Parte Prima

La Mandante

Romanzo modenese

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Era stato rinchiuso troppo tempo dentro quelle quattro mura che, generosamente, lo zio Francesco gli aveva messo a disposizione subito dopo aver terminato il periodo di prigionia nel campo di concentramento, ed era arrivato ad un limite di sopportazione tale tanto da raggiungere quella sensazione di claustrofobia che ti mette nella condizione di non accettare più di rimanere chiuso. Pur sapendo che, fuori dalla porta, andrai incontro a grossi pericoli, preferisci correrli piuttosto che continuare in quella forma di auto-carcerazione senza carcerieri
Il fratello di sua madre, Marisa Lotti, abita un appartamento abbastanza grande in pieno centro storico, Via Cesare Battisti, esattamente la strada di fronte alla Ghirlandina, la splendida torre dell’ancor più splendido Duomo, opera dell’architetto Lanfranco e dello scultore Wiligelmo che lo avevano eretto attorno all’anno 1100; guardava, con alcune finestre, su una delle porte laterali del Duomo, quella chiamata “della Pescheria” e sulla Piazzetta dove si trova la statua del grande poeta locale Alessandro Tassoni, autore del famoso poema “La Secchia Rapita”, secchia che i modenesi tolsero, come trofeo, ai bolognesi, dopo la famosa battaglia della Fossalta e, ancora tenuta dentro la snella torre.
L’appartamento, di parecchie stanze, era occupato dalla famiglia del proprietario, composta dallo zio, Francesco Lotti, medico oculista, dalla moglie Renata Giacobbi, insegnante alla Scuola media Pasquale Paoli, e dalla loro figlia quindicenne Elisabetta, studentessa al Liceo Scientifico “A. Tassoni”. Alcune stanze, in quel dopoguerra da poco iniziato, erano state date in concessione ad una famigliola che aveva avuto la casa distrutta: viste anche le normative emanate dalle autorità locali per andare in aiuto ai tanti sinistrati, pertanto coloro che avevano proprietà di vaste dimensioni dovevano accogliere una o più famiglie. Quella arrivata da poco tempo in casa dell’oculista, aveva subito la distruzione della propria nel primo bombardamento su Modena del 13 Febbraio 1944, ed era composta da marito e moglie, entrambi impiegati alle Poste e da un figlio di tredici anni che avrebbe dovuto frequentare la terza Media.
In un angolo remoto di quel vasto appartamento con ingresso separato da quello principale, il dott. Francesco aveva accondisceso, in seguito alle suppliche della sorella Marisa, a “nascondere”, per un certo periodo di tempo, il figlio di lei, Giorgio Campari, uscito, ai primi giorni del mese di Novembre del 1945, dal famigerato campo di Concentramento di Coltano, dove gli americani avevano rinchiuso più di trentacinquemila fascisti, sconfitti e perseguitati, di cui oltre seicento modenesi, al termine del secondo conflitto mondiale. Solamente qualche mese prima, in quella stessa stanza, aveva trovato rifugio un altro cugino dello zio Francesco, figlio diciottenne di un'altra sua sorella che non aveva voluto presentarsi ai bandi di reclutamento del Maresciallo Graziani.
Non era “salutare” uscire per le strade di una città come Modena. Coloro che avevano rispettato un patto di fede e di lealtà a un certo “credo”, potevano essere riconosciuti dagli “altri”, da quelli che, attraverso agguati, imboscate, e uccisioni si erano accodati al carro del vincitore e ora spadroneggiavano arroganti, prepotenti e impuniti, su tutto il territorio. Procedevano all’ eliminazione diretta di quei giovanissimi ragazzi che, sino alla fine, vestendo una divisa ben riconoscibile, erano prima rimasti vittime di questi “ribelli”, i quali, nascosti dietro ad una siepe colpivano a tradimento. Si creavano così i presupposti per le ritorsioni e le rappresaglie che servivano solamente a scavare l’odio tra fratelli a tutto vantaggio degli occupanti il suolo italiano.
A guerra finita, i giovani in divisa furono oggetto di una persecuzione programmata dalle centrali moscovite, tendente all’eliminazione totale di tutti coloro che erano stati e probabilmente avrebbero continuato ad essere nell’immediato futuro, avversari irriducibili. Furono soppressi a migliaia. Ogni giorno, per alcuni mesi, dopo la fine del conflitto, in tutto il nord Italia e in particolare nella provincia modenese, gli emissari delle centrali russe provvedevano a far “scomparire” decine e decine di fascisti o presunti tali, comprendendo sotto questa formula, tutti i così detti “nemici del popolo”, possidenti, preti, e tutti coloro che erano contrari all’ideologia comunista, compresi i liberali e gli anarchici.

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Giorgio Campari era uno dei “reietti” o “appestati” che, giovanissimo, non avendo ancora compiuto i diciotto anni, si era arruolato nelle formazioni della Repubblica Sociale Italiana. Era un bel ragazzo, alto, moro, con occhi verdi vivacissimi e un aspetto tale da farlo apparire maggiore di venti anni, e molte delle ragazze del suo Liceo e del suo giro di amicizie, lo corteggiavano; aveva appena terminato la seconda classe al “Muratori” ed aspettava di iniziare l’ultimo anno per iscriversi poi o alla facoltà di Medicina o a quella di Legge, dell’Università modenese dato che, genericamente, era affascinato da entrambi i percorsi ma ancora non aveva fatto la scelta definitiva. La scuola era praticamente terminata nel mese di febbraio, dopo le enormi difficoltà create dai continui allarmi aerei che costringevano le scolaresche a correre nei rifugi con una certa frequenza e in seguito anche al tremendo bombardamento che aveva sconvolto la città il giorno 13 di quel mese.
La famiglia Campari sfollò immediatamente e si sistemò in una piccola casetta di campagna, in località Villanova, a pochi chilometri dal centro città, percorso che Giorgio copriva quotidianamente in bicicletta per recarsi a trovare gli amici, o sotto al portico del Collegio, dove spesso si trovava anche negli anni precedenti con la sua compagnia, o al bar del Guf, in Via Università per giocare a biliardo, in particolare a carambola, a carte in accanite partite a “strappetto”; alcune volte, durante la settimana, si recava anche alla casa della GIL, vicino alle Ferrovie Provinciali, dove, nel campo da calcio attiguo, si disputavano accese partite tra i giovani che ancora erano rimasti in città, dato che non avevano l’età per il servizio militare e non erano sfollati, contro quelli che vestivano già la divisa militare in uno dei corpi della RSI, nella Guardia Nazionale Repubblicana, o in uno dei tanti reparti che si erano formati in quegli ultimi tempi.
La frequenza con vari gruppi gli permetteva di venire a conoscenza degli umori dei suoi coetanei e di conoscere i fatti e gli avvenimenti di quel periodo tremendo pieno di incertezze; si cominciavano a ricordare gli amici e camerati con i quali aveva trascorso tante ore nelle aule scolastiche, o a fare sport, o nelle sale da ballo, insomma nei vari ritrovi anche paramilitari dove erano soliti trovarsi i giovani in quel periodo e che cadevano sui vari fronti, ma in particolare i coetanei che sul fronte interno si immolavano nella carneficina che stava insanguinando la Patria con una lotta fratricida dai risvolti sempre più cruenti.
Le notizie che quotidianamente arrivavano per via orale da coloro che venivano a passare qualche giorno di licenza a casa, oppure dalla lettura dei quotidiani e dalle notizie dell’Eiar, l’Ente nazionale radiofonico, erano, di giorno in giorno, sempre più sconfortanti e la sensazione della sconfitta definitiva delle forze dell’Asse, malgrado le roboanti promesse germaniche di incredibili e devastanti armi segrete risolutive, era sentita dalla maggior parte della gente, anche da quei giovani che correvano ad arruolarsi nei vari reparti della Repubblica, comprese le formazioni delle SS Italiane dove entrarono anche molti conoscenti di Giorgio, consapevoli che le truppe tedesche non erano assolutamente degli invasori, come al contrario li appellavano i “ribelli” o quelli del “Governo del Sud”, dato che erano già da tempo in Italia chiamati, ancor prima del 25 Luglio, dallo stesso Re Vittorio Emanuele III°, poi ignominiosamente rifugiatosi, l’otto Settembre 1943 tra le braccia del “nemico angloamericano”, e che stavano combattendo, immolandosi, sul suolo italiano a difesa della nostra terra.
Si videro poi, in seguito al tradimento della “cricca” monarchica e badogliana”, sparare alle spalle dagli ex “alleati”. Molti giovani aderirono ancora, malgrado tutto, alle “sirene” di un fascismo riciclato, che proclamava “onore e fedeltà”, con appresso tutto quel bagaglio che la “mistica fascista” aveva rovesciato addosso alle generazioni degli anni venti e trenta, nel suo ventennio di potere assoluto.

In quell’estate, il giovane Giorgio, seppure indottrinato dagli insegnanti delle scuole elementari, delle Medie e del Liceo a “Credere, Obbedire e Combattere” era molto dibattuto su quello che avrebbe dovuto fare nell’immediato e quali posizioni prendere in concreto, in rapporto a tutti i riscontri negativi di cui era in possesso e che avrebbero dovuto farlo recedere da entrare nell’agone, ma nello stesso tempo la sua morale non gli permetteva, come aveva sentito fare da molti, di nascondersi e di stare alla finestra in attesa di vedere chi avrebbe vinto, per poi schierarsi, all’ ultimo istante, con questi.
Successe però che suoi coetanei, che avevano aderito alle formazioni Repubblicane, furono brutalmente assassinati dai partigiani, nelle quali formazioni erano andati a rifugiarsi anche alcuni degli insegnanti che sino a qualche mese prima vestivano “l’orbace” e lo avevano istruito alle teorie del “Libro e Moschetto” con partecipazione totale alle manifestazioni del fascismo poi, visto che l’ “aria” stava per cambiare, si misero addirittura a sparare contro i loro ex allievi.
Venne anche a sapere che alcuni dei ragazzi con i quali aveva giocato, o studiato, o partecipato alle esercitazioni premilitari del sabato fascista nella più totale esaltazione di protagonismo, che Giorgio a volte “snobbava”, si erano recati in montagna, in particolare dopo le conquiste, da parte anglo americana, di Roma e di Firenze, che facevano paventare una rapida conclusione del conflitto, e sicuramente avevano preso parte alle imboscate dove restavano uccisi i suoi amici, come accadde alla fine di Agosto quando furono assassinati, in un vile attentato, esponenti del Fascio modenese, il giornalista Corrado Rampini direttore di “Valanga Repubblicana” il giornale del fascismo repubblicano locale, assieme a Massimo Casolari e al suo giovane amico, di diciotto anni, Francesco Medici; e, pochi giorni dopo, il 15 Settembre, venne a sapere che nei pressi di Limidi di Soliera, un gruppetto di militi della G.N.R. e della Brigata Nera, tra i quali altri due suoi cari amici, furono attirati in una imboscata da numerose formazioni partigiane.
Vi fu una breve scaramuccia, con qualche raffica di mitra; gli aggressori erano notevolmente superiori in forze ai fascisti, intimarono loro la resa, che venne accettata dal Comandante la piccola formazione, il Sergente maggiore Nellusco Gasparini Casari di quarantacinque anni, il quale, avendo la responsabilità di quel gruppo di giovanissimi, tra i quali anche il figlio Giorgio, Caporal Maggiore del 2° Reggimento della Divisione Littorio, di diciannove anni, decise di arrendersi sperando di evitare un inutile spargimento di sangue.
Gli aggressori però, subito dopo la resa, li disarmarono e procedettero all’immediata esecuzione di quel gruppo di imberbi soldati che, oltre al figlio del Comandante, era composto dal giovane Danilo Ronchetti, di venti anni che, da soli tre mesi, era diventato padre di un bel bambino, oltre che dai diciannovenni, Stefano Miravalle, Bonfiglio Franzoni, Edoardo Sanmarini e dal diciottenne Ermes Scorzoni, questi ultimi due appartenenti ai reparti della Brigata Nera; mentre non aveva ancora compiuto diciasette anni, Lamberto Bertacca al quale i partigiani, prima di finirlo, visto che era rimasto leggermente ferito a una gamba durante la sparatoria iniziale, gli intimarono di alzarsi e di gridare “Viva i partigiani, viva la Russia” se voleva aver salva la vita. Il ragazzo, con uno sforzo sovrumano si alzò per gridare in faccia ai suoi assassini, “Viva l’Italia, Viva la Germania”. A quella esclamazione segui l’ultima raffica di mitra a stroncare, dopo le altre, quella fiorente giovinezza.

In seguito a questi fatti il giovane Giorgio Campari che, nel giro di pochi giorni, si vide privato di tre suoi cari amici, prese la decisione di arruolarsi. E alcune sere dopo, all’ora di cena, con determinazione e con molto coraggio esternò ai suoi genitori tale proposito. Era sempre stato un ragazzo modello studioso e rispettoso del papà e della mamma ai quali voleva un gran bene e mai avrebbe voluto dar loro un dispiacere, ma in quei momenti era ben conscio che la sua scelta, al contrario, avrebbe sicuramente portato sconforto in famiglia.
Il padre Giulio, che aveva una piccola industria di produzione di attrezzi per l’agricoltura a Carpi, era quello che si dice, “una pasta d’uomo” tutto dedito al lavoro e alla famiglia e non si era mai interessato di politica, specialmente nel periodo della Repubblica Sociale appunto perché, avendo due figli maschi, era sempre “sul chi vive”, mentre la madre Mirella Lotti, casalinga, aiutava il marito, in particolare in quei tempi grami, dato che le entrate erano decisamente scarse, con dei piccoli lavoretti di sartoria che una amica sarta, con negozio in centro a Modena, le procurava.
Il secondo figlio, Marco, era un vivace ragazzino che aveva da poco compiuto dodici anni e frequentava, quando era possibile, la seconda classe presso la Scuola Media Pasquale Paoli in Via Grasolfi, esattamente in pieno centro storico proprio dietro al Liceo frequentato dal fratello più grande.
Al momento in cui Giorgio aprì bocca per comunicare la notizia della sua decisione ai genitori, vi fu un attimo di stupore e di gelo da parte di tutti, se si esclude un esclamazione quasi euforica, da parte di Marco, il quale, già in varie circostanze, aveva posto la domanda del perché ancora non partiva volontario come invece avevano fatto alcuni suoi amici.
Il padre, seppure sconcertato e preso alla sprovvista rimase alcuni minuti, così come la signora Mirella, in perfetto silenzio, ponderando bene la situazione e cercando di affrontare l’argomento in modo sereno senza scenate. Era ben conscio che il figlio, che sapeva essere ben più maturo della sua età, avrebbe mantenuto fede alla decisione presa in modo totale e irrevocabile.
Quando gli riuscì di pronunciare qualche parola si limitò a dire:
“ma Giorgio, perché non aspetti di compiere i diciotto anni, che tra l’altro arrivano tra solo un mese e magari ti limiti ad attendere l’eventuale chiamata a presentarti oppure, ma penso che questo discorso non ti sia gradito, fare come stanno facendo tanti, cercare un nascondiglio sicuro, rendersi “uccello di bosco” e aspettare che passi la bufera, visto e considerato come stanno andando le cose per le truppe dell’Asse, presto gli angloamericani arriveranno anche da noi e allora tutto sarà finito.”
La mamma, come si aspettava il ragazzo, cominciò a versare qualche lacrima, gli ricordò gli amici scomparsi e lo sconforto che era entrato nelle loro case, disse semplicemente:
“ascolta quello che dice tuo padre e prova a pensare alla disperazione delle famiglie dei tuoi amici caduti in questi giorni.”
Giorgio ribadì che non avrebbe fatto, assolutamente, “marcia indietro” e che il giorno dopo sarebbe andato ad arruolarsi per le ragioni che, negli ultimi tempi, aveva sempre esposto con chiarezza. L’unico a complimentarsi fu, ovviamente, il fratellino che, anche lui cresciuto nello stesso ambiente e sottoposto alla visione “guerresca” dei balilla, e ai giochi con gli amichetti a base di sparatorie con i fucilini di legno o di latta, dai giochi con i proiettili, con i bossoli, che gli aerei lasciavano cadere in abbondanza nei loro bombardamenti e mitragliamenti, aspettava il momento adatto per entrare a far parte di qualche formazione e poter vestire così una di quelle divise che tanto lo affascinavano.

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Giorgio si era iscritto al Partito Fascista Repubblicano nei primi mesi dell’anno, pochi giorni dopo il primo micidiale bombardamento che lo aveva colto esattamente dentro alla sede del Partito, a Palazzo Littorio in Corso Ettore Muti, dove si era recato, al termine delle lezioni, per raggiungere, assieme all’amico Renato Venturelli impiegato in quei locali, l’abitazione di Viale Berengario dove entrambi risiedevano.
Quel giorno di Febbraio, lunedì 14, stavano inforcando le loro biciclette quando, poco dopo le tredici e trenta, tra la confusione di coloro che stavano scappando perché l’allarme aereo era suonato e il rumore sordo delle formazioni delle “fortezze volanti” che, già da tempo tutti gli italiani avevano cominciato, loro malgrado, a conoscere, per il rombo cupo, seppure molto lontano e per il “luccichio” delle fusoliere argentee che colpite dai raggi del sole mandavano bagliori accecanti visibili a chilometri di distanza, avvertirono le prime tremende esplosioni. I due amici lasciarono cadere a terra le biciclette e si precipitarono subito dentro al portone per andare a rifugiarsi negli scantinati dove trovarono tanti altri impiegati e funzionari.
Le esplosioni, terrificanti, erano vicinissime, dato che le bombe stavano cadendo nei pressi delle Ferrovie dello Stato, nell’attigua strada San Martino e molte caddero sul “Pallamaglio” un grande fabbricato popolare di quel quartiere oltre che sui grandi palazzoni di Viale Crispi, a pochi metri dalla Casa del Littorio che, fortunatamente, non venne colpita; la terra tutto intorno tremava come in un fortissimo terremoto, e sembrava che l’edificio, nel quale avevano trovato rifugio, dovesse crollare da un momento all’altro. Al suono delle sirene del cessato allarme i due ragazzi si precipitarono all’esterno alla ricerca delle loro biciclette e, dopo essersi guardati attorno, avvolti nella polvere che ancora gravava in quella zona, decisero immediatamente di prendere la via di casa. Ai vari incroci trovarono all’opera i militi della GNR che assieme ai militari tedeschi, pattugliavano le strade e cercavano di dare i primi soccorsi a quella popolazione che, come impazzita, correva da una parte e dall’altra, in tutte le direzioni per recarsi presso le abitazione dei familiari o dei parenti nelle zone dove si presumeva ci fossero stati i danni maggiori.
Le strade che i ragazzi percorsero erano coperte da enormi crateri e in più punti da giganteschi cumuli di macerie dove volontari e soccorritori, assieme al pronto intervento dei Vigili del Fuoco e degli uomini dell’UNPA, (Unione Nazionale Protezione Antiarea), assieme ai tecnici del Genio Civile, provvedevano a portare aiuto a chi era rimasto sepolto sotto le macerie e ancora dava qualche segno di vita, già cominciavano a vedersi coloro che, avendo trovato qualche carretto o qualche altro mezzo di trasporto, vi avevano caricato sopra masserizie e oggetti recuperati tra le macerie, scappavano dalla città per andare a rifugiarsi da amici o parenti nelle vicine campagne.
Giorgio e Renato si fermarono a più riprese per cercare di portare aiuto, ma erano talmente frastornati anche loro che in realtà non sapevano esattamente dove “metter mano”; si trovarono coinvolti, a un certo punto, assieme ad altri, nel recupero di alcuni cadaveri da un rifugio anti-schegge colpito da una bomba, trovandosi così, per la prima volta, nella loro giovane vita, davanti allo spettacolo della morte, spettacolo che si presentò loro in maniera sempre più frequente e sempre più orribile nei mesi a seguire. In mezzo a quel caos di gente urlante, di cadaveri, di urla strazianti dei feriti, di gente che scappava, i due ragazzi si accorsero che erano già passate alcune ore, decisero così di cercare di arrivare subito a casa per togliere dall’angoscia i loro familiari che senz’altro li stavano aspettando in ansia sapendoli in giro per la città. Mentre rincasavano si resero conto che lunghe file di contadini, con in spalla badili e vanghe, si stavano portando, dalle campagne alla periferia della città, verso il centro della stessa, in aiuto ai modenesi così duramente colpiti.

Quella bestiale incursione dell’aviazione anglo-americana sulla sua città, convinse ancor di più il giovane Giorgio a prendere posizione contro quelli che ci avevano invaso e che stavano colpendoci così irrazionalmente. Si rese conto che il terrorismo aereo degli “incursori” non era solamente propaganda bellica del regime, che, attraverso i manifesti di Boccasile, comunicati radio e sui giornali, accusava il nemico di questa forma di aggressione non prevista da nessuna convenzione internazionale e da sempre rifiutata dalle nazioni belligeranti, bensì una volontà programmata a tavolino onde spezzare, con i bombardamenti terroristici, il morale di una nazione.
La città della Ghirlandina non aveva, sul suo territorio, particolari bersagli di importanza bellica, e quei pochi non vennero nemmeno toccati, ma vide accanirsi i “liberatori” contro le chiese, i musei, le case popolari, le scuole e non una bomba cadde sugli obbiettivi che potevano avere un importanza strategica quali, ponti, strade, ferrovie e caserme.
Cinque giorni dopo, mentre in città fervevano ancora i lavori per la rimozione delle macerie dalle strade e per mettere in sicurezza i muri pericolanti e dopo lo svolgimento dei solenni funerali delle oltre cento vittime nel grande piazzale S. Agostino, Giorgio si recò alla sede di Palazzo Littorio per iscriversi al PFR; venne accolto negli uffici dove trovò altre persone, giovani come lui, che volevano manifestare solidarietà alle nuove istituzioni repubblicane, dando la loro totale disponibilità.

Passarono tre mesi e sabato 13 Maggio alle 14,35 si scatenò nuovamente l’inferno sulla città: Giorgio quella mattina si era recato, per studiare, assieme all’amico Renato, presso la Biblioteca Estense al Palazzo dei Musei in Piazzale S. Agostino, poi dal Museo si erano trasferiti, a casa di quest’ultimo, nella vicina Via Berengario a “mettere qualcosa sotto i denti”.
Al momento in cui scattò l’allarme aereo, malgrado avessero subito assieme il primo bombardamento, pensarono di rimanere in casa, ritenendo che, essendo vicinissimi all’ospedale, gli aerei, forse, avrebbero risparmiato quella zona. Le formazioni delle “fortezze volanti” iniziarono a sganciare il loro micidiale carico fatto di bombe da mille chili cadauna che cominciarono a cadere a grappoli sulla città.
Molte bombe fecero saltare in aria le case nel vicino Viale Storchi; al sentire le esplosioni cosi vicine i due ragazzi si precipitarono giù dalle scale per cercare di raggiungere uno dei rifugi più vicini, in Piazza d’armi o presso il vicino Ospedale.
Non fecero in tempo a raggiungere il rifugio che già non si sentirono più esplosioni; l’incursione era durata al massimo dieci minuti e subito dopo, mentre cominciavano a dirigersi verso il centro della città, per andare a vedere dove più avevano colpito i “liberatori”, sentirono passare un auto con un altoparlante sopra che mandava suoni simili a quelli delle sirene per il cessato allarme, dato che quelle predisposte non funzionavano più a causa della completa interruzione della corrente elettrica. Percorrendo la Via Emilia in mezzo a un caos indescrivibile, con la gente che impazzita correva da tutte le parti, con la polvere che sembrava coprire tutta Modena, raggiunsero Corso Duomo dove videro affollarsi molte persone attorno al portone dello stesso, poi, girato l’angolo su Piazza Grande, si trovarono di fronte ad un cumulo di macerie e, alzati gli occhi, si accorsero dell’enorme buco creatosi sopra alla porta dei Principi, il Duomo colpito in pieno da una bomba! Così come fu gravemente danneggiato il Museo Lapidario.
Non fu solamente la Chiesa più importante della città ad essere centrata, ma anche quella di San Domenico e la Chiesa di San Salvatore in Via dei Servi. Subirono danni il Tempio Monumentale dei Caduti, la Chiesa di San Vincenzo; rimasero poi costernati a vedere l’ampia ferita creatasi sulla Via Emilia, all’angolo con Corso Canalgrande dove videro, crollato in parte, il salotto buono della città, quel Portico del Collegio dove erano soliti passeggiare per incontrarsi con gli amici e con le ragazze. Anche il Palazzo Ducale subì un grave danno nella facciata prospiciente Via tre Febbraio, dove una bomba creò un grosso squarcio. Venne colpito anche il balcone principale, prospiciente Piazza Roma, che fu notevolmente danneggiato.
Distrutto dalle bombe fu il Cinema Centrale. Impararono più tardi che era andata completamente distrutta la bella Villa Rainusso splendido gioiello architettonico del XVII° Secolo e sede dell’Istituto per le malattie tropicali, al centro di uno splendido bosco, dove frequentemente da ragazzini andavano a giocare. In centro si trovarono a dover superare cumuli di macerie in Via Tre Re, in Via Francesco Selmi, in Via Rismondo e nella zona di Via Modonella, strada parallela al cinema distrutto.
Rimase duramente colpita anche la Caserma “Ciro Menotti”, sede della Scuola allievi ufficiali della GNR dove parecchi allievi rimasero sotto le macerie. Dopo alcune ore i ragazzi tornarono a casa anche perché, com’era successo tre mesi prima, Giorgio doveva rientrare a Villanova in bicicletta per rassicurare i suoi genitori. Anche in questa circostanza ci si rese conto che coloro che promettevano di venirci a “liberare” venivano invece semplicemente a massacrarci, senza alcun rispetto della morte di bambini e persone anziane che, attraverso queste azioni, puramente terroristiche, erano costrette a subirne le conseguenze più gravi.
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Nel periodo estivo, precisamente alla fine del mese di Giugno, il Segretario Nazionale Alessandro Pavolini, costituì, su tutto il territorio ancora in mano al Governo Fascista una nuova formazione militare, quella delle Brigate Nere territoriali. Fu una trasformazione politico militare del Partito Fascista Repubblicano in organismo prettamente militare attraverso la costituzione del Corpo Ausiliario delle Squadre d’azione delle Camicie Nere che, da quel momento, furono denominate Brigate Nere.
Militi di queste formazioni, nate con lo scopo di proteggere la popolazione civile dagli attacchi indiscriminati delle bande partigiane, portavano aiuto in tutte le situazioni di pericolo e di difficoltà in cui si venivano a trovare i cittadini, tormentati dai mitragliamenti e dalle incursioni aeree che oramai, in quei mesi si verificavano quasi quotidianamente. Furono militarizzati tutti coloro che, alla data del 1° Luglio 1944, avevano dai 18 ai 60 anni ed erano iscritti al PFR.
La mattina del 21 Settembre Giorgio, dopo il colloquio con i genitori, si recò presso la sede del partito per l’adesione a quella nuova formazione militare, e si rese conto che da quel momento la sua vita, che sino ad allora era corsa sui binari regolari tra studio e famiglia, avrebbe subito un radicale cambiamento.
Dal Palazzo Littorio venne inviato alla sede del XXVI° reparto della brigata Nera modenese che portava il nome dello squadrista locale, “Mirko Pistoni”, ucciso dai partigiani, comandati da un certo “Moro”, assieme ad altri cinque commilitoni, nel mese di Giugno, a Zocca.
La sede della B.N. territoriale modenese si trovava presso la Caserma “Arturo Galluppi”, altro nome di una giovanissima camicia nera di Modena, decorata di medaglia d’oro al valor militare e caduto sul fronte greco albanese nell’inverno 1940-1941.
Prima di entrare in quei locali Giorgio si trovò a considerare che quel portone era a pochi metri di distanza dall’entrata dell’Istituto Magistrale “Carlo Sigonio” dove, negli ultimi tempi della scuola andava di frequente, ad attendere, all’uscita dalle lezioni, una sua giovane coetanea, Gabriella Ferrari, per fare, assieme a lei un tratto di strada e accompagnarla verso casa. Quella ragazza gli piaceva moltissimo, ma non aveva mai avuto il coraggio di dichiararsi e di esternarle il suo amore limitandosi a gioire con se steso per quella mezz’oretta che riusciva a stare al suo fianco.
Poi il bombardamento e lo sfollamento gli fecero perdere di vista la ragazza, e nello stesso tempo si rammaricava per non essersi ancora deciso, come si era ripromesso, di scriverle. Ecco che adesso si trovava in quegli stessi luoghi, pronto ad affrontare un radicale cambiamento delle sue abitudini, andando incontro a situazioni molto più rischiose.

Entrò in caserma con il cuore che batteva fortemente per l’emozione pur cercando di apparire disinvolto e dimostrare sicurezza, quanto meno davanti al piantone di servizio che lo inviò all’ufficio accettazione delle nuove reclute, da dove lo avviarono al capomanipolo della seconda compagnia del primo battaglione di quel reparto comandato, inizialmente da Gian Paolo Solmi e in seguito dal Federale di Modena, Giovanni Tarabini Castellani, che Giorgio aveva conosciuto, in occasioni di manifestazioni sportive, alla casa della GIL, oltre che dal Colonnello Ignazio Battaglia.
Le formalità furono sbrigate velocemente e fu inviato immediatamente ai suoi alloggiamenti per depositare gli abiti borghesi, dopo essere stato rifornito della divisa che consisteva in una camicia nera, un paio di pantaloni grigio verdi, un maglione a collo alto nero, un giubbotto scuro, un paio di scarponi, un cinturone a bandoliera e alcuni indumenti intimi.
Mentre sistemava le sue cose e dopo essersi presentato al comandante della compagnia, venne raggiunto da un canto collettivo, proveniente dal cortile, dove un gruppo di quei militi, giovani ed anziani, avevano intonato una canzone che non aveva mai udito ma che sarebbe in seguito, diventata familiare, e che così diceva:

“Le donne non ci vogliono più bene
perché portiamo la camicia nera
hanno detto che siamo da galera
hanno detto che siamo da catene…

L’amore coi fascisti non conviene
meglio un vigliacco che non ha bandiera
uno che serberà la pelle intera
uno che non ha sangue nelle vene

Ce ne freghiamo! La Signora Morte
fa la civetta in mezzo alla battaglia
si fa baciare solo dai soldati
Forza ragazzi, facciamole la corte
diamole un bacio sotto la mitraglia
lasciamo le altre donne agli imboscati!

A Noi! “

L’ascoltò con molta attenzione, sentiva che era un motivo coinvolgente e affascinante per la sua polemica e per la sua durezza, ma non si capacitava come mai accusasse le donne di non voler bene ai giovani fascisti solo perché indossavano la camicia nera: lui era sempre stato convinto che queste fossero attratte dalle divise e in modo particolare da quelle degli ultimi anni. Anche se a qualcuno potevano sembrare un po’ lugubri per quell’ostentazione del nero e dei teschi sulle mostrine, sui cappelli, sui labari, erano pur sempre di concezione moderna e se vogliamo anche eleganti, ma in realtà rispecchiavano l’atmosfera di quei tempi duri con la morte che realmente ti aspettava dietro ad ogni angolo. In fondo, loro, erano stati educati ad una visione strafottente verso la “falciatrice” e tutti coloro che, come lui, avevano aderito al nuovo fascismo repubblicano erano pronti a tutto, anche ad andare incontro “alla bella morte”, al supremo sacrificio, pur di riscattare l’onore di una nazione che, dopo il 25 Luglio e l’otto Settembre, era completamente scaduta nella considerazione e degli alleati e degli stessi avversari.
Dopo pochi minuti sentì intonare, dalle parte opposta del cortile, un coro di voci femminili; erano le ausiliarie aggregate da poco tempo al gruppo della Brigata Nera “Mirko Pistoni”, che, sullo stesso motivo della prima canzone, davano la risposta alle preoccupazioni di Giorgio; le donne della Rsi volontarie, che per la prima volta nella storia erano entrate a far parte di un corpo militare con una loro autonoma formazione; cosi cantavano a rincuorare i loro camerati:

“Le donne non vi vogliono più bene
perché portate la camicia nera.
Non vi crucciate; cosa da galera
Fu giudicato Cristo, e da catene!

A voi fascisti, a voi non si conviene
Chi rinnegò la Patria e la Bandiera,
chi ha stoppa in capo ed acqua nelle vene!
Voi che correte il palio della morte,

la Patria onora, e premio alla battaglia
è il mirto che fiorisce pei soldati.
E un cuor di donna vi farà la corte,

che vi ha seguito sotto la mitraglia,
un cuore che disprezza gli imboscati!
A Noi!

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Vi fu, per la giovane recluta, un breve ma intenso periodo di addestramento, con particolare attenzione all’uso delle armi, specie alla conoscenza del mitra “Beretta” e delle bombe a mano, di cui erano stati dotati i militi della Brigata Nera modenese. Seguirono poi una serie di esercitazioni di ordine chiuso per imparare a marciare composti nei ranghi, ed anche alcune sfilate per le strade del centro di Modena per far conoscere ai cittadini le formazioni del nuovo fascismo repubblicano.
Giungevano, praticamente ogni giorno, le notizie di uccisioni di civili e di militari delle svariate formazioni dell’esercito repubblicano da parte dei “banditi” o dei cosiddetti “ribelli” in agguati, quasi sempre contro militi isolati o a civili prelevati nelle loro abitazioni, o uccisi mentre rientravano nelle loro case dai partigiani nascosti, o dietro una siepe o dietro ad un portone, nel buio delle strade. In quei giorni, un plotone di suoi commilitoni, ma del secondo battaglione della sua Compagnia, venne comandato a partecipare ad una esecuzione di tre partigiani in Piazza Grande come rappresaglia per l’uccisione di alcuni militi fascisti avvenuta alcuni giorni prima.
Giorgio si augurava sempre di non dover mai entrare a far parte di uno dei plotoni comandati per tali operazioni, per non dovere partecipare alla fucilazione di fratelli che, pur sempre, si erano macchiati di quei delitti uccidendo vigliaccamente dei suoi camerati. Le discussioni sorgevano in continuazione tra i giovani ed anche tra gli anziani della sua compagnia che era formata da tre squadre d’azione, ognuna delle quali composta da 33 uomini ulteriormente suddivisi in tre nuclei.
Il numero tre nella simbologia fascista, che si ispirava alle legioni romane, come i triari, che costituivano la terza schiera ed erano in battaglia l’ultima risorsa, era considerato il numero perfetto e magico.
Arrivò anche, a far parte della sua compagnia, ma non della sua squadra d’azione, l’amico Renato Venturelli con il quale era scampato al terribile bombardamento aereo del 13 Maggio, avendo così la possibilità, e con una certa frequenza, di trovarsi assieme a chi aveva partecipato a tante avventure con lui, durante la vita civile, ma nello stesso tempo aveva stretto amicizia con altri coetanei della sua squadra come i giovani Emilio Rebecchi, abitante in Via Cialdini e Armando Fantoni che abitava in Corso Canalchiaro.
Si era accorto che in mezzo a tanti giovani e meno giovani vi erano ragazzi, molti studenti come lui, che erano entrati in quelle formazioni militari motivati da sentimenti purissimi e da altissimi ideali, ma nello stesso tempo si era reso conto che alcuni di questi personaggi erano arrivati a fare quella scelta per ragioni ben diverse, chi per avere la possibilità di portare alla propria famiglia un aiuto economico in quei tempi durissimi e chi per poter, eventualmente, sfruttare quella posizione per propri personali motivi, dettati anche da ragioni poco nobili e di questo aspetto se ne rese conto poco tempo dopo durante un rastrellamento nella zona di Concordia quando il suo reparto, aggregato ad un reggimento della B.N. “Giuseppe Ferrari” di Reggio Emilia e guidati dal Tenente Alberto Forese oltre ad un altro reparto tedesco comandato da un certo maggiore Smith, si trovò ad assistere ad un episodio poco edificante.
Era a fianco del sottotenente Giulio Lodini quando due donne del posto si avvicinarono per denunciare la scomparsa di alcuni oggetti d’oro durante la perquisizione di alcune camicie nere. Il Comandante, senza esitazione, chiamò subito la squadra che aveva operato in quella zona e li mise a confronto con le due donne che riconobbero subito i due militari che le avevano derubate, Romano Bedeschi e Angelo Battini.
Il Comandante fece perquisire i due dal Sergente Bruno Storchi, che rinvenne nelle loro tasche un orologio d’oro, un paio di orecchini oltre ad un braccialetto che immediatamente fece restituire alle donne. Inoltre fece strappare dalle giacche delle due indegne camicie nere i segni del Littorio e furono immediatamente inviati alle carceri di Mirandola. Alcuni giorni dopo vi furono le fucilazioni di due camicie nere che avevano compiuto atti esecrabili e che vennero condannate a morte dai tribunali fascisti
Giorgio compì il suo diciottesimo compleanno, il 24 Ottobre, ed ottenne, dal Comandante, un giorno di permesso per poter festeggiare con la famiglia quel traguardo importante della sua giovane vita. Fu lo stesso Comandante, Giustiniano Fontana, ad accompagnarlo a casa, visto che in quella mattinata doveva recarsi a Carpi e la piccola frazione, dove erano sfollati i famigliari del ragazzo, si trovava sul percorso, caricò in auto la giovane recluta per lasciarlo davanti all’abitazione, dove erano ad attenderlo mamma e papà, oltre al fratellino Marco.
L’accoglienza, calorosissima, gli diede un po’ di commozione che mascherò con disinvoltura, in particolare di fronte al ragazzino che lo guardava ammirato per la perfetta divisa mentre gli andava a controllare il cinturone, gli stivaletti alti e la giacca con i gladi, poi si fece dare il berretto con la visiera che portava al centro il teschio argentato simbolo della brigata, per metterselo in testa, saltellando intorno a sua madre cantando “Giovinezza”, una delle classiche canzoni del fascismo che tante volte aveva intonato nelle formazioni dei balilla moschettieri di cui faceva parte.
Giorgio andò a fare un salto nella sua camera dove erano rimasti i libri di scuola ed alcuni romanzi acquistati qualche tempo prima di arruolarsi. Mise dentro ad una cartelletta, “Noi Vivi” e “Addio Kira”, che aveva appena iniziato a leggere, per portarseli con sé in caserma. Trovò anche alcune lettere inviategli da alcuni amici e dal cugino Umberto, combattente con la X° Mas sul fronte di Nettuno, che in quel momento si trovava in Piemonte, e gli dava appuntamento a Modena a breve termine.
Così gli scriveva il cugino da Ivrea, in data 29 Settembre, e la cosa lo lasciò sorpreso, in quanto il contenuto della lettera era passato indenne dalla censura che, frequentemente toglieva con pesanti cancellature frasi non gradite o indicazioni di località e quant’altro fosse considerato non corretto:

“Carissimo Giorgio,
come promessoti nella mia ultima, ormai datata, e dove ti raccontavo i nostri combattimenti contro le soverchianti forze anglo americane sul fronte di Nettuno, che condussero questi a superare la nostra resistenza assieme a quella dei camerati tedeschi e a raggiungere, prima la nostra Capitale e poi anche Firenze; il nostro reparto, il grande “Barbarigo” della X° MAS, guidato dall’insuperabile Comandante Junio Valerio Borghese è stato trasferito in Piemonte dove, per ragioni contingenti e non del tutto gradite, sia da noi marò, sia da molti nostri comandanti, siamo costretti a condurre la “controguerriglia” nei confronti delle formazioni ribelli, che in questa zona sembrano abbastanza agguerrite e ci procurano notevoli difficoltà e molti nostri camerati sono caduti, sia in scontri diretti, sia in agguati vigliacchi. Il nostro Battaglione, che aveva subito tra Anzio e Nettuno una notevole falcidia di uomini, è stato considerevolmente rimpolpato in questi ultimi tempi; ora ci troviamo ad Ivrea, da dove si parte per tutte le azioni di rastrellamento nelle zone circostanti.
Un episodio solo desidero raccontarti per mettere in evidenza quanto i “signori” ribelli siano, ferocemente messi, dai loro caporioni, contro di noi, e nello stesso tempo, qualche volta, siamo costretti a reagire con rappresaglie, che risultano sgradevoli a noi stessi. I marò della Decima si sono arruolati per i combattimenti a viso aperto contro il nemico, come abbiamo dimostrato sul litorale romano.
Combattere contro chi ci spara alle spalle, oltretutto sono nostri fratelli, e tra loro c’è anche qualche disertore dei nostri, veramente mi ripugna. Mi sono trovato qualche tempo fa a partecipare ad un rastrellamento in seguito ad un gravissimo fatto avvenuto ad Ozegna, una località del Canavese, dove, in seguito ad un imboscata partigiana, furono vigliaccamente trucidati, assieme al nostro Comandante Umberto Bardelli, altri nove tra ufficiali e marò della Decima. In più i “partigiani” si sono portati con loro un gruppo dei nostri fatti prigionieri. Non voglio tediarti oltre con notizie di questo genere anche perché non so se la censura lascierà passare questa mia.
Ho appreso in questi ultimi giorni che, molto probabilmente, tra qualche settimana ci trasferiranno sul fronte orientale a contrastare le forze slave che premono sull’Istria e su Trieste, spero pertanto di fare una sosta a Modena per riabbracciarti e complimentarmi con te, dato che ho saputo che ti sei arruolato nella Brigata Nera, salutami tanto i tuoi e tuo fratello.
A presto. Umberto

Trovò anche cinque lettere, profumate, di alcune sue amiche e compagne di classe che gli andavano raccontando gli ultimi avvenimenti e i pettegolezzi sull’estate da poco conclusasi, mentre l’amica, Giovanna Mariotti, gli confidava la volontà di arruolarsi nel corpo delle Ausiliarie.
Dopo aver giocato un po’ con il fratellino e dopo avergli controllato alcuni compiti che, in quei mesi di assenza scolastica, sia il padre sia il fratello gli avevano imposto di svolgere con una certa regolarità, arrivò l’ora del pranzo che la mamma, in previsione dei festeggiamenti del diciottesimo anno del figlio, aveva preparato con cura, anche se, in quei giorni trovare certi prodotti era molto difficile e ugualmente bisognava sborsare cifre considerevoli, visto e considerato che, con quel poco che si poteva acquistare con la tessera annonaria, ci sarebbe stato ben poco da festeggiare.
A tavola Giorgio cominciò a raccontare quel suo mese di vita militare e, rivolgendosi in particolare al padre, sottolineò il grande entusiasmo che, malgrado tutto, motivava lui e tutti i suoi commilitoni:
“sai papà, le notizie che arrivano dal fronte non saranno esaltanti ma non sono nemmeno negative: gli anglo americani sono ormai bloccati sulla dorsale appenninica e noi vediamo i camerati tedeschi, i quali, pur sapendo che la loro Germania viene costantemente e brutalmente bombardata dall’aviazione angloamericana, credono ancora che le armi segrete, che da un po’ di tempo il Fuherer e gli alti comandi tedeschi promettono, saranno pronte sicuramente dopo l’inverno e le sorti della guerra cambieranno di punto in bianco”.
“Ma Giorgio”, lo interruppe il padre, “al momento, e su tutti i fronti, la supremazia aerea e navale ed anche di terra, è totalmente dalla loro parte, io, e te lo dico in via strettamente confidenziale, perché sai che le autorità repubblicane hanno espressamente vietato l’ascolto, mi sintonizzo qualche volta su Radio Londra e posso dire che trovo, in loro un organizzazione tale su tutto, che mi riesce difficile capire come la Germania e in parte l’Italia possano contrastare la potenza bellica che hanno nelle loro mani, e noi vediamo quotidianamente passare sulle nostre teste migliaia di fortezze volanti che vanno a colpire i centri del nord e quello che è rimasto della macchina da guerra germanica. Inoltre, se non in qualche rara eccezione, non riescono mai ad alzarsi in volo quei pochi caccia rimasti all’aviazione italiana e tedesca. Come è possibile contrastare tale potenza?”
“Hai ragione papà, ma, come ti dicevo, la sorpresa tedesca arriverà, l’inverno ci sarà favorevole e quelle nuove armi saranno veramente risolutive; abbiamo visto alcuni documentari, proiettati esclusivamente per le forze armate germaniche e per i loro alleati, dove la messa a punto delle V1 e delle V2 ha raggiunto quasi la perfezione e presto ci sarà la terrificante risposta al terrorismo aereo che gli angloamericani stanno spandendo su tutta l’Europa. E poi, non vedi che sul fronte interno le formazioni ribelli che durante l’estate si erano rinforzate di tanti “traditori” perché credevano che la guerra terminasse prima delle piogge autunnali, si sono praticamente afflosciate, anche in seguito al messaggio del Generale Alexander trasmesso a quelle formazioni invitandole a fermarsi nelle loro azioni, anche se questi continuano nei loro agguati isolati e ugualmente fomentano sempre più la guerra civile, stimolate in particolare dai comandi del comunismo nazionale e internazionale e continuano a spararci alle spalle creando in continuazione i presupposti per le rappresaglie.
Noi, in particolare, in qualità di formazione politica militarizzata, siamo indubbiamente i più esposti alle loro azioni, ma anche loro, con la stagione invernale verranno a trovarsi in difficoltà e quello che mi turba è solamente l’aspetto umano perché so che, prima o poi, potrò trovarmi di fronte qualche mio conoscente o ex amico e, probabilmente, sopravviverà chi di noi riuscirà a sparare per primo e questo lo trovo devastante e orribile, siamo dentro ad una guerra civile di proporzioni gigantesche. E’ difficile venirne fuori se non con un bagno di sangue.”
Il padre guardò il figlio e non ebbe più il coraggio di rispondere, quel ragazzo tranquillo, pieno di buoni sentimenti e di altruismo in quel breve lasso di tempo era completamente trasformato e si rese pienamente conto che, se la situazione andava ulteriormente peggiorando, come lui si prospettava, per il figlio sarebbero arrivati, quanto meno, “tempi difficili”.
Marco, durante la conversazione tra padre e figlio, non si era azzardato ad “aprir bocca” e nel contempo guardava sempre più ammirato il fratello per il quale, adesso, provava una vera e propria venerazione. La mamma invece era rimasta in disparte per seguire sui fornelli i manicaretti che aveva preparato con tanta cura.
Da buona modenese aveva messo sul fuoco un bella pentola di tortellini, fatti in casa con le sue mani, anche se aveva faticato a trovare le uova e la farina per “tirare” una “pastella” degna di quel nome, in brodo di cappone, anche lui acquistato alla “borsa nera” pur sapendo di commettere un’ infrazione alle disposizioni che il figlio doveva tutelare ma che, ”si disse”, per un occasione così importante, si potevano anche trasgredire. Da un contadino vicino a loro era riuscita trovare un bel coniglio che fece “in arrosto” con spezie varie e un cotechino che erano mesi che non si riusciva a mangiare.
Per dolce riuscì a fare una bella torta di amarene sulla quale aveva messo diciotto candeline, trovate in un negozietto alla periferia di Modena, dove si potevano “scovare” “cianfrusaglie” varie. Il lauto pranzo fu innaffiato da una bottiglia di lambrusco di Sorbara che il buon papà Giulio era riuscito a reperire a Bomporto da un amico che lavorava presso la cantina “Ina Maria Pellerano” che produceva appunto un ottimo vino.
Non riuscì, invece, a trovare un po’ di “vero” caffè, era raro come l’oro, e dovettero accontentarsi del “surrogato”, ma a Giorgio non costava nessuna fatica dato che non gli piaceva, gustò invece un bicchierino di “Sassolino - Stampa” che il papà versò da una bottiglia, quasi piena, che conservava gelosamente e ben nascosta, in un angolo recondito della credenza.
Praticamente il giovane fece il “bis” di ogni piatto, al chè la mamma si preoccupò e gli chiese, con una certa apprensione:
“ma vi danno da mangiare in caserma?”
Giorgio le rispose:
“ma certo mamma, è sempre abbondante il rancio, anche se si mangia dentro ad una gavetta, ma o il minestrone, o le varie pastasciutte, o gli spezzatini sono sempre caldi e ben cucinati, spesso abbiamo anche la frutta e alla domenica il dolce, indubbiamente le nostre cucine e i nostri cuochi sono all’altezza della situazione specialmente viste le richieste di tanti giovani, le doppie razioni si sprecano, certo non è come la cucina della mamma, e complessivamente non possiamo lamentarci”.
Il pomeriggio, dopo un così lauto pranzo, riuscì anche a “schiacciare un pisolino” prima dell’arrivo del suo Comandante che passò a prelevarlo, al ritorno da Carpi, alle diciotto per ritornare alla caserma “Galluppi”.

Portò con sé la torta rimasta ed anche un'altra intera, dato che la mamma ne aveva preparate due, e alla sera venne divorata assieme ai suoi amici che vollero, anche loro, fargli gli auguri e come regalo di compleanno gli fu promessa, per il giorno seguente, dopo la libera uscita, una “marchetta”, anzi una “doppia”, da consumarsi in “baito”, come lo chiamavano i modenesi, presso una delle “case chiuse” di Via Catecumeno, che era a poca distanza dalla loro caserma.
Giorgio rimase sorpreso dalla proposta e dopo una serie di lazzi e di grevi battute la compagnia si sciolse per ritornare ciascuno alla propria branda, dato che era scoccata l’ora del silenzio e il festeggiato, rimasto solo con l’amico Renato gli confidò, sottovoce, che lui non era mai entrato in una di quelle case e tanto meno aveva avuto rapporti con le donne, era “vergine” e non aveva nessuna intenzione di farsi prendere in giro, nello stesso tempo aveva una paura tremenda nel pensare di dovere affrontare, a breve, quella prova.
In realtà, come tanti suoi coetanei, sicuramente la maggioranza di loro, il rapporto di Giorgio con le ragazze si era limitato ai corteggiamenti, agli amori platonici, all’idealizzazione della donna quasi fosse un essere superiore, ma nello stesso tempo, già da alcuni anni, sentiva fortemente gli stimoli di una sessualità che lo travolgeva, anche perché il condizionamento dell’ambiente della Chiesa di San Bartolomeo, che aveva frequentato a lungo sino ai sedici anni e mezzo, era stato oltremodo pesante.
Guai a pensare di toccare una ragazza e anche di cercare l’auto erotismo attraverso operazioni che i preti, dal confessionale, giudicavano opera del demonio e punivano il “malcapitato” facendogli recitare, nel migliore dei casi, dieci “pater, ave e gloria”, per ogni “toccata e fuga” e quando ti chiedevano, con voce melliflua, “quante volte l’hai fatto” ti vergognavi e diventavi rosso come un papavero nel dichiarare che l’avevi fatto anche tre o quattro volte al giorno, e quando uscivi dal confessionale come un cane bastonato, ti ripromettevi di non farlo più.
Ma gli stimoli erano sempre più forti e ogni volte ci ricascava; le ragazze poi non ti aiutavano più di tanto, perché anche loro erano ugualmente, e ancor più, condizionate, oltre che dalla chiesa anche dalle mamme che, credenti o meno, volevano fare in modo di portare le loro figlie al matrimonio illibate e di conseguenza le controllavano in ogni momento e loro stesse vivevano la sessualità quasi con terrore, questo almeno nelle zone urbane, mentre nelle campagne vi era maggiore libertà e le ragazze, in considerazione del contatto quotidiano con tutti gli aspetti della sessualità, anche del mondo animale, sapevano affrontare con maggior disinvoltura il problema ed erano, di conseguenza, più disponibili rispetto alle ragazze di città, specialmente quelle legate al mondo cattolico, che erano poi la maggioranza..
Durante il ventennio vi era stato, con l’aver avvicinato al mondo dello sport anche le donne, un superamento di certi costumi di tipo ottocentesco e la chiesa difatti era entrata in conflitto durissimo con le gerarchie fasciste per questo “rilassamento” dei costumi, veniva giudicato uno scandalo il comportamento delle femmine che, negli stadi, o nelle palestre, mettevano in mostra le loro gambe esibendosi in movimenti ginnastici considerati provocatori e non consoni al loro corpo.

Giorgio, quella sera dei suoi diciotto anni, andò a dormire in branda assillato da quel pensiero e ci mise tanto prima di prendere sonno ripensando alle sue esperienze si rese conto che, in realtà, il corpo della donna era ancora per lui un tabù.
Qualche ragazza, l’ aveva baciata, anche in bocca, a lungo, e con enorme soddisfazione e il turbamento che sentiva era ancora più forte di quando, attraverso il pensiero, nei momenti dell’eccitazione naturale si stimolava con la sua principale fidanzata, “la mano destra” immaginando di fare all’amore con qualche donna, sempre più grande di lui, come gli era successo, spesso e volentieri, nei riguardi di una sua professoressa, giovane e bella, di scienze naturali che, quando si muoveva alla lavagna faceva sobbalzare il seno, solido e compatto, in modo estremamente provocante inoltre, di tanto in tanto, mostrava le cosce, con le gambe accavallate sotto la cattedra, lasciando intravedere, in qualche raro momento, anche le giarrettiere che sostenevano le calze di quella dea calata in terra, anzi calata sulla cattedra del suo Liceo, mentre lui, durante quelle lezioni, si trovava sempre nel primo banco.
Con l’amica Lucia, che aveva un anno più di lui, ed era commessa in un negozio di abbigliamento in Piazza Venti Settembre, vi furono alcuni incontri di tipo “ravvicinato”; andarono qualche volta a fare una passeggiata ai giardini pubblici e successe un giorno che, seduti su una panchina, dopo aver verificato che non vi era nessuno nei paraggi, si baciarono a lungo e fu lei a suggerirgli, se voleva, di accarezzarla tra le gambe.
L’arrivo di un'altra coppia, annunciata dallo scricchiolio della ghiaia nel vialetto del giardino, li fece immediatamente smettere e, velocemente cercarono di ricomporsi; subito lei gli disse:
“ecco, adesso cosa penserai di me, che sono una poco di buono, una ragazza leggera, e non mi vorrai più bene, ma io l’ho fatto perché te ne voglio tanto e anche perché mi hai detto che vai ad arruolarti e chissà quando ci rivedremo”.
Il fatto successe alla fine del mese di agosto, ed effettivamente non ebbe più occasione di rivederla, ma in quella notte del suo compleanno sentì un enorme nostalgia per quella ragazza e si disse che, appena libero dagli impegni, sarebbe passato a ritrovarla nel negozio di Piazza XX Settembre, nel caso fosse ancora al suo posto e magari cercare di uscire di nuovo con lei.
Altre volte, nelle “festine” private, che oramai andavano sempre più diradandosi, dati i tempi, quando si ballavano i ritmi lenti, “slow”, o “tango”, o “valzer lento”, nello stare abbracciato a qualche ragazza che gli piaceva, sentiva il basso ventre di lei spingere verso il suo e così avvinghiati, con gli “strusciamenti” dei due corpi, si mimava il rapporto sessuale, ma al di là di questi episodi, Giorgio la donna ancora non la conosceva e pensando a quello che gli aspettava alla serata del giorno dopo, gli crescevano in petto, sempre più, grosse preoccupazioni.
“Ma come sarà?”
“Ci riuscirò?”
“E se non ce la faccio, gli amici cosa mi diranno?”
“Mi seccherebbe assai di esser messo alla berlina per un episodio del genere”.
La sua immaginazione correva in continuazione a quella “cosa” che ormai da alcuni anni era sempre in testa ai suoi pensieri, e ai suoi desideri e forse avrebbe voluto arrivarci attraverso strade diverse e possibilmente con una donna che ti piacesse realmente e ancor più, forse, ma non ne era ben sicuro, esserne anche innamorato e non con “una di quelle” che lo facevano solo per danaro e poi in un posto dove andavano tutti, “cani e porci”. Certamente non poteva più tirarsi indietro. Lo avevano “incastrato”. Riuscì finalmente ad addormentarsi con in testa quello che era per lui, in quel momento, un vero e proprio “dramma.”
 

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Il giorno dopo i festeggiamenti del compleanno, Giorgio si svegliò con l’assillo della “prova” o dell’ “esame”, che avrebbe dovuto affrontare in serata; la giornata passò abbastanza tranquilla con la partecipazione ad alcune lezioni tenute da dirigenti del Partito Fascista Repubblicano quali il noto giornalista e sindacalista, Nino Saverio Basaglia, che parlò al suo reggimento dei 18 punti di Verona e dell’importanza della socializzazione quale idea rivoluzionaria per il superamento del conflitto tra capitale e lavoro, attraverso una conoscenza diretta della gestione da parte di tutti gli operatori con la fissazione di equi salari, oltre ad una giusta ripartizione degli utili tra dirigenza dell’industria e lavoratori.
Inoltre, nei punti fondamentali studiati nella carta elaborata nel Congresso di Verona, veniva sancito il diritto alla proprietà della casa per tutti i lavoratori, anche attraverso i contributi e l’assistenza delle imprese e dello Stato.
La seconda lezione venne tenuta dal Colonello Ignazio Battaglia, che era stato anche Comandante della Scuola Allievi Ufficiali della GNR di Modena e che parlò loro del comportamento e delle tattiche da seguire nelle operazioni di rastrellamento contro le bande partigiane.
Giorgio le seguì con una certa attenzione, dato che ambedue i relatori sapevano come fare per tenere desta l’attenzione e gli argomenti erano altamente interessanti, però il pensiero correva frequentemente al suo prossimo “impegno”.
Al rancio serale “l’esaminando” cercò di non appesantire lo stomaco dato che gli era stato detto che era bene non affrontare quelle prove dopo laute libagioni e dopo cene o pranzi abbondanti.
Si apprestarono ad accompagnare l’amico quelli del suo “gruppetto” e vicini di branda quali, Emilio Rebecchi, Renato Venturelli, Armando Fantoni, Romano Beltrami e Simonini Umberto, tutti un pò più vecchi; c’era chi aveva compiuto diciannove anni, ma anche chi aveva da poco superato i venti, e tutti, chi più chi meno, se non erano proprio dei frequentatori costanti di quelle case, pur sempre avevano già avuto svariate esperienze e per loro, entrare al numero 9 di Via Catecumeno, la strada dei “bordelli” modenesi, era ormai “ordinaria amministrazione”.
All’ingresso di quella casa, considerata “media” nelle classifiche dei “casotti” che andavano da quelli di lusso, con splendide ragazze ma con prezzi che le loro tasche non si potevano permettere, a quelli di “scarsa qualità” con donne già anziane o sulla via di andare in pensione e frequentate dalla “bassa truppa”, mentre nelle case “medie” trovavi frequentemente anche belle ragazze e le cifre che si dovevano spendere per una “marchetta” o per una “doppia”, di tanto in tanto, erano abbordabili se, per qualche tempo, ti controllavi nelle spese e riuscivi a crearti un “fondo” per quelle occasioni.
All’ingresso, dopo aver suonato per entrare e, così dicevano gli “esperti”, non trovando la fila per l’attesa davanti al portone, si prospettava una serata tranquilla, con una presenza nelle sale accettabile e perciò con la possibilità di valutare bene le “scelte” da farsi, si presentò una donna “in età”, con un paio di occhiali spessi che squadrò il gruppetto e si fece consegnare da ciascuno il documento di identità e, quando arrivò il turno di Giorgio, si diede una sistemata agli occhiali per controllare bene la data di nascita, accorgendosi che il ragazzo aveva appena compiuto i diciotto anni, ed essendo molto esperta, notò che non apparivano tracce di scolorina, come di tanto in tanto era abituata a trovare, sbarrando, di conseguenza l’ingresso al malcapitato che aveva cercato di “gabbarla”, perciò si limitò, con un sorriso, che sembrava più un “ghigno”, ad augurare al ragazzo di “passare una buona serata”.
Giorgio e i suoi amici entrarono in una vasta sala, con poltroncine lungo i muri ed un divano più ampio e circolare al centro; vi si trovavano, ovviamente, varie ragazze, chi sedute in pose più o meno provocanti, ed alcune altre che si aggiravano tra gli otto o dieci clienti presenti, in maggioranza persone mature ed anche qualche anziano, queste si presentavano seminude, coperte da veli più o meno eleganti e guardavano gli uomini, accarezzandoli, andando, di tanto in tanto, a sedere sulle gambe di qualcuno di loro, sussurrando frasi lascive e promettendo di saper fare cose “eccezionali”, che avrebbero fatto toccare loro con mano, “il paradiso”.
Il gruppo di “camicie nere” si mise a sedere su di un'unica panca, erano i primi giovani ad entrare nel locale quella sera, pertanto le ragazze si avvicinarono sorridenti e non scontrose come tante volte facevano quando erano presenti molti uomini o quando la maggioranza dei clienti erano anziani. Gli amici furono molto comprensivi e non fecero pressioni su colui che doveva “affrontare l’esame”, anzi, i commenti erano più che corretti nei confronti delle ragazze che li circondavano e Giorgio si accorse, con piacere, che tre o quattro di loro erano anche molto carine e per niente volgari; in un angolo della sala, vicino alle scale che ovviamente dovevano portare alle camere, dietro ad un banco e seduta su di un alto sgabello, stava una signora “anzianotta” che, molto probabilmente, da giovane, doveva essere stata anche bella; consegnava dei gettoni, le “marchette”, alle ragazze quando scendevano con i loro clienti e, alcune di queste, si accorse, salutavano con un bacio sulle guance gli uomini che avevano appena terminato di “fare all’amore”: la situazione non era poi così pesante come si era prospettato.

La “Maitresse”, di tanto in tanto, con voce suadente e non eccessivamente volgare, invitava i presenti con frasi tipo: “coraggio ragazzi, in camera”, “queste ragazze sono tutte belle e brave”, “suvvia non facciamo flanella”, ma la maggioranza degli uomini continuava a restare seduta, anzi molti si fermavano in quei locali a lungo per far passare semplicemente il tempo, allora la “signora” si arrabbiava veramente e sgombrava il locale.
Del gruppo di Giorgio, in due si decisero per primi e presero per mano, ciascuno, una ragazza e con loro salirono le scale, Emilio stimolò il ”nostro” che, avendo notato una bella morettina, somigliante molto alla ragazza dei giardini pubblici con la quale aveva fatto la prima conoscenza della donna, preso coraggio si avvicinò a lei e, “rosso in volto” le chiese: “sei libera?”, al che la ragazza, ovviamente esperta e ormai conoscitrice della psicologia maschile si accorse che quel ragazzo timido si stava preparando alla sua prima esperienza, pertanto gli fece un largo sorriso, lo prese per mano, e con lui salì le scale; raggiunsero così l’ultima stanza di quel lungo corridoio e Marisa, così si chiamava la ragazza, lo fece entrare chiedendogli se quella era la “prima volta”, cosa che, se da un lato lo mise in imbarazzo, dall’altro lo rassicurò, poiché si rese conto che lei non usava quell’arroganza o quel distacco che tanti amici gli avevano descritto sul comportamento di molte di quelle “donnine”.
La “maitresse”, dopo che l’amico Emilio aveva a lei versato la quota per la “doppia”, quando erano saliti, aveva fatto alla ragazza, con la mano un cenno convenzionale, che voleva dirle di essere “comprensiva”, anche nel tempo, con quel ragazzo.
Aveva così inizio l’avventura, e Giorgio, nel frattempo, si guardava in giro notando, mentre la ragazza lo faceva spogliare e lei stessa si era messa a sedere sul “ bidet” per lavarsi, che sì, non era proprio la camera di una delle studentesse, nelle quali, alcune rare volte, e solo per studio, gli era stato concesso di entrare; quelle stanze “virginali” delle amiche, avevano qualche cosa di simile negli odori e in alcuni oggetti a quella del “casotto” che, in realtà, non era tanto squallida, come aveva sempre pensato.
Stava così allentandosi la tensione, un bel letto grande, un comodino con sopra due fotografie, forse di famigliari di lei, un paravento che divideva il letto dal reparto “lavaggi” al quale fu invitato Giorgio dalla ragazza per l’ ”aspersione”, e questo per lui fu una sorpresa, dato che, prima di uscire dalla caserma, aveva provveduto autonomamente per presentarsi, “pulito”, alla “bisogna”.
La ragazza però gli fece capire che quello era un “rito” obbligatorio, non ci si poteva rifiutare, e tutte le ragazze dovevano controllare l’ ”oggetto”, prima della “consumazione” e accertarsi che non fossero presenti, o deformazioni o eventuali malattie; in quei casi dovevano subito avvisare la signora che provvedeva lei a comunicare al cliente di presentarsi al più presto, da qualche medico per curare una delle tante forme di malattia venerea, quali, “piattole”, “scolo”, “sifilide” o quant’altro, che probabilmente l’uomo aveva in atto.
Al lavaggio, delicato ma abbastanza consistente, Giorgio si sottopose gradevolmente e si rese conto che, tra l’altro, gli piaceva, dato che iniziava, graduale ma costante, una certa “erezione”, così si avvicinarono al letto e Marisa si apprestò a guidarlo, considerato che era già pronto, ad entrare in lei.
Giorgio stava dicendosi che fino a quel momento era stato tutto abbastanza facile, tutto procedeva per il meglio, difatti continuò per un certo periodo, che lì per lì non riusciva a quantificare dato che gli sembrò, lunghissimo e brevissimo nello stesso tempo, sino a quando non concluse, sentendosi totalmente appagato.
Si alzarono, lei tornò a lavarsi e così lo invitò a fare la stessa cosa, ma questa volta da solo. Dopo di che, con lei sempre sorridente, scesero le scale rientrando nella sala, dove trovò tutti i suoi camerati ai quali rivolse un chiaro sorriso di soddisfazione e loro, mentre Marisa gli “appioppava” un bacione sulle gote, fecero un applauso di circostanza, compreso anche dagli altri presenti in sala, che si resero conto del motivo di quella manifestazione, aggregandosi nei complimenti e partecipando ai festeggiamenti, con una buona dose di complicità maschile.

Arrivarono in quel periodo, sempre più frequentemente, notizie di agguati, di attentati a fascisti isolati, fossero essi civili o militari, in modo particolare dalle zone del carpigiano e del mirandolese dove furono uccisi, sia militari fascisti, sia parecchi soldati tedeschi. Alla Caserma “Galluppi” si viveva in uno stato di continua tensione, si verificavano spesso furti presso abitazioni private. Le uscite per controlli e per rastrellamenti erano frequentissime.
Giorgio, dopo l’esperienza in “quella casa”, si sentiva decisamente più sicuro di sé e le prove che dovette superare nelle azioni a cui era costretto il suo battaglione in quei giorni lo stavano rendendo sempre più maturo e conscio del ruolo che aveva in quello scontro quotidiano contro fratelli che lo aspettavano nascosti, o dietro a una siepe, o nel buio di una stradina, per “fargli la pelle”, raramente in scontri aperti, come invece si sarebbe aspettato di affrontare “il nemico” quando pensava di dover combattere.
Si sapeva che i “capoccia” dei banditi rossi erano emissari delle centrali moscovite, gente che aveva preso parte alla guerra di Spagna dalla parte dei “repubblicani”, gente senza pietà che aveva partecipato, in quelle terre, ad eccidi, a esecuzioni in massa di “falangisti”, di preti, di tutti coloro che erano avversi all’ideologia comunista, e ora la stavano portando nei nostri territori e nella nostra società, già provata da una dura guerra, forse in parte già compromessa, spandendo odio a piene mani, facendo diventare sempre più crudeli i comportamenti di giovani, da ambedue le parti in lotta, che mai avrebbero pensato di doversi “scannare” tra loro.
Il mese di Novembre iniziò con una serie di avvenimenti di notevole portata all’interno della Brigata Nera modenese dopo che ai primi giorni, nella zona di Soliera, furono uccisi cinque fascisti, mentre, sempre in quella zona, gruppi “gappisti” catturarono, dopo averla attirata in una imboscata, una commissione italo-tedesca che doveva svolgere delle rilevazioni tecniche sul territorio.
Il gruppetto era composto da un tenente tedesco, da un sottufficiale della “Lutfwaffe”, da quattro soldati della Wehrmacht, da un interprete altoatesino, da un milite della GNR e da una ausiliaria, dopo un breve tentativo di resistenza, fu disarmato e portato in un casolare sperduto, nella zona di Limidi.
Proprio il giorno prima era arrivato a Modena, in visita al reparto della B.N. “Mirko Pistoni”, il Comandante Generale della stessa, il Segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini presente in zona, anche perché nella vicina Reggio Emilia erano sorte problematiche nella Brigata Nera di quella città, tanto che il Comandante della Brigata modenese, il Colonnello Ignazio Battaglia, era stato trasferito in quei giorni a comandare i reparti reggiani.
Il reparto di Giorgio era, di conseguenza, sotto una notevole pressione, tra incontri con i vertici del Partito, azioni di pattugliamento in città e rastrellamenti nelle campagne; si dormiva male e di rado. Difatti anche il Comando tedesco, appena saputo della cattura di loro uomini da parte di bande partigiane, fece mettere in moto la macchina della rappresaglia e subito, reparti tedeschi e del 633° Comando Provinciale, compreso un reparto delle B.N., andarono a circondare la frazione di Limidi di Soliera dove furono rastrellati circa cento ostaggi, poi trasportati, su dei camion, parte nella vicina Carpi e parte presso l’Accademia Militare di Modena.
A poca distanza da quella zona, sempre in territorio carpigiano, fu attirata in una imboscata una pattuglia della Guardia Nazionale Repubblicana che era stata inviata in servizio d’ordine, in località Ponte Nuovo, sulla strada Carpi-Correggio, per fare controlli su di un furto che i partigiani della zona avevano effettuato qualche giorno prima.
Ci fu una delazione e i “ribelli” riuscirono a preparare al meglio l’agguato ai quattro componenti la pattuglia, i militi, di conseguenza, quando raggiunsero la località, furono circondati da un numero considerevole di armati che, in breve tempo, li catturarono e li uccisero con cinica freddezza; i quattro ragazzi uccisi, tra i quali un buon amico di Giorgio con il quale aveva passato la serata della sua “iniziazione” in Via Catecumeno, si chiamavano:
Allegretti Giorgio, Beltrami Romano, Cipolli Stelio e Schiatti Giovanni, ed erano tutti ventenni.
Vi era pertanto notevole tensione, sia tra i reparti tedeschi che, a loro volta, avevano subito parecchie perdite in una serie di attentati e di agguati, oltre a sei commilitoni fatti prigionieri, cosi come tra le file fasciste che, in pochi giorni, si erano viste uccidere una decina di camerati.
Il Comando tedesco fece affiggere in tutte le località del Carpigiano un manifesto che, con queste parole invitava, pena gravi sanzioni, a rilasciare i prigionieri:

“Il Comando tedesco esige che i catturati siano rimessi in libertà per potersi trovare il giorno 18 Novembre 1944, alle ore 12, presso il comando germanico di Carpi. Nel caso che le richieste del comando germanico non vengano esaudite saranno prese le seguenti misure di rappresaglia:
1) tutte le persone catturate durante le azioni della GNR il giorno 15 Novembre a Limidi di Soliera saranno trattenute in arresto. Tutti gli uomini verranno passati per le armi;
2) I paesi di Limidi e di Soliera saranno rasi al suolo.
Il Comando germanico troverà inoltre i mezzi e i modi per dare ai banditi colpevoli la giusta punizione.
Nessun membro di queste bande potrà contare sull’amnistia del Duce.
Firmato. Il Comando germanico

Il 28 Ottobre in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma, celebrato anche dai militari della caserma “Galluppi”, il Governo della RSI, a firma di Benito Mussolini, aveva promulgato un provvedimento di amnistia, che, anche in seguito al proclama emanato il 13 Novembre dal Generale Alexander per la sospensione dell’attività della guerriglia che si sarebbe dovuta riprendere in primavera, molti reparti della “partigianeria” dell’ appennino modenese, come la Brigata Est e quella guidata dal pavullese “Armando”, andarono a rifugiarsi al di là della linea gotica in braccio alle truppe d’invasione angloamericane, di conseguenza arrivarono tra le file dell’esercito Repubblicano, un certo numero “di sbandati” e di giovani che, sino a quei giorni, avevano preferito nascondersi.
A dimostrazione che i tedeschi non minacciavano invano, fecero trasportare presso il cimitero di Limidi tutti gli uomini arrestati e, se entro le ore 12 del giorno richiesto i ribelli non avessero liberato i prigionieri, il plotone d’esecuzione avrebbe iniziato la sua opera. L’atmosfera in quelle zone si fece incandescente, tutte le pressioni su coloro che comandavano i reparti che avevano catturato il gruppo di italo-tedeschi, in particolare quelli del Partito Comunista Italiano clandestino andarono inizialmente fallite dato che questi si rifiutavano di accettare le proposte tedesche precisando di non voler sottostare al “ricatto nazifascista”.
Successe che, a fronte di questo irrigidimento assurdo, i familiari degli ostaggi si ribellarono seguiti dalla maggioranza della popolazione e si radunarono in massa nella piazza di Soliera; qui, oratori improvvisati, hanno inscenato un “comizio” e con frasi violentissime si sono scagliati contro questi “ribelli” che colpendo tedeschi e fascisti stavano mettendo a repentaglio la vita di tanti solieresi. Vi è stato un continuo “tira e molla” con l’intervento anche del Vescovo di Carpi, Monsignor Della Zuanna, poi, fortunatamente, i nove prigionieri vennero rilasciati così come sono stati ai patti i Comandi tedeschi e fascisti.
Subito dopo i rastrellamenti di Soliera e dintorni, a Giorgio venne richiesto, dal Comandante della sua Compagnia, in considerazione della sua frequenza all’ultimo anno del Liceo Classico e della sua predisposizione allo scrivere, di redigere un resoconto dettagliato dei fatti. Doveva consultare i comandanti degli altri reparti, e descrivere la situazione che si era venuta a creare in quei territori, a partire dalla serie di agguati e di attentati portati dai “ribelli” a formazioni tedesche e fasciste con l’uccisione di numerosi soldati e ufficiali, per arrivare alla cattura dei nove componenti la squadra italo tedesca che stava compiendo rilievi tecnici nella zona e della successiva minacciata rappresaglia.
Giorgio si mise al lavoro di buona lena e, dopo avere ascoltato le dichiarazioni di alcuni ufficiali che avevano partecipato a quelle azioni, ricordandosi anche di quanto fosse stata pesante, come gli avevano raccontato, la “repressione teutonica” sul territorio modenese in particolare nella zona di Montefiorino dove, dopo una serie di uccisioni di circa una ventina di soldati tedeschi e di una quindicina di militi italiani, furono rase al suolo tre piccole frazioni di quel Comune, Monchio, Susano e Costrignano e dove vennero sterminate centotrenta persone da parte della formazioni della Divisione SS “Herman Goering” che, acquartierata nelle vicinanze di Bologna, durante il mese di Marzo, per un periodo di riposo dalle lunghe e pesanti battaglie sostenute sul fronte di Cassino, si trovarono improvvisamente a dover partecipare ad una rappresaglia sull’ Appennino modenese contro delle inermi popolazioni, in seguito ad azioni di guerriglia da parte dei partigiani di quelle zone che prima colpivano e poi scappavano, lasciando le popolazioni in preda alla rabbia di coloro che erano abituati a fronteggiare a viso aperto il nemico.
Giorgio si era anche trovato, Domenica 30 Luglio, a passare in Piazza Grande a Modena, due ore dopo un'altra atroce rappresaglia tedesca, quando fucilarono venti cittadini, detenuti nelle carceri di S. Eufemia sospettati di essere dei partigiani, e passati per le armi dopo che erano stati uccisi alcuni loro camerati. Rimase sconvolto nel vedere tutti quei corpi a terra in un lago di sangue, con una pattuglia tedesca a controllare che i cittadini non si avvicinassero ai cadaveri, dato che dovevano rimanere esposti a monito per la popolazione; seppe anche che stava per essere fucilato un Ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, il Tenente Bruno Piva, poiché si era rifiutato di far parte del plotone di esecuzione composto da militari germanici.
Impiegò alcune ore a scrivere la relazione, molto apprezzata dal comandante che, da quei giorni, aggregò Giorgio al responsabile dell’Ufficio Stampa, il Dott. Francesco Bocchi che era Direttore dell’ organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano modenese, “Valanga Repubblicana”.

Vi fu un altro episodio che lo portò ad occupare quella posizione da “scrivano”, contrariamente al ruolo attivo che stava facendo nel reparto dal momento che era entrato “volontario” nella formazione modenese della Brigata Nera; fu costretto a quella posizione da “imboscato” causa un piccolo incidente verificatosi in palestra, nella vicina sede dell’Istituto Magistrale Sigonio dove le varie squadre della “Mirko Pistoni” si stavano affrontando in quei giorni in un mini torneo interno di Pallavolo e Giorgio, durante una di queste partite, cadde malamente distorcendosi, abbastanza seriamente, la caviglia sinistra che venne strettamente fasciata e “cartonata”. Dovette restare quasi immobile, dato che, a malapena, riusciva a camminare per pochi passi, appoggiandosi ad un bastone.
Svolse così, per circa tre settimane, le funzioni di “impiegato” che lo misero nella condizione di esaminare le “scartoffie” del reparto modenese della BN e di venire a conoscenza di tanti risvolti, anche “delicati”, sia dei suoi commilitoni, sia degli ufficiali superiori, oltre tutto veniva immediatamente a conoscenza di moltissimi episodi che accadevano, e in città e in Provincia. Difatti in quei giorni, in mezzo a continue notizie di uccisioni di fascisti, o di presunti tali, sempre colpiti a tradimento e di solito isolati, lo impressionarono due episodi ravvicinati che avvennero nella zona di Cavezzo, dove dovette intervenire, con alcuni camerati del suo reparto per svolgere le indagini di circostanza.
Il primo fu orribile e gratuito: la violenza nei confronti di una ragazza giovanissima, molto bella e procace, tale Irma Balestri tenuta segregata, da un gruppo di partigiani di quelle contrade, che ne approfittarono per “allietare i loro ozi”, in un “chiuso” per maiali, per otto giorni, sottoponendola a continue sevizie e violenze carnali quotidiane e, dopo averla così “usata”, la eliminarono brutalmente.
La seconda uccisione, sempre a Cavezzo, fu quella del Dott. Enrico Benatti, ucciso mentre sul suo calesse stava ritornando a casa, dopo aver effettuato le visite quotidiane ai suoi ammalati sparsi in quelle campagne. Il medico, come il padre del poeta Giovanni Pascoli, che ne raccontava la fine nella poesia, “La cavallina storna”, fu colpito da una sventagliata di mitra sparatagli da dietro una siepe, a circa un chilometro dalla sua abitazione; venne colpito di striscio anche il cavallo che, impaurito, si mise al galoppo sfrenato per andare a fermarsi davanti alla porta dello studio del suo padrone.
A Cavezzo, hanno detto delle persone che lo conoscevano bene e che conoscono la situazione di quelle contrade, che essendo stato il Dott. Benatti, nominato da non molto tempo, Presidente di un caseificio, risultando di conseguenza responsabile dei formaggi depositati nel magazzino, si era rifiutato di consegnarne un certo quantitativo a dei partigiani che glielo avevano chiesto. Non essendo lui proprietario di quei beni, non poteva disporne l’uso; i partigiani se la “sono legata al dito” e sbrigativamente si sono vendicati. Il Dottore, tra l’altro, non era nemmeno iscritto al Partito Fascista Repubblicano e, anche durante il “Ventennio”, era stato un fascista molto tiepido.

Colpì Giorgio, in quei giorni, la notizia dell’uccisione di Alexander Ascenko, che aveva avuto l’opportunità di conoscere durante un rastrellamento, chiamato da tutti “Nikolaj”; era un ex prigioniero russo dei tedeschi che, dopo aver combattuto, come tanti altri cosacchi del Don, assieme a loro contro le truppe di Stalin, si trasferì, al seguito dei reparti germanici, in Italia e da poco tempo aveva voluto iscriversi alla Brigata Nera di Reggio Emilia per combattere contro i comunisti nostrani, che riuscirono, attorno ai primi giorni del mese di Novembre, a catturarlo e ad ucciderlo ferocemente, in quanto vedevano in lui il traditore della “grande patria del comunismo”, desiderata invece dai rossi nostrani, contrariamente a “Nikolaj” che il comunismo aveva potuto “toccarlo con mano e in casa sua”, attraverso tutti gli orrori di quella perversa ideologia che aveva disseminato la sua terra di milioni di morti. Fu pertanto “eliminato”, per sua somma sventura, da comunisti non sovietici, ma italiani.
Nell’ufficio di Giorgio arrivavano quotidianamente le notizie di uccisioni di fascisti, civili e militari e frequentemente pattuglie della Brigata Nera “Mirko Pistoni”, assieme ad altre della Guardia Nazionale Repubblicana, venivano inviate sul luogo delle uccisioni per i rilievi e le indagini, che raramente portavano alla scoperta degli esecutori in quanto questi fuggivano e andavano a nascondersi tra la popolazione innocente.
In questi giorni la maggior parte degli attentati si verificarono nelle zone della bassa modenese tra San Possidonio, Concordia e Carpi mentre si erano attenuate le azioni “gappiste” in montagna; il giorno 27 Novembre, in città, veniva brutalmente ucciso il milite della GNR, Silvio Ferrari di trentasei anni, nativo di Serramazzoni e, solamente due giorni prima, i partigiani, in un feroce agguato a San Possidonio, riuscivano ad uccidere lo squadrista della Brigata Nera, Arisaldo Bonini, del reparto del suo Battaglione che da alcuni giorni si era trasferito a Mirandola e ancora, nella zona di Piumazzo, i banditi “eliminarono”, con il classico sistema degli assassini vigliacchi che colpiscono alle spalle il predestinato; tolsero, in questo caso, la vita al milite della GNR di quarantacinque anni, Procolo Ferrarini.
Lo stillicidio delle uccisioni degli uomini del reparto di Giorgio non dava tregua: a Carpi avvennero in rapida successione una serie di omicidi che colpirono anche civili di fede fascista come tali Attilio Baraldi e Alfredo Coppi che era padre di otto figli pur avendo solamente quaranta anni, mentre a Mirandola, gli assassini che si facevano chiamare “gappisti”, prendendo tale nome dall’acronimo Gap che sta a significare “Gruppi di Azione Patriottica”; ma quali “patrioti” sono questi che sparano alle spalle ad Amilcare Gavioli e ad Angelo Vavassori, e poi vanno a prelevare dalla sua abitazione, e la sopprimono nelle vicine campagne, la casalinga di quella località, Matilde Bassoli?, si chiedevano Giorgio e i suoi camerati. E che dire dell’esecuzione del milite della GNR, Elio Palatello al quale gli “eroici” partigiani hanno “mozzato la testa?”
“Ecco, vedi Giorgio”, disse Renato seduto di fronte alla scrivania dove l’amico stava inserendo nelle cartelle apposite le notizie appena arrivate dalle zone degli omicidi, in qualità di addetto all’ufficio stampa del suo Battaglione, agli ordini del dott. Bocchi:
“i comunisti sono riusciti, o stanno per riuscire, nel loro intento di far arrivare la guerra civile in ogni contrada della nostra Italia portando ovunque lutti; solamente in questi ultimi tempi hanno disseminato di cadaveri le strade della nostra città e delle nostre campagne malgrado abbiano avuto gli ordini da parte dei loro mandanti e fornitori di armi e danaro, gli inglesi e gli americani, di sospendere le azioni di guerriglia durante i mesi invernali. Ma i loro “capoccioni”, che rispondono solamente agli ordini che arrivano da Mosca, spingono gli esecutori nostrani a continuare nelle esecuzioni dei fascisti inermi e isolati, stimolandoli ad ucciderci, malgrado le reazioni dei nostri comandi siano sempre più pesanti, come quelle avvenute pochi giorni orsono quando, dopo l’uccisione di alcuni dei nostri, hanno dato l’ordine di fucilare alcuni “presunti” partigiani qui a Modena, oltre che a Vignola, Concordia, e a San Giacomo Roncole; ma in questo modo si scava sempre più il fossato che ci divide.”
“E’ incredibile”, rispose Giorgio;
“almeno per me, che non ho mai sopportato la violenza e il sangue mi ha sempre fatto terrore. Ho sempre cercato di mettere pace tra i litiganti, non dico di essere stato il sostenitore della formula: “porgere l’altra guancia” se ti fanno del male, ma quasi; mi trovo adesso a dover prendere parte ad una lotta sanguinosa dove vige solamente “la legge del taglione” e dove, sia “noi” sia “loro”, mettiamo in atto la regola dell’ ”occhio per occhio, dente per dente”.
Ma come è possibile restare indifferenti quando, come è successo nei giorni scorsi, arrivi a trovare alcuni tuoi cari amici, stesi a terra in una pozza di sangue, crivellati di proiettili sparati dai mitra di tuoi coetanei che, addirittura, abitavano nella tua stessa casa e con i quali avevi giocato e partecipato a tante situazioni della vita civile sino al giorno prima, e ora vengono addestrati e portati all’odio di parte e alla pratica del terrore, da personaggi senza scrupoli che, approfittando della drammatica situazione in cui si trova la nostra Patria, gettano sempre più benzina sul fuoco non curandosi dei lutti che vanno a procurare con questi omicidi che, oltretutto, causano le rappresaglie, le quali aumentano vertiginosamente la spirale dell’odio; oppure, come pochi giorni orsono quando siamo andati per una ricognizione in quella casa di campagna, dove abbiamo trovato, sotto pochi centimetri di terra, il cadavere della nostra camerata, Bianca Zannini, Ausiliaria e Camicia Nera della nostra Compagnia, ridotta in una condizione orribile dopo che era stata stuprata, violentata e seviziata, poi finita con un colpo di pistola alla nuca, da un “branco” di delinquenti che si fanno passare per partigiani e che hanno approfittato di lei, per giorni e giorni, tenendola rinchiusa, come quell’altra ragazza di Cavezzo, in una porcilaia.”
Giorgio e Renato si guardarono in faccia e per poco, ad entrambi, non scesero le lacrime dagli occhi. I loro cuori erano esacerbati e il “groppo alla gola” non andava né su né giù; ma poi, tutti e due non vollero rivelare all’altro la parte debole e sensibile del loro carattere dovendo sempre e in ogni caso dimostrare, ma specialmente con loro stessi, di essere dei “duri” anche se, in realtà, di fronte a tante situazioni analoghe e a spettacoli orripilanti, era pur sempre difficile, per ragazzi così giovani, nascondere i propri sentimenti.
“Ma ti rendi conto”, proseguì Renato:
“a quale livello di abbrutimento umano siamo arrivati; e io mi chiedo, quale sarà il prezzo che dovranno pagare coloro che risulteranno gli sconfitti di questa carneficina, al termine del conflitto?
Come reagiremo, noi fascisti domani, nel caso veramente si rovesciassero le sorti della guerra come da tante parti si sente dire, se effettivamente la produzione bellica tedesca riuscisse a produrre quelle terribili armi promesse dagli alti comandi e che, come abbiamo visto in alcuni filmati, stanno per essere completate e pronte a funzionare, se usciranno dai “bunker” dove le stanno mettendo a punto in alcune zone segrete della Germania e dell’Austria che sembrano introvabili e irraggiungibili da parte della strapotente e devastante forza aerea angloamericana che attualmente sta distruggendo il nord Italia e il Terzo Reich? Saremo magnanimi con gli sconfitti o vendicativi?
Come sarà possibile vendicare tutte le vittime che hanno causato e stanno causando in tutta Europa, i terrificanti bombardamenti terroristici angloamericani che massacrano le inermi popolazioni, senza che da parte nostra vi sia la minima possibilità di risposta, anche semplicemente corrispondente all’un per cento di quello che fanno loro, e i nostri concittadini, malgrado tutto questo, sono pronti ad accoglierli come dei “liberatori”, termine che usano già in tanti?
Al contrario, nel caso fossero i “rossi”, che stanno sfruttando la strapotenza bellica dei nostri nemici che li sovvenzionano e li “foraggiano” in continuazione, a prevalere, in quale modo ci potranno far pagare certi nostri atteggiamenti “prepotenti” nei loro confronti? Comprese le nostre, e ancor più pesanti, rappresaglie tedesche che si attengono, sì alle leggi internazionali della convenzione di Ginevra la quale predica che è possibile rispondere agli attentati ai militari, da parte dei civili, nel rapporto di dieci a uno, ma che ugualmente stanno provocando lutti devastanti su tutto il territorio della Repubblica Sociale? Lo sappiamo bene che episodi similari a quello che ha distrutto il territorio di Montefiorino, si sono verificati in altre zone e la furia e la rabbia dei tedeschi non hanno risparmiato nessuno. Non dimentichiamoci, inoltre cosa andiamo cantando noi per le strade della nostra, una volta, bell’Italia; hai presente le parole del nostro inno cosa dicono? Te le ricordo:

Ci sparano alle spalle per le strade
Che di venirci avanti hanno paura
E per risposta noi delle Brigate
Ai mitra abbiamo tolto la sicura.

Chi siete io non lo so
Chi siamo ve lo dirò
Siam le brigate nere e
Abbiam la forza di spezzarvi il cuor!

Siam stati nel Piemonte e in Lombardia
A rompere la schiena dei ribelli
Abbiam lasciato i morti per la via
Con sulle labbra i nostri canti belli.

Chi siete io non lo so
Chi siamo ve lo dirò
Siam le brigate nere e
Abbiam la forza di spezzarvi il cuor!
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Questo noi stiamo dicendo e facendo; molto probabilmente, come detto, se saranno loro a prevalere, visto e considerato come si sono comportati in Spagna, sono gli stessi che ora guidano quelli che, vigliaccamente, ci “accoppano” in attentati quotidiani, provvederanno ad una vera e propria eliminazione di tutti coloro che li ostacolano o potranno, anche domani, ostacolarli nella presa del potere, come è avvenuto in Russia, e come tanti reduci da quella campagna sfortunata dell’Armir, che adesso fanno parte dei nostri reparti, ci hanno raccontato. Ricordiamoci sempre quanto è spietata “l’ideologia comunista”.
“Hai ragione Renato”,
gli rispose sempre più perplesso Giorgio,
“ma io ho l’impressione che la situazione sia irrecuperabile e che di questa assurda lotta fratricida ne trarranno vantaggi esclusivamente i nostri nemici, inglesi, americani e russi che, economicamente e politicamente conquisteranno i nostri mercati, le nostre nazioni, la nostra civiltà che ha avuto il coraggio di contrapporre allo strapotere economico del capitalismo internazionale, alleato con il comunismo, la volontà di non lasciare solamente a loro il dominio del mondo; e con questi gli servi sciocchi del comunismo internazionale che, qui in Italia, pur restando i lacchè dei padroni capitalisti, con la scusante di portare avanti le istanze del “popolo lavoratore”, diventeranno i padroni e i profittatori della situazione traendone, a livello dei soli “capoccia”, tutti i vantaggi possibili.
Intanto ci stanno massacrando con una crudeltà che non avrei mai potuto immaginare, in quanto quelli che ci sparano alla schiena sono i nostri camerati di ieri che con noi partecipavano entusiasti a tutte le manifestazioni del fascismo, sino a ieri trionfante, e oggi, spinti dalla propaganda comunista e angloamericana oltre che dai rubli, che copiosamente arrivano loro dalla Russia, ovviamente ad esclusivo vantaggio dei loro comandanti che stanno cercando di “indottrinare” i tanti giovani corsi in montagna, dopo il tradimento badogliano e della monarchia, al credo del “paradiso sovietico”.
E’ talmente chiaro il disegno del partito comunista nella sua scalata alla conquista del potere in Italia a spese anche dei piccoli partiti del CLN, socialisti, democristiani, liberali, azionisti, che pensano di rifarsi dalla cocente sconfitta subita nel 1922 quando, per loro incapacità, lasciarono che il fascismo conquistasse il potere assoluto; ma l’operazione che stanno conducendo oggi sta andando solamente a vantaggio dei “rossi” che in realtà sono poi quelli che hanno imbracciato le armi e che hanno scatenato la guerra civile.
In Russia, attraverso la “rivoluzione”, i comunisti sono arrivati al potere servendosi degli “utili idioti” con il terrore e lo sterminio di milioni di loro concittadini. Stanno preparando, da noi, con la stessa metodologia e con gli stessi sistemi quell’operazione che è andata bene in quelle terre; è un piano ben programmato e ci stanno sopprimendo ad uno ad uno con ripetitività costante e quotidiana che permette loro di trarne tutti i vantaggi psicologici possibili, sia immediati che futuri, nell’ipotesi di una vittoria della loro parte.
Noi, attraverso le ritorsioni, le rappresaglie, le fucilazioni e le carneficine irrazionali dei tedeschi, che, vabbè il tradimento che hanno subito pesi loro parecchio, ma quelli che muoiono nelle rappresaglie sono i nostri fratelli, e noi non facciamo altro che prestarci al loro gioco, seppure perverso esso sia, e dal quale, un domani ne potranno trarne tutti i vantaggi.
Come verremo trattati, al termine del conflitto, se risulteranno loro i vincitori, dalle popolazioni che hanno subito tante vessazioni? Sono le popolazioni che noi stiamo cercando di difendere quotidianamente, dalle incursioni aere, dai mitragliamenti, dai furti nelle case, dai mercanti della borsa nera e da tutti i delinquenti che, in bande o isolati e con la scusante di essere dei “ribelli”, difensori della libertà, non fanno altro che approfittare di questo caos generale e compiere tutti i soprusi possibili.
Andiamo constatando, noi stessi, quando si va di pattuglia o in giro per rastrellamenti, che dovrebbero servire a tutelare la popolazione, che da parte di molte persone vi è diffidenza nei nostri confronti, siamo guardati “di traverso” e solamente quando sfiliamo in manifestazioni ufficiali troviamo ancora chi ci applaude e ci saluta calorosamente dato che noi, in realtà crediamo ancora a quello che stiamo facendo, pur essendo ben consci che un domani potrebbero farcela pagare cara.
E “loro” continueranno nella guerra contro i “padroni” come vanno blaterando, per servirne poi uno solo, quel “baffone” che stanno facendo entrare nell’immaginario collettivo come “il salvatore della Patria” e questi uomini, come hanno fatto in Russia, porteranno avanti il verbo di Stalin, a prescindere dalle eventuali divergenze, come hanno pagato pesantemente i deviazionisti, “trotzkisti” o “leninisti” di quelle contrade, che si allontanavano dall’ ortodossia comunista e che furono eliminati a centinaia di migliaia o che subirono la sorte di passare decine di anni nei campi di concentramento Siberiani.

A volte mi chiedo se hanno visto giusto quei nostri amici e camerati che si sono nascosti in qualche tana per uscire poi allo scoperto a guerra finita, come mi avevano consigliato i miei genitori, per schierarsi con quelli che saranno i nuovi padroni. Io credo ancora fermamente che andremo sino in fondo rischiando sino alla fine quella “pellaccia” che già da tempo è a rischio ogni minuto che passa, ma almeno avremo tenuto fede a tutto quello in cui abbiamo creduto, anche se, molti di coloro che hanno inculcato in noi le idee, che andremo a difendere sino in fondo, sappiamo bene che si sono schierati contro di noi e ci sparano alle spalle portando in capo, al posto del fez che avevano prima, il berretto con la “stella rossa”; molti di questi saranno, con molta probabilità, “scaricati”, come è successo in Spagna e in Russia, dopo che avranno prestato i loro “servizi”.
Una cosa sola mi ha dato veramente molto fastidio, nelle scelte, spesso lungimiranti del nostro “capo”; perché nel 1938 Mussolini si è lasciato trascinare dai nazisti in quella politica “antisemita” che, probabilmente, (ma è un argomento che non conosco a fondo per non averlo mai affrontato e perché non è mai stato esaminato nel modo dovuto), aveva una ragione di essere in Germania, ma era assolutamente fuori posto in terra italiana?
Si cominciò con una campagna denigratoria contro certi gusti esterofili dei nostri connazionali, furono messe al bando molte parole di origine inglese o francese e furono tolti dalle librerie i titoli di autori non graditi, fino ad arrivare a quel gravissimo errore che furono le "Leggi razziali", accolte con scarso entusiasmo, e “obtorto collo” da una ristretta minoranza, anche all’interno del Partito, mentre dalla maggioranza dei “capoccioni” dello stesso, venivano contestate, mi ricordo di quanto era contrario Italo Balbo.
A Modena poi, in modo particolare, gli ebrei erano ben inseriti nel tessuto sociale della nostra comunità e moltissimi avevano aderito incondizionatamente al fascismo, basti ricordare il sacrificio del “martire fascista” Duilio Sinigaglia al quale, da sempre, in tutte le celebrazioni in cui vengono ricordati i fatti del 26 Settembre 1921, furono sempre tributati grandi onori.
Ho saputo che, qualche tempo fa, molti miei amici di famiglia ebraica, che io minimamente sospettavo lo fossero, come Dante Sacerdoti, o Federico Camerini, ed Enrico Modena, e Federico Padoa e tanti altri, con i quali c’era una frequentazione costante nelle aule scolastiche, molti erano nostri compagni di classe al Liceo, o nelle manifestazioni del Partito, al “Sabato Fascista” e alle conferenze sulla “mistica fascista”, sono dovuti “espatriare” velocemente per non incorrere, e nella “confisca dei beni” e nell’arresto, e per non essere “internati” nei campi di concentramento, dei quali, mi si dice, ne esiste uno anche nella nostra Provincia, a Fossoli di Carpi.
In realtà, a quanto ne sò, il problema si è acuito solo ultimamente con la presenza massiccia dei tedeschi sul nostro suolo e questi non transigono sulla attuazione delle leggi razziali, che applicano con quella “rigidità” tipica del modo di ragionare tedesco, ma io ricordo che lo stesso Mussolini, dichiarò che l’antisemitismo in Italia non esisteva, e che: “il sacrificio di sangue dato dagli italiani ebrei, era stato, largo, vastissimo, generoso.”
Ebbe anche una donna ebrea, quella giornalista, Margherita Sarfatti, che ha scritto il famoso libro “DUX” un “peana” sulla figura del capo del fascismo.
Nonostante il razzismo antiebraico sia stato contrastato da tanti gerarchi e da tanti componenti il “Gran Consiglio del Fascismo”, furono emanate in quel periodo una serie di leggi e decreti che avevano lo scopo di togliere gli israeliti dalla vita della nazione.
Non conosco più la situazione di alcuni di questi amici che si sono rifugiati, dalle poche notizie avute, uno in Svizzera e due addirittura negli Stati Uniti d’America. Questa è una responsabilità non indifferente che ci resterà sul “groppone” per parecchio tempo.
Ma come dici tu, Renato, nel caso fossimo noi a vincere, molto probabilmente risulteremo satelliti del nazismo che, obiettivamente, e per la profusione di energie spese in questa guerra, per i sacrifici sopportati, e per i tradimenti subiti, compreso il nostro, saranno i veri padroni della situazione in Europa e, l' unica speranza dell’Italia sarà quella di affidarsi alla diplomazia del nostro grande statista, in quanto Mussolini è sempre stato così considerato e non solo dal suo amico Hitler, ma anche da tanti capi di Stato europei e mondiali.
Come verremo trattati dai nostri attuali alleati che, non dimentichiamoci, sono rimasti e lo constatiamo tutti i giorni, notevolmente “scottati” dal tradimento italiano che ancor oggi ci stanno facendo pagare. Riuscirà, Mussolini, che già con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana è riuscito a mettere un freno alla “rabbia” tedesca, un domani, a fronteggiare la protervia germanica dato che, come succede in questi giorni, si vengono a verificare spesso contrasti tra i nostri soldati e alcuni reparti germanici quando, o la GNR o le Brigate Nere cercano di mettere un freno alle loro rappresaglie e non sempre i nostri ci riescono. Verremo trattati come amici o con quella “tracotanza” che oggi dimostrano verso di noi?”
“Caro Giorgio” lo riprese Renato, “è quasi l’ora di cena e con le nostre riflessioni, anche amare, non risolveremo di certo il problema e al momento, pur considerando che “la guerra è pur sempre una brutta bestia”, non ci resta che aver fiducia nei nostri comandanti e continuare a credere nella nostra “Missione”.”

I due amici si salutarono per raggiungere ciascuno il proprio plotone e Giorgio si accorse che la caviglia praticamente non gli dava più fastidio, pertanto il giorno dopo avrebbe potuto togliere la grossa fasciatura.
Nei resoconti che quotidianamente redigeva, Giorgio si era reso conto che, praticamente, il suo reggimento della Brigata Nera modenese, assieme a quelli della Guardia Nazionale Repubblicana, avevano lasciato sul terreno, uccisi dai “ribelli”, un milite al giorno; sembrava che quei “rinnegati” così come li chiamavano i soldati con addosso una divisa ben riconoscibile ed essa stessa facile bersaglio, si moltiplicassero come le formiche pur senza mai farsi vedere.
I combattenti repubblicani che, nella quasi totalità, si erano arruolati per scontrarsi con il “nemico invasore del sacro suolo italiano”, invano speravano di incontrarli “faccia a faccia”, ma questi quasi sempre sfuggivano e parevano invisibili e le loro fucilate e le loro sventagliate di mitra colpivano sempre i fascisti e i tedeschi alle spalle e attaccavano Giorgio e i suoi amici solamente quando erano ben sicuri di essere in netta superiorità numerica e tutto questo modo di comportarsi rendeva furiosi i ragazzi che erano obbligati, anche attraverso i categorici ordini superiori a non mollare mai e molti uomini in camicia nera morivano sull’arma e, al termine degli scontri, dove ben difficilmente ci si trovava a diretto confronto, i militi si dovevano riportare, negli “accasermamenti”, i caduti, portandoli a spalla e covando sentimenti di rabbia e di odio nei confronti di chi subdolamente ti colpiva a tradimento.
Allora, quando eri costretto ai rastrellamenti come quello che andarono ad effettuare reparti della Brigata Nera di Modena e Mirandola nelle zone attorno a Carpi ai primi giorni di Dicembre, molti di quei giovani, comandati a prendere parte ai plotoni di esecuzione, non provavano rimorso, a rispondere con “identica ferocia”, al pensiero dei loro camerati falciati negli agguati dei giorni prima e cosi, tra Cortile di Carpi e Fossoli, in quei giorni fucilarono cinque giovani partigiani trovati armati e pronti a far fuoco su di loro.
Poi, terminato il rastrellamento, ritornavano in città con caricati sui camion i loro caduti lasciando gli altri, i “nemici”, sulle strade e ritornavano cantando le loro canzoni “truculente” come l’inno della Brigata che così faceva:

Brigate Nere, avanguardia di morte
siam vessillo di lotte e di orror,
siamo l'orgoglio trasformato in coorte
per difendere d'Italia l'onor.

Viva l'Italia!
Fascisti, a noi!
Il Fascio è simbolo di tanti Eroi
Brigate nere, dai saldi cuori
contro i nemici di dentro e di fuori!

Come una rapida freccia che scocca
scatta il pugnale che sa vendicar;
siamo Fascisti, guai a chi ci tocca,
ogni nemico facciamo tremar!

Viva l'Italia!
Fascisti, a noi!
Il Fascio è simbolo di tanti Eroi
Brigate nere, dai saldi cuori
contro i nemici di dentro e di fuori!

Era una guerra assurda, non era il “fronte” ricercato dagli ex balilla diventati appena un po’ più grandi e disposti anche a lasciare le loro giovani vite sul campo, ma quello “scontro” con i fratelli era devastante, più sul piano psicologico che su quello fisico.
Quel periodo sembrava dovesse portare una tregua tra i due schieramenti e per l’appello del Generale Alexander alla “partigianeria”, e per il clima, dato che ci si stava inoltrando in un inverno particolarmente gelido e nevoso. Al contrario, attraverso l’opera dei comandanti politici dei “soviet”, gli uomini della “stella rossa” italiana portarono ancor più il terrore tra la popolazione e lo schieramento fascista. Così, gradualmente, anche le giornate di Dicembre non furono tanto diverse da quelle dei due mesi precedenti in particolare nella zona ovest della “bassa Modenese”.
Il reparto di Giorgio, il giorno 1 Dicembre, fu inviato, assieme ad altri reparti della Guardia Nazionale Repubblicana e ad alcune pattuglie tedesche, a partecipare ad un vasto rastrellamento nel carpigiano, dopo che informatori repubblicani di quel territorio, avevano comunicato la notizia che riguardava la concentrazione in quelle zone di notevoli formazioni di “ribelli”.
Si verificarono, per tutta la giornata, scontri in varie località del carpigiano, ma in particolare nella zona di Cortile dove furono catturati, in breve tempo, alcuni partigiani che, trovati con armi alla mano, vennero fucilati sul posto.
Si trattava di tali Giorgio Violi, Antonio Simoniello, Ivo Martinelli ed Eolo Papazzoni; mentre nella vicina Fossoli ci fu la fucilazione di certo Ivano Aguzzoli.
I reparti rimasero in zona, per quasi tutta la giornata e quelli tedeschi diedero fuoco ad alcune case. Pochi giorni dopo furono trovati in zona alcuni volantini, diffusi dalla federazione modenese del PCI, dove si tracciava questo falso bilancio:
 

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"Nelle prime ore del 1° Dicembre un grosso contingente composto di circa 2000 fra tedeschi e fascisti iniziava una vasta operazione di rastrellamento in tutto il Carpigiano. Dalle prime informazioni 8 fascisti e 19 tedeschi sono rimasti uccisi..."

Niente di veritiero poiché al massimo, la presenza dei militari tedeschi e fascisti non superava le centocinquanta unità e circa un centinaio saranno stati i componenti delle bande. Mentre tra le forze in divisa fu colpito a morte il tenente dell’esercito territoriale William Walter.
Numerosi fascisti furono uccisi il 3 Dicembre in agguati o attentati; a Cognento di Modena due fratelli, entrambi militi della GNR, sono trucidati dai partigiani: si chiamavano: Cesare Bonacini e Lino Bonacini, e furono colpiti alle spalle assieme all'autista di trentaquattro anni: Giovanni Pedrielli.
Mentre in città veniva prelevato dalla sua abitazione, e ucciso in Stradello San Faustino, il calzolaio di trentotto anni: Dario Olivieri, e sempre a Modena veniva colpito a morte, in un agguato, tale Secondo Golinelli.
Sempre nel modenese, l'inarrestabile spirale della vendetta porta altri lutti. A San Matteo, frazione del Comune di Modena sono fucilati sette giovani partigiani come rappresaglia a tutte le uccisioni di fascisti dei giorni precedenti.
La tragica sequela delle esecuzioni isolate di fascisti continua nelle zone della bassa modenese con un ritmo inarrestabile. Elementi partigiani uccidono, in un agguato, a Mirandola, l'ex squadrista di cinquantuno anni: Arturo Valentini.
Ancora nella bassa, a Novi di Modena, viene "eliminato" da partigiani di quelle zone, il militare della RSI, di ventuno anni: Rino Marchi. Mentre a Mirandola vengono uccisi dai partigiani, i fascisti o presunti tali: Delmo Diazzi ed Emilio Luppi, l'agente di Pubblica Sicurezza: Renzo Bianchini, il milite della GNR di ventidue anni: Artioli Franco, oltre a Gaetano Ferrari e Vittorio Mambrini.
A Modena i “ribelli” uccidono il finanziere Michele Loprieno, e nella zona di Carpi, “gappisti” di quelle contrade uccidono, ben quattro fascisti: Gino Pollastri, Ardilio Lugli, Alfonso Malvasi e Livio Sassi.

La sera del 15 Dicembre, la camicia nera Giorgio Campari, assieme agli altri dieci componenti della sua squadra d’azione, furono convocati urgentemente dal Comandante la seconda compagnia della Brigata Nera che comunicò loro la notizia che il mattino successivo, alle ore cinque, sarebbero partiti, con alcuni Comandanti, per Milano dove avrebbero preso parte ad una manifestazione molto importante che era stata comunicata alla Federazione Modenese dal responsabile regionale del Partito, dott. Franz Pagliani, e pertanto avrebbero dovuto fare da scorta alla rappresentanza del fascio modenese.
All’ora prefissata, con un camion del reparto sul quale salirono i militi e con due automobili sulle quali si sistemarono il Federale di Modena, Giovanni Tarabini Castellani, il Dott. Francesco Bocchi, Direttore del giornale “Valanga Repubblicana”, il Comandante della Brigata Nera, Walter Bartolozzi, il giornalista e sindacalista, Nino Saverio Basaglia, l’addetto stampa della Brigata Mobile “Attilio Pappalardo”, dott. Enrico Cacciari, e il Dott. Franz Pagliani, Comandante della Brigata Nera Pappalardo, partirono per il capoluogo lombardo.
Giorgio apprese, in quella livida mattina “decembrina”, che il gruppo avrebbe raggiunto Milano per presenziare, in rappresentanza del fascismo modenese, all’incontro con Mussolini il quale, da alcuni mesi, raramente si faceva vedere o sentire, in manifestazioni ufficiali, e sicuramente avrebbe preso parte al raduno verso il quale il gruppo di modenesi si stava recando.
Il viaggio fu assolutamente tranquillo e non vi furono incontri di sorta “particolari”: anche la mattinata, fredda e nebbiosa, metteva il convoglio al sicuro da eventuali attacchi aerei che, ormai da tempo, in giornate con buona visibilità erano frequenti in molte zone del nord Italia, in particolare sulle grandi vie di comunicazione, come la Via Emilia che collega Modena a Milano, dove vi arrivarono in circa tre ore, e già alla periferia cominciarono a vedere, sulle strade, un notevole afflusso di cittadini diretti verso il centro della città, precisamente verso la zona del Teatro Lirico dove era previsto il convegno.
Raggiunsero quel luogo verso le ore nove e trovarono la piazza e le strade adiacenti già gremite da una folla entusiasta e vociante e dentro al teatro, strapieno, i fascisti milanesi intonavano in continuazione gli inni della rivoluzione; Giorgio, assieme ai suoi Comandanti e ai giornalisti, con i quali doveva collaborare a stendere una cronaca delle giornate milanesi, riuscì ad entrare nella sala, mentre i suoi camerati rimasero all’esterno assieme ai reparti di Brigate Nere di altre città.
Mussolini arrivò puntualissimo, alcuni minuti prima delle undici, ora fissata per l’inizio della manifestazione, accolto da deliranti applausi che durarono parecchi minuti. Il Duce è sul palco, e in sala vi è un continuo agitare di fazzoletti bianchi in segno di saluto, assieme a canti e ad evviva poi, man mano il rumore si placa sino a diventare totale silenzio.
L’atmosfera è quasi surreale, mentre si può notare sul viso degli uomini della gerarchia fascista la tensione palpabile, accumulata nelle ore precedenti e che gradualmente sta attenuandosi, sui volti di Alessandro Pavolini, di Buffarini Guidi, di Vincenzo Costa, e di tutti gli altri gerarchi, comprese anche le autorità tedesche e giapponesi presenti.
Man mano che il discorso del “Capo” procede, si nota una totale distensione, sino al sorriso compiacente, in quanto, sentendo il calore che emana dalle sue parole, assieme al calore immenso della folla che viene pervasa da quel senso di partecipazione collettiva che solamente il “Duce” riusciva a portare nelle piazze italiane a milioni e milioni di connazionali negli anni del suo fulgore, ci si rende conto che le preoccupazioni delle ore precedenti erano state eccessive e fuori posto. L’uomo trascinava ancora le folle. Inizia il suo dire in tono amichevole e distensivo:

”camerati, cari camerati…”

entrando subito nel vivo per esaminare i vari problemi che hanno caratterizzato l’andamento della guerra e la situazione italiana dopo il “tradimento del 25 Luglio e dell’ 8 Settembre”, rivendicando l’onore del popolo italiano e qui si rivolge, con uno sguardo intriso da spirito polemico, al palco dove è presente l’ambasciatore tedesco Rahn; poi precisa:

“Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati giapponesi, che l’apporto dato dall’Italia Repubblicana alla causa comune dal Settembre 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del territorio della Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto comunemente si creda..”

Continua poi con una serie di considerazioni sulle Forze Armate, sulla volontà del popolo italiano di sentirsi ancora fascista, parla dei 18 punti di Verona e dell’importanza della Socializzazione; è polemico con il Governo del Sud e accusa l’Inghilterra di essere responsabile della penetrazione in Europa del “bolscevismo”. Il discorso viene sottolineato, punto su punto, da frenetici applausi e lo conclude sottolineando lo sforzo delle potenze alleate che, tra l’altro, stanno realmente preparando armi tali che porteranno a fare il miracolo del ribaltamento delle sorti della guerra. Precisa inoltre che:

“Noi vogliamo difendere, con le unghie e con i denti la Valle del Po, noi vogliamo che la Valle del Po resti Repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia repubblicana.”

Affermò, ancora, che la mostruosa alleanza tra plutocrazia e bolscevismo, aveva portato, con la sua barbara guerra, alla distruzione delle opere della civiltà, ma non dello spirito eterno che da essa emana. Andò alla conclusione con un appello ai soldati della RSI che dovranno arrivare, di nuovo, a superare gli Appennini per riappropriarsi dei territori attualmente occupati e trovarvi ancor più fascisti di quanti se ne erano lasciati, poiché dove regnano miseria e abiezione morale queste suscitano sempre cocenti nostalgie.
Al termine del discorso i fascisti presenti scoppiarono in un frenetico applauso; si sentiva che si era di nuovo stabilito tra il Duce e i suoi gregari, l’antico rapporto, notevolmente allentato a causa delle infauste sorti della guerra, negli ultimi tempi. Dopo un ora e un quarto di discorso entusiasmante, Mussolini si spostò dal Lirico alla Prefettura, poi in Piazza San Sepolcro, sede della Federazione Fascista milanese per passare in rivista i reparti della Brigata Nera “Aldo Resega”. Ai camerati riuniti nella Piazza, dove nel 1919 nacque il Fascismo, Mussolini parlò brevemente, lodando Milano e la sua gente per quanto aveva sofferto e sopportato.
Al pomeriggio, Giorgio riuscì a riunirsi ai camerati modenesi con i quali andò a prendere alloggio nella caserma a loro riservata e, dopo un frugale rancio, mentre i loro comandanti e altri esponenti del Fascismo locale tra i quali il modenese avv. Enrico Vezzalini, in quei giorni Prefetto nella città di Novara erano riuniti in un vicino locale, si recarono a fare una lunga passeggiata per le vie del centro milanese ancora pieno di vivacità e di gente entusiasta e tutti in preda ad una generale euforia.
Il giorno successivo, 17 Dicembre, fu altrettanto pieno di avvenimenti e della partecipazione corale della folla: Mussolini girava per le strade di Milano, trasferendosi da un punto all’altro, su di un automobile scoperta e in piedi, acclamato ovunque da folle in delirio, così come si trovò in Via Dante per la sfilata dei reparti della Legione autonoma “Ettore Muti” dove il Duce “arringò” gli entusiasti milanesi stando in piedi sulla torretta di un carro armato di quel reparto.
Vi fu poi un momento di particolare commozione provocato dalla visita che Mussolini volle compiere, improvvisamente, nella “mensa collettiva” in Piazza Dante, gremita di lavoratori che stavano consumando un pasto caldo; tutti si alzarono in piedi e gli si strinsero attorno acclamandolo: si recò, subito dopo, al Castello Sforzesco, dove le ausiliarie dei corsi: “Italia”, “Roma”, “Brigate Nere”, “Onore”, “Giovinezza” e “Fiamma”, hanno giurato fedeltà al Duce e alla Repubblica Sociale Italiana, assieme al Prefetto di Milano Bassi, al Federale Vincenzo Costa e a Nicola Bombacci; si è, inoltre, recato in visita ai posti della città più colpiti dai bombardamenti angloamericani, dando ordine alle autorità di intensificare l’assistenza alla popolazione che aveva subito danni. Ha salutato tutti i milanesi dopo un “bagno di folla” che nessuno dei gerarchi presenti si sarebbe potuto immaginare dichiarando, tra l’altro:

“Mentre lascio Milano che ha dato in questi giorni la piena misura della sua volontà e della sua fede nei destini della Patria, voglio esprimervi il mio elogio per l’opera che avete svolto, elogio che estendo anche a tutti i legionari della Brigata Nera che custodisce e tramanda la memoria purissima di Aldo Resega."

Al termine delle due splendide giornate di grande entusiasmo, Giorgio e i suoi camerati ripresero, nella serata del giorno 17, la strada per Modena ancor più convinti della loro battaglia. Impararono, nei giorni successivi, che la lotta fratricida nel capoluogo lombardo aveva subito un impennata, per l’azione spietata delle bande ribelli scatenate dal Partito Comunista, dopo la visita compiuta da Mussolini, per cercare di annullare l’ondata di entusiasmo e simpatia sollevata dalla presenza del Duce, anche tra le masse popolari.

Nel frattempo, nelle zone della bassa modenese, continuava, spietata, la sanguinosa guerra civile. A Cavezzo due fratelli fascisti furono trucidati, assieme alla loro madre; si trattava del milite della GNR, Vincenzo Sala, di trenta anni, e del fratello di ventitré anni, Libero Sala, assieme a loro venne uccisa la madre di cinquantasei anni: Sala Zerbini Aquilina.
La famiglia Sala abitava all'Uccivello, una piccola frazione del Comune di Cavezzo; gente tranquilla, buona, estranea alla politica, era composta dalla madre, vedova di cinquantasei anni, dalla figlia sposata a Cavezzo e di due maschi; uno, assicuratore, abitava a Mirandola, l'altro, ventenne accudisce la madre al lavoro dei campi.
Un pomeriggio si presenta un giovane che chiede del fratello maggiore; alla madre ed alla figlia appare subito evidente che si trovano di fronte ad un partigiano, davanti alle precise richieste del giovane, la figlia, di sua iniziativa, scivola fuori di casa inosservata e corre a Cavezzo ad avvisare del fatto il cognato, vice capo delle Brigate Nere di quella località. Subito questi, con due commilitoni accorre sul posto; ne nasce un conflitto in cui il partigiano rimane ucciso, ma anche il vice-capo riporta una grave ferita che, nel giro di pochi giorni, lo porta a morte.
La Domenica, 17 Dicembre, alcuni partigiani in bicicletta, tra i quali una donna, fanno irruzione in casa Sala e vi sorprendono la madre con il figlio maggiore; senza preamboli ingiungono loro di seguirli: i disgraziati, intimoriti e non sospettando quello che li attendeva, si avviano verso San Martino Secchia. Per somma sventura, poco lontano dalla abitazione s'incontrano con l'altro figlio che stava ritornando a casa dopo aver passato la notte al lavoro obbligatorio per i tedeschi. Incontrando madre e fratello, naturalmente chiese dove stessero andando, a questo punto i partigiani prelevarono anche lui.
Sempre tutti assieme arrivano, per la strada Canalazzo, al gruppo di case prima dell'argine del Secchia. Si fermano e sospingono i tre disgraziati sul bordo della strada con le spalle rivolte al profondo canale che la fiancheggia. Il capo dei partigiani inizia una concione – processo, accusando gli sventurati di aver fatto uccidere un partigiano; i poveretti negano ogni addebito, ma tutto è inutile né vale il pianto della vecchia madre: il partigiano li condanna a morire subito. I mitra vengono puntati ed una nutrita scarica li fulmina, i poveretti rotolano nel canale dibattendosi, negli ultimi aneliti di vita, nella poca acqua che copre il fondo. Si dice che uno dei disgraziati fosse rimasto sulla riva, ma che un partigiano con una pedata lo abbia gettato giù. I tre sono rimasti due giorni semisommersi dall'acqua del canale, finché non vennero avvisate le autorità Comunali che provvidero a rimuovere i cadaveri.

Al ritorno da Milano Giorgio imparò che due squadre del suo reggimento si erano recate, in quei giorni, in appoggio alla Brigata Nera di Gonzaga, una cittadina del vicino mantovano, dove, nella serata del 19 Dicembre, si verificò, da parte di formazioni partigiane dislocate nella zona di Carpi, un attacco di una certa consistenza, a quel distaccamento, e l’amico Renato e altri commilitoni gli raccontarono, quando rientrarono a Modena, quello che era successo quella notte.
Il paese di Gonzaga era presidiato, in quei giorni, da 40 squadristi della Brigata Nera, da 20 militi della GNR e da 17 tedeschi. La zona era calmissima: non si erano mai visti partigiani. L'azione, infatti, fu organizzata fuori da quel territorio e i partigiani giunsero, alla spicciolata, all'imbrunire del 19 Dicembre. Dopo essersi concentrati nel recinto della Fiera, questi si mossero verso le 23 e bloccarono le vie di accesso al paese. Il caso volle che una pattuglia partigiana catturasse il Comandante del Presidio tedesco, certo Zimmermann e la sua segretaria. Il tedesco venne costretto a salire su di una automobile e condotto davanti all'ingresso dell'edificio delle scuole dove era accasermato il suo presidio.
Là giunto lo Zimmerman, sotto la minaccia delle armi, dovette annunciare alle sentinelle che la vettura faceva parte di un convoglio in arrivo e che il portone doveva essere aperto per lasciare entrare gli automezzi. Le sentinelle, una italiana e una germanica, non sospettarono di nulla (era buio pesto) e i partigiani penetrarono così nell'edificio.
Uccisero subito le due sentinelle, poi si lanciarono nelle aule dove dormivano i soldati tedeschi e li massacrarono tutti prima che questi comprendessero che cosa stesse accadendo.
Anche alcuni militi della GNR, che dormivano nell'edificio, furono uccisi: solo uno riuscì a fuggire e a dare l'allarme alla vicina caserma della Brigata Nera.
Contemporaneamente all'attacco all'edificio delle scuole, un altro gruppo di partigiani si portò davanti alla caserma della GNR, dove si trovavano, in quel momento, appena una quindicina di militi.
Quando i partigiani si trovarono davanti alla porta, la moglie del brigadiere comandante la GNR, sentendo del tramestio, e sospettando qualcosa, aprì i battenti. Si trovò così di fronte ai guerriglieri, armati fino ai denti. La povera donna, in stato interessante, si spaventò talmente che non riuscì nemmeno a gridare. Così i partigiani raggiunsero senza colpo ferire le camerate dove dormivano i militi, catturandoli tutti e uccidendone subito alcuni.
La Caserma, sistemata a Villa Gina, dove si trovavano i 40 squadristi della Brigata Nera non venne attaccata e i partigiani si limitarono a spararvi contro alcune raffiche di mitra ottenendo una rabbiosa reazione da parte dei militi della BN.
Il presidio della brigata, appostato alle finestre e alle feritoie, attese a lungo l'attacco partigiano che non avvenne, ci fu solamente, quella notte, un atroce massacro di soldati tedeschi e di militi della GNR, colti nel sonno oltre all'uccisione di una donna, fulminata da una pattuglia partigiana alla periferia del paese.
I camerati di Giorgio hanno precisato inoltre che vi erano in caserma anche dei prigionieri, in tutto una quindicina. Questi prigionieri non furono assolutamente liberati dai partigiani. Anzi, allorché finito l'attacco, il comandante della Brigata Nera si offrì di liberarli, onde sottrarli ad una eventuale rappresaglia tedesca, i prigionieri si rifiutarono di lasciare le celle, fidando che gli squadristi avrebbero testimoniato sulla loro assoluta mancanza di responsabilità in merito all'attacco partigiano. E nessuno, infatti, ha toccato loro un cappello.
I partigiani hanno ucciso due dei nostri camerati modenesi, gli disse ancora Renato, precisamente il residente a San Prospero, Mario Tassi e il mirandolese Giuseppe Gabrielli, ambedue arruolati nella Guardia Nazionale Repubblicana.

Nelle giornate che seguirono il ritorno dall’entusiasmante avvenimento al quale aveva partecipato nel capoluogo lombardo, Giorgio dovette prendere parte ad una serie di serate di pattugliamento, assieme ai camerati Dino Corradi e Vincenzo Artioli, nel centro storico. Le giornate sono freddissime ed ancor più la notte, Modena con l’oscuramento appare in una veste quasi spettrale e poca gente circola per le strade, l’andare di pattuglia comporta rischi non indifferenti, in varie circostanze i “ribelli” nascosti dietro agli angoli delle strade e sotto i portici, negli anfratti più bui, ne approfittano per colpire vigliaccamente alle spalle militari isolati ed anche cittadini che, per qualche ragione, sono costretti ad avventurarsi per la città durante le ore del “coprifuoco”.
E’ questo che si avvicina al Natale, un periodo abbastanza tranquillo, di notte raramente si verificano agguati e attentanti in centro storico, è più pericolosa la periferia e la pattuglia di Giorgio ha ricevuto l’incarico di controllare la zona sud est della città, oltre alle stradine attorno al Duomo e quelle vicine alle carceri di Sant’ Eufemia; in quei giorni il pericolo maggiore per i ragazzi che restavano in servizio notturno era quello del grande freddo e di tanto in tanto si incontravano con altre pattuglie con le quali scambiavano due chiacchere, per poi procedere nei percorsi prestabiliti.
Natale viene festeggiato nelle case modenesi al lume di candela e sono poche le famiglie che riescono a fare un cenone come si era soliti fare qualche anno prima e per i prezzi altissimi di certi prodotti alimentari che si possono trovare solo al mercato nero e per le restrizioni dell’ “oscuramento” che, se da un lato possono sottolineare un certo clima natalizio, non permettono molti spostamenti da una casa all’altra. La tradizione è però talmente sentita che, anche se in forma ridotta, in ogni casa, un certo “festeggiamento” viene messo in atto.
L’anno si chiude con i “botti” regalati alla città di Modena dagli aerei angloamericani che, dopo l’avviso delle sirene che annunciano l’incursione, sganciano alcuni grappoli di bombe che colpiscono il centro della città e distruggono alcuni edifici mentre Piazza Grande ne riceve alcune proprio nel bel mezzo e il Palazzo di Giustizia viene investito da una tempesta di schegge; ma questo bombardamento è uno dei minori che ha subito la città e fortunosamente non si lamentano vittime.
Il nuovo anno inizia con il solito stillicidio di agguati e di attentati e il reparto di Giorgio deve intervenire nella zona di Castelfranco Emilia e precisamente a Panzano, dove due fratelli, di sentimenti fascisti, sono assassinati dai partigiani: Guido Serafini di trentuno anni, e Giovanni Serafini di ventidue anni. Mentre un'altra pattuglia deve accorrere a Villa Freto, in Comune di Modena, dove è stato prelevato dalla propria abitazione, e poi brutalmente assassinato, il milite della Guardia Nazionale Repubblicana, Manicardi Lauro.
Contemporaneamente inizia, su tutto l’Appennino modenese, una vasta azione di rastrellamento effettuata per cercare di debellare l'azione partigiana che aumentava gradualmente d'intensità e che, date le condizioni climatiche poteva raggiungere, secondo i Comandi militari tedeschi e fascisti buone possibilità di successo. La zona viene attaccata, partendo dalla direttrice principale della Via Giardini, su tre grandi linee: da Pievepelago verso Frassinoro, da Lama Mocogno verso Montefiorino e da Serramazzoni su Gombola. Una serie di combattimenti si protrassero per alcuni giorni, in particolare nelle zone di Santa Giulia, San Martino e Frassinoro.
L’ otto Gennaio, al Comando della Brigata Nera, giunge la comunicazione che a Carpi, in Viale Carducci, in un casolare denominato "casa rossa" dove abita una famiglia di contadini, composta da un solo uomo e da tante donne, si è verificato un attacco dei “ribelli”. La più giovane delle donne è fidanzata con un fascista repubblicano. Tanto bastò per essere tacciati, tutti, come spie fasciste e quindi da eliminare. I partigiani, in folto gruppo e ben armati, invasero la casa di notte quando erano tutti a letto.
Le povere vittime vennero portate al pianterreno e falciate a raffiche di mitra. In questo massacro rimasero vittime della violenza: Virginia Morandi di anni sessantadue; Domenica Gatti, di settantasei anni, Annamaria Sacchi, di ventuno anni, era figlia del Sacchi Attilio ucciso a Soliera il 4 Novembre del 1944, Maria Poli di venti anni; Secondo Martinelli di sessantasette anni e Cita Vincenzi, di ottanta anni; quest'ultima signora anziana venne finita nel suo letto con un colpo in bocca, in quanto era paralitica.
Il giorno dopo giunge al Comando della Brigata Nera “Mirko Pistoni”, la notizia di un altro drammatico eccidio portato in territorio del Comune di Modena da una banda di assassini che si fanno chiamare partigiani. A San Damaso, piccola frazione alla periferia della città, viene sterminata un’intera famiglia, quella del veterinario Carlo Pallotti, di quarantasette anni, ucciso assieme alla moglie Maria Pallotti Bertolacelli, ed ai giovani figli: Luciano Pallotti, di quindici anni, e Maria Pallotti, di dodici anni. Così venne redatta, nei giorni successivi dall’ufficio di Giorgio, la ricostruzione dei fatti: erano circa le diciannove e la campagna del modenese, quella sera, era avvolta da una nebbia fittissima.
Il contadino Fernando Vaschieri era intento a puntellare la porta della sua casa con alcune travi. Aveva salutato da poco il Dott. Pallotti, un veterinario di Modena che proprio quella mattina era andato ad abitare al piano di sopra; la famiglia Pallotti era sfollata dalla vicina città in questa casa di campagna. Vaschieri stava quindi per chiudere l'uscio, allorché dovette alzare le mani, minacciato dai mitra di alcuni individui, sbucati dalla nebbia.
Questi individui si avvicinarono sempre più ed entrarono in casa: i loro volti avevano quel beffardo sorriso di chi protegge la propria vigliaccheria puntando un arma da fuoco contro un inerme. “Siamo partigiani” dissero, “abbiamo l'ordine di portare al nostro comando il Dott. Pallotti”.
Vaschieri fù spinto in un angolo, accanto ai suoi familiari ammutoliti dal terrore. I partigiani salirono al piano di sopra dove abitava la famiglia del Dott. Pallotti. Il dottore aveva ottenuto due anguste stanzette, per il fatto che il giorno precedente era stato costretto ad abbandonare la villetta dove era sfollato, in seguito al tentativo di una squadra gappista di sfondare la porta.
In quell'occasione i partigiani comunisti avevano preso a sparare sulle finestre e la figlia del dottore, Maria Luisa di dodici anni, s'era messa a letto “spaventatissima”, con una febbre da cavallo. L'altro figliolo, Luciano, s'era dimostrato più coraggioso, ma aveva chiamato il babbo in segreto, gli disse che aveva molta paura e che, per il bene di tutti, sarebbe stato meglio trasferirsi altrove. Il veterinario allora aveva chiesto al Vaschieri due stanzette.
Salendo su per una scaletta, i tre armati raggiunsero lestamente il piano superiore. Vaschieri intese il grido della bambina ed il pianto disperato del ragazzo. Poi un grido di donna: vi fu un tramestio, come di seggiole violentemente sbattute e un tizio, rimasto di guardia alla porta, ad un tratto corse di sopra. Si udì allora un ordine secco seguito da alcune raffiche di mitra. Poi più nulla. Carlo Pallotti, sua moglie e i due bambini, giacevano riversi sul pavimento di mattoni, unendo i loro rivoli di sangue.
Uno degli assassini si chinò sul corpo crivellato del veterinario; era ancora caldo di vita, il sangue seguitava a uscire a fiotti dalla gola e c'era pericolo che la bella giubba di pelle indossata dal morente si sporcasse. A quel punto l’uomo, prossimo alla fine, fu spogliato e il suo carnefice si rimirò con soddisfazione in uno specchio pendente alla parete. Alla signora Maria furono tolti gli orecchini, l'orologio da polso e le fedi. A Maria Luisa venne strappata una medaglietta della Madonna.
Così terminò l' "azione di guerra".
I “giustizieri” ridiscesero le scale, diedero una voce al Vaschieri, scaricarono ancora i mitra contro una parete:
“non ti muovere fino all'alba. Stattene tranquillo perché hai visto cosa succede ai nostri nemici”.
Fernando Vaschieri si strinse presso i suoi familiari, inebetito, incapace di comprendere ciò che era successo. La fiamma di una candela fissata su una bottiglia cominciò a sussultare perché s'era tutta consumata. Il contadino ebbe il terrore di rimanere al buio: si mosse, cercò una nuova candela, la accese, si rimise nel solito cantuccio. Su di una piccola mensola, una sveglia scandiva gli attimi di interminabile angoscia.
Ma ad un tratto il Vaschieri udì un lamento: era una voce fioca che proveniva dal piano di sopra. Non c'erano dubbi: era la voce di Maria Luisa. Si trattava di un pianto sommesso, rotto a tratti da una invocazione straziante:
"papà, mamma, perchè non rispondete? Anche voi avete tanto male. Ed allora perché non vieni tu, Gesù ad aiutarmi?".
Vaschieri guardò l'orologio alla parete.
“Era trascorsa appena un ora dalla strage. La bimba di sopra chiamava, la voce era sempre più fioca:
“Gesù perchè non vieni?”
C'era da accorrere presso la bimba, ma il contadino non aveva un cuor di leone e non volle disobbedire agli ordini dei carnefici. Non ebbe nemmeno il coraggio di affrontare il pericolo del coprifuoco per correre poco distante, chiamare aiuto, cercare un medico per la povera Maria Luisa:
“tanto è destinata a morire” si scusò con se stesso. E non si scosse nemmeno quando, all'alba, la piccina cessò di invocare Gesù.

Giorgio rimase profondamente colpito da questo crimine efferato che è andato a colpire un padre di famiglia che aveva sì sentimenti fascisti, ma che non aveva mai fatto del male a chicchessia e tanto meno i suoi due giovani figli e la sua sposa.
Ancora il giorno seguente Giorgio dovette recarsi, assieme ai camerati della Brigata Nera di Carpi, per cercare di sapere notizie relativamente ad altre uccisioni di donne, totalmente innocenti ed estranee ad ogni attività politica, in quella zona; a Gargallo, frazione in Comune di Carpi, è stata violentemente soppressa la giovane ventunenne, Evalda Maini; sulla base delle indagini effettuate, così venne stilata la relazione relativa a questo ennesimo e gratuito omicidio.
In un fondo del mezzadro Stermieri, a Gargallo, la sera del 20 Gennaio, un contadino del luogo vede, vicino a casa, un giovane che trascinava una ragazza tenendola saldamente per un braccio. La ragazza piangeva e puntava i piedi. Il contadino per prudenza, tirò via; arrivò poi un altro individuo armato che ordinò al contadino di abbandonare immediatamente la casa.
Il contadino non se lo fece dire due volte. Insieme a tutta la famiglia andò a rifugiarsi presso un fratello che abitava a qualche chilometro. Quando ritornò a casa, il giorno dopo, non trovò più nessuno. Ma nelle stanze c'erano i segni di una baldoria notturna.
Non è difficile immaginare ciò che accadde quella notte nella casa colonica. Due, o più individui, sconosciuti, si ubriacarono con il vino dei contadini, usarono violenza alla ragazza prelevata poche ore prima, poi la uccisero e la seppellirono nuda dove è stato ritrovato il cadavere.
E’ sufficiente, per questi bastardi, che una donna sia figlia, o sorella, o fidanzata di un fascista, che questa può essere prelevata, con la minaccia delle armi, strappata dal letto, trascinata via seminuda portata in mezzo a un campo, o in una stalla, sottoposta ad ogni sorta di oltraggi e poi uccisa con una raffica di mitra e sepolta nuda lungo un filare.
Il giorno dopo i “partigiani” si accaniscono contro un'altra giovane donna e il suo genitore; questa volta in un piccolo centro della zona pedemontana; a Castelnuovo Rangone, vengono prelevati dalla loro abitazione ed uccisi, padre e figlia, il primo di cinquantadue anni la seconda di ventitré anni: Giuseppe Gozzi, e Ines Gozzi.
Ines è una laureanda in legge, ed è sfollata a Castelnuovo Rangone con la famiglia, proveniente da Modena; la giovane aveva trovato un lavoro come interprete presso il Comando tedesco del posto. Si prodigò per la popolazione in tante circostanze e quando, nel mese di Novembre, vennero uccisi due soldati tedeschi, con il suo intervento, riuscì ad evitare una spietata rappresaglia, che i tedeschi volevano mettere in atto attraverso la fucilazione di numerosi ostaggi e con l'incendio di molte case del paese.
Per questo suo intervento venne soprannominata: "la salvatrice". Era fidanzata con un Ufficiale fascista. I partigiani l’hanno prelevata nel pomeriggio, assieme al padre, portata in aperta campagna, dove è stata violentata sotto gli occhi del genitore. Poi i due furono finiti con un colpo di pistola alla nuca ed i cadaveri gettati in un pozzo nero.

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In questi giorni gli agguati e le imboscate contro fascisti e tedeschi non si contano più; a Bomporto viene assassinato il milite della Guardia Nazionale Repubblicana: Dante Astolfi; mentre a Maranello i partigiani prelevano e poi uccidono, il fascista: Telemaco Caselli.
A Carpi, in un agguato, teso dai partigiani di quelle zone, vengono catturati e poi trucidati, un gruppo di soldati tedeschi e fascisti: i militi della Brigata Nera uccisi dai partigiani sono: Neldo Furoni, Alcide Gavioli, e Dante Turchi.
E’ il 24 Gennaio e ancora presso Gargallo, un reparto partigiano apre il fuoco su tedeschi e fascisti di scorta ad una colonna di bestiame requisito, fanno prigionieri tre fascisti e due tedeschi, inoltre attaccano, subito dopo, un auto con a bordo delle SS, che rispondono al fuoco e feriscono mortalmente il partigiano Enzo Benetti, ma alla fine anche una SS è catturata, mentre un altra riesce a fuggire.
Tutti i prigionieri vengono passati per le armi dai “partigiani” e lasciati sulla strada davanti a un casolare distrutto. Al corpo dei fucilati fu appeso, dai “ribelli”, un cartello con la scritta: "Basta con il terrore! Basta con i soprusi! Basta con le deportazioni!”
A seguito di tutte queste uccisioni vengono effettuate una serie di rappresaglie in alcune località, e precisamente a Cavezzo dove sono fucilati: Ezio Pavan e Ezio Sommacal; a Soliera: con la fucilazione di Gino Ferrarini; mentre a Quartirolo di Carpi reparti tedeschi e fascisti effettuano una delle più spietate rappresaglie avvenute nella Provincia modenese. Trentuno partigiani furono fucilati alla "svolta Cattania".
Di un ulteriore episodio, di soppressione di un fascista, si dovette interessare Giorgio, quando gli venne comunicato di recarsi a San Giacomo di Bastiglia per accertamenti circa l’esecuzione da parte, si suppone, di una banda di “ribelli”, di Saverio Cavazzuti, Capitano della Milizia Forestale, avvenuta domenica 28 Gennaio.
Il dott. Cavazzuti aveva cinquantadue anni, ed era laureato in Agraria; si iscrive alla RSI dalla sua costituzione. Andava affermando, apertamente, a voce e per iscritto le sue idee di fermo attaccamento all'onore della Patria e di avversione ai partigiani.
Rimanendo sempre fervidamente cattolico, si stacca, per questo, da parenti ed amici tiepidi e temporeggiatori. Era stato assalito in casa, una prima volta, dai ribelli e, messo al muro, si dimostra impavido davanti alla morte, rifiuta di supplicare, dicendosi lieto di offrirsi per la Patria e di salire a Dio. Viene rilasciato, ma non abbandona per questo, nè il suo servizio, nè la città.
In quella Domenica di fine Gennaio, mentre percorreva in bicicletta, solo e disarmato, con la strada coperta di neve che conduce da Bastiglia a Modena, viene fermato dai partigiani comunisti che lo conducono con loro. Pare sia stato tenuto vivo una notte e che abbia dichiarato "sono cattolico e fascista", verso l'alba venne condotto a morte. In che modo non è stato appurato. La vedova non vuole nessuna rappresaglia.
Un altra testimonianza conferma che il Capitano Cavazzuti venne fermato da due persone di Bastiglia, poi portato in giro per arrivare ad una casa che si trova tra Bastiglia ed Albareto, poco dopo San Matteo, prima del Cantone, tra la strada Provinciale e il Naviglio. C'è là una casa con una tettoia, o si chiama tettoia la casa stessa, isolata. In questa località sembra che una donna abbia visto arrivare un gruppetto di uomini, tra i quali il dott. Cavazzuti; poi li vide uscire e Saverio era in mutande e maglia. Al chè la donna disse, in dialetto:
"Ma cum as fà a purter via un cristian in c'la manera lè?", (ma come è possibile portare via un uomo in quelle condizioni?), le venne risposto, sempre in dialetto:
"ma al gà da fer poca streda" (ma deve fare poca strada).
“Non vi sono, al momento, elementi che possano permettere il recupero del corpo”, così dovette scrivere Giorgio nella sua relazione.

L’umore di Giorgio, dopo quella serie di orrendi delitti, dei quali aveva dovuto prendere diretta conoscenza per ragioni d’ufficio, era andato a finire, “sotto la suola delle scarpe”. Lui che era sempre stato di carattere allegro e buontempone, pronto alla battuta salace, allo scherzo con amici e commilitoni, portato alla buona barzelletta, insomma il classico “compagnone” attraversava in questo periodo momenti misti di rabbia e di scoramento, che lo rendevano sempre più triste e poco disponibile al superamento della situazione in cui tutti si trovavano; era stato preparato psicologicamente alla guerra e alle brutture che questa comporta, però le uccisioni di tanti innocenti, compiute da italiani su dei loro fratelli, in particolare poi gli accanimenti contro le donne indifese e contro ragazzini e bambini che non hanno nessuna colpa se non di esistere e di essere figli di persone invise od odiate da questi assassini, lo lasciavano totalmente demoralizzato e, nello stesso tempo, gli mettevano addosso un desiderio quasi morboso di rendere “pan per focaccia”.
Si rendeva conto, a quel punto, che la battaglia nella quale ancora credevano tanti suoi camerati, si stava perdendo o era già completamente perduta. Era sempre più convinto che i suoi connazionali che, come Giorgio, avevano fortemente creduto nel fascismo, nelle sue idee e nel suo “capo”, compresi tutti coloro che lo avevano “portato per mano” fino a quando le cose andavano bene, si erano poi rivelati, nella stragrande maggioranza, dei pavidi, dei traditori, gente senza onore. Erano stati, letteralmente, “presi per i fondelli”. A cominciare dalle alte cariche dello stato per arrivare sino all’ultimo fantaccino di un esercito che si era dissolto in un attimo, malgrado fosse composto da “otto milioni di baionette” (fasulle), pronte a sacrificarsi per “gli alti destini della Patria” attraverso tutta quella pletora di gerarchi e di “gerarchetti” che, dopo essersi pavoneggiati in uniformi e atteggiamenti militareschi da “operetta”, alle prime vere difficoltà e al primo fischio di pallottola reale e non come quelle delle “esercitazioni premilitari”, se la sono squagliata e “se la sono fatta sotto”: Avevano così lasciato spazio a quella esigua minoranza che, ben indottrinata e abituata a colpire alle spalle e poi a nascondersi, lasciavano causassero che le conseguenze drammatiche delle loro “azioni vigliacche”, cascassero addosso alle innocenti popolazioni, attraverso un orchestrazione degli attentati e degli agguati scatenati per creare ritorsioni e rappresaglie che scavano sempre più l’odio tra la gente.
Ma nello stesso tempo, e “obtorto collo”, almeno questi “signori” hanno il “coraggio” delle loro azioni (nefaste) e sono, di conseguenza, disposti all’ “estremo sacrificio” della “propria pelle”, come quella parte più “ideologizzata” dei “ribelli”, i comunisti, che sanno bene i rischi che corrono, perché, se noi li catturiamo, per loro non vi è scampo. Per questo, anche se sono nostri acerrimi nemici, a loro và portata maggiore considerazione rispetto a tutti coloro che si nascondono, “tremebondi” e paurosi, senza alcuna dignità pronti a sfruttare a loro vantaggio la situazione, non appena le armi smetteranno di funzionare.
Quante “balle” gli hanno raccontato questi “invertebrati” che adesso, o nascosti dietro ad una siepe e pronti a sparare, o nascosti nelle sagrestie, o nelle cantine e nei granai delle case, sono in “trepida” attesa dei “nemici – amici” che, tra l’altro, li stanno massacrando, indiscriminatamente, anche loro con i bombardamenti terroristici.
Certo che a Giorgio non verrebbe mai in mente di fuggire, di disertare, dato che la sua è stata una scelta ponderata e senza tentennamenti. Diversamente è successo ad alcuni coetanei arruolati nei corpi più svariati dell’esercito repubblicano quali, la Guardia Nazionale, la Decima Mas, o reclutati in una delle quattro divisioni che hanno fatto il loro addestramento in Germania, oltre ad essere stati armati ed equipaggiati dagli alleati tedeschi, ed anche alcuni che sono entrarti nelle Brigate Nere, poi hanno gettato, la divisa e le armi, “alle ortiche” e si sono rifugiati presso qualche banda ribelle, oppure sono tornati a nascondersi tra “le braccia della mamma”. Alcuni di questi sono stati catturati e “passati per le armi” per diserzione, come prevedono le leggi di guerra in tutti i paesi del mondo.
Più ci ragionava sopra, meno risposte riusciva a trovare e, a volte, pur non amandoli troppo, riusciva a comprendere meglio i soldati tedeschi, ed anche ad ammirarli, per la loro sicurezza e per la loro “rigida e tetragona” mentalità che li portava alle estreme conseguenza una volta compiuta una scelta e che, particolarmente sui campi di battaglia, si differenziavano dagli italiani. I nostri comportamenti, complessivamente, non ci hanno mai fatto distinguere, nel mondo, come dei validi combattenti, a parte pochi scelti reparti.
Certamente, e spesso ne discuteva con i camerati del suo reparto, la loro situazione diventava ogni giorno più difficile e le prospettive di un definitivo cedimento delle forze dell’Asse, si avvicinavano sempre di più. Durante il mese di Febbraio, si iniziarono ad avvertire le avvisaglie di un prossimo, consistente attacco; il nemico stava riprendendo e massicciamente, i pesanti bombardamenti terroristici su tutto il Nord e in queste giornate cominciano ad essere battute le retrovie del fronte e in particolare tutto il modenese dove, sia la zona montana, sia quella collinare, vengono costantemente tenute sotto la pressione di micidiali bombardamenti aerei e molti paesini dell’ Appennino, furono presi di mira risultando completamente devastati anche da micidiali cannoneggiamenti da terra.

In questi giorni Giorgio si incontrò con un camerata che era da poco tornato dalla Germania dove si era trovato, al seguito di un giornalista e di un sindacalista, nelle vicinanze di Dresda dove era residente un nutrito gruppo di italiani, tra i quali molti modenesi, operai e contadini, che si erano recati, già da parecchi mesi, come volontari, a lavorare in quel territorio e che gli raccontò, con abbondanza di particolari, cosa successe su quella città, il giorno di Martedì grasso, 13 Febbraio.
“Ti devo raccontare, Giorgio, questa storia, perché, a parte l’orrore che mi sono trovato davanti agli occhi, ho potuto constatare l’enorme potenza dell’aviazione inglese e americana che, giornalmente, riesce a mandare in volo, sulla Germania, migliaia e migliaia di giganteschi aerei, chiamati “fortezze volanti”, con dei carichi di bombe inimmaginabili e i tedeschi non riescono ad opporre la benché minima resistenza, a dimostrazione che ormai la guerra è persa, per noi”.
Così esordì l’amico in quella serata, verso la fine del mese di Febbraio, trascorsa a cena a casa di Giorgio durante uno dei rari permessi che riusciva ad ottenere dal suo Comandante.
Il Tenente Franco Baracchi era diventato buon amico di Giorgio sin dai giorni della sua entrata nelle file della Brigata Nera modenese e, per quanto più vecchio di lui di cinque anni, con una buona esperienza in campo militare e giornalistico, era entrato in sintonia con il più giovane, in quanto aveva trovato in questo una maturità difficilmente riscontrabile nei giovanissimi.
Franco, su incarico del Ministro Mezzasoma e per l’interessamento degli ufficiali superiori dell’ organizzazione Todt italiana, che a Modena ha sede sulla Via Nonantolana, in località Crocetta, era stato inserito nella commissione istituita per recarsi in visita in Germania. Questa struttura era una sorta di grande impresa di costruzioni che, inizialmente, operava ed opera ancora nella Germania nazista e in seguito in tutti i paesi europei dove sono presenti le forze armate tedesche, impiegando, fondamentalmente nei lavori di costruzioni di strade, ponti, e altre grandi opere difensive, migliaia di operai, in parte anche prigionieri di guerra ma nella maggioranza volontari, e in realtà anche discretamente pagati.
Molti operai, particolarmente nelle nostre zone, si sono arruolati nella organizzazione della Todt, e per sfuggire ai reclutamenti forzati per le industrie in Germania, ed anche per ottenere uno stipendio molto utile in questi tempi difficili, oltre al tesserino rilasciato dai Comandi tedeschi per poter circolare liberamente laddove questi, causa la presenza di formazioni partigiane, mettevano sulle strade severi posti di controllo alla circolazione.
Molti connazionali e molti modenesi prestavano la loro opera in Italia, ma molti erano andati anche volontari in Germania, sia nell’industria, sia nelle comunità agricole tedesche dove parecchi contadini modenesi, di Serramazzoni e di Maranello erano presenti, malgrado la situazione difficile di quelle contrade, ma dove si trovavano particolarmente bene, a quanto hanno riferito alcuni di loro ritornati da quelle zone.
Il Ministero aveva voluto inviare, secondo accordi presi precedentemente, una commissione di esperti della Repubblica Sociale a far visita ai connazionali e controllarne le loro condizioni. Dopo un viaggio piuttosto rocambolesco e pieno di difficoltà, il gruppetto di tecnici italiani, dei quali era stato chiamato a farne parte anche il Tenente Franco Baracchi, era riuscito ad arrivare, alla fine del Mese di Gennaio, nella zona attorno a Dresda dove erano sistemati, in varie fattorie della zona, i nostri connazionali, compresi un buon numero di modenesi.
La maggioranza di questi era sistemata nelle vicinanze di un piccolo centro rurale, Niederau, in Sassonia, a circa trenta chilometri di distanza dalla bella, grande ed importante città, Dresda, situata sul fiume Elba, e a soli sei, dal grazioso centro di Meissen, cittadina di poco più di ventimila abitanti, denominata anche “culla della Sassonia”, centro assai importante per la produzione di pregiatissime porcellane artistiche, dominata dallo splendido Castello di Albrechtsburg, e sede di una bella cattedrale gotica.
“Eravamo sistemati anche noi presso dei privati che, malgrado le grosse difficoltà che avevano nel procurarsi un po’ di cibo, riuscirono ugualmente a farci ottenere il puro necessario per la sopravvivenza, a base di tante “kartofen”, e crauti che abbiamo mangiato in abbondanza.”
Così iniziò il suo racconto Franco, seduto davanti al desco, discretamente imbandito dalla mamma di Giorgio, composto da alcuni prodotti tradizionali modenesi ai quali fece una gran festa, compresa la buona bottiglia di lambrusco che gli sciolse ancor più la lingua a vantaggio del suo racconto, specialmente dopo i “quasi digiuni” in terra germanica.
“Abbiamo trovato bene i nostri connazionali, anzi alcuni erano addirittura entusiasti perché, in particolare quelli addetti ai lavori dei campi, non soffrivano la fame, come invece capitava a milioni di tedeschi, in più, data la scarsità di uomini locali, quasi tutti impegnati sui vari fronti europei, le relazioni con le ragazze tedesche erano abbastanza facilitate.”
Giorgio e il papà si guardarono con un sorriso di compiacimento, mentre mamma Mirella, anche lei sorridente, accennò, con la mano, a un bonario scappellotto verso Franco.
“Abbiamo avuto la possibilità di muoverci con una certa autonomia, anche se, purtroppo, vi sono notevoli difficoltà negli spostamenti, oltretutto nella zona di Dresda e dintorni si era verificato, in questi ultimi tempi, un afflusso incredibile di gente proveniente da tante altre città in seguito ai bombardamenti, praticamente giornalieri, su tutto il territorio, mentre sembrava che questa città d’arte, ricca di storia, di splendidi monumenti, potesse restare indenne dalla furia devastatrice degli aerei angloamericani.
Pensate che prima dell’avanzata dei russi, provenienti da est, la città contava circa seicento trentamila abitanti e, man mano che le truppe sovietiche avanzavano in territorio tedesco, i rifugiati dai territori invasi hanno portato la “Firenze del Nord” a più che raddoppiare la popolazione. La quasi totalità di questi profughi è composta da persone anziane, donne, bambini, malati, feriti, prigionieri di guerra che, praticamente, hanno occupato ogni minimo spazio ed il problema alimentare, per questa massa di disperati, è di una tragicità impressionante.
Avevamo sentito parlare di un devastante bombardamento sulla città di Amburgo avvenuto in quella città portuale, con un numero altissimo di morti, e di altri terrificanti bombardamenti su tante città tedesche, ma il clima di Dresda era, nei giorni in cui noi siamo arrivati, abbastanza sereno. Si sentiva, nell’aria, da parte di questa massa di cittadini disperati il desiderio di passare una giornata allegra e serena per la festa di Martedì grasso del 13 Febbraio. Siamo andati, pochi giorni dopo il nostro arrivo, a fare una breve visita a questa splendida città adagiata sulle sponde del fiume Elba.
Il piccolo gruppo era accompagnato da un connazionale, certo Giovanni Soldati, bolognese, da tempo residente in quei territori, il quale seguiva gli italiani recatisi in Germania a lavorare nelle varie fattorie dislocate attorno a Niedernau, oltre ad una ventina di operai che si erano inseriti in alcune piccole industrie della zona, in qualità di tecnici specializzati, si prestò a farci da guida.
Siamo arrivati abbastanza presto a Dresda e già si notava una notevole presenza di persone per le strade. L’amico bolognese ci spiegò che la città, costruita inizialmente sulla riva sinistra del fiume Elba, era nota già nel dodicesimo secolo e fu fondata dai margravi della vicina Meissen, signori della Sassonia; due secoli dopo questi ne fecero la loro sede e Dresda diventò ricca e potente, tanto da essere tra le maggiori città del Terzo Reich come numero di abitanti, attraverso, principalmente, l’industria dei panni e delle porcellane.
Abbiamo visitato, solo dall’esterno, il Teatro dell’Opera, costruito in uno splendo stile del barocco italiano, poi siamo passati a vedere alcuni palazzi sede di importanti Musei, chiusi in quei giorni oltre a tante bellissime chiese, costruite per merito di un gruppo eccezionale di architetti che, tra il Seicento e l’Ottocento, hanno realizzato, sulle due rive dell’Elba, un complesso scenografico di edifici religiosi e civili, con delle superbe realizzazioni che ci hanno lasciato letteralmente stupiti per la armonia e la bellezza delle forme di uno splendido rococò europeo e di un raffinato barocco.
Opere come lo Zwinger, la Chiesa dei Re Magi, il Palazzo giapponese, i palazzi Taschenberg, Bruhl e tanti altri, li abbiamo trovati di una eleganza fuori dal comune. Così come alla periferia della città ci sono apparse altre stupende costruzioni, come i castelli e i parchi di Pillnitz, di Moritburg e il Gross-Sedlitz. Sempre in quei tempi, era stata istituita a Dresda la prima manifattura europea della porcellana.
Abbiamo girato tutto il giorno per questa città straordinaria, che attualmente è stata occupata da centinaia di migliaia di persone sfollate dai territori dell’est, invasi dalle truppe russe che stanno portando il terrore nei territori che man mano si prendono e qui, noi, sentiamo e vediamo, in modo drammatico, la disperazione che attanaglia i tedeschi che ormai sentono la fine vicina e nessuna speranza di ribaltare le sorti della guerra, che tutti avvertono già perduta.
Siamo rientrati, stanchissimi, nel tardo pomeriggio, ai nostri alloggiamenti contenti di aver visitato questa bella città ma nello stesso tempo avviliti nel vedere e nel sentire che la situazione della “Grande Germania” è ormai disperata. Ugualmente, parlando con i nostri connazionali ed anche con alcuni tedeschi, tutti si trovano d’accordo nel sostenere che Dresda difficilmente potrà essere bombardata dato che, trovandosi quasi al confine con la Cecoslovacchia è molto lontana dagli aeroporti da dove partono le formazioni anglo americane, e che ben difficilmente, potranno raggiungerla, inoltre, non vi erano in zona particolari insediamenti di industrie belliche o grossi impianti industriali.
Tutti, residenti e sfollati, cercavano di avvicinarsi sereni ai pochi festeggiamenti del Martedì grasso che erano stati previsti, malgrado le scarse disponibilità di quei giorni, avevano ugualmente portato i bambini a vestire gli abiti del carnevale, maschere colorate e “costumini” di varia foggia, quando, la sera del giorno 13, alle ore 22,13, contrariamente a tutte le previsioni, arrivarono sulla città centinaia di bombardieri “Lancaster” che, guidati da migliaia di bengala lanciati a illuminare gli antichi tetti dei tempi di Lutero, indifesi da un inesistente contraerea; oltretutto nessun aereo tedesco ebbe la possibilità di alzarsi in volo per contrastare la valanga di aerei stracarichi di bombe, questi ebbero facilitato l’ingrato compito di effettuare, in tutta tranquillità, quell’ennesimo bombardamento terroristico. Il Teatro dell’Opera, ed altri teatri della città avevano ancora in atto rappresentazioni teatrali, i treni nella stazione erano strapieni di gente.
Cominciammo a sentire i primi boati, sebbene ci trovassimo a parecchi chilometri di distanza e si iniziarono a vedere i bagliori delle prime esplosioni; ci stavamo rendendo conto dell’imponenza di quell’attacco aereo e del dramma che stavano vivendo migliaia di tedeschi sotto quella pioggia infernale di bombe: arrivarono, via via, altre ondate di aerei che, sempre a centinaia, prima con le bombe dirompenti, poi con le bombe incendiarie, misero veramente a ferro e fuoco la città di Dresda.
Imparammo, al mattino, eravamo rimasti svegli praticamente tutta la notte, da alcuni che erano riusciti a scappare da quell’inferno e a rifugiarsi nel paesino dove ci trovavamo, di scene raccapriccianti, di migliaia e migliaia di morti, di un vero e proprio macello, con automezzi dei pompieri e di soccorritori che giungevano in aiuto dalle città vicine, inceneriti dalle ondate successive.
Ovunque corpi, carbonizzati, triturati, spezzettati, masse irriconoscibili, miseri mucchietti di ossa e di cenere. Le esplosioni, gli incendi che arroventavano l’aria, avevano provocato un uragano di fuoco e la carenza di ossigeno aveva costretto centinaia di persone a gettarsi nelle gelide acque dell’Elba o nei canali, dove invece trovavano, ad incenerirli, fiumi di fosforo incendiario che colava dalle strade.
Ed è stato un continuo per tutta la notte e ancora il giorno dopo, a mezzogiorno e un quarto, arrivò un'altra ondata di ferro e di fuoco da parte di centinaia di aerei che completarono la gigantesca opera di distruzione e, a seguirli, si gettarono a bassissima quota, altri aerei della scorta, i caccia “Mustang”, a mitragliare e spezzonare la popolazione terrorizzata che fuggiva, in colonne interminabili, e questi “eroici” piloti americani giocavano alla caccia all’uomo, passando e ripassando sulla devastazione di una città, praticamente “rasa a zero”.
L’impressione fu enorme; a noi italiani ci fu chiesto di allontanarci rapidamente dalla zona, e rapidamente, dopo aver salutato i nostri connazionali salimmo sulle nostre due auto con le quali eravamo giunti dall’Italia; cercando strade di non grande traffico; ci siamo diretti verso sud, raggiungendo Bayeruth e Norimberga; due giorni dopo aver attraversato Monaco di Baviera, siamo arrivati al confine e, dal Brennero, siamo riusciti a raggiungere Modena senza grossi intoppi, solamente con qualche difficoltà nel trovare il carburante che, sia in Germania sia in Italia è molto difficile scovare e per questo, in tante circostanze, abbiamo dovuto fare deviazioni non indifferenti, recandoci presso i nostri comandi, onde avere le giuste autorizzazioni, per poter proseguire il viaggio con una certa sicurezza, nelle varie zone attraversate.”

Il padre di Giorgio era rimasto molto colpito dal racconto del Tenente e gli chiese dei pericoli corsi in quel avventuroso viaggio, ebbe da Franco la risposta:
“mentre in Germania il grosso pericolo sono i bombardamenti, pertanto abbiamo sempre cercato di evitare i grossi centri abitati, in Italia bisogna pur sempre stare attenti alle incursioni aeree dei caccia isolati che sono alla ricerca esasperata di ogni cosa che si muove, ma in più si corre il rischio di fare, per le strade, brutti incontri di pattuglie partigiane che, se ti “beccano” puoi star certo che la tua fine è segnata, e non sempre, nei vari comandi dove ci siamo fermati, vi è stata la possibilità di trovare qualche reparto disposto a farci da scorta.”
Al termine della cena, i due militi, dopo aver ringraziato e salutato i genitori di Giorgio, si congedarono per ritornare in Caserma, da dove l’amico Tenente si sarebbe preparato per trasferirsi alla “Brigata Nera Mobile A. Pappalardo” che, sino a quei giorni, era stata comandata dal modenese, dott. Franz Pagliani, per avere compiti di collegamento con gli altri reparti dislocati nella regione.
Questa Brigata era la terza, delle cinque costituitesi nel mese di Luglio, ad essere chiamate “mobili”, dato che hanno la possibilità di muoversi sul territorio con maggiori opportunità di manovra, rispetto alle formazioni territoriali: ha sede a Bologna e si sposta frequentemente, in particolare nelle zone del modenese e del parmense. Ha preso il nome del Capitano della Guardia Nazionale Repubblicana, Attilio Pappalardo ucciso a Bologna in località Ponte Ronca, da “gappisti” bolognesi, il 6 Settembre 1944.
 

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La notte tra il 27 e il 28 Febbraio, erano circa le 21, la squadra di Giorgio fu urgentemente inviata nella vicina Via Prampolini dove l’odioso bombardiere notturno, “Pippo” aveva lasciato cadere le sue micidiali bombe. Stava transitando, sui viali del parco cittadino, una colonna di tedeschi composta da camion e da molti carri ippotrainati; sentendo il rumore di un aereo il comandante del convoglio ordina alle truppe di mimetizzarsi sotto gli alberi.
Alcune bombe arrivano su quei soldati e sui cavalli che rimangono a terra in buon numero, ma vengono centrate anche molte case della vicina Via Prampolini. Giorgio e la sua compagnia sono sul posto pochi minuti dopo le deflagrazioni; il caos è incredibile, cavalli e muli che scappano come impazziti, in tutte le direzioni, i soldati tedeschi che soccorrono i loro commilitoni e compongono i resti dei morti.
Dalle case Menziani e Allesina giungono urla strazianti dei civili colpiti dalle schegge delle bombe cadute nel giardino di casa Menziani attiguo a quello della famiglia del prof. Giovanni Allesina, chè è il Preside della Scuola Media Carducci, ed è composta dalla moglie, Teresa Tavernari e da quattro figli, Maria Allesina, insegnante di 28 anni, Mario Allesina, un geometra di 24 anni che presta servizio all’Unpa, Angiolo Allesina, di 23 anni, che ha fatto la guerra nei ranghi della Marina Militare Italiana col grado di Tenente di Vascello e dal più giovane, Luca Allesina, di 21 anni che, in quell’orario, non era in casa perché era andato dalla fidanzata Iole che abitava nella vicina Via Vedriani, con loro abita anche il cane “Lampo” che “sente” l’arrivo degli aerei ancor prima delle sirene.
Pure quella sera avvisa il padrone con guaiti e mugolii, prima dell’arrivo delle bombe; le schegge devastano gli interni della villetta. Quando arrivano i soccorsi, militi dell’Unpa, vigili del fuoco e i militi della brigata nera di Giorgio, assieme alle autoambulanze, si trovano di fronte ai corpi di tutta la famiglia, colpiti dalle schegge delle bombe e, anche il cane Lampo giace a terra con il ventre squarciato.
Tutti vengono rapidamente trasportati all’Ospedale Sant’ Agostino, ma per il capo famiglia, il Preside Giovanni Allesina non vi sarà nessuna possibilità di salvarsi, difatti muore alcune ore dopo sotto i ferri dei Professori Montanari e Gibertini, che hanno operato tutti i componenti della famiglia oltre ad altri gravemente feriti come, le ragazze: Elide Morselli di 19 anni, Delia Monzani di ventuno anni, di Adriana Bolognini di ventinove anni, che porteranno per sempre, nelle loro carni il ricordo delle schegge della bomba lanciata dall’ “eroico” pilota americano: muoiono invece, Carla Monzani di venti anni, abitante nella villetta a fianco degli Allesina e il militare Celestino Seghedoni di ventotto anni.
Alcuni giorni prima, il 24 Febbraio, la compagnia di Giorgio si recò urgentemente a Concordia in quanto era arrivata comunicazione, in Via Canalino, che i partigiani, di quella località, ad una trentina di chilometri da Modena, si erano portati all’attacco della Caserma della Brigata Nera di quel centro. Arrivarono alla periferia di Concordia che si sentivano ancora raffiche di mitra, ma quando giunsero sul posto non vi era più “ombra” di partigiani.
I circa trenta “brigatisti neri” si erano difesi egregiamente ed energicamente da quell’attacco, portato da notevoli forze di “bande ribelli” che tennero sotto scacco, i militi per oltre un ora, ma questi riuscirono a metterli in fuga. Quando arrivarono i modenesi era tutto finito, solamente due militi erano rimasti leggermente feriti, mentre i partigiani dovettero trascinarsi dietro morti e feriti, ma non si seppe quanti.
I primi giorni del mese di Marzo vedono una tragica successione di uccisioni di militi e civili fascisti che fanno scattare l’ira dei comandi i quali ordinano, per il giorno 9, una feroce rappresaglia al Ponte di Navicello, sul fiume Panaro, località alla periferia della città. Erano stati uccisi, solamente in Comune di Modena, in quei giorni, più di una decina di militi, oltre alla feroce esecuzione, in Comune di Cavezzo, di una bella ragazza di soli diciotto anni, uccisa con la “drammatica accusa” di essere figlia di un “fascista della prima ora”, in più “legionario fiumano”, la ragazza si chiamava, Maria Grazia Nivet.
Giorgio era a letto, influenzato da due giorni, così evitò di prendere parte al plotone di esecuzione degli undici partigiani, uccisi anche da suoi commilitoni, che furono costretti dai loro comandanti ad entrare nel gruppo dei “fucilatori”. Questo era uno dei problemi che assillava Giorgio e parecchi dei suoi camerati; tutti si rendevano conto che le rappresaglie, in quel clima, avevano una loro giustificazione, i ribelli non ci andavano tanto “per il sottile” nell’uccidere, in imboscate ed attentati i militi della Brigata Nera e raramente si trovarono, come successe a Concordia, ad affrontare in veri combattimenti i militi fascisti, loro si nascondevano, in abiti borghesi, dietro a una siepe o dietro a una colonna e uccidevano senza pietà per camuffarsi poi in mezzo alla gente; ma mettersi a sparare contro uomini schierati, impotenti, contro un muro era una di quelle cose che Giorgio non riusciva a “mandar giù”. Sino a quei giorni lo aveva sempre evitato, ma se gli venisse imposto? Come si comporterebbe, quali reazioni potrebbe avere? Sperava di non poterci mai arrivare, ormai negli scontri che alcune volte si erano verificati durante i rastrellamenti, raffiche di mitra ne aveva sparate senza essere mai venuto a sapere se avesse ucciso qualcuno, ma sin lì ci stava, la fucilazione “nò”.

Ci fu, pochi giorni dopo, un fatto che lo fece riflettere e quasi fare ”marcia indietro” sulle riflessioni relative ai plotoni di esecuzione: il giorno 16 arrivò in caserma “Galluppi”, la notizia dell’ennesimo attentato partigiano in città, andarono ad accertarsi con la sua pattuglia in zona Ferrovie Provinciali e si trovarono di fronte tre cadaveri: uno era quello del suo “Capo” all’ufficio Stampa della Brigata Nera; in un lago di sangue giaceva a terra Francesco Bocchi, che mescolava il suo sangue con quello della madre, Italina Marisi Bocchi e con quello del vecchio professore, suo amico, Roberto Ranieri.
Il dott. Bocchi stava ritornando a casa assieme al vecchio amico, a loro incontro stava andando la mamma di Francesco quando, nascosti dietro ad una siepe, alcuni partigiani cominciarono a far sgranare i loro mitra che in pochi istanti misero fine a quelle tre vite. Quando Giorgio e la pattuglia arrivarono, poche persone si trovavano nelle vicinanze, ma a debita distanza dalle vittime: i “brigatisti” quando si accorsero di chi era il corpo dell’unico in camicia nera, rimasero sbigottiti.
Due di loro si precipitarono subito al comando per avvisare i loro superiori mentre gli altri fecero una breve perlustrazione nei dintorni facendo alcune domande ai pochi presenti, che ovviamente, non avevano visto niente. Era già verso sera, e da lì a poco sarebbe scattato il “coprifuoco”, la gente in giro era rarissima e a sentire crepitare i mitra quei pochi vanno il più lontano possibile: Bocchi era un personaggio di spicco nel fascismo modenese, era stato Segretario del Fascio a Montefiorino, centro dove si trovava anche il comando partigiano e dove svolgeva la professione di Direttore Didattico nelle scuole di quel paese, si trovò poi a Modena nel ruolo di Vice Federale.
Due giorni dopo si svolsero i solenni funerali con la partecipazione di una folta rappresentanza della Brigata Nera “Mirko Pistoni” e con la presenza, naturalmente, del milite Giorgio Campari e della sua pattuglia. Si disse che in questa circostanza, cosa che non avvenne, se ci fosse stata la rappresaglia, con tutta probabilità anche lui avrebbe preso parte al plotone d’esecuzione.
Il Federale di Modena, in occasione della scomparsa del suo “vice”, gli dedicò questo testo:

"Come la sinfonia in si minore opera 9 di Schubert è l'opera di Bocchi. Incompiuta. Troncata nel punto di maggiore ascesa....A diciassette anni era ardentissimo squadrista e creava le sue prime opere poetiche il lingua italiana e latina. Lavorava e studiava ma non era divenuto nel suo grande sopralavoro un vinto dei libri. Sapeva essere armonioso in tutte le sue manifestazioni ma sempre ardito come nella penna così nello spirito attivo.....(omissis)...Bocchi era il puro, era il buono: tutto aveva dato alla Patria e nulla aveva chiesto. Viveva di infiniti stenti.....Portato dal suo lavoro di Direttore Didattico, viveva con la sposa e la piccola Bianca Maria nella Rocca di Montefiorino. Ma Montefiorino era la sede del comando partigiano ed Egli, Segretario del Fascio Repubblicano si trovò nel campo di battaglia più infido e più minato, dove gli agguati partigiani provocarono le più cruente e devastatrici rappresaglie tedesche. Ed egli un giorno dovette scendere a Modena potendo portare con sè una sola cosa: la fede. Cominciò a vivere di stenti ma, con addosso la camicia nera, si consegnò subito al servizio del partito. Colgo dal suo libro "Niche" un suo epitaffio:
L'olocausto della Camicia Nera: - Divampò nell'ardor de la mia nera fiamma la vita che in beltà si estinse."

Il Vice federale di Modena, che si dilettava di poesia, ne aveva scritta una poca prima di morire e l’aveva consegnata all’allievo prediletto. Giorgio l’aveva conservata con cura e appena ebbe occasione di passare da casa, mise tra le sue carte quella poesia che così recitava:

ESORTAZIONE
Ogni tuo lembo, o Patria, che strappato
sia da la rabbia del nemico insulto,
ogni tuo grido alle ferite inferte
dai tuoi figli a la carne di lor carne,
patria, m'è strazio e dilaniante doglia,
quasi sia la mia vita a mè divelta.
Oh, si faccia barriera all'invasore
con la virtù che già fù nostra, e spenta
non ancora è nei cuori; con la fede,
nostro antico alimento, che guatammo
nè dubitanti giorni: or combattiamo!
A un lavacro di sangue ti rinnovi,
patria e t'adergi verso il tuo futuro,
colma di fato, di promessa colma.
Oh, dei tuoi figli a la certezza irrompi,
sii per noi l'alta forma in cui sperammo,
come ostensorio da 'l dolor raggiante!
Chi ci disse che tu spenta saresti
a l'amor nostro? oh, tu sarai per sempre,
ritroveremo in te, vergine intatta, integra
al fondo de la nostra angoscia,
che disperatamente a te s'avvinghia!
chè senza te, con te gettata a l'onta
orrenda parve, e fù, la vita, in forse
se valesse il respiro onde s'avviva;
se da tè avulsi, dal tuo grande spiro,
a te, madre, profonda anima nostra,
ancor la vita un palpito serbasse:
or combattiamo, or combattiam per essa!
Vagheggieremo allora la rifatta
patria del sogno, quale intravedemmo
ne la bufera in serenante lume;
la patria in cui s'affiocchi ogni rancura
ogni rissa s'oblii, posi l'affanno,
si ritrovino i cuori alfin placati;
la patria cui rifà degna il lavoro
redento alfine, alfin pacificato,
sonante nell'immane ansito intenso;
la patria che si fà nova pe l'novo
amore che l'investe e la solleva
da dove eterna in sua vittoria stia;
or combattiamo, or combattiam per essa!

Fu per Giorgio un colpo tremendo, tante giornate passate assieme a Francesco Bocchi glielo avevano fatto conoscere perfettamente, la sua bontà d’animo, la sua generosità, la totale dedizione all’idea e alla sua camicia nera, oltre alla sua profonda cultura, ne facevano, in quel tragico periodo dove l’odio regnava incontrastato e dove la pietà non esisteva più, una figura quasi ieratica, completamente distante dalle violenze e dalla brutalità della lotta fratricida.
Questa continuava con una progressione geometrica impressionante, la spinta delle forze anglo-americane premeva ormai pesantemente, le incursioni aeree erano sempre più frequenti, non si circolava quasi più poiché, da un momento all’altro, ti arrivavano addosso i caccia che, spietati, vomitavano le loro mitragliere su ogni cosa che si muoveva, inoltre, nascosti dietro alle siepi, i partigiani si facevano sempre più pericolosi e falciavano quotidianamente, di giorno e di notte, quei fascisti, militari e civili, che mettevano nei mirini dei loro mitra e dei loro fucili che “piovevano giù dal cielo”, paracadutati dai “Mustang” o dai “Mosquito De Havilland”, in quantità massicce. I “poveracci in divisa” erano bersaglio quotidiano di questi cacciatori che “giocavano al tiro al piccione”, mentre le “prede” tentavano, con le solite e inutili ritorsioni e rappresaglie, di rispondere alla “occhio per occhio, dente per dente”, pur rendendosi conto che la “partita” stava per chiudersi.
Ogni giorno il reparto di Giorgio era chiamato in continuazione per andare sul posto delle tante esecuzioni di camerati, correvano, correvano cercando di arrivare rapidamnete sui luoghi, alla prima periferia della città, a Navicello, ad Albareto, Marzaglia, alla Crocetta, alla Madonnina e nei Comuni vicini, a Formigine, a Soliera, a Nonantola dove arrivavano, quasi sempre, a breve distanza di tempo dalle feroci esecuzioni, ma ogni volta trovavano solamente i corpi dei camerati uccisi e dei partigiani nessuna traccia: qualche pattuglia si è anche lasciata andare a ritorsioni violente con gente che, in alcuni casi non aveva alcuna responsabilità di quegli attentati, molte volte gli ufficiali prendevano provvedimenti verso queste forme di “ribellione”, poi anche loro, negli ultimi tempi, lasciavano correre.
In alcuni casi toccava anche andare nei Comuni più lontani come quando vennero inviati, il 9 e 10 Aprile, con due camion, nel Comune di Cavezzo, dove in continuazione i partigiani commettevano i delitti più atroci, in particolare contro persone indifese; in quei giorni furono uccise due donne, madre e figlia; la madre, Prima Cattabriga Stefanini, di trentotto anni, la seconda, Paolina Cattabriga, di diciotto anni; i partigiani si erano portati a Motta di Cavezzo per prelevare la giovane ragazza, ma la madre si mise ad urlare e ad implorare perchè non le portassero via la figlia; prelevarono anche la madre.
Furono entrambe trascinate sull'argine del Secchia, spogliate completamente e, una accanto all'altra, violentate, poi uccise e sepolte in un qualche modo. Le vittime erano di umili condizioni e non si erano mai interessate di politica.
Sempre a Motta di Cavezzo, due giorni dopo i “ribelli” penetrano nottetempo nella casa di due fratelli possidenti e la svaligiano di tutto quello che capita loro tra le mani. Compiuta la razzia, ordinarono alla donna, Latina Morselli, di quarantadue anni, di uscire con loro, il fratello, Alberto Morselli, di quarantotto anni si oppose ed anch'esso venne prelevato.
Furono portati in un campo a circa due chilometri da casa, gli uomini hanno usato violenza alla Morselli davanti al fratello. Al termine, uno di questi domandò: "c'è più nessuno?", quindi portò la canna del mitra contro il grembo della povera donna e sparò una raffica. Subito dopo fu ucciso il fratello ed i due cadaveri vennero sepolti in un unica fossa; quando si trovarono i corpi, questi affioravano dagli arenili del fiume Secchia. Quello della donna intatto, di sopra a quello del fratello, ma questi aveva la testa tra le gambe, segno evidente che il disgraziato venne gettato là dentro con la testa spiccata dal tronco.
I militi ritornarono alla caserma “Arturo Galluppi”, dopo questi spettacoli di orrore e di morte, completamente avviliti e con il morale “in fondo alle scarpe”, negli alloggiamenti serpeggiava ormai aria di disfattismo, di abbandono, di scoraggiamento, di rinuncia e molti si preoccupavano del come era possibile mettersi in salvo, onde evitare di essere catturati dalle formazioni partigiane che, si diceva, sarebbero arrivate in buon numero dalla montagna dove erano “imboscate” già da tempo. Giorgio e Renato si consultarono e cominciarono a formulare qualche piano.

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Il 18 Aprile, Giorgio e l’amico Renato Venturelli, dato che abitavano vicini, insieme fecero un “salto” a casa, per vedere se “tutto era in ordine”; erano prima passati presso la sede della GNR in Rua Muro, dove sapevano che avrebbero trovato il Comandante Franz Pagliani, il quale, anche lui, consigliò a tutti di stare a disposizione dei propri Ufficiali, e che, a “ranghi compatti” si sarebbe lasciata la città nel pomeriggio o nei giorni successivi, a seconda del precipitare, o meno, della situazione.
Giorgio si rese conto dello sconforto che regnava tra i militi ed anche tra gli ufficiali e, seppure ancora non completamente in preda al panico, molti di loro non avevano la certezza di poter eseguire gli ordini per cercare di ritirarsi in Lombardia, sapendo che le truppe angloamericane stavano ormai dilagando sulla pianura padana ed erano già ai margini della Provincia di Modena.
Nell’andare verso casa, poco lontano dalla caserma, i due ragazzi stavano valutando, con imbarazzo, la situazione; si dissero che la guerra era persa e che, forse, era meglio trovare una soluzione in autonomia per cercare di non cadere in mano ai partigiani; a Giorgio gli ritornò in mente l’episodio di poco più di un mese prima, quando trovò, catturato e portato, prima in Accademia Militare, poi alle carceri di Sant’ Eufemia, il caro amico e compagno di scuola, Maurizio Maletti, sospetto di appartenere a una formazione partigiana, e a rischio di finire al muro alla prima azione fatta contro i fascisti, cosa che ormai avveniva quotidianamente. Si motivò, andando appena gli fu possibile, alle carceri per parlare con il Direttore, Angelo Zarella, con il quale era entrato in buoni rapporti di conoscenza e, avendo ottenuto un autorizzazione liberatoria dal proprio Comandante, dove si dichiarava che il giovane Maletti non aveva nulla a che fare con le bande ribelli, se ne ordinava pertanto il rilascio; uscì, con l’amico, da Sant’Eufemia, consigliandolo di rinchiudersi in casa e attendere che le acque si calmassero.
Forse adesso era giunto il momento di andare a trovarlo e chiedergli di ricambiargli, se ne aveva le possibilità, il favore che lui gli aveva fatto. Si ricordava che abitava in fondo a Via Ganaceto, a poche centinaia di metri dalle abitazioni di Giorgio e Renato, al quale espose il piano:
“adesso andiamo a trovarlo con la speranza di “beccarlo” in casa, gli esponiamo il problema e se ha un locale dove può nasconderci lì andiamo ad aspettare che passi il fronte, visto che non è il caso di mettersi a fare i “Don Chisciotte” e andare a cercare “la bella morte” all’ultimo giorno di guerra”.
Mentre i due si stavano avvicinando a casa e mentre facevano queste considerazioni, erano circa le tre del pomeriggio, sentirono passare sulle loro teste alcuni grossi aerei a bassissima quota e immediatamente dopo grossi boati, i bombardieri avevano sganciato parecchie bombe nelle vicinanze.
Dalla vicina caserma, che avevano da poco lasciata, anche perché da un po’ di tempo a quella parte, la libera uscita ai militi veniva data alle ore 14 onde appunto allontanarli dalle caserme, visto e considerato che i “liberatori” privilegiavano, da tempo, quegli orari, per far cadere le loro “pillole”, si alzavano colonne di fumo e dalla vicina Piazza S. Agostino si vedeva un gran polverone. I due ragazzi, era già il terzo bombardamento che subivano in compagnia, si precipitarono, di nuovo, nel luogo da dove erano venuti, trovandosi davanti, su Via Rua Muro, ad uno spettacolo incredibile, sapevano che all’interno vi era ancora il Comandante Franz Pagliani, che difatti era rimasto, con altri, illeso, in mezzo ai calcinacci e dovette aspettare a scendere poiché era al secondo piano e tutte le scale erano crollate.
Non esisteva più la parte posteriore e l’ala opposta del Palazzo a dove erano riuniti i comandanti della Brigata Nera che stavano studiando i modi e i tempi, per lasciare Modena; il Palazzo Margherita era stato centrato in pieno.
Parecchi militi rimasero sotto le macerie e alcuni riuscirono ad estrarli, anche con l’aiuto di Giorgio e Renato che si prodigarono al massimo per portare aiuto ai propri camerati intrappolati, ma per sei di loro non vi fu niente da fare, compreso un loro amico, milite della Brigata Nera di sedici anni, che da poco tempo si era arruolato ed era entrato a far parte della loro Compagnia, si chiamava Armando Santoni.
Verso sera, affranti, anche in seguito a ciò che era capitato loro durante il giorno e ormai convinti che “tutto era finito” si recarono a casa dell’amico Maletti che trovarono intento a sistemare dei libri nella vicina libreria del convento dei Frati Francescani, dove appunto il ragazzo aveva detto a Giorgio di rivolgersi, nel caso non lo avesse trovato nella sua abitazione, che si trovava in un edificio prospiciente la Chiesa dei Capuccini: quel palazzo aveva subito molti danni dal bombardamento che aveva visto colpire pesantemente la zona di Via Ganaceto e di Via Sant’ Orsola, compresa la Manifattura Tabacchi, la Scuola elementare Campori, il Palazzo Campori e molti altri edifici, ma aveva lasciato indenne la Chiesa dei Capuccini e l’annesso convento dei Frati; quello dei Maletti era stato quasi completamente distrutto, ma erano rimasti abitabili alcuni locali, compreso buona parte del suo appartamento, nel quale si recarono dopo l’incontro in libreria.
L’ appartamento di Maurizio era situato al secondo piano dell’edificio, le scale, dalle parte dell’ingresso dove era il suo locale erano rimaste intatte, contrariamente all’altra entrata che era completamente crollata, crepe nei muri da tutte le parti e, praticamente nessuno era rimasto negli appartamenti, solamente il Maletti, di tanto in tanto, vi si recava.
Entrarono in casa che filtrava ancora un po’ di luce del giorno, i tre ragazzi si misero a sedere attorno al tavolo nella sala da pranzo e dopo essersi scambiati convenevoli di circostanza arrivarono subito al “nocciolo della questione” e del perché si erano recati da lui.
“Vedi caro Maurizio”, attaccò Giorgio:
“sono venuto da te perché, quando ci lasciammo l’ultima volta, dopo l’uscita dal carcere, tu mi avevi detto, dopo avermi ringraziato per quello che avevo fatto, di correre subito, senza remore, nel caso mi fossi trovato in difficoltà.
Orbene, ci siamo, è finita, non stiamo a discuterci sopra, ovviamente avevi ragione tu che adesso ti troverai dalla parte dei vincitori, ma noi, ora ci troviamo in grosse difficoltà: sono venuto con Renato, che tu conosci bene, per vedere se puoi darci un aiuto, stiamo pensando di non seguire la nostra Brigata che vuole ritirarsi al nord, nello stesso tempo non vogliamo andare nelle nostre case dato che, appena sarete voi i padroni, con molta facilità verrete a cercarci, casa per casa, ed è immaginabile cosa potranno farci i “rossi”, visto e considerato che ci stanno massacrando già da parecchio tempo. Vedi se ti è possibile darci qualche suggerimento ed eventualmente consigliarci dove potere andare”.
Maurizio rimase un attimo in silenzio:
“lasciami riflettere. In effetti, il contesto nel quale vi trovate, è grave. Ho preso parte ad una riunione del Cln cittadino proprio ieri e siamo tutti pronti all’insurrezione. Quelli della mia parte, i democristiani, assieme ai liberali e ai socialisti sono del parere di prendere subito in mano la situazione cercando di ripristinare la democrazia e tutte le rappresentanze politiche, con l’autorizzazione di quelle che saranno le forze di occupazione. Andranno perciò ad occupare il Comune e si cercherà di far sì che l’ordine pubblico sia mantenuto nel miglior modo possibile, ma non sarà facile, perché, come tu sai bene, la parte dei padroni in seno al CLN la fanno i comunisti e sono convinto, come hanno già fatto capire che scateneranno la folla nella caccia al fascista. L’unica speranza è quella che gli anglo americani prendano loro, velocemente, in mano la “patata bollente” dell’ordine pubblico, ma nell’immediato non sarà facile.”
Giorgio e Renato si guardarono perplessi dopo l’analisi fatta dall’amico, e si limitarono a dire:
“allora tu pensi che sia bene per noi combattere sino all’ultimo e cercare di farci prendere prigionieri dagli invasori, sempre che si riesca a rimanere illesi nei combattimenti e sempre che i partigiani, non i tuoi, ma gli altri non arrivino per primi a catturarci e scatenare su di noi il loro livore e la loro rabbia per avere perso, sin dal 1922, il confronto con il fascismo?”
“Non è il momento opportuno per affrontare una delle nostre vecchie discussioni, quando tutto attorno a voi stà crollando, ho pensato”, disse Maurizio, che aveva continuato a riflettere su come affrontare quella delicata situazione, “che la cosa migliore, al momento, sia quella di trovare un buon nascondiglio, per poi, un domani, dopo aver visto come si comporteranno i vincitori, eventualmente cercare di mettersi nelle loro “grinfie” piuttosto che in quelle dei partigiani nostrani. Di conseguenza, personalmente, vi posso tenere qui al massimo per due notti, dato che per questi giorni i miei genitori, che sono sfollati a Medolla non si faranno vedere e voi potrete stare tranquilli, un po’ di provviste in casa ci sono, nel frattempo andrò a sentire dai miei amici frati, qui di fronte e con l’aiuto di Padre Angelico, il Padre cappuccino, bravissimo pittore, che stà dipingendo dei quadri religiosi bellissimi, alcuni sono già esposti sulle pareti della chiesa, vedrete che loro potranno aiutarvi e, spero, ospitarvi per un certo periodo, nel frattempo vedremo come si presenterà la situazione; certamente, prima o poi, la cosa migliore sarà quella di “cadere” nelle mani degli americani ed entrare a far parte della numerosa schiera dei prigionieri di guerra.
Questa sera rimango a dormire qui, con voi, intanto vi cerco degli abiti borghesi, per il momento teniamo le armi a portata di mano, non si sa mai che possano diventare utili, poi le nasconderemo.”
Giorgio era “abbacchiato”, disse sommessamente:
“ma cosa diranno in compagnia quando non ci vedranno rientrare?”
Al che Renato, che sino a quel momento era rimasto zitto annuendo sempre alle proposte di Maurizio, sbottò:
“ma tu credi proprio che in questi frangenti, nel caos in cui si trovano, con la paura che attanaglia tutti quanti, ci sia qualcuno che si preoccupa di noi? Ognuno si occupa dei fatti suoi, potremmo già essere morti, falciati per strada da qualche raffica partigiana, potremmo esserci aggregati a quelli della Brigata Nera mobile “Attilio Pappalardo”, o a qualche altra formazione della GNR che si sta muovendo verso la Lombardia, insomma datti pace, non abbiamo tradito e non possono considerarci disertori, prima l’hai detto anche tu che la cosa migliore da farsi, a questo punto, è quella di nasconderci, poi abbiamo sentito che stanno cercando di farlo anche i nostri ufficiali; la guerra è finita: chi avuto ha avuto, chi ha dato, ha dato” dice quella canzonetta napoletana, speriamo solamente che passino velocemente questi giorni e intanto cerchiamo di far perdere le nostre tracce in modo che nessuno venga a sapere dove ci troviamo.”
Si prepararono un piatto di maccheroni conditi con del ragù che era rimasto a Maurizio dal mezzogiorno e che tutti e tre mangiarono con appetito; mancando totalmente la luce andarono a letto prestissimo, mentre dalle strade, in lontananza, giungevano, di tanto in tanto, i rumori di rabbiose scariche di mitra.
Il giorno 19 e il giorno 20 rimasero chiusi in casa, sempre in attesa dei rientri di Maurizio che si azzardava ad andare in giro, circospetto, per la città; raccontò di avere assistito il giorno 20 ai funerali delle vittime del bombardamento e di avere avuto un colloquio con il Padre Superiore dei Cappuccini, Padre Salvatore, che lo ha rassicurato sulla possibilità di tenere, per un po’ di giorni, in convento, i due ragazzi a partire dal pomeriggio del giorno 21, pregandolo di fare in modo di entrare in Chiesa possibilmente in un momento in cui la strada è deserta, per non farsi scorgere da nessuno, dato che dovevano semplicemente attraversarla. Lui si farà trovare, verso le 19 in Sagrestia.
Ormai, in quei due giorni, la maggioranza dei fascisti e dei tedeschi aveva abbandonato la città. Vi furono parecchi scontri in varie zone, particolarmente in quella di Piazza Impero, tra gli ultimi superstiti che, a quanto riferì ai due ragazzi Maurizio, “vendettero cara la pelle” e parecchi partigiani, in queste ultime ore, sono rimasti uccisi in scontri ravvicinati con gli ultimi “irriducilibi” fascisti.
Nel pomeriggio del giorno 22 entrò in città il primo carro armato americano seguito da un nugolo di camion, camionette ed altri mezzi che praticamente occuparono tutta Modena dopo che al mattino anche alcune pattuglie di partigiani avevano preso possesso di molti sedi istituzionali come il Municipio, la Prefettura e la Questura.
Mentre nelle tarde ore pomeridiane alcuni gruppi tedeschi, che si erano asserragliati dentro all’Accademia Militare, si arresero agli americani. Maurizio, che aveva potuto incontrarsi con alcuni partigiani della sua Brigata arrivata dalla montagna, si aggregò a loro potendo così girare indisturbato per la città, vedendo tutto quello che succedeva, per poi raccontare i vari episodi ai due giovani reclusi, comprese le esecuzioni che si stavano verificando, per tutta Modena. Ad ogni angolo di strada, anche nei giorni successivi, si trovavano sempre, in laghi di sangue, cadaveri di fascisti che rimanevano esposti al ludibrio della folla per ore e ore.
I due ragazzi, il giorno programmato con il Padre Superiore, passarono dalla abitazione dell’amico al Convento; mentre dal coro, dietro all’altare, giungeva un canto gregoriano struggente, attraversarono la Chiesa poi, dalla Sagrestia, furono accompagnati in due stanzette linde e ariose, le tipiche cellette dei frati francescani; il padre augurò loro buona permanenza, dopo aver spiegato le regole del convento, gli orari delle funzioni e delle colazioni, pregandoli di attenersi scrupolosamente a queste, seguendo il comportamento degli altri frati, possibilmente cercando di parlare il meno possibile.
Le divise e le armi erano rimaste in casa di Maurizio, ai giovani vennero consegnati due “sai” che indossarono sorridendo, trovandosi subito a loro agio, anche nel rispetto delle rigide regole francescane, ma quello che li lasciò perplessi furono il paio di sandali che dovettero calzare ai piedi. Abituati a tenerli dentro a scarponi pesanti, trovarono al momento, molto strano il dover girare quasi scalzi.
Di tanto in tanto Maurizio passava in Chiesa, in orari prestabiliti, e dalla divisoria della Sagrestia dove i frati avevano il permesso di conversare con gli “esterni” e portava loro le notizie di come andava evolvendosi la situazione in città.
Aveva difficoltà a raccontare quello che succedeva e la scarsa disponibilità, al momento, da parte delle truppe di occupazione, che non erano ancora preparate a compiti di polizia e di controllo del territorio praticamente ancora in mano alla polizia partigiana la quale, invece di tutelare l’ordine pubblico, sembrava solamente impegnata a svolgere operazioni di “pulizia etnica” attraverso esecuzioni sommarie ed arbitrarie; vi era un piano ben preordinato, da parte dei comandi comunisti, nella ricerca di far presto nell’ eliminare il maggior numero possibile di fascisti e le poche altre componenti dei “Comitati di Liberazione”, ben poco potevano fare, per contrastare tanta violenza, se non, come l’amico Maurizio, cercare di nascondere i “poveracci” che avevano indossato la camicia nera o che erano semplicemente invisi ai “rossi”, o che avevano ricoperto semplici cariche pubbliche solamente nell’interesse della comunità.
Rimase molto colpito Maurizio Maletti, quando venne a sapere, e lo raccontò a Giorgio, dell’uccisione, sotto i portici del Municipio, in Piazza Grande, del Direttore delle carceri, che si era prestato all’intervento per il suo rilascio da Sant’ Eufemia, per di più era considerato da tutti una brava persona.

Ai primi giorni del mese di Maggio, Maurizio comunicò ai due “frati francescani” che la “Militar Police” americana aveva costituito, nel parco della Villa Rainusso, subito dopo il cavalca-ferrovia della “Sacca”, un campo di concentramento di prigionieri fascisti; era andato a fare una visita di controllo per accertarsi che quelli lì riuniti, non subissero visite “particolari” da parte dei partigiani comunisti e se i “carcerieri” americani sorvegliavano bene il campo di concentramento, o più precisamente campo di smistamento, per dirottare i fascisti nei campi più grandi che erano denominati i PWE.
Giorgio e Renato, dietro suggerimento dell’amico partigiano, si decisero ad uscire dal convento di Via Ganaceto, dato che non avrebbero potuto restarci a lungo, per recarsi alla Villa Rainusso che, sino al bombardamento che la distrusse completamente, era sede dell’Istituto per le malattie tropicali, per mettersi nelle mani dei vincitori americani. Difatti, alcuni giorni dopo, era il 14 Maggio, accompagnati da Maurizio, si presentarono alla Militar Police, che provvide subito a registrarli e a sistemarli in una delle tante tende da campo collocate all’interno del parco, tutto circondato da un alta rete di filo spinato dove si trovarono con alcuni commilitoni della loro Brigata, oltre ad altri appartenenti ai corpi della Guardia Nazionale Repubblicana, ad alcuni marò della Decima Mas, e ad un gruppo di soldati germanici che, dopo essersi asserragliati dentro al Palazzo Ducale, nei giorni attorno al 20 Aprile, si arresero agli anglo americani.
Passarono il tempo a raccontarsi le vicende della disfatta e dei vari percorsi fatti prima di arrivare in quel campo, mentre al di là del filo spinato si ammassavano tanti civili, tra parenti alla ricerca dei loro cari e anche tanti curiosi a guardare i “fascisti in gabbia”.
Si sentivano gridare nomi, mamme che cercavano i figli chiedendo ai reclusi se per caso avessero visto, o sapessero qualche cosa del “tale o del tal’ altro”, in un caos indescrivibile. Poi, verso la fine del Mese di Maggio, dopo poco più di dieci giorni di permanenza a Villa Rainusso, una sera arrivarono alcuni camion sui quali i poliziotti americani, con metodi sbrigativi, e senza capire con quale criterio, caricarono un buon numero di prigionieri, dicendo loro che li avrebbero portati a “villeggiare” in Versilia.
I due amici si ritrovarono ancora assieme sullo stesso automezzo che, attraverso un viaggio lungo e costellato da numerose soste, li portò ad attraversare gli Appennini al passo dell’Abetone lungo la Via Giardini, per raggiungere Firenze dove fecero una lunga sosta al campo di raccolta di Scandicci; era chiamato il campo PWE 334, e qui, Giorgio, Renato e gli altri vennero trattenuti per circa quindici giorni e con loro enorme sorpresa si accorsero che, pur essendo quella struttura comandata dagli americani, all’interno, chi aveva il comando per la gestione delle attività quotidiane, erano i prigionieri tedeschi, ai quali erano state lasciate le loro uniformi compresi i gradi, mentre agli italiani era stato tolto tutto. Giorgio venne destinato ad una baracca e Renato ad un'altra, ma restavano pur sempre vicini. Si trovavano in quel campo anche molti partigiani che venivano catturati dagli americani in quanto non volevano consegnare le armi delle quali erano in possesso. Arrivavano con al collo i loro fazzoletti rossi e quando si accorgevano di trovarsi in mezzo a centinaia di fascisti si toglievano tutto quello che poteva farli distinguere, anche perché in molte occasioni si erano presi “botte da orbi”.
Tutti i prigionieri con i quali Giorgio e Renato ebbero la possibilità di scambiare quattro chiacchiere, si erano illusi che consegnandosi nelle mani degli americani, seppure prigionieri, avrebbero potuto trovarsi decentemente mentre, al contrario, si trovarono fin da subito, trattati malissimo e per il mangiare e per le condizioni igieniche. Da quel sito Giorgio con Renato ed altri italiani vennero spostati, il 10 Giugno al campo di concentramento PWE 338 di Coltano, località nelle vicinanze di Pisa, in una zona dove si trovava una concentrazione di prigionieri fascisti enorme, che raggiunse la cifra di circa trentacinquemila unità.
Qui si trovava, suddiviso in tre PWE, (336,337 e 338) il grosso dei prigionieri e a San Rossore, sempre nelle vicinanze di Pisa, vi era il campo PWE339. In questi enormi campi, nelle vicinanze della Pineta di Tombolo, si sistemarono sotto le tende canadesi anche Giorgio e Renato che, nei giorni successivi, aggirandosi tra quella marea umana si incontrarono con alcuni amici modenesi che avevano seguito la loro sorte.
Molti reparti erano riusciti a mantenere le loro divise, come i reggimenti della Decima Mas e i paracadutisti della “Folgore”; vi era anche un dirigibile che stazionava e girava da un campo all’altro a “sorvegliare” i prigionieri che, denutriti e oppressi dalla calura, si aggiravano tra i reticolati come dei fantasmi e parecchi di loro crollavano improvvisamente a terra colpiti da colpi di sole e dalla carenza di cibo, inoltre erano falciati da svariate malattie e tanti sono impazziti; molti furono internati all’ospedale psichiatrico di Volterra e di troppi non si ebbero più notizie.
Così come dei numerosi decessi avvenuti all’interno del campo, altri vennero uccisi dalle guardie perché avevano tentato la fuga; le punizioni, se si trasgredivano le regole, erano severissime, molti furono messi in gabbie e tenuti in quella condizione per più giorni; in quel modo venne trattato il grande poeta americano Ezra Pound, prigioniero in quel campo, poiché aveva aderito al fascismo; altra pesante punizione era quella della “fossa dei fachiri”, che era una grande buca, cosparsa di pietre appuntite capace di “ospitare” fino a dieci prigionieri, in piedi.
In seguito, dal 1 Settembre, il campo di concentramento di Coltano passò sotto la competenza italiana, e i due giovani, Giorgio e Renato, assieme ad altri settecento modenesi, furono “dati in custodia” ai militari del 509° Corpo del 3° Reggimento Guardie e la vigilanza interna venne affidata ad un reparto di Carabinieri. Questi militari furono accolti con molta simpatia da tutti i prigionieri, erano in tanti casi amici e commilitoni di molti dei “reclusi"; avevano combattuto assieme sui vari fronti di guerra prima dell’8 Settembre, in Africa, in Albania, in Russia, in Grecia, in Libia, in Spagna, erano quelli che si trovarono al Sud dopo il tradimento e per ragioni contingenti, come per tanti ragazzi al Nord, si schierarono con l’esercito del Re fuggiasco, e ora si trovarono a fare da carcerieri a tanti ex camerati.
Era già Settembre avanzato e finalmente la grande calura era terminata, al campo si stava decisamente meglio, pur vivendo sotto le tendine canadesi, ai prigionieri erano state distribuite delle coperte poiché, con l’avanzarsi della stagione autunnale, alla notte c’era più freddo; era ugualmente deprimente lo spettacolo delle migliaia di persone attorno al campo che aspettavano il momento per avere un colloquio con i loro cari e molti di questi pernottavano sulla nuda terra in attesa di incontrarsi, con un padre, con un figlio, o con un fratello.
Furono inviate alcune commissioni a studiare il modo migliore per l’eliminazione di quell’obbrobrio e per vedere di far ritornare alle loro case quella massa di uomini e donne, poiché vi era anche il campo delle ausiliarie e, dal mese di Ottobre, cominciarono ad essere liberati, gradualmente, i fascisti prigionieri. I due modenesi furono tra gli ultimi ad essere rilasciati dato che riuscirono a rientrare alle loro famiglie, alla fine del mese. Giorgio, appena arrivato a Modena, fu dirottato dai suoi, alla casa dello zio in Via Cesare Battisti, mentre Renato rimase presso la famiglia in Viale Berengario, e i due giovani, che per tanto tempo avevano condiviso la stessa sorte, si trovarono separati e vi restarono per un lungo periodo.

Giorgio, nel lungo intervallo nel quale rimase “costretto” in casa dello zio, cominciò a leggere tutti i giornali che i genitori avevano conservato dietro sua richiesta e a farsi un idea di quello che successe in territorio modenese a partire dal 22 Aprile, giorno della cosidetta “liberazione di Modena” sino alle giornate di fine Ottobre, i giorni del suo ritorno in città dal campo di concentramento di Coltano. Iniziò anche a stilare un parziale elenco dei fascisti o dei presunti tali uccisi in quei mesi di pulizia etnica chiamati anche i giorni della “macelleria messicana” o della “mattanza delle camicie nere”
Già nelle giornate attorno al 20 Aprile, la lunga pressione delle forze armate anglo-americane sui fronti europei era alla sua conclusione. Lo strapotere dell'industria americana con l'immissione sui vari teatri di guerra di un potenziale bellico mai visto prima, riesce a vincere la strenua resistenza delle truppe tedesche e dei loro alleati, anche in seguito al collasso totale dell'industria nazista.
Sul fronte italiano, dai primi giorni d’Aprile, erano avvenuti vasti movimenti di truppe, preceduti da forti cannoneggiamenti delle retrovie della linea gotica e dai massicci bombardamenti aerei sui centri più importanti di tutto il Nord Italia.
Tutta la zona Appenninica e pedemontana del modenese subì pesantemente questa pressione. Moltissimi furono i piccoli paesi dell'alto Frignano totalmente distrutti dai consistenti lanci di proiettili da cannone a lunga gittata; i centri più grossi come Vignola, Pavullo e Formigine subirono violentissimi attacchi e lo stesso capoluogo subì l'ultimo bombardamento aereo il giorno 18, poche ore prima dell'ingresso delle truppe americane in città e che Giorgio subì pesantemente assieme all’amico Renato.
Il crollo della linea gotica portò, in un tempo brevissimo, le truppe anglo-americane dentro la pianura padana e di conseguenza, alla conclusione delle operazioni belliche in Italia.
Contemporaneamente allo sfondamento del fronte italiano, le truppe alleate su quello occidentale e su quello orientale le truppe sovietiche, in Germania, danno l'ultima e definitiva spallata alla sconfitta del fascismo e del nazismo.
I vari movimenti della resistenza europea si apprestano, al seguito dei "vincitori", a prendere possesso dei paesi e delle città abbandonate; in Italia il CLN, dopo aver proclamato l'insurrezione, nomina i primi amministratori democratici; Modena avrà, come primo Sindaco, un uomo del Partito Comunista, Alfeo Corassori.

Giorgio si andava chiedendo in quei giorni, quanto ha potuto contribuire il movimento partigiano alla sconfitta dell’odiato nemico “nazifascista" cercando di valutare, il più possibile oggettivamente, l'importanza di tale partecipazione ai fini della risoluzione finale. Non bisogna scordare, però, ciò che ha detto il capo delle forze armate anglo-americane in Italia, Generale Alexander, in proposito:
"Vi fu, beninteso, l'insurrezione del 25 Aprile; ma ciò avvenne dopo che gli eserciti tedeschi erano stati distrutti in battaglia a sud del Po’, dopo che essi avevano intavolato trattative per la resa e appena una settimana prima della loro formale capitolazione finale."
La mattina del 20 Aprile le divisioni "alleate" iniziano lo sfondamento della linea gotica ed entrano in Provincia di Modena da due direttrici: in montagna, provenienti dal bolognese, conquistano Zocca e Monteombraro, mentre dal pistoiese, ma il giorno dopo, sulla Via Giardini, arrivano a Pievepelago; più a Nord, penetrano nella nostra Provincia tra Castelfranco, Nonantola e Ravarino dove entrano il mattino successivo 21 Aprile.
Intanto le truppe tedesche e i comandi fascisti procedevano al ripiegamento disturbati in minima parte dalle formazioni partigiane che, avvisate dell'avvenuto attacco in forze degli "alleati", iniziavano a prepararsi per entrare da padroni, nei paesi e nelle città.
Giorgio e Renato nel frattempo si erano rifugiati presso il convento dei Capuccini in Via Ganaceto mentre la maggior parte delle truppe tedesche e fasciste si erano concentrate a Modena da dove continuarono il ripiegamento verso il Po’ e la Lombardia, attraverso le strade di comunicazione più importanti e cioè la Statale del Brennero e da Carpi, la Romana-Moglia; non tutti i distaccamenti, in modo particolare quelli sparsi nei piccoli centri, riuscirono a sganciarsi e a raggiungere i propri Comandi, rimanendo pertanto invischiati dagli attacchi partigiani che, sicuri dell'allontanamento del grosso delle truppe tedesche e fasciste, cominciavano a farsi sempre più audaci e allo scoperto.
Modena e Carpi furono conquistate dagli anglo-americani il 22 Aprile, mentre centri quali: Sassuolo, Vignola, Concordia e Finale videro l'entrata delle truppe americane il giorno successivo; praticamente dalla mattina del 24 Aprile tutta la Provincia modenese era in mano ai "liberatori".
L'attacco principale alla Provincia di Modena è arrivato dunque dalla Pianura, dato che la 5° Armata avanzava inarrestabile continuando l'offensiva scattata il 4 Aprile, mentre l'8° Armata alleata procedeva in direzione di Ferrara; si minacciava pertanto l'accerchiamento delle truppe tedesche schierate sulla linea della Garfagnana, dato che nessun attacco in forze, si verificò in questa zona.
Vi fu solamente qualche attività di pattuglie partigiane a disturbare la ritirata tedesca, ma senza scontri di rilievo. La zona della montagna non vide pertanto, all’opera, in vere azioni di guerra le forze partigiane che in pratica non fecero nulla per la "liberazione”. Ma anche nelle zone di pianura non vi furono grossi combattimenti, vicino a Modena i partigiani si limitavano a veder sfilare una lunga fila di soldati della Wermacht in ritirata, erano colonne interminabili che passavano sotto i loro occhi.
Le molte colonne tedesche, erano ancora forti e ben armate e subirono danni dagli attacchi aerei e, solamente piccoli reparti, alcuni di retroguardia ed altri che avevano incarichi di effettuare azioni di sabotaggio, ebbero scontri armati con i partigiani: mentre invece i giornali già parlavano di “liberazione” della città e della Provincia di Modena, ad opera dei partigiani, cosa assolutamente non vera.

Modena, il giorno 21 Aprile, era praticamente terra di nessuno, dato che la maggioranza di tedeschi e fascisti aveva lasciato la città abbandonando tutti gli edifici e i centri più importanti, anche se, ancora la notte tra il 21 e il 22 Aprile colonne tedesche passavano per le strade modenesi. Solamente all'alba del giorno 22 si affacciano in città i primi nuclei di "ribelli" ed uno di questi era comandato da un piccolo prete che, con una banda di partigiani tenuti nascosti nella Chiesa di Sant'Agostino, con un arma automatica sottobraccio, si dirige con loro verso l'Accademia Militare. Si verificarono scaramucce alla periferia della città, alla Crocetta, nel rione Sant' Agnese e nelle zone del centro dove, tra Piazza Impero e Via Carteria, avvennero gli scontri di maggiore intensità tra partigiani e gruppi di tedeschi, con morti e feriti da entrambe le parti, come aveva raccontato ai due fascisti rifugiati dai frati, l’amico Maurizio Maletti, il partigiano democristiano che li aveva aiutati e che poteva girare tranquillamente per la città.
I primi carri armati americani si presentarono alla periferia di Modena verso le ore 14; dopo parecchie ore di trattative con i tedeschi rimasti chiusi dentro l'Accademia Militare, si arrivò a definire la resa, tanto che le truppe alleate entrarono in città nelle primissime ore della serata.
La stampa si lascia andare alle interpretazioni più roboanti e mistificatorie. Si passa dalle vicende epiche ed eroiche della più sfacciata ed impudente propaganda, ai toni meno enfatici ma molto più veritieri di tanti altri, da situazioni quanto meno paradossali, come quella di un testimone oculare che cita la scalata al balcone di Palazzo Ducale da parte di un tizio isolato che va’ ad aprire il portone principale, chiuso dall'interno e riappare con in mano i biglietti da mille bruciati, dato che, il capitano della GNR, prima della fuga aveva distrutto, "secondo il costume delle ritirate più importanti", denaro e documenti, contraddicendo così buona parte dei giornalisti antifascisti che accusano invece i comandi fascisti di essere fuggiti portandosi dietro le casse ben fornite di denaro; non trascura poi, questo testimone, di sottolineare, in modo emblematico, l'assedio e l'uccisione di un gatto sui tetti di una casa vicina alla Chiesa di San Francesco, gatto scambiato, dai bellicosi partigiani, per un cecchino fascista.
Ma a prescindere dall'epicità della lotta per la "liberazione" di Modena, Giorgio da quelle letture si rende conto che le vere e reali operazioni di lotta armata dei partigiani, avvennero contro quei "disperati" fascisti che, o perché non riuscirono ad agganciarsi alle colonne tedesche e della RSI che cercavano di trasferirsi oltre il Po’, o che, ingenuamente valutavano la loro posizione non pericolosa, per non aver mai commesso soprusi e tanto meno azioni a mano armata, in fondo per non essere responsabili di nulla se non, e neanche per tutti, aver semplicemente aderito alla Repubblica Sociale, pensando di conseguenza di poter rimanere nelle loro case, vicini alle loro famiglie.
Questi, furono i primi ad essere coinvolti dall'ondata dei prelevamenti, esecuzioni ed uccisioni arbitrarie che insanguinarono in quei primi giorni della "liberazione" le strade e le campagne del modenese. Pochissimi ebbero la possibilità di difendersi e di vendere cara la pelle, molti credettero alle false promesse partigiane che assicuravano ai fascisti salva la vita, se avessero depositato le armi.
Ci sono stati alcuni cecchini asserragliati sui tetti e sulle altane delle case del centro storico, ma in verità non furono molti i "franchi tiratori" modenesi che resistettero sulle “terrazze” e solamente per poche ore cercando di vendere cara la pelle.
E’ altrettanto vero che, come Giorgio e Renato, molti fascisti dovettero trovare rifugi sicuri presso conoscenti od amici, in molti casi anche presso antifascisti, oppure fuggire in altre provincie; ma tanti, troppi, furono travolti dal furore omicida, dalle vendette personali, dalle ritorsioni, insomma da quel terrore che tormentò le zone emiliane.
Negli altri centri della Provincia modenese l'intervento partigiano è da considerarsi di modestissima entità o quasi nullo, come a Carpi, mentre combattimenti di un certo rilievo si verificarono in Provincia, a Staggia, Medolla e Concordia.
Vignola, in seguito ai cannoneggiamenti americani, fu "liberata" il 23 Aprile, dopo che i tedeschi si erano ritirati, salvo pochi scontri tra partigiani e le loro retroguardie.
Nel formiginese, una colonna americana fu fermata tra Magreta e Casinalbo da una postazione tedesca che mise fuori combattimento tre carri armati. Alcune scaramucce si verificarono anche a Sassuolo, ma nulla di più.
E così finì la guerra in Provincia di Modena: la popolazione si sentiva finalmente sgravata dal grosso incubo che l'aveva attanagliata, specialmente negli ultimi mesi; era veramente finita. Almeno per i tanti che si riversarono per le strade della città, tra i palazzi e le case ancora fumanti per le distruzioni provocate dai "liberatori"; i modenesi sfilavano osannanti e applaudivano quelli che avevano portato su di loro la terrificante azione terroristica fatta di bombardamenti e mitragliamenti; si fa presto a dimenticare, anche l'Arcivescovo, schierato sino al giorno prima con i fascisti, il giorno 29 Aprile iniziò il programma dei "festeggiamenti” con un "Te Deum" di ringraziamento celebrato in Piazza Grande, visto che in Duomo non si poteva contenere tutta la folla che si era radunata.
Alla fine di quella messa, mentre l'Arcivescovo Boccoleri, l'incensatore del Capo del Fascismo, stava per pronunciare l'"ite missa est", un colpo di fucile sfuggì ad uno dei partigiani appostati sul tetto del Comune scatenando una confusione indescrivibile al punto tale che in pochi istanti la Piazza si svuotò.
Il giorno successivo vi fu la sfilata dei partigiani, alcuni autentici ma, nella maggioranza, dell'ultima ora, e che durò a lungo.
Nel frattempo, in migliaia di case della città e della Provincia, una folla altrettanto numerosa di quella che si trovava per le strade ad applaudire i vincitori, viveva nel terrore dei prelevamenti e delle esecuzioni sommarie; bastava essere segnalati da qualche delatore, come simpatizzanti o sostenitori del PFR che la vita diventava sospesa ad un filo che poteva spezzarsi da un momento all'altro, e in tanti casi i processi dei famigerati "tribunali del popolo" altro servivano se non a mettere ancor più alla "gogna" i malcapitati, prima dell'immancabile esecuzione.
Giorgio si rese conto, che si stava compiendo, attorno a lui, uno spietato massacro, ad opera delle "squadre della morte" che vanno a prelevare, in qualsiasi ora del giorno e della notte i sospetti ed i loro familiari.
Avrebbe voluto entrare, in maggior misura, nei dettagli del poco edificante tradimento tedesco nei confronti della Repubblica Sociale e del suo capo, tradimento portato avanti dagli alti comandi germanici, con alla testa il generale Wolff, del quale già si parlava nelle ultimissime ore di vita della RSI.
La resa delle truppe tedesche in Italia venne negoziata segretamente, senza che Mussolini e le alte sfere della Repubblica Sociale Italiana ne fossero informate e tutto questo avvenne nel periodo Febbraio-Aprile 1945, quando ancora Mussolini stava sacrificando le sue ultime forze assieme a suoi fedelissimi in tutta l'Italia del Nord, per tener fede ad un alleato, che si riteneva leale e disposto a immolarsi sino in fondo, come da sempre dichiarato. Mussolini ed i suoi seguaci ritenevano che il combattere sino all'ultima goccia di sangue servisse a rendere più dignitosa la sconfitta ormai sicura e di conseguenza concludere, decorosamente, quel periodo storico, anche per poter trattare il passaggio dei poteri tra le nuove autorità italiane e la RSI, in modo tale da poter risparmiare, il più possibile, vite umane.
Si può pertanto pensare che i tedeschi abbiano voluto renderci la pariglia per quello che era successo con il tradimento dell'8 Settembre; ma non dobbiamo dimenticare che in realtà i tedeschi, commisero, oltre a quella del generale Wolff, altre azioni che possono essere annoverate, da un punto di vista storico, dei veri e propri tradimenti nei confronti dell'alleato; basta citare il mancato rispetto dell'impegno, in verità non scritto, ma annunciato chiaramente, di non iniziare atti di belligeranza prima di tre o cinque anni dal momento della firma del Patto d'acciaio che avvenne il 22 Maggio 1939; e ancora, il trattato segreto con l'Unione Sovietica del 23 Agosto 1939, pochi giorni prima dell'invasione della Polonia, a proposito del quale, lo stesso Mussolini, nei mesi successivi, ebbe a portare pesanti critiche all’alleato.
L'ultimo atto di questa logica tedesca lo troviamo nell'Aprile 1945 a Milano, al momento in cui, Benito Mussolini, che tardivamente aveva spostato da Gardone, al capoluogo lombardo la sede del Governo della RSI, si rende conto del tradimento dell'alleato.
Vittorio Mussolini, il figlio del Capo del fascismo è stato testimone degli ultimi tragici momenti e, alla famosa riunione nella Curia milanese tra il padre ed i componenti il governo del CLN, attendeva con ansia gli esiti della riunione, organizzata dal Cardinale Schuster e dove si doveva trattare la resa; il Maresciallo Graziani, capo delle Forze Armate della RSI, osservava che non si poteva trattare senza prima mettere a conoscenza dei fatti il Comando tedesco: ma venne fuori la sbalorditiva notizia, annunciata dal Prefetto Bassi:
"Qui, dopo di noi, verranno i delegati tedeschi per firmare la resa già concordata con gli angloamericani e il CLN. Sembra ci sia anche un impegno che riguarda l'ordine pubblico, che contempla, arrivati al caso, il disarmo delle forze fasciste da parte delle truppe tedesche”.
Mussolini rimase allibito. Il Cardinale Schuster confermò, precisando che era stato svelato un segreto, questo piano. Vi è da dire che la resa tedesca sarebbe avvenuta nelle mani del Cardinale e non in quelle del Generale Cadorna, capo del CLN, al quale i nazisti non riconoscevano alcuna autorità, e che le truppe germaniche sarebbero state consegnate agli anglo-americani e non ai russi.
I fascisti in quei momenti, quando appresero del tradimento, ebbero un moto di ribellione e nello stesso tempo si liberarono dall'incubo del peso che aveva ipotecato la loro posizione per tanto tempo; l'accusa tedesca nei confronti degli italiani era sempre stata pesante, anche se nessuno tra i fascisti si sentiva "badogliano" o "traditore"; a quel momento si resero conto che nemmeno i "super-eroi" tedeschi erano indenni dalle umane meschinità; tutto questo avvenne però troppo tardi, non era più possibile risolvere al meglio i problemi immediati, lo si poteva solamente ritenere un fatto morale, la realtà era troppo incalzante ed il succedersi degli avvenimenti non permetteva minimamente alcuna possibilità di organizzazione, tanto meno si poteva portare avanti il programma del cosiddetto, "ridotto della Valtellina".
Era veramente la fine di tutto e, se di fine ingloriosa si è trattato, bisogna darne una grossa responsabilità alla resa improvvisa e non prevista, dell"alleato" tedesco.
Giorgio, quando ritornò da Coltano e rimase nella “prigione casalinga”, cominciò a stilare un elenco dei fascisti uccisi nel modenese, ma solamente di quei pochi che ne veniva data notizia dalla “Gazzetta dell’Emilia” e da una serie di notizie di “prima mano”, che lo zio Francesco, medico, riusciva ad ottenere da un funzionario della ricostituita polizia, suo amico; in seguito il “recluso” si limitò a sottolineare solamente alcuni dei casi più eclatanti poiché, specialmente durante i mesi di Aprile, Maggio, Giugno i morti fascisti per le strade si contavano a decine, tutti i giorni, e si rese conto che mentre lui si “scaldava” al cocente sole di Coltano i suoi camerati e amici finivano a centinaia lungo i fossi o sepolti da poca terra nelle campagne modenesi. Seppe, in seguito, da una amica abitante a Cavezzo, di una serie di uccisioni veramente orripilanti tra le quali quella di un suo commilitone della Brigata Nera, ucciso assieme all’anziano genitore: padre e figlio, entrambi appartenenti alle BB.NN di quella località, il primo settantacinquenne ed il secondo di appena ventuno anni: Petronio Lorenzini, e Aldo Lorenzini.
Il padre di 75 anni veniva accusato da partigiani di essere una spia, accusa generica e quasi sempre incontrollabile che ha servito da pretesto per far morire molte persone, ed il figlio ventenne accusato di essere stato un milite della Brigata Nera. Per sua somma sventura gli era stato commilitone, nelle BB.NN., un coetaneo amico carissimo sin dall’infanzia, che però faceva il doppiogioco; sembra sia stato lui a volerne la morte. Questo “amico”, dopo qualche tempo, maneggiando una bomba a mano per pescare, si uccise. La voce del popolo disse che era la mano di Dio che lo puniva.
Sempre da quelle zone Giorgio venne a sapere di altre feroci esecuzioni, come quella del Segretario del PFR di Cavezzo, di quarantadue anni: Casto Elmotti, che un recluso in quelle carceri, un medico amico dello zio, così raccontò:
“sento nel corridoio, davanti alla nostra porta, dove ero tenuto prigioniero assieme ad altri, un tramestio di piedi e di scarponi; si intuisce che trascinano qualcuno e che ferocemente lo picchiano sbattendolo di quà e di là contro i muri....Il respiro della vittima si fà affannoso, continuano a batterlo....Venne anche lui portato al cimitero dove avvenne il massacro; quando il necroforo, fatta una grande buca affinché contenesse i cinque fascisti (Elmotti, i due Lorenzini, Nivet e Rebecchi) e due tedeschi assassinati, cominciò a raccogliere le vittime per gettarvele dentro, arrivato all’Elmotti, improvvisamente si alzò di scatto esclamando con orrore: “ma questo è ancora vivo”, implorava con voce flebile un pò d’acqua; si dice che un partigiano presente, con tutta calma esclamò: “poco male, lo finiamo subito”, e così una scarica di mitra troncò, finalmente, la vita di quel povero disgraziato che da tante ore penava, morente, tra i cadaveri.”
E poi ancora, Primo Rebecchi, che aveva quarantotto anni e, per un suo difetto fisico era chiamato “il gobbo”; essendo stato parecchio tempo all’estero aveva appreso a parlare correttamente il tedesco, pertanto fu assunto, come per lo più avveniva, quale interprete al Comando tedesco di Cavezzo. Questo fatto, del tutto normale, lo fece accusare di essere una spia. Dopo il suo assassinio, venne arrestata e maltrattata anche la figlia, perché gli inquisitori volevano che accusasse di immaginarie malefatte, il padre già ucciso.
Toccò per ultimo, ad essere ucciso dagli spietati aguzzini rossi, al Legionario fiumano: Armando Nivet, anche questo, raccontò l’amico dello zio, non aveva accuse precise; ma il cosiddetto tribunale del popolo lo mandò ugualmente a morte, malgrado poche settimane prima, gli stessi partigiani comunisti, gli avessero ucciso la giovane figlia.
Sempre nel piccolo centro della bassa modenese, viene sterminata una intera famiglia di tre persone; il capofamiglia di cinquantasei anni: Vincenzo Castellazzi, la moglie di cinquantaquattro anni: Bianca Castellazzi Rebecchi, e la loro figlia di ventitré anni: Maria Castellazzi. Così ha raccontato il medico testimone, allo zio di Giorgio:
“La maestra Bianca Rebecchi Castellazzi, di Disvetro, scompare con la figlia ed il marito: si dice fosse accusata di aver rivelato il rifugio dei Benatti (partigiani uccisi dai fascisti nei giorni precedenti la liberazione) alle Brigate Nere; ma che in verità fosse completamente falso; certo è che i tre disgraziati furono ferocemente soppressi e nel loro appartamento si sistemò uno dei tre assassini. Se anche, per ipotesi, la maestra fosse stata colpevole, quale colpa avevano gli altri familiari? Un testimone del loro supplizio raccontò che prima venne violentata, poi seviziata ed uccisa la figlia in presenza dei genitori; poi toccò alla madre subire lo stesso trattamento, indi finirono lo sventurato padre.”
Al padre di Giorgio, che aveva un caro amico a Bomporto, dove spesso andava a comprare dell’ottimo lambrusco, questo gli raccontò una serie di atroci delitti avvenuti tra Mirandola e Bastiglia dove i partigiani hanno prelevato dalla loro abitazione, per portarli nelle carceri del paese, per essere poi seviziati ed uccisi, moglie e marito: Carmela Melloni Gualtieri, e Alfredo Melloni, ritenuti dei fascisti e pertanto persone da “eliminare”.
Sempre in quel piccolo paese viene arrestato e cacciato in prigione il Segretario del PFR. Era il fascista di quarantaquattro anni: Nando Tassi, un ex pugile che aveva raggiunto notevoli traguardi a livello nazionale nella categoria dei pesi medio-massimi. Un gruppo di partigiani entrò nella sua cella per picchiarlo, ma lui non ebbe la calma ed il raziocinio di mettersi in difesa passiva per cercare di prenderne il meno possibile.
Cominciò a sferrare ai suoi carnefici tali mazzate da mandare a gambe levate tutta la compagnia, però si prese una fucilata ad una gamba. Dopo tre giorni, dato che nessuno aveva pensato, o piuttosto aveva voluto farlo curare, sopraggiunse l’infezione con febbre a quaranta. I partigiani se ne vollero disfare, ma dato che il povero segretario godeva in paese di molte simpatie, non si azzardarono ad ucciderlo pubblicamente e finsero di trasportarlo all’Ospedale di Modena. Durante il tragitto lo gettarono in un fosso e lo massacrarono, furono tali e tanti i colpi dati al morente che ne ebbe maciullato completamente il viso.
Ha tentato di fuggire, si giustificarono i “patrioti”: ma la suora che era presente mentre lo caricavano sul camioncino per portarlo via, disse che il disgraziato Nando era così grave, che avrebbe potuto morire a breve distanza di tempo. Vi fu chi volle far sapere alla famiglia chi erano stati gli assassini. Nel portafoglio, restituito alla moglie, intramezzato alle altre carte personali vi era l’ordine scritto del CLN di Bastiglia, che comandava di portarlo all’ospedale di Modena, con nome e cognome dei mandanti e degli esecutori del crimine.
In questi giorni, a Mirandola, i partigiani effettuano una serie di incredibili delitti in particolare contro donne indifese. Vengono prelevate dalle loro rispettive abitazioni e poi brutalmente uccise le signore: Rosalia Paltrinieri Bertacchi di trentuno anni e madre di tre figli e la trentanovenne, Iolanda Pignatti. Entrambe queste donne furono violentate davanti ai loro rispettivi mariti e figli, quindi condotte vicino al cimitero e sepolte vive.
Giorgio venne poi a conoscenza che in quei giorni di fine Aprile due suoi amici modenesi, appartenenti alla Brigata Nera “M. Pistoni”, che erano riusciti a raggiungere Milano, furono catturati da dei partigiani che li fucilarono immediatamente in Piazza Crovetto, erano: Amedeo Fiorini e Alfredo Soncini, con i quali Giorgio, pochi giorni prima del 20 Aprile, aveva cercato di prospettare loro la possibilità di rifugiarsi presso amici o parenti, e loro dissero che probabilmente avrebbero trovato rifugio da dei loro zii, in quella città.

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A Concordia, per mano dei messaggeri della morte comunisti che ricercano sempre le più crudeli nefandezze, vengono uccisi padre e figlio: il brigadiere della GNR di quarantasei anni: Romeo Cavazza, ed il giovane figlio di soli venti anni: Euro Cavazza, il quale, secondo le più spietate rappresaglie di stile mafioso, venne evirato, e le parti asportate gli vennero cacciate in bocca.
Una cara amica di Giorgio, l'ausiliaria Barbara Forlani di Castelfranco Emilia, viene fucilata dai partigiani a Rosasco, in Provincia di Parma, assieme ad altre ragazze delle formazioni delle BB.NN. Barbara aveva venticinque anni ed era una giovane maestra; frequentò il corso per le ausiliarie volontarie della RSI anche contro il volere dei genitori, per essere fedele ai suoi ideali di Patria e per assistere i combattenti.
Altri amici di Giorgio, in quei giorni di follia, furono brutalmente uccisi: furono prelevati da un gruppo di partigiani, dalla loro abitazione in Modena, i due giovani fratelli, militi della GNR; il ventenne maestro Alfredo Beltrami ed il giovane studente di diciannove anni: Arnaldo Beltrami; in quella casa, mesi prima, si era già pianto per la morte di un altro giovanissimo fratello di 16 anni, ucciso anch'esso dai partigiani in un’imboscata tra Carpi e Correggio, il 14 Novembre 1944.
Mentre a Vercelli viene barbaramente ucciso, assieme a moltissimi suoi commilitoni, il giovane sottotenente della GNR, di venti anni: Paolo Rebucci. Il padre di questo ragazzo è il medico molto amico dello zio di Giorgio il quale raccontò al giovane, al suo ritorno da Coltano, la tragedia di quell’eccidio dove vennero scannati a decine i giovani fascisti, dalle bande del partigiano Moranino
Questo giovane modenese si arruolò giovanissimo nella GNR, precisamente il 1° Novembre 1943; partì per Ravenna al Corso Allievi Ufficiali. Nell'Agosto 1944 divenne sottotenente. Fu orgoglioso di essere destinato a Vercelli poiché in quella città occorrevano uomini sicuri, data la zona difficile e turbolenta. Pur essendo ligio al dovere, quando al Comando vi era da trattare uno scambio di prigionieri, gli emissari partigiani preferivano rivolgersi a lui, perché sapeva comprendere e capire certe situazioni. Il 25 Aprile a Vercelli si forma una colonna, detta dei "duemila", per andare a Como per l'ultima battaglia: era una trappola, tesa dai partigiani con una telefonata anonima.
La colonna giunta a Cortellazzo è in dubbio atroce, poi la certezza del tradimento diventa realtà; non sapevano più cosa fare: ritornare indietro? Combattere? Sopraggiunse il Vescovo di Novara; espone la situazione disperata e consiglia di deporre le armi per evitare uno scontro con i partigiani che avrebbe potuto essere la rovina del paese. Promette salva la vita! Furono disarmati, privati del loro denaro, internati nel campo sportivo di Novara, in mano alle "Fiamme verdi", partigiani democristiani.
Subito cominciarono le sevizie e gli eccidi: a gruppi i disgraziati venivano torturati, trascinati fuori e scannati. Ai primi di Maggio il campo fu assalito da una folla di contadini armati di forche, badili, vanghe, che fecero scempio di tanti infelici. Poi arrivarono i partigiani di Vercelli, con due automezzi, per prelevare parte di coloro che erano sopravvissuti. Vennero caricati 75 prigionieri, tra i quali il sottotenente Rebucci e portati all'Ospedale Psichiatrico di Vercelli. Arrivarono già massacrati di botte. Il Cappellano dell'Ospedale diede l'assoluzione in massa, perché i partigiani avevano fretta di "lavorarli"; l'orgia di sevizie durò delle ore, perché i carnefici si davano il cambio. Fra questi "eroi" vi era un medico che sapeva torturare bene, senza far morire il "paziente". Alle due di notte cominciarono a condurli a morte. Parte nel canale Cavour, altri nelle campagne. Fu un vero e proprio massacro. La salma del sottotenente Rebucci non venne mai più ritrovata, nonostante le pazienti ed accurate ricerche portate avanti dai genitori.
Nelle campagne modenesi furono moltissime le donne che pagarono con la vita la “colpa” di essere, mogli, fidanzate o sorelle di fascisti e solamente per queta ragione venivano portate all’olocausto; a Nonantola, piccolo paese della bassa, vengono uccise madre e figlia, la prima di sessantadue anni, la seconda di ventuno anni: Erminia Tangerini e Maria Tangerini.
Nel famigerato "triangolo della morte", situato tra Castelfranco-Piumazzo-Manzolino, furono uccisi un numero incredibile di fascisti, Giorgio riuscì a farsi raccontare solamente di alcuni casi; in un solo giorno vennero “soppressi” in quel territorio: il Capitano della GNR: Odoardo Teagno, l'ex Federale di Cuneo: Ronza Secondo, e altre due persone: Ferdinando De Stefani, e Carlo Zorgnotti. I partigiani non dimenticarono di inserire, tra le persone da “giustiziare”, eufemismo usato per commettere le azioni più turpi, due donne ritenute fasciste: Vittoria Cocchi, e Italia De Angelis.
E' in questi tragici giorni di Maggio che parte dal Nord, precisamente da Brescia, diretto verso la Capitale, un camion del Vaticano con a bordo 40-50 persone che, tramite le autorità ecclesiastiche, avevano ottenuto dal CLN il lasciapassare per raggiungere le famiglie, sparse in ogni parte d'Italia e in particolare nelle zone del Centro e del Sud.
Erano, nella maggioranza, allievi ufficiali della Scuola della GNR di Oderzo che, dopo aver ricevuto l'onore della armi alla loro resa, da questa località avevano raggiunto Brescia, poiché da quel centro, attraverso particolari canali avrebbero avuto la possibilità di raggiungere, con mezzi messi a disposizione dal CLN e dalla curia, le località d'origine. Dal vescovado il camion, sul quale - come su tutti gli altri mezzi in servizio per la P.O.A - era stata issata una grande bandiera bianca e gialla, quella del Vaticano, raggiunse Porta Venezia (nella zona orientale della città) per caricare altri passeggeri; poi lasciò Brescia diretto a Mantova e attraverso il Po, a San Benedetto.
A bordo di questo mezzo viaggiavano, accalcate, 40-50 persone. A Bondanello l'automezzo venne fermato da un gruppo di partigiani della polizia locale poi, l'autocarro fu lasciato proseguire per Concordia ma fu fermato da un gruppo di sette otto partigiani con il fazzoletto rosso armati di mitra bombe e pugnali. L'autocarro fu scortato da costoro fin davanti alla Villa Medici di Concordia.
Alcuni dei presenti sull'autocarro vennero rilasciati, gli altri vennero rinchiusi nel solaio di quella casa dove erano già trattenuti altri prigionieri politici.
Non si riuscì mai a sapere, con esattezza, come andarono le cose su quel camion che poi venne definito come, "la corriera fantasma" o "la corriera della morte".
Molti particolari di quel tragico viaggio Giorgio li acquisì alcuni anni dopo quando, come cronista al “Tempo” di Roma e dopo la sua inchiesta sui fatti di Dongo, il direttore del giornale gli diede l’incarico di effettuare una ricerca sugli eccidi in Nord Italia, dopo il 25 Aprile. Dalla sua limitata indagine, alla fine dell’ anno 1945, il reduce da Coltano si ritenne oltremodo fortunato per aver trascorso alcuni mesi rinchiuso in quel campo, mesi che gli diedero la possibilità di salvarsi la vita poiché, se fosse rimasto nella sua città e fosse caduto nelle “grinfie” delle “belve rosse”, non avrebbe avuto la possibilità di raccontare quei fatti. Si rese anche conto che i “vincitori”, che si erano dichiarati tali schierandosi dietro ai vincitori veri, gli angloamericani, avevano messo nel loro mirino molti uomini vestiti con “il sottanone nero”, che non erano fascisti ma erano i preti, considerati “nemici del popolo” e pertanto li si doveva semplicemente eliminare, così in Provincia di Modena furono numerosi gli “scarafaggi”, come venivano chiamati dai comunisti, a cadere sotto il piombo dei “giustizieri” come successe in due casi di cui Giorgio venne a conoscenza.
A Montalto di Zocca a fine Maggio, fu prelevato dalla sua abitazione e brutalmente ucciso, il Parroco di quel piccolo centro: Don Giuseppe Preci. Così gli raccontarono della sua “eliminazione”:
“due individui si presentano alla casa di Don Preci. Quando la domestica Teresa Tamburini va ad aprire, essi invitano il sacerdote a seguirli. A poche centinaia di metri dalla canonica uno dei partigiani estrae la pistola e ammazza il Prete. Poi gli assassini tornano in canonica e fanno man bassa dei beni di Don Preci. Alla Tamburini viene dato del denaro per comprarne il silenzio.”
Un episodio analogo avviene negli stessi giorni nel “triangolo della morte”, il parroco di Riolo di Castelfranco Emilia, Don Giuseppe Tarozzi, venne prelevato e soppresso, da otto partigiani comunisti a scopo di rapina. La salma di questo sacerdote non venne mai ritrovata e si ritiene sia stata bruciata in una fornace.
In un piccolo centro della bassa modenese, Medolla si verifica una delle più spietate ed efferate rappresaglie del dopoguerra. Il Maresciallo della GNR di quella località: Giorgio Angelo Greco, di quarantotto anni, viene barbaramente trucidato assieme ai suoi due giovani figli: l'ausiliaria ventitreenne: Eva Greco, ed il giovanissimo figlio di diciassette anni: Santino Greco.
Questo orrendo crimine, emblematico per la volontà comunista di far scomparire intere famiglie accusate di fascismo, dimostra il disegno precostituito per la totale eliminazione fisica dei fascisti: una vera e propria strage etnica. La povera madre e moglie, di questa famiglia così tragicamente decimata, chiese ripetute volte, a coloro che ben sapeva essere gli esecutori materiali degli omicidi, dove fossero stati sepolti i suoi familiari, ma venne sempre sbeffeggiata.

Rimase sconvolto, Giorgio Campari quando venne a conoscenza della spietata esecuzione di un gruppo di fascisti rinchiusi nelle carceri di Carpi: così venne a sapere, di quell’episodio, dal racconto fatto da un suo conoscente sull'eccidio compiuto nella notte del 15 Giugno nelle carceri mandamentali di Carpi.
Quindici persone, già militanti nelle formazioni fasciste e fatte regolarmente prigioniere da reparti partigiani, furono in quella notte radunate in una unica stanza al primo piano delle carceri e trucidate a raffiche di fucile mitragliatore, che era stato piazzato all'ingresso della angusta cella. I colpevoli, compiuta la strage, scaricarono ancora colpi di pistola sui prigionieri che, ancor vivi, sebbene gravemente feriti annaspavano nel lago di sangue che si era formato, pur di tentare di sfuggire al massacro. Gli esecutori dell'eccidio, cioè gli stessi elementi della polizia partigiana di Carpi che avevano in custodia i prigionieri, tornarono nuovamente qualche minuto dopo sul luogo del massacro per rendersi conto della impresa compiuta. Nell'angusta cella, nel frattempo, si era sviluppato un incendio provocato dall'accensione di una piccola valigia contenente fiammiferi ed originato dallo sventagliamento della mitragliatrice; il fuoco aveva già intaccato gli indumenti dei morti ammontichiati l'uno sull'altro e si rese necessario, per spegnere le fiamme, il getto di numerosi secchi d'acqua.
Contemporaneamente, richiamati dalle notturne raffiche di mitraglia erano accorsi altri elementi della polizia partigiana e militari alleati. Vi furono due sopravvissuti: Gerardo Vinzani di anni 18 da Milano ed Enzo Cavazza da Carpi.
In seguito il Cavazza ed il Vinzani sono stati ripetutamente oggetto di tentativi di prelievo da parte degli esecutori dell'eccidio.
I disgraziati, “giustiziati” dalla polizia partigiana, sono stati:
il Tenente della GR, originario di Perugia: Giuseppe Fattorini, il milite della GNR di ventuno anni di Carpi: Sesto Dallari; il ventenne, milite della GNR di Carpi: Umberto Guinicelli; il venticinquenne di Campogalliano: Aldo Reggiani; il Tenente della GNR, di ventuno anni, di Perugia, Gustavo Martelli; il brigadiere della GNR, di Carpi, Giancarlo Vailati; la Guardia di P.S. di trentadue anni, di Ferrara: Massimiliano Zanella; il milite della GNR di trenta anni di Modena: Alfonso Fontanesi; il milite di quarantasei anni di Minerbio, Luigi Neri; il vice-federale di Bologna di quarantuno anni: Walter Pincella; il milite della Brigata Nera di Carpi, di cinquantacinque anni, Armando Pirondi; il Capitano della GNR, di anni trentadue di Carpi, Giulio Silvestri; il milite della GNR, di trentadue anni di Carpi, Dante Pantaleoni; e il milite della GNR, di Bologna di trentasette anni, Arduino.Bergonzini
Giorgio rimase sconcertato quando, dopo pochi giorni il suo rientro a casa, venne a sapere che il 25 Ottobre, il suo caro amico di ventuno anni Emilio Rebecchi, ritornato da appena tre giorni, dal campo di concentramento di Coltano era stato ucciso dai comunisti.
Abitava in Via Cialdini ed era stato richiamato alle armi nei corpi della RSI nel Dicembre 1943 e assegnato al 42° deposito misto provinciale di Modena, fu prelevato dalla propria abitazione da tre individui mascherati, in quel giorno, e il 12 Novembre i Carabinieri di Villa Freto, nel corso di una indagine sullo scoprimento di fosse comuni, in località Vigarani e Caletti, rinvennero quattro salme, tre delle quali apparivano sotterrate sin dall'Aprile, mentre la quarta venne riconosciuta per quella del Rebecchi.
Così come capitò ad un altro reduce da quel campo, anche lui appena rientrato a Bastiglia, dove venne assassinato in quei giorni, il milite della GNR, di ventiquattro anni: Paolo Gusmani.
Giorgio, “prigioniero” in casa dello zio, si disse che era andata bene a lui ma che, più di tanto, sempre chiuso in casa non avrebbe potuto restare e che, di conseguenza, era necessario prendere qualche risoluzione, o decidersi ad uscire e correre tutti i rischi, oppure cambiare città
 

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