii di Mirandola, cosa che avevo aspettato a
fare poiché volevo presentarmi a loro in condizioni decenti, così come avevo
aspettato a vedere i miei dato che anche loro, molto probabilmente, avranno
avuto, alla fine di Aprile i loro problemi. Riuscii a telefonare alla zia, Bice
Grazioli che è la sorella di mia madre Maria e che era una delle poche famiglie,
la sua, ad avere, a Mirandola, il telefono in casa.
Appena ne ebbi la possibilità presi in mano il telefono e riuscii a parlare con
lei, che esultò di gioia quando sentì la mia voce e quando le dissi che stavo
bene: mi diede anche le informazioni sulla sorte toccata ai miei genitori che
furono trattenuti in carcere per circa una settimana. Mio padre aveva subito
percosse e stava per essere fucilato, ma fu salvato all’ultimo momento da un
partigiano che lo riconobbe e giurò che era una persona per bene, che non aveva
mai fatto del male a nessuno, aveva avuto semplicemente alcuni incarichi nel
Partito. A mia madre era andata un po’ meglio: subì solamente qualche ingiuria
in carcere, ma non ha subito violenze; ora era stato tutto superato e la loro
angoscia era stata quella di non aver saputo più nulla dell’amata figlia Luisa.
Adesso quando sapranno la notizia risulteranno notevolmente più sollevati, però
concordò con me, che era meglio, ancora per un po’ di tempo, aspettare ad
andarli a trovare e senz’altro, anche loro, avrebbero capito la ragione. Gli
parlai del problema economico, mi disse che nel giro di due, tre giorni sarebbe
venuta a Modena: Fissammo l’appuntamento davanti al Teatro Storchi per una
mattina, e lei mi avrebbe portato il denaro che mi occorreva e che le
quantificai.
Mi trovai con la zia Bice e ci mettemmo a sedere a un tavolino del bar d’angolo
del Teatro e qui, dopo i rituali scambi di baci e abbracci, ci siamo prese una
bella coppa di gelato; ovviamente ha voluto sapere cosa mi era successo in tutto
quel periodo, le raccontai della avventura a Milano e dell’arresto,
nascondendole completamente il “dramma” che avevo subito e della ragione per cui
era meglio per me restare ancora nascosta, quei “soldini” che mi aveva portato
sarebbero serviti per pagarmi la pensione dove avevo trovato alloggio. Mi trovò
bene e non volle sapere altri particolari mentre me ne raccontò lei sulla
situazione dei miei genitori, che aveva contattato dopo la mia telefonata e pure
loro esultarono nel sentire che avevo superato “indenne” le traversie del dopo
25 Aprile, non ancora completamente digerite da mio padre e nel corpo e nello
spirito, e naturalmente la loro speranza era quella di congiungersi al più
presto con mè, ma nello stesso tempo avevano suggerito alla zia di consigliarmi
“molta prudenza” e cercare di stare nascosta, possibilmente in un posto sicuro,
il più a lungo possibile.
Con il danaro che mi aveva portato riuscii a pagare, in anticipo, e per un certo
periodo, la pensione, chiesi alla signora se poteva andare a comprarmi un
vestitino decente, un paio di scarpe e un po’ di biancheria intima, dato che
avevo addosso quelle poche cose che mi aveva dato Suor Giuliana, alla quale,
assieme a Suor Clotilde, mandai anche un bel regalino per ringraziarle di tutte
le attenzioni che avevano avuto per me, nel periodo di mia permanenza al
Convento.
Mi rimase ancora una cifra discreta che dedicai, in parte, al pagamento dell’
”intervento” al quale mi sottoposi pochi giorni dopo. La Signora Genoveffa, mi è
stata di notevole aiuto in quei giorni che fui costretta a subire un' altro
“devastante” trattamento alla mia “tormentata” “topina”, mi ha accompagnato e
sostenuta durante l’”operazione” effettuata da una “ostetrica” abusiva, ma molto
esperta, tale Milena.
Il suo “studio” o “ambulatorio” era situato in una villetta, nascosta in mezzo
al verde, in un bel viale cittadino, “Viale Moreali”, mi rassicurò dicendomi
innanzitutto di stare tranquilla poiché, nel caso “qualcosa” fosse andato
storto, sarebbe intervenuto un medico disposto a compiere tali interventi, anche
se “proibiti”. Andò tutto abbastanza bene e riuscii a tornare a casa sulle mie
gambe, aiutata dalla signora Genoveffa, dopo avere “lautamente” ricompensata
quella tale Milena, della quale non conobbi il cognome.
Non sono stata bene per alcuni giorni, poi, gradualmente, mi sono ripresa, anche
perché a casa di quella signora mangiavo abbondantemente, ma il mio problema
era, “e adesso cosa faccio?”: il pensiero ritornava e ritorna in continuazione
alla esperienza “animalesca” che mi era stata somministrata da quelle “belve”,
avrei dovuto anche cercare di guadagnare qualche cosa, ma quale lavoro potevo
intraprendere?
Al momento i miei genitori non avrebbero potuto portarmi alcun aiuto, dopo tutto
quello che avevano passato, anche a loro era stato portato via tutto, comprese
quelle poche cose che avevano in casa e in più, mio padre “epurato” dal suo
lavoro; non potevo in continuazione chiedere soldi a mia zia; a Ottobre mi
sarebbe piaciuto ritornare a scuola per terminare il Liceo, ma avrei potuto
farlo?; ne parlai con la padrona di casa, che ormai era diventata la mia
confidente, e mi disse:
“o cambi città, ma dove vai?, oppure c’è un mestiere che per una bella ragazza
come te può essere fonte di buoni guadagni, se ci sai fare ti può dare la
possibilità di conoscere gente importante e di conseguenza aprirti strade
impensabili o, quanto meno, guadagnarti quel tanto necessario per poter
continuare gli studi e frequentare l’università in un secondo tempo, non
spaventarti per quello che ti dico, ma quel mestiere è “la puttana”, sì, vendere
il proprio corpo per poter crearsi un bel gruzzolo e poi fare quello che vuoi.”
Rimasi sorpresa e sbalordita da quella proposta, non riuscii a dir niente al
momento, lei mi guardò e ancora mi disse:
“spero che non ti sia offesa ma, Luisa, attenta, sono in tante che lo fanno, e
molte, che poi sono riuscite a smettere di fare “il mestiere”, si sono trovate
perfettamente a loro agio, oltre a trovare uomini facoltosi che, o le hanno
sposate, o le mantengono. Rifletti su quello che ti ho detto, non c’è fretta.
Qui vicino a noi c’è una di quelle “case” e la proprietaria o la tenutaria è una
mia amica con la quale, se lo vorrai, potrò farti avere un colloquio.”
“Lasciai trascorre alcuni giorni, poi, pensando a tutto quello che avevo
passato, a cosa mi avevano fatto gli uomini (ma quelli cos’erano?): perché non
approfittarne? Tutti mi dicono che sono bella e procace, quando passo per la
strada si voltano tutti a guardarmi e a farmi complimenti e anche proposte che,
una volta, consideravo “sconvenienti”: Perché dunque abbandonare questa
prospettiva?: mi pare, viste le mie condizioni di spirito e di “borsellino”, che
sembri abbastanza favorevole.
Cercherò di farlo, per un periodo di tempo limitato, poi potrò iscrivermi
all’Università in qualche città fuori dalla Regione, magari ritornare a Milano,
all’ amore, (ma può esistere il vero amore?) ci penserò in un secondo tempo, poi
dovrò mettere in atto un piano per la mia “vendetta”, che dovrà dare
soddisfazione alla sottoscritta e ricordare le mie camerate e i miei camerati
uccisi in quel modo bestiale. Quel ricordo non mi abbandona, mi sveglio tutte le
notti con degli incubi sconvolgenti, può darsi che, una volta che quelle
“bestie” abbiano pagato, con la “loro vita” il “debito che hanno con noi”, la
mia possa finalmente riprendere un corso regolare.
Ormai stava terminando l’estate, anzi era già iniziato l’autunno, quando mi
decisi di riparlare dell’argomento con la Signora Genoveffa che mi fissò un
appuntamento con la “tenutaria” della casa di Via Catecumeno a cento metri di
distanza dalla camera di Via Gallucci.”
Fu molto corretta la padrona dell’appartamento dove ero andata ad abitare:
invitò da noi la Signora Matilde Franciosi, la proprietaria della casa di
tolleranza la quale si dimostrò, da subito, una persona disponibile, ovviamente
aveva la prospettiva di “accaparrarsi” una nuova “prestatrice d’opera”. Al
nostro incontro, ”mi squadrò” con “competenza”, e subito mi disse:
“Si, come mi è stato detto sei molto bella e appariscente, la tua avvenenza non
può sbagliare nel nostro “ambiente”, però bisogna saperci fare e non avere
remore di nessun tipo, ti possono capitare uomini belli, brutti, probabilmente
più brutti che belli, ma tu devi essere totalmente, e dico totalmente,
disponibile. Dopo ne parliamo di quello che intendo per totalmente, ma adesso
dimmi qualcosa di te, non mi nascondere niente, devo diventare, se entrerai
nella mia casa, come una sorella più grande alla quale confidare anche i segreti
più intimi, e questo non perché io possa, in seguito, approfittare di te, ma
semplicemente per poterti dare utili suggerimenti e far si che tu possa
destreggiarti al meglio, in questo mondo che potrebbe farti guadagnare molti
quattrini, ma che bisogna conoscere bene per non farsi “mettere i piedi in
testa” dalle colleghe e tanto meno dagli uomini che incontrerai, numerosi e
tutti i giorni.”
“Le raccontai la mia storia, senza soffermarmi troppo sulla parte più
“devastante”, sulla mia appartenenza al corpo delle ausiliarie, della situazione
attuale, dell’aborto, e delle prospettive che avevo per il proseguimento degli
studi, non nascondendole che molti uomini avevano abusato di me, ma che, in
realtà, non conoscevo bene la psicologia maschile.”
La signora Matilde, mi guardò, mi sorrise e mi disse:
“non ho spesso a che fare con ragazze colte ed intelligenti come tu mi sembri,
anzi come tu penso sia, sento che hai passato esperienze non piacevoli, e ti
vedo ugualmente determinata ad uscire dalla tua situazione economica e morale;
un aspetto positivo è quello che, almeno al momento, non hai rapporti
sentimentali di nessun tipo, e ti consiglio di cercare di innamorarti il più
tardi possibile.
Io sarò con te in ogni caso, devo dirti che sono legata da parecchio tempo ad un
ex gerarca fascista di Modena, attualmente rifugiatosi in Spagna e io stessa ho
avuto rapporti con le istituzioni fasciste negli anni passati e ideologicamente
sono ancora schierata da quella parte, ma nel nostro mestiere è meglio lasciar
perdere qualsiasi tipo di ideologia e tener fede solamente al “Dio quattrino”.
Sempre nel caso tu decida di fare questa scelta, ti assicuro che ti seguirò per
un periodo di tempo sino a quando, vedrai che farai presto, riuscirai a
cavartela da sola. Prima ti ho parlato della totale disponibilità che devi avere
con gli uomini ed accondiscendere ad ogni loro richiesta, e a tutte le varie
forme di “perversione sessuale” che come mi hai raccontato in parte già conosci
per averle subite con “brutale violenza” ma adesso devono essere applicate con
“partecipazione” e con estrema disinvoltura, anzi certe “deviazioni” gli uomini
le apprezzano e le pagano profumatamente, pertanto colei che riesce a metterci
impegno, volontà, partecipazione ne andrà a trarre tutte le soddisfazioni
economiche possibili.
Per quanto riguarda la soddisfazione fisica personale la devi completamente
dimenticare, man mano ti indicherò i metodi migliori per evitare qualsiasi tipo
di “godimento”, dovrai semplicemente ricordarti, “sempre”, che il tuo è un
“lavoro”, sarai controllata dal nostro dottore; chiamato anche “il tubista”, il
quale anche lui ti consiglierà tutti i sistemi per non arrivare a partecipare
con passione, anche se ti verrai a trovare a dare soddisfazione a uomini che ti
potranno essere graditi e con i quali potresti arrivare a prendere il “tuo”
piacere fisico; la condizione attuale ti dovrebbe favorire ad intraprendere, nel
modo migliore, questo genere di lavoro. Nelle prime settimane ti avvierò
gradualmente a questa “attività” e non ti farò avere più di cinque sei uomini al
giorno, così ti ci potrai abituare, ma in seguito e te ne renderai conto da
sola, potrai arrivare a molti di più. Mediamente, le ragazze più in gamba
riescono a farsi, anche dalle trenta alle quaranta “prestazioni” giornaliere.
Pensaci, se decidi per il sì ricordati bene che non è facile fare marcia
indietro se non dopo del tempo e sarai tu stessa a giudicare quando arriverà il
momento di smettere. In questi giorni, prima del tuo “inizio”, cercherò di farti
avere un nuovo documento d’identità, avendo io certe conoscenze in questura,
così ne avrai una nuova, dato che devi avere più di ventuno anni per “iniziare a
lavorare” nelle case, a meno che una non sia sposata, ma tu non li hai ancora
compiuti e non sei sposata ma, anche per il tuo recente passato, non è male
cambiare completamente nome e cognome, la tua data e luogo di nascita, ma questo
puoi lasciarlo a Bologna, mentre potrai prendere il nome e cognome di Luisella
Villani; dovrò trattenere, dalle tue prime prestazioni, l’importo per i costi
che bisogna sostenere per questa operazione che, vedrai, ti tornerà molto utile
e, nello stesso tempo obbligatoria, per quanto riguarda l’età; il costo è
abbastanza sostenuto, ma, nel giro di qualche settimana, riuscirai a pagare
completamente il debito: prenderai per le tue prestazioni il cinquanta per cento
di ogni “marchetta” che ti potranno rendere, mediamente, dalle cinquanta alle
sessantamila lire al mese e anche di più, in rapporto alle “prestazioni
particolari”, che saprai praticare. Non è male, se pensi che lo stipendio di un
operaio và dalle dieci alle quindicimila lire e quello di un buon impiegato non
supera le ventimila. L’altra metà di quello che incassi spetta a mé per la
gestione, e per il vitto e l’alloggio, ti consiglierò anche un “collocatore” che
potrà seguirti, dietro compenso, ovviamente, per i tuoi futuri “cambi di casa”
nelle varie città dove sarai costretta a recarti di tanto in tanto, e questa
persona ti sarà molto utile per trovarti la “sistemazione” nelle case migliori e
più remunerative, appena sarà il momento te lo presenterò.”
Era la prima settimana di Ottobre e una mattina entrai in quella casa di Via
Catecumeno dove mi hai trovata e dove resterò ancora per un po’ di tempo dato
che la signora Matilde mi ha prospettato la possibilità di entrare in alcune
case di “lusso”, o a Bologna o a Milano, dove potrò guadagnare tanto di più
rispetto alle già buone “quindicine” attuali ma, molto probabilmente, sceglierò
Milano, essendo Bologna la mia città dove ero abbastanza conosciuta e per la mia
attività nel Fascio Repubblicano e per la mia frequenza al Liceo Classico.
Eccoti, Giorgio, narrata la mia storia, ma al momento, ad avere dei problemi sei
tu, abbiamo fatto le ore piccole e sarà opportuno andare a riposarci, tu rimani
qui nella stanza che ti ha fatto vedere la signora Ada, mentre io me ne ritorno
in “casotto” che ormai è già chiuso, domattina ci ritroviamo qui cosi facciamo
colazione assieme.”
Si avviarono alle loro stanze, Giorgio ancora frastornato dagli avvenimenti di
quella giornata e dalla storia veramente sconvolgente della ragazza; pensare che
era uscito di casa per ritrovarsi, dopo tanti mesi di “clausura”, tra campo di
concentramento e l’ “autocarcerazione”, in un pomeriggio di poche ore di
libertà, ad essere individuato dai suoi “persecutori” che, per poco, non
l’avevano catturato e certamente gli avrebbero fatto fare la fine dell’amico
Emilio Rebecchi se non ci fosse stato il provvidenziale “salvamento” di
quell’angelo di ragazza che, dentro “quella casa”, dove era entrato per
togliersi un “piacere”, lo aveva tratto dai “pasticci” con un gesto di altruismo
e di generosità difficilmente riscontrabile in quei tempi.
Si trovarono il mattino dopo, mettendo insieme colazione e pranzo essendosi
alzato, Giorgio, a mezzogiorno, dopo una bella “dormita” seguita alle tensioni
subite il giorno precedente; la signora Ada preparò due abbondanti caffè, anche
per Luisa la quale aveva atteso che il ragazzo si svegliasse e, poco dopo, li
fece accomodare alla tavola dove preparò loro un bel piatto di tagliatelle al
ragù ed una deliziosa "cotoletta" alla milanese, accompagnata da un insalatina
tenerissima. Si dispiacque di non aver potuto preparare il dolce, poiché non
aveva in casa i necessari ingredienti per fare qualcosa di “decente”.
“Allora Giorgio, ti sei riposato, adesso cosa pensi di fare?” chiese Luisa
mentre sorbiva un altro caffè al termine della colazione-pranzo appena
terminata.
“Cara, carissima Luisa sei stata la mia salvatrice, ti devo la vita,” disse
d’impeto il ragazzo “ero venuto in quella casa per fare “certe cose” invece ho
incontrato il mio angelo custode, la mia protettrice, la mia benefattrice, e con
te alcune altre persone alle quali devo tutto, grazie Ada e ringraziami anche la
signora Matilde.
Ma adesso è bene che ritorni a casa, come promesso allo zio il quale, sono
sicuro, sarà già in pensiero e ritengo che, molto probabilmente, come d’altra
parte mi aveva già accennato farà in modo di “spedirmi” a Roma per farmi
terminare gli studi e per togliermi dalla situazione "pericolosa" nella quale mi
trovo qui a Modena.
Luisa, però io ci tengo tanto alla tua amicizia e cercherò di esserti
riconoscente per tutta la vita. Appena saprò dove andrò a collocarmi vedrò ti
fartelo sapere, scriverò a questo indirizzo per farti avere il mio, teniamoci
almeno in contatto epistolare, tu sei anche in possesso del numero di telefono
di mio zio al quale potrai sempre telefonare, se cambi “casa” cerca di
comunicarmelo, io al momento, pur conoscendoti da un solo giorno, posso dirti di
volerti un gran bene, sei così bella, sei stata tanta buona con mè di
conseguenza non posso far altro che innamorarmi di una donna così.” Si alzò in
piedi, abbracciò e baciò a lungo Luisa, diede un altro abbraccio alla signora
Ada e senza profferire altre parole prese la porta e uscì da quella casa che lo
aveva salvato da sicura morte.
Si trovò in Via dei Servi, che erano appena scoccate le quattro del pomeriggio,
e da lì, attraversando via Albinelli, poi Piazza Grande, si trovò in pochi
attimi a salire le scale del palazzo di Via Cesare Battisti dove gli venne ad
aprire la porta lo zio Francesco, che lo stava aspettando in ansia.
“Finalmente Giorgio sei arrivato, la telefonata di quella tua amica mi aveva
inizialmente preoccupato, poi invece mi ha rassicurato e tranquillizzato, deve
essere veramente una gran brava ragazza: oggi pomeriggio verranno qui anche tuo
padre e tua madre, così assieme vedremo di prendere i giusti provvedimenti per
questa situazione ancora imbarazzante. Nonostante si vada incontro ad una
normalizzazione e il clima generale vada via via tranquillizzandosi, alcune
“squadracce rosse” circolano ancora, in modo del tutto arbitrario, visto e
considerato che il controllo della vita civile è stato preso in mano dai
carabinieri che comiciano a farsi rispettare e quella che era la “polizia
partigiana” si stà completamente “smantellando”. Ma ancora oggi, e tra poco sarà
trascorso un anno dalla fine della guerra, si sente parlare dell’ ”eliminazione”
di fascisti o di “presunti tali.”
“Zio”, disse il ragazzo a capo chino, “so di aver commesso, ieri, una
stupidaggine e di averti creato dei problemi, ma credimi, non ne potevo più di
stare chiuso in casa.”
“Non è il caso Giorgio di recriminare, né di chiedere scusa, ti capisco
benissimo, fortunatamente è andato tutto per il meglio” disse lo zio Francesco,
il quale voleva molto bene a quel ragazzo che mai aveva dato problemi alla
famiglia e che si era sempre comportato in modo correttissimo con tutti i
componenti della stessa.
“Adesso vai in camera tua, senza farti vedere dai nostri coinquilini, io devo
andare in ambulatorio, perciò ci troviamo questa sera a cena, assieme ai tuoi.”
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Così, dopo una giornata di “libera uscita”, Giorgio si ritrovò dentro quelle
quattro mura dove era stato rinchiuso per più di tre mesi, si buttò sul letto
ripensando e riflettendo su quell’incontro dicendosi che, in fondo, a lui era
andato sempre tutto bene, sofferenze fisiche, se si esclude qualche modesto
episodio a Coltano, quasi niente; morali, una cosa giusta, sì il crollo
dell’ideologia nella quale aveva fortemente creduto lo aveva colpito nel
profondo ma, si diceva, è tutto rimediabile, la vita potrà offrirmi chissà quali
altre possibilità; “sono giovane e davanti a mè si aprono tante strade, ho la
fortuna di avere una famiglia alle spalle benestante, che mi aiuterà in tutto
quello che vorrò intraprendere”, disse con sé stesso, “se penso poi a Luisa e a
tutto quello che mi ha raccontato, di come veramente la sua vita sia stata
distrutta da un destino ben peggiore del mio, ecco che devo ringraziare il mio
“santo protettore” o la mia “fortuna sfacciata”, e non solo in una circostanza,
ma in varie occasioni, l’amico Maletti, i frati francescani, lo zio Francesco, e
adesso questa “bellezza ferita” alla quale dovrò eterna riconoscenza e che
spero, nel futuro, di poter contraccambiare l’enorme favore che mi ha fatto.”
Nel tardo pomeriggio, arrivarono, alla “chetichella” e distanziati uno
dall’altra come erano soliti fare, papà Giulio, poi mamma Marisa, assieme al
fratellino Marco e tutti e tre si abbracciarono il loro Giorgio teneramente e a
lungo; il redivivo raccontò loro le ultime vicissitudini, trascurando,
ovviamente, il luogo dell’incontro con quella “sua” amica che poi l’aveva
protetto. All’ora di cena si trovarono tutti attorno alla tavola, la famiglia di
Giorgio e quella dello zio Francesco Lotti, assieme alla moglie, Renata Giacobbi
e alla loro figlia Elisabetta, di quindici anni, studentessa al Liceo
Scientifico Tassoni, che fece grandi feste al cugino e al cuginetto Marco, che
non vedeva da un po’ di tempo.
Parlarono del “più e del meno” interessandosi tutti della situazione scolastica
dei due studenti, della ripresa economica, dell’azienda del papà di Giorgio,
mentre quella dell’oculista era abbastanza tranquilla poi, come era previsto,
l’argomento s’incentrò sulla “precaria situazione” dell’”ex repubblichino”.
Tutti gli adulti si trovarono d’accordo che era bene, a quel punto, per il
ragazzo “cambiare aria”. Si pensò immediatamente a Roma in quanto il terzo
fratello di Francesco e di Marisa Lotti, viveva da molti anni in quella città
dove era titolare di un grosso negozio di abbigliamento maschile a Piazza
Ungheria.
“Domani telefono allo zio Adolfo, che sarà molto lieto di aiutarti, di questo
sono certo”, disse subito zio Francesco, “ti darà una mano a trovare un
appartamentino in affitto dato che, sò di sicuro, a casa loro molto spazio non
ne hanno, malgrado abbiano un appartamento molto grande, ma sono in tanti in
famiglia; sai bene che troverai laggiù tuo cugino Umberto, combattente della X°
Mas che, fortunosamente è riuscito a rientrare a Roma dopo il 25 Aprile e con il
quale avrete tante cose da raccontarvi, poi ci sono la cugina più grande Teresa,
sposata con un avvocato “un po’ azzeccagarbugli” ma bravo ragazzo, questi hanno
un bambino piccolo di due anni, poi vi è il fratello più giovane, Riccardo di
diciassette anni, studente, oltre al nonno, il papà della moglie di Adolfo,
Adele, che ha oltre ottanta anni e si chiama Vincenzo De Angelis; come vedi un
nucleo abbastanza numeroso, nello stesso tempo stanno abbastanza bene
economicamente e senza essere ricchi, si possono considerare benestanti.”
Giorgio, sentendo questa proposta, fu abbastanza soddisfatto anche perché si
sarebbe finalmente incontrato con il cugino Umberto che durante l’estate del
’44, gli aveva scritto che sarebbe passato a trovarlo a Modena, cosa che non
poté fare poiché dal Piemonte venne inviato direttamente, con il suo reparto, in
Venezia Giulia.
La mamma intervenne dicendogli:
“vedrai Giorgio ti troverai molto bene, mio fratello Adolfo è sempre stato una
gran brava persona, gran lavoratore, tutto dedito alla famiglia, la sua attività
è conosciutissima in Roma, e sono sicura ti troverà anche qualcosa da fare, o
nel suo commercio o tramite le sue conoscenze, così tu potrai renderti
indipendente e prepararti per riprendere gli studi, in quanto, penso tu li
voglia proseguire per iscriverti poi all’Università, però è bene, dopo quello
che è successo, che tu parta al più presto da Modena, alcuni “tipi poco
raccomandabili” sono venuti a cercarti per due volte a casa e io ho dovuto
versare “calde lacrime” dicendo loro che, dopo il tuo rilascio da Coltano, non
abbiamo avuto più notizie, e questi mi dissero, entrambe le volte, che se tu
fossi tornato, avresti dovuto recarti immediatamente, per accertamenti, al
comando partigiano. Vedi dunque che sei ancora nel “loro mirino.”
Papà Giulio intervenne:
“nel frattempo a casa ti prepariamo le valigie, poi o con la macchina dello zio
o con una presa a noleggio, ti accompagniamo al treno, a Bologna, meglio non
farsi vedere in stazione a Modena; in questi giorni mi recherò al Liceo Muratori
per cercare di avere i documenti della tua frequenza per il trasferimento e per
l’iscrizione all’ultimo anno alla scuola alla quale ti andrai a iscrivere,
intanto potrai informarti quale sarà quella più adatta per te. E, se posso darti
un consiglio, cerca di stare lontano dalle beghe politiche, non lasciarti
abbindolare da sirene di qualsiasi tipo, specialmente da quei movimenti
“nostalgici” dei quali si sente parlare, tu ne hai già passate troppe.”
Passarono all’incirca una decina di giorni e tutto fu pronto per la partenza di
Giorgio: zio Francesco e zio Adolfo si sentirono per telefono e il “romano”
disse che era ben felice di “prendersi a carico” Giorgio, non c’era spazio in
casa però, abbastanza vicino a Piazza Ungheria, un suo amico aveva un piccolo
appartamento situato in una bella palazzina di Via Montevideo, aveva già
provveduto a fermarlo firmando un contratto abbastanza lungo, di conseguenza non
vi era nessun ostacolo e il ragazzo poteva arrivare a Roma al più presto, dato
che vi era urgenza di farlo uscire dal “mefitico” clima modenese.
Con una macchina privata presa a noleggio dal garage “Macchia” il “giovanotto”
venne accompagnato in stazione a Bologna; dopo un viaggio di circa sedici ore,
la rete ferroviaria era ancora notevolmente dissestata in seguito a tutti i
bombardamenti subiti, i viadotti e i tunnel sulla tratta Bologna-Firenze si
dovevano percorrere a “passo d’uomo”, arrivò a Roma, alla stazione Termini alle
ore diciotto, dove trovò ad accoglierlo, al binario n. 8, il caro cugino
Umberto; baci, abbracci, convenevoli di rito poi, in taxi, che era semplicemente
una camionetta riciclata dell’esercito americano con due “panchette” come
sedili, per la quale dovettero anche discutere, per ottenerne il servizio, con
alcuni militari che pretendevano di essere in fila prima di loro, riuscirono a
districarsi dal traffico caotico attorno alla stazione e a Piazza Esedra, per
arrivare poi tranquillamente a Piazza Ungheria. Umberto lo accompagnò prima
all’appartamentino di Via Montevideo, graziosissimo, composto da un piccolo
ingresso, da una cucina grande, da una camera da letto di discrete dimensioni,
da un bel bagno e da uno studiolo che aveva una bellissima veranda, il tutto
arredato con discreto gusto e con mobilio di recente fattura, ma in particolare
fu colpito dallo splendido terrazzino, ampio, con molte piante e una bella
vetrata scorrevole, che guardava direttamente in un vasto giardino. Disse subito
al cugino:
“ma è bellissimo, non avrei mai pensato di trovare immediatamente un
sistemazione così confortevole”.
“Aho, a voi der nord, ve dovemo trattar bene, sennò….” gli rispose scherzando in
perfetto romanesco il cugino:
“vedi Giorgio, mia madre ha sistemato tutto quanto, adesso ti aiuto a disfare le
valigie, poi andiamo a cena, stasera “ce semo tutti, an vedi che festa te famo”,
poi io e te avremo modo di stare assieme e in libertà, nei prossimi giorni, così
ci racconteremo con calma tutto quello che ci è capitato in questi ultimi tempi,
dagli ultimi mesi della Repubblica Sociale ai giorni del dopoguerra sino ad
oggi, che ho saputo tu hai passato come un recluso, poi voglio dirti che verrai
senz’altro a mangiare anche da noi abbastanza spesso, ma per renderti più
autonomo, sarà bene tu prenda contatto con l’ ottima trattoria che si trova qui
a pochi passi e che tiene a pensione qualche studente e alcuni professionisti
che lavorano in zona e sò per certo che si trovano tutti molto bene, anche noi,
qualche volta, ceniamo dal “sor Renato” dove c’é una buona cucina “de noartri”,
non sarà come la vostra modenese, ma vedrai che la troverai ugualmente
all’altezza.”
In casa di Umberto, quando arrivarono, c’era già tutta la famiglia; lo zio
Adolfo aveva appena chiuso il negozio, la zia Adele De Angelis, la mamma di
Umberto stava armeggiando attorno ai fornelli aiutata dalla figlia Teresa,
mentre il marito di questa, l’avvocato Emanuele Gasparri, teneva in braccio il
figlioletto Giovanni, aiutato dal fratello più piccolo di Umberto, Riccardo,
mentre il vecchio nonno Vincenzo era già seduto alla tavola imbandita, in attesa
di gustarsi la buona cenetta preparata dalla figliola.
La zia Adele, con la figlia Teresa aveva preparato, in onore dell’ospite
modenese, un classico “cenone romano”: Giorgio si trovò in successione, a
doversi confrontare con un antipasto di bruschette olio e aglio, con supplì, e
pecorino. Un intervallo dove si scambiarono battute di vario tipo a proposito
della supremazia della cucina emiliana-modenese rispetto alla romana, poi zia
Adele arrivò con dei “bucatini all’amatriciana” che il modenese trovò
assolutamente “fenomenali”, e subito dopo un assaggio di “carbonara” come non
aveva mai mangiato, Umberto cominciava a prenderlo in giro:
“non mi dire che alla Brigata Nera mangiavate piatti del genere, mentre noi alla
Decima Mas questi ce li facevamo tutti i giorni”, Giorgio non si scompose e
subito rispose al cugino:
“noi invece, ad ogni pasto, avevamo il classico zampone modenese, e prima un
superbo piatto di tortellini in brodo e concludevano il nostro “rancio” con una
incredibile zuppa inglese e, se proprio lo si voleva gradire, anche un bel
piatto di prosciutto o un bel cotechino con le lenticchie.”
La tavolata era tutta in allegria, gli “sfottò” verso il modenese erano
continui, ma detti tutti in chiave simpatica e con una vivacità che aveva
contagiato anche il “nordico” padano, che innaffiando i gustosi piatti della zia
Adele con dell’ottimo vinello dei colli albani, cominciava a sciogliere la
lingua riuscendo a “rintuzzare” la coalizione dei “romani” con arguzia e molta
intelligenza, tanto da ottenere i complimenti dello zio Adolfo che si gustava la
“partecipazione” della famiglia a quella bella serata.
Dopo l’abbondanza dei “primi” arrivarono in tavola una serie di secondi che
“impressionarono” il padano: una coda alla vaccinara sublime, dei saltinbocca
alla romana, accompagnati da fiori di zucca fritta, da spinaci e “carciofi alla
giudia”, che fecero sobbalzare Giorgio con esclamazioni di esultanza che da
tempo non era abituato a fare, poi arrivò anche qualche taglio di abbacchio al
forno, squisito, che il modenese non riuscì a gustare completamente in quanto
era completamente satollo. Poi, per completare, oltre al vino dei castelli, un
dessert di crema pasticcera accompagnato da un passito di Pantelleria da
lasciare senza fiato.
La conversazione era continuata sempre vivacissima mentre sorseggiavano un buon
caffè accompagnato dal classico “ammazzacaffè romano” e nessuno, opportunamente,
aveva preso l’iniziativa di affrontare temi politici o “scabrosi” relativi ai
due ragazzi ancora considerati, ovviamente non in famiglia, degli sconfitti
senza futuro, mentre il marito della sorella di Umberto, l’avvocato, era
schierato con il partito socialista, pertanto era bene cercare di non creare
inopportune conflittualità.
Battute, barzellette, canti, intonati dalla bella voce di Teresa, che spaziavano
dagli stornelli romani, alle canzonette di moda al momento, come ad esempio
“Dove stà Zazà”, “Un ora sola ti vorrei”, “Vento, vento portami via con tè”,
“Lili Marlein”, ed altre, mentre zio Adolfo, pur partecipando all’allegria dei
giovani, si raccomandava in continuazione di tenere basso il tono della voce per
cercare di dare meno disturbo possibile agli inquilini del palazzo. Poi tutti
gli uomini scesero in strada per accompagnare Giorgio nella sua nuova
abitazione, mentre le donne riassettavano la cucina e la sala da pranzo,
contente per aver preparato al giovane modenese una bella cenetta ed aver
trascorso assieme a lui una piacevolissima serata.
Il giorno dopo Umberto andò a prendere il cugino Giorgio e lo portò a fare una
bella passeggiata nella zona dei Parioli e, camminando camminando, si
raccontavano le loro vicissitudini raggiungendo, senza accorgersene, il centro
storico della città.
“Allora Giorgio”, aveva iniziato l’ex marò della Decima, “ho saputo che sei
stato “rintanato” a lungo, raccontami qualcosa della tua avventura e come ti sei
salvato dalla bufera del dopo guerra.”
“Sono stato, in verità, molto fortunato,” rispose l’ex brigatista nero, “poiché
moltissimi camerati del mio reparto sono caduti nelle mani dei partigiani e
subito sono stati uccisi, molti di loro sono stati ritrovati nelle campagne
attorno a Modena, ma di tanti altri non si è saputo più nulla. A casa mia
svariate volte i “rossi” mi hanno cercato ma, pur sempre restando in città, sono
riuscito a tenermi rintanato, all’inizio, tramite un amico partigiano, presso il
convento dei frati cappuccini poi, dopo la lunga parentesi del campo di
prigionia di Coltano, ritornato a Modena, lo zio Francesco mi ha tenuto chiuso
in una stanza nel suo appartamento in centro a Modena, dal quale sono uscito
dopo tre mesi poiché non ne potevo più, ma i “comunisti” mi hanno “beccato”, ti
dirò poi dove, ma per fortuna mi ha tirato fuori dai guai una ausiliaria che,
per puro caso, si è trovata presente quando i partigiani mi hanno scoperto. Ma
raccontami piuttosto di tè, dato che io sono rimasto alla lettera che mi hai
inviato, mi pare a Settembre del ’44, dove mi dicevi che saresti dovuto passare
da Modena durante un trasferimento del tuo reparto dal Piemonte alla Venezia
Giulia. Da allora non avevo avuto più notizie ma, ovviamente, sei riuscito a
salvarti; anche i reparti della Decima, hanno subito parecchie perdite e i
partigiani non hanno risparmiato neppure voi.”
“Come avrai avuto modo di sapere a quel tempo” prese a dire Umberto, “siamo
stati a lungo sul fronte di Nettuno, dove, assieme ai camerati tedeschi, per
poco non abbiamo ributtato a mare gli invasori americani, abbiamo avuto anche
molte perdite, eravamo assieme alla 715° divisione tedesca di fanteria e con noi
c’era anche un battaglione delle SS italiane, il “Degli Oddi”, che si è battuto
con molto onore, oltre a reparti paracadutisti della “Nembo”, e tutti ci siamo
“scontrati”, anche in combattimenti ravvicinati, all’arma bianca, dove quasi
sempre riuscivamo a prevalere, sui “rangers” americani.
Eravamo schierati sul litorale romano, tra il lago di Fogliano e il Canale
Mussolini, poi, verso la metà di Maggio il giorno 24 ci ordinano di ripiegare,
ormai la battaglia per la difesa di Roma è persa; ci ritiriamo, avrei voluto
fare un salto a casa per salutare i miei, ma non è stato possibile, con un
gruppo di circa duecento uomini ancora il 4 Giugno siamo stati gli ultimi a
contrastare l’avanzata americana tra la via Appia e la Tuscolana, poi
gradualmente ci siamo ritirati per rientrare alla nostra base a La Spezia
Il “Barbarigo” è stato il primo reparto di Fanteria di Marina della Decima Mas
ad essere formato e fu anche il primo reparto italiano, dopo la costituzione
della RSI, a cercare di rivendicare l’onore delle armi schierandosi assieme agli
alleati germanici. Prima di arrivare al fronte, il nostro battaglione era
composto da poco più di milleottocento uomini e dopo la partenza da La Spezia,
il 19 Febbraio 1944, ci fermammo a Roma dove il 21 sfilammo per le strade,
acclamatissimi dalla popolazione, tra i quali, naturalmente, erano presenti
anche i miei che vennero a salutarmi prima della partenza per il fronte, in un
clima di entusiasmo mai più ritrovato, tanti eravamo noi romani in questo
battaglione.
Io facevo parte della 1° Compagnia che ha avuto fior di comandanti, dal
capitano, Mario Betti, agli altri capitani, Giovanni Feliziani, Renato Scordia,
sino all’ultimo, Calliope Santandrea, per non dimenticarmi del comandante in
capo del Battaglione, il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli che venne ucciso,
come ti scrissi nella mia lettera, a Ozegna nel Canavese in un agguato tesogli
dai partigiani e il suo posto venne preso dal Tenente di Vascello Giulio
Cencetti.
Ti giuro che eravamo veramente tutti orgogliosi di appartenere a quel reparto
che si sciolse a Padova il 30 Aprile 1945. Dopo una sosta di circa due settimane
al centro di La Spezia ci trasferirono in Piemonte, dove abbiamo avuto
violentissimi scontri con le bande partigiane.
Ma quello che subimmo pesantemente fu l’agguato dell’8 Luglio; eravamo arrivati
in zona da poco, quando quel giorno, il nostro comandante, assieme ad alcuni
ufficiali si fermò nella piazza di Ozegna dove sostava anche un gruppo di
partigiani della “banda” di “Piero Pieri”, vi fu un colloquio che si prolungò a
lungo tra i due gruppi, sembrava un semplice e pacato discorso politico,
Bardelli cercava di far capire agli “altri” del perché si era schierato con la
Repubblica, i partigiani dicevano di essere dei militari sbandati che non
volevano creare conflitti con i “marò”, la discussione andava avanti da una
buona mezz’ora e si manteneva sempre su un piano di estrema correttezza, ma i
capi partigiani avevano accettato di discutere con Umberto Bardelli e il piccolo
gruppetto fascista, con uno scopo ben preciso, stavano arrivando un centinaio di
ribelli, che bloccarono le strade di accesso alla piazza, quando il gruppo dei
partigiani, che discuteva con i Comandante, si rese conto che la manovra era
conclusa, si allontanarono e subito dopo si scatenò l’inferno.
Un tempesta di fuoco si abbatté sugli uomini della Decima, il comandante,
malauguratamente, si accorse di essere caduto in un agguato, cercò di resistere
ma gli fu impossibile e assieme a lui rimasero uccisi altri dodici tra ufficiali
e marò, molti furono i feriti ed altri vennero fatti prigionieri. A seguito di
questo eccidio il Comando della Decima decise di portare in tutto il Canavese un
azione tendente a reprimere la guerriglia che si protrasse per tutto il mese di
Luglio, e a quel gigantesco rastrellamento parteciparono anche il Comandante
della Decima, Junio Valerio Borghese, e il Comandante generale delle Brigate
Nere, Alessandro Pavolini.
Dopo un breve periodo di riposo, a fine Ottobre, ci siamo spostati in Venezia
Giulia e alla fine del mese ci trovammo di stanza a Vittorio Veneto. In quella
zona, sino a quella del Bosco del Cansiglio, nel bellunese, si era infiltrato,
con l’aiuto delle bande italiane, uno schieramento di reparti titini del “IX°
Corpus” con i quali ci sono stati svariati scontri e dove abbiamo causato loro
notevoli perdite. Ci spostammo poi a Gorizia e sul fronte dell’Isonzo abbiamo
continuato ad avere violenti combattimenti con i “partigiani yugoslavi”
appoggiati dai comunisti italiani.
In questa italianissima città siamo stati accolti da entusiastiche
manifestazioni dalla popolazione che si sentiva oppressa dalla presenza nelle
zone carsiche dei partigiani titini che commettevano soprusi di ogni tipo,
abbiamo avuto scontri sempre cruenti e violentissimi, compreso quello della
notte di Natale del 1944. In seguito fummo spostati sul fronte sud, e ci
trovammo, verso la fine di Marzo, nel ravennate e qui, nei primi giorni del mese
di Aprile, ci sono stati anche alcuni combattimenti “fratricidi”, durante i
quali abbiamo catturato molti prigionieri, con reparti del esercito italiano del
Sud.
Ci spostavamo in continuazione nella zona di Codigoro, Porto Garibaldi, poi con
l’arretramento del fronte e con il dilagare nella pianura padana degli anglo
americani, scontrandoci ancora con altri reparti italiani della Divisione
“Cremona” che era aggregata alla 8° Divisione Britannica, ancora il 25 Aprile ad
Adria, dopo che avevamo attraversato il Pò nei pressi di Goro, abbiamo ricevuto
la visita del Comandante della Divisione Decima, generale Corrado, che ci ha
elogiato per la perfetta efficienza del reparto; l’ultimo scontro l’abbiamo
avuto con i partigiani al Ponte di Bassanello, mentre ci stavamo dirigendo verso
Padova e qui il nostro reparto, il 29 Aprile, (avevamo appena saputo
dell'esecuzione del Capo del Fascismo), venne sciolto dopo che avevamo ottenuto
l’onore delle armi da una compagnia inglese; fummo, poco dopo, trasportati in
direzione del campo di concentramento POW 209 di Afragola, nelle vicinanze di
Napoli, ma durante il trasferimento, in una sosta a Pescara, io, assieme ad
altri due camerati romani siamo riusciti ad allontanarci dal gruppo, senza che
nessuno se ne accorgesse. Siamo stati fortunati a trovare in un casolare vicino
a Fontanelle, degli abiti borghesi, pagati profumatamente, sicché il 12 Maggio,
dopo aver usufruito di vari passaggi, nella maggioranza su automezzi americani,
siamo arrivati a casa.”
Giorgio lo aveva ascoltato attentamente e gli disse:
“almeno tu hai combattuto realmente contro quelli che hanno invaso il nostro
territorio, oltretutto avete avuto gli onori militari da parte dell’avversario,
mentre invece noi abbiamo dovuto combattere solamente contro i nostri fratelli
in un lotta spietata, e alla fine ci hanno continuato a perseguitare sia
fisicamente che moralmente, non ti dico le epurazioni che stanno avvenendo
ancora oggi in tutto il Nord, padri di famiglia, giovani e anziani cacciati dai
posti di lavoro, solamente perché, anche per semplici ragioni contingenti,
avevano aderito al Partito Fascista Repubblicano. Inoltre qui la guerra
fratricida praticamente è durata pochi mesi e, a parte l’episodio delle fosse
Ardeatine effettuato dalle truppe tedesche per reazione all’attentato contro dei
loro soldati in Via Rasella, non vi sono stati episodi di lotta tra fratelli
come da noi.
Ma dimmi, con gli studi come va?, a tavola mi hai detto che hai ripreso a
frequentare la facoltà di legge e che cercherai di dare qualche esame anche in
questa sessione, ma gli esaminatori sono severi come prima della guerra, oppure
sono ancora “comprensivi” nei riguardi particolarmente di chi ha combattuto?
Vorrei terminare gli studi al Liceo Classico per iscrivermi poi, anch’io, a
Giurisprudenza o a Medicina, ma penso che sia meglio frequentare regolarmente
piuttosto che presentarsi come “privatista” all’esame di stato; cosa ne pensi e
cosa mi consigli?”
“Certamente caro cugino” prese a dire Umberto “ ti consiglio, in concreto,
quello che hai già detto tu, molto meglio frequentare l’ultimo anno di Liceo,
vai subito a prendere informazioni al Liceo Classico “Ennio Quirino Visconti” in
Piazza del Collegio Romano che ho frequentato pure io, piuttosto che presentarti
come privatista, perderai praticamente un altro anno ma ti tornerà molto più
utile farti conoscere ai corsi universitari con la provenienza da un Liceo come
il Visconti che, vedrai, ti darà una formazione perfetta, sia che tu voglia
iscriverti a medicina o a giurisprudenza, dato che mi hai detto che sei ancora
indeciso su quale scelta fare.
Certo che in questi ultimi tempi, all’Università ci sono stati momenti di
permissivismo e di arroganza da parte degli studenti. I docenti, di fronte a
manifestazioni di prepotenza, si arrendevano e davano il voto sul libretto a
piacere degli esaminandi. Ho saputo, che alcuni di questi si sono presentati
appoggiando sul tavolo dell’esame una “pistola” con pallottola in canna,
pertanto il professore arrivava anche a scrivere un bel “trenta” praticamente
chiacchierando del “più e del meno” con lo studente: Adesso la situazione si stà
normalizzando e agli esami è meglio presentarsi ben preparati. Anzi a te
consiglio, dato che dovrai iscriverti per il prossimo anno scolastico, di
cominciare a prendere di nuovo in mano i libri del terzo anno e riprendere
confidenza con materie come il greco e la matematica che, mi dicevi, sono i tuoi
punti deboli e così potrai ripresentarti al regolare corso di studi non del
tutto digiuno, dopo la pesante sosta della guerra, che ti ha fatto perdere due
anni,.
Io, in effetti, ho frequentato, appena iscrittomi a Giurisprudenza, solamente
poche lezioni, poi mi sono arruolato nella Decima senza aver dato alcun esame;
da alcuni mesi ho ripreso a frequentare l'università e penso di essere pronto
per sostenere, nei prossimi giorni, i miei primi due esami. Quando ritorniamo a
casa andiamo a vedere in camera mia se vi sono ancora dei testi della frequenza
al Liceo così te li passo, consigliandoti anche i punti suoi quali è meglio
prepararsi, vedrò pure di aiutarti laddove mi è possibile”.
Nei giorni seguenti Giorgio si recò alla Segreteria del Liceo dove si fece
elencare i documenti necessari per la futura iscrizione oltre ai libri di testo
adottati nelle ultime due classi; la presa di possesso dell’appartamento in Via
Montevideo, la presenza del cugino Umberto e della sua famiglia misero il
giovane modenese in uno stato di tranquillità e nello stesso tempo di euforia
per la sua nuova vita: Lo zio Adolfo gli aveva trovato anche una sistemazione
come commesso in un negozio di abbigliamento maschile di un suo collega in Viale
Liegi, abbastanza vicino a casa, dove gli era stato promesso uno stipendio
mensile di quindicimila lire che lo rendevano totalmente indipendente, visto che
anche da casa, mensilmente gli inviavano un vaglia di ottomila lire; inviò anche
il suo indirizzo all’ “amica” Luisa narrandole della sua nuova sistemazione e
rinnovandole i ringraziamenti per tutto quello che lei e le sue “colleghe”
avevano fatto per lui; lei rispose che ancora per un po’ di tempo sarebbe
rimasta nella “casa” di Modena, ma che sicuramente si sarebbe trasferita, in
seguito, a Milano.
Giorgio, ormai da alcuni mesi nella capitale, si sentiva praticamente un “romano
de Roma”, aveva fatto amicizia con molti conoscenti di Umberto nel quartiere di
Piazza Ungheria e della facoltà di Legge, inoltre era corteggiato da alcune
ragazze che avevano trovato nel bell’emiliano, un ragazzo brillante, allegro e
simpatico con il quale era molto piacevole trattenersi in compagnia. Restava
volentieri a chiacchierare e a passeggiare con una certa Giuliana, una
“morettina” che abitava al quartiere Prati, ma alla quale ancora non si decideva
a “chiedere” una amicizia più impegnativa, non si erano nemmeno baciati, ma
nello stesso tempo era molto perplesso se fare questo passo con lei, dato che
nel suo “giro” vi era anche un'altra presenza, molto interessante, che lo aveva
particolarmente “colpito”, ma con la quale non vi era ancora stata la
possibilità, semplicemente, di avere un breve colloquio; era molto bella, ma
altezzosa, “Ginevra” non dava molta confidenza ai ragazzi che si limitavano a
“sospirare” per lei.
Umberto, dopo il suo rientro avventuroso a Roma, era stato contattato, da alcuni
suoi ex commilitoni, appartenenti al Battaglione Barbarigo, che gli avevano
prospettato la possibilità della costituzione, “segreta”, di un “Esercito
clandestino anticomunista”, trasformatosi poi in “Esercito nazionale
anticomunista”, con alcuni ex camerati quali, Roberto Mieville, molto attivo a
Roma negli ambienti del “neo fascismo”, di Franco Petronio, di Enzo Erra, e di
altri uomini che non intendevano “mollare tutto”, e che pertanto andavano
predicando che era necessario ricostituire le file, seppure con nuove
metodologie e con prospettive più avanzate, di un movimento da contrapporre al
comunismo avanzante e al capitalismo vincitore del secondo conflitto mondiale.
Si trattava di collegare una serie di gruppi che facevano riferimento al
fascismo di Salò e che si stavano ricostituendo in molte parti d’Italia alla
ricerca di una forma di lotta antiamericana e anticomunista, in modo
clandestino. Erano pur sempre gruppuscoli, limitati a poche unita territoriali
ma che, organizzati e collegati sul territorio nazionale, avrebbero potuto avere
una certa consistenza.
Il gruppo più attivo e consistente, che richiamava attorno ad uomini quali Pino
Rauti, Clemente Graziani e Pino Romualdi, altri gruppuscoli di minore
consistenza, era quello dei FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria) che si era
dotato di una vera e propria struttura partitica, e aveva come scopo il
“proseguimento” di un azione rivoluzionaria tendente all’avvio di una “guerra
partigiana” contro gli americani.
Le formazioni clandestine si “presentarono” ai romani con alcune azioni
“eclatanti”, come quella del 28 Aprile, quando, dopo aver fatto celebrare presso
la Chiesa dei “Sette Santi Fondatori” a Roma, una messa in suffragio per Benito
Mussolini, un “commando” di questi “nuovi fascisti” fece irruzione negli studi
di Radio III a Monte Mario e, dopo avere imbavagliato i due tecnici presenti,
con un giradischi mandarono nell’etere la canzone “Giovinezza”, mentre un altro
“commando” lanciava due bombe davanti alla sede del Partito Comunista e davanti
alla sede del giornale socialista “L’Avanti”. Queste azioni, dimostrative,
assieme ad altre, hanno fatto scalpore in città e qualche mese dopo, sulla torre
delle Milizie, in Via 4 Novembre, venne issato un gagliardetto nero in occasione
del 28 Ottobre, anniversario della Marcia su Roma
Umberto parlò a Giorgio di questi suoi “contatti” e una sera si recarono assieme
ad una riunione “semiclandestina” in un appartamento di un amico in Viale
Angelico, dove venne proposto ai due cugini di iscriversi a quella formazione; i
ragazzi si consultarono e subito declinarono l’invito, rassicurando i “capi”
che, concettualmente, sarebbero rimasti vicini a quelle idee, ma al momento, in
quanto molto impegnati con gli esami e con l’attività lavorativa non avrebbero
potuto dare un “buon contributo alla causa”.
In realtà entrambi concordavano che questi ”camerati” erano, oltre che degli
illusi, anche dei visionari in quanto, se si voleva continuare a prestare fede
alla ideologia per la quale avevano combattuto e si erano notevolmente
sacrificati, sarebbe stato opportuno, con le forze di occupazione ancora
massicciamente presenti sul nostro territorio, cercare di adeguarsi al nuovo
sistema “democratico” e inserirsi correttamente in questo per propugnare l’idea
che non andava rinnegata.
Difatti, pochi mesi dopo, entrambi si avvicinarono al nuovo schieramento
politico costitutosi in Roma nello studio di Arturo Michelini, per merito di
uomini quali: Giorgio Almirante, Giorgio Bacchi, Pino Romualdi, (era appena
uscito dai Far) e che ormai si stavano sciogliendo, oltre a Cesco Giulio Baghino,
Marco Cassiano, Biagio Pace e Giovanni Tondelli; questa formazione prese il nome
di Movimento Sociale Italiano, strutturatosi immediatamente in partito omogeneo
nel quale confluirono molti dei gruppi eterogenei che videro, in questa
struttura, da subito organizzatasi su tutto il territorio nazionale, l’unica
possibilità di “non rinnegare e non restaurare” quell’ideologia che aveva perso
la guerra.
I due cugini si dissero, e lo ripeterono agli amici e ai camerati, che al
momento sarebbero rimasti vicini ideologicamente, ma che avrebbero preso
posizione in un secondo tempo, dopo aver ben visionato il comportamento di
queste nuove formazioni. Difatti, di tanto in tanto, si trovavano con i “marò”
della Decima Mas, che in Roma erano numerosi, in serate “conviviali” dove anche
Giorgio riuscì ad inserirsi perfettamente poiché, quale milite della Brigata
Nera modenese aveva avuto una partecipazione di rilievo in quella sanguinosa
guerra civile, dalla quale lui, in realtà, non ne era ancora completamente
uscito.
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