Parte Prima
La Mandante
Romanzo modenese
Era stato rinchiuso troppo tempo dentro quelle quattro mura che, generosamente,
lo zio Francesco gli aveva messo a disposizione subito dopo aver terminato il
periodo di prigionia nel campo di concentramento, ed era arrivato ad un limite
di sopportazione tale tanto da raggiungere quella sensazione di claustrofobia
che ti mette nella condizione di non accettare più di rimanere chiuso. Pur
sapendo che, fuori dalla porta, andrai incontro a grossi pericoli, preferisci
correrli piuttosto che continuare in quella forma di auto-carcerazione senza
carcerieri
Il fratello di sua madre, Marisa Lotti, abita un appartamento abbastanza grande
in pieno centro storico, Via Cesare Battisti, esattamente la strada di fronte
alla Ghirlandina, la splendida torre dell’ancor più splendido Duomo, opera
dell’architetto Lanfranco e dello scultore Wiligelmo che lo avevano eretto
attorno all’anno 1100; guardava, con alcune finestre, su una delle porte
laterali del Duomo, quella chiamata “della Pescheria” e sulla Piazzetta dove si
trova la statua del grande poeta locale Alessandro Tassoni, autore del famoso
poema “La Secchia Rapita”, secchia che i modenesi tolsero, come trofeo, ai
bolognesi, dopo la famosa battaglia della Fossalta e, ancora tenuta dentro la
snella torre.
L’appartamento, di parecchie stanze, era occupato dalla famiglia del
proprietario, composta dallo zio, Francesco Lotti, medico oculista, dalla moglie
Renata Giacobbi, insegnante alla Scuola media Pasquale Paoli, e dalla loro
figlia quindicenne Elisabetta, studentessa al Liceo Scientifico “A. Tassoni”.
Alcune stanze, in quel dopoguerra da poco iniziato, erano state date in
concessione ad una famigliola che aveva avuto la casa distrutta: viste anche le
normative emanate dalle autorità locali per andare in aiuto ai tanti sinistrati,
pertanto coloro che avevano proprietà di vaste dimensioni dovevano accogliere
una o più famiglie. Quella arrivata da poco tempo in casa dell’oculista, aveva
subito la distruzione della propria nel primo bombardamento su Modena del 13
Febbraio 1944, ed era composta da marito e moglie, entrambi impiegati alle Poste
e da un figlio di tredici anni che avrebbe dovuto frequentare la terza Media.
In un angolo remoto di quel vasto appartamento con ingresso separato da quello
principale, il dott. Francesco aveva accondisceso, in seguito alle suppliche
della sorella Marisa, a “nascondere”, per un certo periodo di tempo, il figlio
di lei, Giorgio Campari, uscito, ai primi giorni del mese di Novembre del 1945,
dal famigerato campo di Concentramento di Coltano, dove gli americani avevano
rinchiuso più di trentacinquemila fascisti, sconfitti e perseguitati, di cui
oltre seicento modenesi, al termine del secondo conflitto mondiale. Solamente
qualche mese prima, in quella stessa stanza, aveva trovato rifugio un altro
cugino dello zio Francesco, figlio diciottenne di un'altra sua sorella che non
aveva voluto presentarsi ai bandi di reclutamento del Maresciallo Graziani.
Non era “salutare” uscire per le strade di una città come Modena. Coloro che
avevano rispettato un patto di fede e di lealtà a un certo “credo”, potevano
essere riconosciuti dagli “altri”, da quelli che, attraverso agguati, imboscate,
e uccisioni si erano accodati al carro del vincitore e ora spadroneggiavano
arroganti, prepotenti e impuniti, su tutto il territorio. Procedevano all’
eliminazione diretta di quei giovanissimi ragazzi che, sino alla fine, vestendo
una divisa ben riconoscibile, erano prima rimasti vittime di questi “ribelli”, i
quali, nascosti dietro ad una siepe colpivano a tradimento. Si creavano così i
presupposti per le ritorsioni e le rappresaglie che servivano solamente a
scavare l’odio tra fratelli a tutto vantaggio degli occupanti il suolo italiano.
A guerra finita, i giovani in divisa furono oggetto di una persecuzione
programmata dalle centrali moscovite, tendente all’eliminazione totale di tutti
coloro che erano stati e probabilmente avrebbero continuato ad essere
nell’immediato futuro, avversari irriducibili. Furono soppressi a migliaia. Ogni
giorno, per alcuni mesi, dopo la fine del conflitto, in tutto il nord Italia e
in particolare nella provincia modenese, gli emissari delle centrali russe
provvedevano a far “scomparire” decine e decine di fascisti o presunti tali,
comprendendo sotto questa formula, tutti i così detti “nemici del popolo”,
possidenti, preti, e tutti coloro che erano contrari all’ideologia comunista,
compresi i liberali e gli anarchici.
Giorgio Campari era
uno dei “reietti” o “appestati” che, giovanissimo, non avendo ancora compiuto i
diciotto anni, si era arruolato nelle formazioni della Repubblica Sociale
Italiana. Era un bel ragazzo, alto, moro, con occhi verdi vivacissimi e un
aspetto tale da farlo apparire maggiore di venti anni, e molte delle ragazze del
suo Liceo e del suo giro di amicizie, lo corteggiavano; aveva appena terminato
la seconda classe al “Muratori” ed aspettava di iniziare l’ultimo anno per
iscriversi poi o alla facoltà di Medicina o a quella di Legge, dell’Università
modenese dato che, genericamente, era affascinato da entrambi i percorsi ma
ancora non aveva fatto la scelta definitiva. La scuola era praticamente
terminata nel mese di febbraio, dopo le enormi difficoltà create dai continui
allarmi aerei che costringevano le scolaresche a correre nei rifugi con una
certa frequenza e in seguito anche al tremendo bombardamento che aveva sconvolto
la città il giorno 13 di quel mese.
La famiglia Campari sfollò immediatamente e si sistemò in una piccola casetta di
campagna, in località Villanova, a pochi chilometri dal centro città, percorso
che Giorgio copriva quotidianamente in bicicletta per recarsi a trovare gli
amici, o sotto al portico del Collegio, dove spesso si trovava anche negli anni
precedenti con la sua compagnia, o al bar del Guf, in Via Università per giocare
a biliardo, in particolare a carambola, a carte in accanite partite a “strappetto”;
alcune volte, durante la settimana, si recava anche alla casa della GIL, vicino
alle Ferrovie Provinciali, dove, nel campo da calcio attiguo, si disputavano
accese partite tra i giovani che ancora erano rimasti in città, dato che non
avevano l’età per il servizio militare e non erano sfollati, contro quelli che
vestivano già la divisa militare in uno dei corpi della RSI, nella Guardia
Nazionale Repubblicana, o in uno dei tanti reparti che si erano formati in
quegli ultimi tempi.
La frequenza con vari gruppi gli permetteva di venire a conoscenza degli umori
dei suoi coetanei e di conoscere i fatti e gli avvenimenti di quel periodo
tremendo pieno di incertezze; si cominciavano a ricordare gli amici e camerati
con i quali aveva trascorso tante ore nelle aule scolastiche, o a fare sport, o
nelle sale da ballo, insomma nei vari ritrovi anche paramilitari dove erano
soliti trovarsi i giovani in quel periodo e che cadevano sui vari fronti, ma in
particolare i coetanei che sul fronte interno si immolavano nella carneficina
che stava insanguinando la Patria con una lotta fratricida dai risvolti sempre
più cruenti.
Le notizie che quotidianamente arrivavano per via orale da coloro che venivano a
passare qualche giorno di licenza a casa, oppure dalla lettura dei quotidiani e
dalle notizie dell’Eiar, l’Ente nazionale radiofonico, erano, di giorno in
giorno, sempre più sconfortanti e la sensazione della sconfitta definitiva delle
forze dell’Asse, malgrado le roboanti promesse germaniche di incredibili e
devastanti armi segrete risolutive, era sentita dalla maggior parte della gente,
anche da quei giovani che correvano ad arruolarsi nei vari reparti della
Repubblica, comprese le formazioni delle SS Italiane dove entrarono anche molti
conoscenti di Giorgio, consapevoli che le truppe tedesche non erano
assolutamente degli invasori, come al contrario li appellavano i “ribelli” o
quelli del “Governo del Sud”, dato che erano già da tempo in Italia chiamati,
ancor prima del 25 Luglio, dallo stesso Re Vittorio Emanuele III°, poi
ignominiosamente rifugiatosi, l’otto Settembre 1943 tra le braccia del “nemico
angloamericano”, e che stavano combattendo, immolandosi, sul suolo italiano a
difesa della nostra terra.
Si videro poi, in seguito al tradimento della “cricca” monarchica e badogliana”,
sparare alle spalle dagli ex “alleati”. Molti giovani aderirono ancora, malgrado
tutto, alle “sirene” di un fascismo riciclato, che proclamava “onore e fedeltà”,
con appresso tutto quel bagaglio che la “mistica fascista” aveva rovesciato
addosso alle generazioni degli anni venti e trenta, nel suo ventennio di potere
assoluto.
In quell’estate, il giovane Giorgio, seppure indottrinato dagli insegnanti delle
scuole elementari, delle Medie e del Liceo a “Credere, Obbedire e Combattere”
era molto dibattuto su quello che avrebbe dovuto fare nell’immediato e quali
posizioni prendere in concreto, in rapporto a tutti i riscontri negativi di cui
era in possesso e che avrebbero dovuto farlo recedere da entrare nell’agone, ma
nello stesso tempo la sua morale non gli permetteva, come aveva sentito fare da
molti, di nascondersi e di stare alla finestra in attesa di vedere chi avrebbe
vinto, per poi schierarsi, all’ ultimo istante, con questi.
Successe però che suoi coetanei, che avevano aderito alle formazioni
Repubblicane, furono brutalmente assassinati dai partigiani, nelle quali
formazioni erano andati a rifugiarsi anche alcuni degli insegnanti che sino a
qualche mese prima vestivano “l’orbace” e lo avevano istruito alle teorie del
“Libro e Moschetto” con partecipazione totale alle manifestazioni del fascismo
poi, visto che l’ “aria” stava per cambiare, si misero addirittura a sparare
contro i loro ex allievi.
Venne anche a sapere che alcuni dei ragazzi con i quali aveva giocato, o
studiato, o partecipato alle esercitazioni premilitari del sabato fascista nella
più totale esaltazione di protagonismo, che Giorgio a volte “snobbava”, si erano
recati in montagna, in particolare dopo le conquiste, da parte anglo americana,
di Roma e di Firenze, che facevano paventare una rapida conclusione del
conflitto, e sicuramente avevano preso parte alle imboscate dove restavano
uccisi i suoi amici, come accadde alla fine di Agosto quando furono assassinati,
in un vile attentato, esponenti del Fascio modenese, il giornalista Corrado
Rampini direttore di “Valanga Repubblicana” il giornale del fascismo
repubblicano locale, assieme a Massimo Casolari e al suo giovane amico, di
diciotto anni, Francesco Medici; e, pochi giorni dopo, il 15 Settembre, venne a
sapere che nei pressi di Limidi di Soliera, un gruppetto di militi della G.N.R.
e della Brigata Nera, tra i quali altri due suoi cari amici, furono attirati in
una imboscata da numerose formazioni partigiane.
Vi fu una breve scaramuccia, con qualche raffica di mitra; gli aggressori erano
notevolmente superiori in forze ai fascisti, intimarono loro la resa, che venne
accettata dal Comandante la piccola formazione, il Sergente maggiore Nellusco
Gasparini Casari di quarantacinque anni, il quale, avendo la responsabilità di
quel gruppo di giovanissimi, tra i quali anche il figlio Giorgio, Caporal
Maggiore del 2° Reggimento della Divisione Littorio, di diciannove anni, decise
di arrendersi sperando di evitare un inutile spargimento di sangue.
Gli aggressori però, subito dopo la resa, li disarmarono e procedettero
all’immediata esecuzione di quel gruppo di imberbi soldati che, oltre al figlio
del Comandante, era composto dal giovane Danilo Ronchetti, di venti anni che, da
soli tre mesi, era diventato padre di un bel bambino, oltre che dai
diciannovenni, Stefano Miravalle, Bonfiglio Franzoni, Edoardo Sanmarini e dal
diciottenne Ermes Scorzoni, questi ultimi due appartenenti ai reparti della
Brigata Nera; mentre non aveva ancora compiuto diciasette anni, Lamberto
Bertacca al quale i partigiani, prima di finirlo, visto che era rimasto
leggermente ferito a una gamba durante la sparatoria iniziale, gli intimarono di
alzarsi e di gridare “Viva i partigiani, viva la Russia” se voleva aver salva la
vita. Il ragazzo, con uno sforzo sovrumano si alzò per gridare in faccia ai suoi
assassini, “Viva l’Italia, Viva la Germania”. A quella esclamazione segui
l’ultima raffica di mitra a stroncare, dopo le altre, quella fiorente
giovinezza.
In seguito a questi fatti il giovane Giorgio Campari che, nel giro di pochi
giorni, si vide privato di tre suoi cari amici, prese la decisione di
arruolarsi. E alcune sere dopo, all’ora di cena, con determinazione e con molto
coraggio esternò ai suoi genitori tale proposito. Era sempre stato un ragazzo
modello studioso e rispettoso del papà e della mamma ai quali voleva un gran
bene e mai avrebbe voluto dar loro un dispiacere, ma in quei momenti era ben
conscio che la sua scelta, al contrario, avrebbe sicuramente portato sconforto
in famiglia.
Il padre Giulio, che aveva una piccola industria di produzione di attrezzi per
l’agricoltura a Carpi, era quello che si dice, “una pasta d’uomo” tutto dedito
al lavoro e alla famiglia e non si era mai interessato di politica, specialmente
nel periodo della Repubblica Sociale appunto perché, avendo due figli maschi,
era sempre “sul chi vive”, mentre la madre Mirella Lotti, casalinga, aiutava il
marito, in particolare in quei tempi grami, dato che le entrate erano
decisamente scarse, con dei piccoli lavoretti di sartoria che una amica sarta,
con negozio in centro a Modena, le procurava.
Il secondo figlio, Marco, era un vivace ragazzino che aveva da poco compiuto
dodici anni e frequentava, quando era possibile, la seconda classe presso la
Scuola Media Pasquale Paoli in Via Grasolfi, esattamente in pieno centro storico
proprio dietro al Liceo frequentato dal fratello più grande.
Al momento in cui Giorgio aprì bocca per comunicare la notizia della sua
decisione ai genitori, vi fu un attimo di stupore e di gelo da parte di tutti,
se si esclude un esclamazione quasi euforica, da parte di Marco, il quale, già
in varie circostanze, aveva posto la domanda del perché ancora non partiva
volontario come invece avevano fatto alcuni suoi amici.
Il padre, seppure sconcertato e preso alla sprovvista rimase alcuni minuti, così
come la signora Mirella, in perfetto silenzio, ponderando bene la situazione e
cercando di affrontare l’argomento in modo sereno senza scenate. Era ben conscio
che il figlio, che sapeva essere ben più maturo della sua età, avrebbe mantenuto
fede alla decisione presa in modo totale e irrevocabile.
Quando gli riuscì di pronunciare qualche parola si limitò a dire:
“ma Giorgio, perché non aspetti di compiere i diciotto anni, che tra l’altro
arrivano tra solo un mese e magari ti limiti ad attendere l’eventuale chiamata a
presentarti oppure, ma penso che questo discorso non ti sia gradito, fare come
stanno facendo tanti, cercare un nascondiglio sicuro, rendersi “uccello di
bosco” e aspettare che passi la bufera, visto e considerato come stanno andando
le cose per le truppe dell’Asse, presto gli angloamericani arriveranno anche da
noi e allora tutto sarà finito.”
La mamma, come si aspettava il ragazzo, cominciò a versare qualche lacrima, gli
ricordò gli amici scomparsi e lo sconforto che era entrato nelle loro case,
disse semplicemente:
“ascolta quello che dice tuo padre e prova a pensare alla disperazione delle
famiglie dei tuoi amici caduti in questi giorni.”
Giorgio ribadì che non avrebbe fatto, assolutamente, “marcia indietro” e che il
giorno dopo sarebbe andato ad arruolarsi per le ragioni che, negli ultimi tempi,
aveva sempre esposto con chiarezza. L’unico a complimentarsi fu, ovviamente, il
fratellino che, anche lui cresciuto nello stesso ambiente e sottoposto alla
visione “guerresca” dei balilla, e ai giochi con gli amichetti a base di
sparatorie con i fucilini di legno o di latta, dai giochi con i proiettili, con
i bossoli, che gli aerei lasciavano cadere in abbondanza nei loro bombardamenti
e mitragliamenti, aspettava il momento adatto per entrare a far parte di qualche
formazione e poter vestire così una di quelle divise che tanto lo affascinavano.
Giorgio si era
iscritto al Partito Fascista Repubblicano nei primi mesi dell’anno, pochi giorni
dopo il primo micidiale bombardamento che lo aveva colto esattamente dentro alla
sede del Partito, a Palazzo Littorio in Corso Ettore Muti, dove si era recato,
al termine delle lezioni, per raggiungere, assieme all’amico Renato Venturelli
impiegato in quei locali, l’abitazione di Viale Berengario dove entrambi
risiedevano.
Quel giorno di Febbraio, lunedì 14, stavano inforcando le loro biciclette
quando, poco dopo le tredici e trenta, tra la confusione di coloro che stavano
scappando perché l’allarme aereo era suonato e il rumore sordo delle formazioni
delle “fortezze volanti” che, già da tempo tutti gli italiani avevano
cominciato, loro malgrado, a conoscere, per il rombo cupo, seppure molto lontano
e per il “luccichio” delle fusoliere argentee che colpite dai raggi del sole
mandavano bagliori accecanti visibili a chilometri di distanza, avvertirono le
prime tremende esplosioni. I due amici lasciarono cadere a terra le biciclette e
si precipitarono subito dentro al portone per andare a rifugiarsi negli
scantinati dove trovarono tanti altri impiegati e funzionari.
Le esplosioni, terrificanti, erano vicinissime, dato che le bombe stavano
cadendo nei pressi delle Ferrovie dello Stato, nell’attigua strada San Martino e
molte caddero sul “Pallamaglio” un grande fabbricato popolare di quel quartiere
oltre che sui grandi palazzoni di Viale Crispi, a pochi metri dalla Casa del
Littorio che, fortunatamente, non venne colpita; la terra tutto intorno tremava
come in un fortissimo terremoto, e sembrava che l’edificio, nel quale avevano
trovato rifugio, dovesse crollare da un momento all’altro. Al suono delle sirene
del cessato allarme i due ragazzi si precipitarono all’esterno alla ricerca
delle loro biciclette e, dopo essersi guardati attorno, avvolti nella polvere
che ancora gravava in quella zona, decisero immediatamente di prendere la via di
casa. Ai vari incroci trovarono all’opera i militi della GNR che assieme ai
militari tedeschi, pattugliavano le strade e cercavano di dare i primi soccorsi
a quella popolazione che, come impazzita, correva da una parte e dall’altra, in
tutte le direzioni per recarsi presso le abitazione dei familiari o dei parenti
nelle zone dove si presumeva ci fossero stati i danni maggiori.
Le strade che i ragazzi percorsero erano coperte da enormi crateri e in più
punti da giganteschi cumuli di macerie dove volontari e soccorritori, assieme al
pronto intervento dei Vigili del Fuoco e degli uomini dell’UNPA, (Unione
Nazionale Protezione Antiarea), assieme ai tecnici del Genio Civile,
provvedevano a portare aiuto a chi era rimasto sepolto sotto le macerie e ancora
dava qualche segno di vita, già cominciavano a vedersi coloro che, avendo
trovato qualche carretto o qualche altro mezzo di trasporto, vi avevano caricato
sopra masserizie e oggetti recuperati tra le macerie, scappavano dalla città per
andare a rifugiarsi da amici o parenti nelle vicine campagne.
Giorgio e Renato si fermarono a più riprese per cercare di portare aiuto, ma
erano talmente frastornati anche loro che in realtà non sapevano esattamente
dove “metter mano”; si trovarono coinvolti, a un certo punto, assieme ad altri,
nel recupero di alcuni cadaveri da un rifugio anti-schegge colpito da una bomba,
trovandosi così, per la prima volta, nella loro giovane vita, davanti allo
spettacolo della morte, spettacolo che si presentò loro in maniera sempre più
frequente e sempre più orribile nei mesi a seguire. In mezzo a quel caos di
gente urlante, di cadaveri, di urla strazianti dei feriti, di gente che
scappava, i due ragazzi si accorsero che erano già passate alcune ore, decisero
così di cercare di arrivare subito a casa per togliere dall’angoscia i loro
familiari che senz’altro li stavano aspettando in ansia sapendoli in giro per la
città. Mentre rincasavano si resero conto che lunghe file di contadini, con in
spalla badili e vanghe, si stavano portando, dalle campagne alla periferia della
città, verso il centro della stessa, in aiuto ai modenesi così duramente
colpiti.
Quella bestiale incursione dell’aviazione anglo-americana sulla sua città,
convinse ancor di più il giovane Giorgio a prendere posizione contro quelli che
ci avevano invaso e che stavano colpendoci così irrazionalmente. Si rese conto
che il terrorismo aereo degli “incursori” non era solamente propaganda bellica
del regime, che, attraverso i manifesti di Boccasile, comunicati radio e sui
giornali, accusava il nemico di questa forma di aggressione non prevista da
nessuna convenzione internazionale e da sempre rifiutata dalle nazioni
belligeranti, bensì una volontà programmata a tavolino onde spezzare, con i
bombardamenti terroristici, il morale di una nazione.
La città della Ghirlandina non aveva, sul suo territorio, particolari bersagli
di importanza bellica, e quei pochi non vennero nemmeno toccati, ma vide
accanirsi i “liberatori” contro le chiese, i musei, le case popolari, le scuole
e non una bomba cadde sugli obbiettivi che potevano avere un importanza
strategica quali, ponti, strade, ferrovie e caserme.
Cinque giorni dopo, mentre in città fervevano ancora i lavori per la rimozione
delle macerie dalle strade e per mettere in sicurezza i muri pericolanti e dopo
lo svolgimento dei solenni funerali delle oltre cento vittime nel grande
piazzale S. Agostino, Giorgio si recò alla sede di Palazzo Littorio per
iscriversi al PFR; venne accolto negli uffici dove trovò altre persone, giovani
come lui, che volevano manifestare solidarietà alle nuove istituzioni
repubblicane, dando la loro totale disponibilità.
Passarono tre mesi e sabato 13 Maggio alle 14,35 si scatenò nuovamente l’inferno
sulla città: Giorgio quella mattina si era recato, per studiare, assieme
all’amico Renato, presso la Biblioteca Estense al Palazzo dei Musei in Piazzale
S. Agostino, poi dal Museo si erano trasferiti, a casa di quest’ultimo, nella
vicina Via Berengario a “mettere qualcosa sotto i denti”.
Al momento in cui scattò l’allarme aereo, malgrado avessero subito assieme il
primo bombardamento, pensarono di rimanere in casa, ritenendo che, essendo
vicinissimi all’ospedale, gli aerei, forse, avrebbero risparmiato quella zona.
Le formazioni delle “fortezze volanti” iniziarono a sganciare il loro micidiale
carico fatto di bombe da mille chili cadauna che cominciarono a cadere a
grappoli sulla città.
Molte bombe fecero saltare in aria le case nel vicino Viale Storchi; al sentire
le esplosioni cosi vicine i due ragazzi si precipitarono giù dalle scale per
cercare di raggiungere uno dei rifugi più vicini, in Piazza d’armi o presso il
vicino Ospedale.
Non fecero in tempo a raggiungere il rifugio che già non si sentirono più
esplosioni; l’incursione era durata al massimo dieci minuti e subito dopo,
mentre cominciavano a dirigersi verso il centro della città, per andare a vedere
dove più avevano colpito i “liberatori”, sentirono passare un auto con un
altoparlante sopra che mandava suoni simili a quelli delle sirene per il cessato
allarme, dato che quelle predisposte non funzionavano più a causa della completa
interruzione della corrente elettrica. Percorrendo la Via Emilia in mezzo a un
caos indescrivibile, con la gente che impazzita correva da tutte le parti, con
la polvere che sembrava coprire tutta Modena, raggiunsero Corso Duomo dove
videro affollarsi molte persone attorno al portone dello stesso, poi, girato
l’angolo su Piazza Grande, si trovarono di fronte ad un cumulo di macerie e,
alzati gli occhi, si accorsero dell’enorme buco creatosi sopra alla porta dei
Principi, il Duomo colpito in pieno da una bomba! Così come fu gravemente
danneggiato il Museo Lapidario.
Non fu solamente la Chiesa più importante della città ad essere centrata, ma
anche quella di San Domenico e la Chiesa di San Salvatore in Via dei Servi.
Subirono danni il Tempio Monumentale dei Caduti, la Chiesa di San Vincenzo;
rimasero poi costernati a vedere l’ampia ferita creatasi sulla Via Emilia,
all’angolo con Corso Canalgrande dove videro, crollato in parte, il salotto
buono della città, quel Portico del Collegio dove erano soliti passeggiare per
incontrarsi con gli amici e con le ragazze. Anche il Palazzo Ducale subì un
grave danno nella facciata prospiciente Via tre Febbraio, dove una bomba creò un
grosso squarcio. Venne colpito anche il balcone principale, prospiciente Piazza
Roma, che fu notevolmente danneggiato.
Distrutto dalle bombe fu il Cinema Centrale. Impararono più tardi che era andata
completamente distrutta la bella Villa Rainusso splendido gioiello
architettonico del XVII° Secolo e sede dell’Istituto per le malattie tropicali,
al centro di uno splendido bosco, dove frequentemente da ragazzini andavano a
giocare. In centro si trovarono a dover superare cumuli di macerie in Via Tre
Re, in Via Francesco Selmi, in Via Rismondo e nella zona di Via Modonella,
strada parallela al cinema distrutto.
Rimase duramente colpita anche la Caserma “Ciro Menotti”, sede della Scuola
allievi ufficiali della GNR dove parecchi allievi rimasero sotto le macerie.
Dopo alcune ore i ragazzi tornarono a casa anche perché, com’era successo tre
mesi prima, Giorgio doveva rientrare a Villanova in bicicletta per rassicurare i
suoi genitori. Anche in questa circostanza ci si rese conto che coloro che
promettevano di venirci a “liberare” venivano invece semplicemente a
massacrarci, senza alcun rispetto della morte di bambini e persone anziane che,
attraverso queste azioni, puramente terroristiche, erano costrette a subirne le
conseguenze più gravi.
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Nel periodo estivo,
precisamente alla fine del mese di Giugno, il Segretario Nazionale Alessandro
Pavolini, costituì, su tutto il territorio ancora in mano al Governo Fascista
una nuova formazione militare, quella delle Brigate Nere territoriali. Fu una
trasformazione politico militare del Partito Fascista Repubblicano in organismo
prettamente militare attraverso la costituzione del Corpo Ausiliario delle
Squadre d’azione delle Camicie Nere che, da quel momento, furono denominate
Brigate Nere.
Militi di queste formazioni, nate con lo scopo di proteggere la popolazione
civile dagli attacchi indiscriminati delle bande partigiane, portavano aiuto in
tutte le situazioni di pericolo e di difficoltà in cui si venivano a trovare i
cittadini, tormentati dai mitragliamenti e dalle incursioni aeree che oramai, in
quei mesi si verificavano quasi quotidianamente. Furono militarizzati tutti
coloro che, alla data del 1° Luglio 1944, avevano dai 18 ai 60 anni ed erano
iscritti al PFR.
La mattina del 21 Settembre Giorgio, dopo il colloquio con i genitori, si recò
presso la sede del partito per l’adesione a quella nuova formazione militare, e
si rese conto che da quel momento la sua vita, che sino ad allora era corsa sui
binari regolari tra studio e famiglia, avrebbe subito un radicale cambiamento.
Dal Palazzo Littorio venne inviato alla sede del XXVI° reparto della brigata
Nera modenese che portava il nome dello squadrista locale, “Mirko Pistoni”,
ucciso dai partigiani, comandati da un certo “Moro”, assieme ad altri cinque
commilitoni, nel mese di Giugno, a Zocca.
La sede della B.N. territoriale modenese si trovava presso la Caserma “Arturo
Galluppi”, altro nome di una giovanissima camicia nera di Modena, decorata di
medaglia d’oro al valor militare e caduto sul fronte greco albanese nell’inverno
1940-1941.
Prima di entrare in quei locali Giorgio si trovò a considerare che quel portone
era a pochi metri di distanza dall’entrata dell’Istituto Magistrale “Carlo
Sigonio” dove, negli ultimi tempi della scuola andava di frequente, ad
attendere, all’uscita dalle lezioni, una sua giovane coetanea, Gabriella Ferrari,
per fare, assieme a lei un tratto di strada e accompagnarla verso casa. Quella
ragazza gli piaceva moltissimo, ma non aveva mai avuto il coraggio di
dichiararsi e di esternarle il suo amore limitandosi a gioire con se steso per
quella mezz’oretta che riusciva a stare al suo fianco.
Poi il bombardamento e lo sfollamento gli fecero perdere di vista la ragazza, e
nello stesso tempo si rammaricava per non essersi ancora deciso, come si era
ripromesso, di scriverle. Ecco che adesso si trovava in quegli stessi luoghi,
pronto ad affrontare un radicale cambiamento delle sue abitudini, andando
incontro a situazioni molto più rischiose.
Entrò in caserma con il cuore che batteva fortemente per l’emozione pur cercando
di apparire disinvolto e dimostrare sicurezza, quanto meno davanti al piantone
di servizio che lo inviò all’ufficio accettazione delle nuove reclute, da dove
lo avviarono al capomanipolo della seconda compagnia del primo battaglione di
quel reparto comandato, inizialmente da Gian Paolo Solmi e in seguito dal
Federale di Modena, Giovanni Tarabini Castellani, che Giorgio aveva conosciuto,
in occasioni di manifestazioni sportive, alla casa della GIL, oltre che dal
Colonnello Ignazio Battaglia.
Le formalità furono sbrigate velocemente e fu inviato immediatamente ai suoi
alloggiamenti per depositare gli abiti borghesi, dopo essere stato rifornito
della divisa che consisteva in una camicia nera, un paio di pantaloni grigio
verdi, un maglione a collo alto nero, un giubbotto scuro, un paio di scarponi,
un cinturone a bandoliera e alcuni indumenti intimi.
Mentre sistemava le sue cose e dopo essersi presentato al comandante della
compagnia, venne raggiunto da un canto collettivo, proveniente dal cortile, dove
un gruppo di quei militi, giovani ed anziani, avevano intonato una canzone che
non aveva mai udito ma che sarebbe in seguito, diventata familiare, e che così
diceva:
“Le donne non ci vogliono più bene
perché portiamo la camicia nera
hanno detto che siamo da galera
hanno detto che siamo da catene…
L’amore coi fascisti non conviene
meglio un vigliacco che non ha bandiera
uno che serberà la pelle intera
uno che non ha sangue nelle vene
Ce ne freghiamo! La Signora Morte
fa la civetta in mezzo alla battaglia
si fa baciare solo dai soldati
Forza ragazzi, facciamole la corte
diamole un bacio sotto la mitraglia
lasciamo le altre donne agli imboscati!
A Noi! “
L’ascoltò con molta attenzione, sentiva che era un motivo coinvolgente e
affascinante per la sua polemica e per la sua durezza, ma non si capacitava come
mai accusasse le donne di non voler bene ai giovani fascisti solo perché
indossavano la camicia nera: lui era sempre stato convinto che queste fossero
attratte dalle divise e in modo particolare da quelle degli ultimi anni. Anche
se a qualcuno potevano sembrare un po’ lugubri per quell’ostentazione del nero e
dei teschi sulle mostrine, sui cappelli, sui labari, erano pur sempre di
concezione moderna e se vogliamo anche eleganti, ma in realtà rispecchiavano
l’atmosfera di quei tempi duri con la morte che realmente ti aspettava dietro ad
ogni angolo. In fondo, loro, erano stati educati ad una visione strafottente
verso la “falciatrice” e tutti coloro che, come lui, avevano aderito al nuovo
fascismo repubblicano erano pronti a tutto, anche ad andare incontro “alla bella
morte”, al supremo sacrificio, pur di riscattare l’onore di una nazione che,
dopo il 25 Luglio e l’otto Settembre, era completamente scaduta nella
considerazione e degli alleati e degli stessi avversari.
Dopo pochi minuti sentì intonare, dalle parte opposta del cortile, un coro di
voci femminili; erano le ausiliarie aggregate da poco tempo al gruppo della
Brigata Nera “Mirko Pistoni”, che, sullo stesso motivo della prima canzone,
davano la risposta alle preoccupazioni di Giorgio; le donne della Rsi
volontarie, che per la prima volta nella storia erano entrate a far parte di un
corpo militare con una loro autonoma formazione; cosi cantavano a rincuorare i
loro camerati:
“Le donne non vi vogliono più bene
perché portate la camicia nera.
Non vi crucciate; cosa da galera
Fu giudicato Cristo, e da catene!
A voi fascisti, a voi non si conviene
Chi rinnegò la Patria e la Bandiera,
chi ha stoppa in capo ed acqua nelle vene!
Voi che correte il palio della morte,
la Patria onora, e premio alla battaglia
è il mirto che fiorisce pei soldati.
E un cuor di donna vi farà la corte,
che vi ha seguito sotto la mitraglia,
un cuore che disprezza gli imboscati!
A Noi!
Vi fu, per la
giovane recluta, un breve ma intenso periodo di addestramento, con particolare
attenzione all’uso delle armi, specie alla conoscenza del mitra “Beretta” e
delle bombe a mano, di cui erano stati dotati i militi della Brigata Nera
modenese. Seguirono poi una serie di esercitazioni di ordine chiuso per imparare
a marciare composti nei ranghi, ed anche alcune sfilate per le strade del centro
di Modena per far conoscere ai cittadini le formazioni del nuovo fascismo
repubblicano.
Giungevano, praticamente ogni giorno, le notizie di uccisioni di civili e di
militari delle svariate formazioni dell’esercito repubblicano da parte dei
“banditi” o dei cosiddetti “ribelli” in agguati, quasi sempre contro militi
isolati o a civili prelevati nelle loro abitazioni, o uccisi mentre rientravano
nelle loro case dai partigiani nascosti, o dietro una siepe o dietro ad un
portone, nel buio delle strade. In quei giorni, un plotone di suoi commilitoni,
ma del secondo battaglione della sua Compagnia, venne comandato a partecipare ad
una esecuzione di tre partigiani in Piazza Grande come rappresaglia per
l’uccisione di alcuni militi fascisti avvenuta alcuni giorni prima.
Giorgio si augurava sempre di non dover mai entrare a far parte di uno dei
plotoni comandati per tali operazioni, per non dovere partecipare alla
fucilazione di fratelli che, pur sempre, si erano macchiati di quei delitti
uccidendo vigliaccamente dei suoi camerati. Le discussioni sorgevano in
continuazione tra i giovani ed anche tra gli anziani della sua compagnia che era
formata da tre squadre d’azione, ognuna delle quali composta da 33 uomini
ulteriormente suddivisi in tre nuclei.
Il numero tre nella simbologia fascista, che si ispirava alle legioni romane,
come i triari, che costituivano la terza schiera ed erano in battaglia l’ultima
risorsa, era considerato il numero perfetto e magico.
Arrivò anche, a far parte della sua compagnia, ma non della sua squadra
d’azione, l’amico Renato Venturelli con il quale era scampato al terribile
bombardamento aereo del 13 Maggio, avendo così la possibilità, e con una certa
frequenza, di trovarsi assieme a chi aveva partecipato a tante avventure con
lui, durante la vita civile, ma nello stesso tempo aveva stretto amicizia con
altri coetanei della sua squadra come i giovani Emilio Rebecchi, abitante in Via
Cialdini e Armando Fantoni che abitava in Corso Canalchiaro.
Si era accorto che in mezzo a tanti giovani e meno giovani vi erano ragazzi,
molti studenti come lui, che erano entrati in quelle formazioni militari
motivati da sentimenti purissimi e da altissimi ideali, ma nello stesso tempo si
era reso conto che alcuni di questi personaggi erano arrivati a fare quella
scelta per ragioni ben diverse, chi per avere la possibilità di portare alla
propria famiglia un aiuto economico in quei tempi durissimi e chi per poter,
eventualmente, sfruttare quella posizione per propri personali motivi, dettati
anche da ragioni poco nobili e di questo aspetto se ne rese conto poco tempo
dopo durante un rastrellamento nella zona di Concordia quando il suo reparto,
aggregato ad un reggimento della B.N. “Giuseppe Ferrari” di Reggio Emilia e
guidati dal Tenente Alberto Forese oltre ad un altro reparto tedesco comandato
da un certo maggiore Smith, si trovò ad assistere ad un episodio poco
edificante.
Era a fianco del sottotenente Giulio Lodini quando due donne del posto si
avvicinarono per denunciare la scomparsa di alcuni oggetti d’oro durante la
perquisizione di alcune camicie nere. Il Comandante, senza esitazione, chiamò
subito la squadra che aveva operato in quella zona e li mise a confronto con le
due donne che riconobbero subito i due militari che le avevano derubate, Romano
Bedeschi e Angelo Battini.
Il Comandante fece perquisire i due dal Sergente Bruno Storchi, che rinvenne
nelle loro tasche un orologio d’oro, un paio di orecchini oltre ad un
braccialetto che immediatamente fece restituire alle donne. Inoltre fece
strappare dalle giacche delle due indegne camicie nere i segni del Littorio e
furono immediatamente inviati alle carceri di Mirandola. Alcuni giorni dopo vi
furono le fucilazioni di due camicie nere che avevano compiuto atti esecrabili e
che vennero condannate a morte dai tribunali fascisti
Giorgio compì il suo diciottesimo compleanno, il 24 Ottobre, ed ottenne, dal
Comandante, un giorno di permesso per poter festeggiare con la famiglia quel
traguardo importante della sua giovane vita. Fu lo stesso Comandante,
Giustiniano Fontana, ad accompagnarlo a casa, visto che in quella mattinata
doveva recarsi a Carpi e la piccola frazione, dove erano sfollati i famigliari
del ragazzo, si trovava sul percorso, caricò in auto la giovane recluta per
lasciarlo davanti all’abitazione, dove erano ad attenderlo mamma e papà, oltre
al fratellino Marco.
L’accoglienza, calorosissima, gli diede un po’ di commozione che mascherò con
disinvoltura, in particolare di fronte al ragazzino che lo guardava ammirato per
la perfetta divisa mentre gli andava a controllare il cinturone, gli stivaletti
alti e la giacca con i gladi, poi si fece dare il berretto con la visiera che
portava al centro il teschio argentato simbolo della brigata, per metterselo in
testa, saltellando intorno a sua madre cantando “Giovinezza”, una delle
classiche canzoni del fascismo che tante volte aveva intonato nelle formazioni
dei balilla moschettieri di cui faceva parte.
Giorgio andò a fare un salto nella sua camera dove erano rimasti i libri di
scuola ed alcuni romanzi acquistati qualche tempo prima di arruolarsi. Mise
dentro ad una cartelletta, “Noi Vivi” e “Addio Kira”, che aveva appena iniziato
a leggere, per portarseli con sé in caserma. Trovò anche alcune lettere
inviategli da alcuni amici e dal cugino Umberto, combattente con la X° Mas sul
fronte di Nettuno, che in quel momento si trovava in Piemonte, e gli dava
appuntamento a Modena a breve termine.
Così gli scriveva il cugino da Ivrea, in data 29 Settembre, e la cosa lo lasciò
sorpreso, in quanto il contenuto della lettera era passato indenne dalla censura
che, frequentemente toglieva con pesanti cancellature frasi non gradite o
indicazioni di località e quant’altro fosse considerato non corretto:
“Carissimo Giorgio,
come promessoti nella mia ultima, ormai datata, e dove ti raccontavo i nostri
combattimenti contro le soverchianti forze anglo americane sul fronte di
Nettuno, che condussero questi a superare la nostra resistenza assieme a quella
dei camerati tedeschi e a raggiungere, prima la nostra Capitale e poi anche
Firenze; il nostro reparto, il grande “Barbarigo” della X° MAS, guidato
dall’insuperabile Comandante Junio Valerio Borghese è stato trasferito in
Piemonte dove, per ragioni contingenti e non del tutto gradite, sia da noi marò,
sia da molti nostri comandanti, siamo costretti a condurre la “controguerriglia”
nei confronti delle formazioni ribelli, che in questa zona sembrano abbastanza
agguerrite e ci procurano notevoli difficoltà e molti nostri camerati sono
caduti, sia in scontri diretti, sia in agguati vigliacchi. Il nostro
Battaglione, che aveva subito tra Anzio e Nettuno una notevole falcidia di
uomini, è stato considerevolmente rimpolpato in questi ultimi tempi; ora ci
troviamo ad Ivrea, da dove si parte per tutte le azioni di rastrellamento nelle
zone circostanti.
Un episodio solo desidero raccontarti per mettere in evidenza quanto i “signori”
ribelli siano, ferocemente messi, dai loro caporioni, contro di noi, e nello
stesso tempo, qualche volta, siamo costretti a reagire con rappresaglie, che
risultano sgradevoli a noi stessi. I marò della Decima si sono arruolati per i
combattimenti a viso aperto contro il nemico, come abbiamo dimostrato sul
litorale romano.
Combattere contro chi ci spara alle spalle, oltretutto sono nostri fratelli, e
tra loro c’è anche qualche disertore dei nostri, veramente mi ripugna. Mi sono
trovato qualche tempo fa a partecipare ad un rastrellamento in seguito ad un
gravissimo fatto avvenuto ad Ozegna, una località del Canavese, dove, in seguito
ad un imboscata partigiana, furono vigliaccamente trucidati, assieme al nostro
Comandante Umberto Bardelli, altri nove tra ufficiali e marò della Decima. In
più i “partigiani” si sono portati con loro un gruppo dei nostri fatti
prigionieri. Non voglio tediarti oltre con notizie di questo genere anche perché
non so se la censura lascierà passare questa mia.
Ho appreso in questi ultimi giorni che, molto probabilmente, tra qualche
settimana ci trasferiranno sul fronte orientale a contrastare le forze slave che
premono sull’Istria e su Trieste, spero pertanto di fare una sosta a Modena per
riabbracciarti e complimentarmi con te, dato che ho saputo che ti sei arruolato
nella Brigata Nera, salutami tanto i tuoi e tuo fratello.
A presto. Umberto
Trovò anche cinque lettere, profumate, di alcune sue amiche e compagne di classe
che gli andavano raccontando gli ultimi avvenimenti e i pettegolezzi sull’estate
da poco conclusasi, mentre l’amica, Giovanna Mariotti, gli confidava la volontà
di arruolarsi nel corpo delle Ausiliarie.
Dopo aver giocato un po’ con il fratellino e dopo avergli controllato alcuni
compiti che, in quei mesi di assenza scolastica, sia il padre sia il fratello
gli avevano imposto di svolgere con una certa regolarità, arrivò l’ora del
pranzo che la mamma, in previsione dei festeggiamenti del diciottesimo anno del
figlio, aveva preparato con cura, anche se, in quei giorni trovare certi
prodotti era molto difficile e ugualmente bisognava sborsare cifre
considerevoli, visto e considerato che, con quel poco che si poteva acquistare
con la tessera annonaria, ci sarebbe stato ben poco da festeggiare.
A tavola Giorgio cominciò a raccontare quel suo mese di vita militare e,
rivolgendosi in particolare al padre, sottolineò il grande entusiasmo che,
malgrado tutto, motivava lui e tutti i suoi commilitoni:
“sai papà, le notizie che arrivano dal fronte non saranno esaltanti ma non sono
nemmeno negative: gli anglo americani sono ormai bloccati sulla dorsale
appenninica e noi vediamo i camerati tedeschi, i quali, pur sapendo che la loro
Germania viene costantemente e brutalmente bombardata dall’aviazione
angloamericana, credono ancora che le armi segrete, che da un po’ di tempo il
Fuherer e gli alti comandi tedeschi promettono, saranno pronte sicuramente dopo
l’inverno e le sorti della guerra cambieranno di punto in bianco”.
“Ma Giorgio”, lo interruppe il padre, “al momento, e su tutti i fronti, la
supremazia aerea e navale ed anche di terra, è totalmente dalla loro parte, io,
e te lo dico in via strettamente confidenziale, perché sai che le autorità
repubblicane hanno espressamente vietato l’ascolto, mi sintonizzo qualche volta
su Radio Londra e posso dire che trovo, in loro un organizzazione tale su tutto,
che mi riesce difficile capire come la Germania e in parte l’Italia possano
contrastare la potenza bellica che hanno nelle loro mani, e noi vediamo
quotidianamente passare sulle nostre teste migliaia di fortezze volanti che
vanno a colpire i centri del nord e quello che è rimasto della macchina da
guerra germanica. Inoltre, se non in qualche rara eccezione, non riescono mai ad
alzarsi in volo quei pochi caccia rimasti all’aviazione italiana e tedesca. Come
è possibile contrastare tale potenza?”
“Hai ragione papà, ma, come ti dicevo, la sorpresa tedesca arriverà, l’inverno
ci sarà favorevole e quelle nuove armi saranno veramente risolutive; abbiamo
visto alcuni documentari, proiettati esclusivamente per le forze armate
germaniche e per i loro alleati, dove la messa a punto delle V1 e delle V2 ha
raggiunto quasi la perfezione e presto ci sarà la terrificante risposta al
terrorismo aereo che gli angloamericani stanno spandendo su tutta l’Europa. E
poi, non vedi che sul fronte interno le formazioni ribelli che durante l’estate
si erano rinforzate di tanti “traditori” perché credevano che la guerra
terminasse prima delle piogge autunnali, si sono praticamente afflosciate, anche
in seguito al messaggio del Generale Alexander trasmesso a quelle formazioni
invitandole a fermarsi nelle loro azioni, anche se questi continuano nei loro
agguati isolati e ugualmente fomentano sempre più la guerra civile, stimolate in
particolare dai comandi del comunismo nazionale e internazionale e continuano a
spararci alle spalle creando in continuazione i presupposti per le rappresaglie.
Noi, in particolare, in qualità di formazione politica militarizzata, siamo
indubbiamente i più esposti alle loro azioni, ma anche loro, con la stagione
invernale verranno a trovarsi in difficoltà e quello che mi turba è solamente
l’aspetto umano perché so che, prima o poi, potrò trovarmi di fronte qualche mio
conoscente o ex amico e, probabilmente, sopravviverà chi di noi riuscirà a
sparare per primo e questo lo trovo devastante e orribile, siamo dentro ad una
guerra civile di proporzioni gigantesche. E’ difficile venirne fuori se non con
un bagno di sangue.”
Il padre guardò il figlio e non ebbe più il coraggio di rispondere, quel ragazzo
tranquillo, pieno di buoni sentimenti e di altruismo in quel breve lasso di
tempo era completamente trasformato e si rese pienamente conto che, se la
situazione andava ulteriormente peggiorando, come lui si prospettava, per il
figlio sarebbero arrivati, quanto meno, “tempi difficili”.
Marco, durante la conversazione tra padre e figlio, non si era azzardato ad
“aprir bocca” e nel contempo guardava sempre più ammirato il fratello per il
quale, adesso, provava una vera e propria venerazione. La mamma invece era
rimasta in disparte per seguire sui fornelli i manicaretti che aveva preparato
con tanta cura.
Da buona modenese aveva messo sul fuoco un bella pentola di tortellini, fatti in
casa con le sue mani, anche se aveva faticato a trovare le uova e la farina per
“tirare” una “pastella” degna di quel nome, in brodo di cappone, anche lui
acquistato alla “borsa nera” pur sapendo di commettere un’ infrazione alle
disposizioni che il figlio doveva tutelare ma che, ”si disse”, per un occasione
così importante, si potevano anche trasgredire. Da un contadino vicino a loro
era riuscita trovare un bel coniglio che fece “in arrosto” con spezie varie e un
cotechino che erano mesi che non si riusciva a mangiare.
Per dolce riuscì a fare una bella torta di amarene sulla quale aveva messo
diciotto candeline, trovate in un negozietto alla periferia di Modena, dove si
potevano “scovare” “cianfrusaglie” varie. Il lauto pranzo fu innaffiato da una
bottiglia di lambrusco di Sorbara che il buon papà Giulio era riuscito a
reperire a Bomporto da un amico che lavorava presso la cantina “Ina Maria
Pellerano” che produceva appunto un ottimo vino.
Non riuscì, invece, a trovare un po’ di “vero” caffè, era raro come l’oro, e
dovettero accontentarsi del “surrogato”, ma a Giorgio non costava nessuna fatica
dato che non gli piaceva, gustò invece un bicchierino di “Sassolino - Stampa”
che il papà versò da una bottiglia, quasi piena, che conservava gelosamente e
ben nascosta, in un angolo recondito della credenza.
Praticamente il giovane fece il “bis” di ogni piatto, al chè la mamma si
preoccupò e gli chiese, con una certa apprensione:
“ma vi danno da mangiare in caserma?”
Giorgio le rispose:
“ma certo mamma, è sempre abbondante il rancio, anche se si mangia dentro ad una
gavetta, ma o il minestrone, o le varie pastasciutte, o gli spezzatini sono
sempre caldi e ben cucinati, spesso abbiamo anche la frutta e alla domenica il
dolce, indubbiamente le nostre cucine e i nostri cuochi sono all’altezza della
situazione specialmente viste le richieste di tanti giovani, le doppie razioni
si sprecano, certo non è come la cucina della mamma, e complessivamente non
possiamo lamentarci”.
Il pomeriggio, dopo un così lauto pranzo, riuscì anche a “schiacciare un
pisolino” prima dell’arrivo del suo Comandante che passò a prelevarlo, al
ritorno da Carpi, alle diciotto per ritornare alla caserma “Galluppi”.
Portò con sé la torta rimasta ed anche un'altra intera, dato che la mamma ne
aveva preparate due, e alla sera venne divorata assieme ai suoi amici che
vollero, anche loro, fargli gli auguri e come regalo di compleanno gli fu
promessa, per il giorno seguente, dopo la libera uscita, una “marchetta”, anzi
una “doppia”, da consumarsi in “baito”, come lo chiamavano i modenesi, presso
una delle “case chiuse” di Via Catecumeno, che era a poca distanza dalla loro
caserma.
Giorgio rimase sorpreso dalla proposta e dopo una serie di lazzi e di grevi
battute la compagnia si sciolse per ritornare ciascuno alla propria branda, dato
che era scoccata l’ora del silenzio e il festeggiato, rimasto solo con l’amico
Renato gli confidò, sottovoce, che lui non era mai entrato in una di quelle case
e tanto meno aveva avuto rapporti con le donne, era “vergine” e non aveva
nessuna intenzione di farsi prendere in giro, nello stesso tempo aveva una paura
tremenda nel pensare di dovere affrontare, a breve, quella prova.
In realtà, come tanti suoi coetanei, sicuramente la maggioranza di loro, il
rapporto di Giorgio con le ragazze si era limitato ai corteggiamenti, agli amori
platonici, all’idealizzazione della donna quasi fosse un essere superiore, ma
nello stesso tempo, già da alcuni anni, sentiva fortemente gli stimoli di una
sessualità che lo travolgeva, anche perché il condizionamento dell’ambiente
della Chiesa di San Bartolomeo, che aveva frequentato a lungo sino ai sedici
anni e mezzo, era stato oltremodo pesante.
Guai a pensare di toccare una ragazza e anche di cercare l’auto erotismo
attraverso operazioni che i preti, dal confessionale, giudicavano opera del
demonio e punivano il “malcapitato” facendogli recitare, nel migliore dei casi,
dieci “pater, ave e gloria”, per ogni “toccata e fuga” e quando ti chiedevano,
con voce melliflua, “quante volte l’hai fatto” ti vergognavi e diventavi rosso
come un papavero nel dichiarare che l’avevi fatto anche tre o quattro volte al
giorno, e quando uscivi dal confessionale come un cane bastonato, ti
ripromettevi di non farlo più.
Ma gli stimoli erano sempre più forti e ogni volte ci ricascava; le ragazze poi
non ti aiutavano più di tanto, perché anche loro erano ugualmente, e ancor più,
condizionate, oltre che dalla chiesa anche dalle mamme che, credenti o meno,
volevano fare in modo di portare le loro figlie al matrimonio illibate e di
conseguenza le controllavano in ogni momento e loro stesse vivevano la
sessualità quasi con terrore, questo almeno nelle zone urbane, mentre nelle
campagne vi era maggiore libertà e le ragazze, in considerazione del contatto
quotidiano con tutti gli aspetti della sessualità, anche del mondo animale,
sapevano affrontare con maggior disinvoltura il problema ed erano, di
conseguenza, più disponibili rispetto alle ragazze di città, specialmente quelle
legate al mondo cattolico, che erano poi la maggioranza..
Durante il ventennio vi era stato, con l’aver avvicinato al mondo dello sport
anche le donne, un superamento di certi costumi di tipo ottocentesco e la chiesa
difatti era entrata in conflitto durissimo con le gerarchie fasciste per questo
“rilassamento” dei costumi, veniva giudicato uno scandalo il comportamento delle
femmine che, negli stadi, o nelle palestre, mettevano in mostra le loro gambe
esibendosi in movimenti ginnastici considerati provocatori e non consoni al loro
corpo.
Giorgio, quella sera dei suoi diciotto anni, andò a dormire in branda assillato
da quel pensiero e ci mise tanto prima di prendere sonno ripensando alle sue
esperienze si rese conto che, in realtà, il corpo della donna era ancora per lui
un tabù.
Qualche ragazza, l’ aveva baciata, anche in bocca, a lungo, e con enorme
soddisfazione e il turbamento che sentiva era ancora più forte di quando,
attraverso il pensiero, nei momenti dell’eccitazione naturale si stimolava con
la sua principale fidanzata, “la mano destra” immaginando di fare all’amore con
qualche donna, sempre più grande di lui, come gli era successo, spesso e
volentieri, nei riguardi di una sua professoressa, giovane e bella, di scienze
naturali che, quando si muoveva alla lavagna faceva sobbalzare il seno, solido e
compatto, in modo estremamente provocante inoltre, di tanto in tanto, mostrava
le cosce, con le gambe accavallate sotto la cattedra, lasciando intravedere, in
qualche raro momento, anche le giarrettiere che sostenevano le calze di quella
dea calata in terra, anzi calata sulla cattedra del suo Liceo, mentre lui,
durante quelle lezioni, si trovava sempre nel primo banco.
Con l’amica Lucia, che aveva un anno più di lui, ed era commessa in un negozio
di abbigliamento in Piazza Venti Settembre, vi furono alcuni incontri di tipo
“ravvicinato”; andarono qualche volta a fare una passeggiata ai giardini
pubblici e successe un giorno che, seduti su una panchina, dopo aver verificato
che non vi era nessuno nei paraggi, si baciarono a lungo e fu lei a suggerirgli,
se voleva, di accarezzarla tra le gambe.
L’arrivo di un'altra coppia, annunciata dallo scricchiolio della ghiaia nel
vialetto del giardino, li fece immediatamente smettere e, velocemente cercarono
di ricomporsi; subito lei gli disse:
“ecco, adesso cosa penserai di me, che sono una poco di buono, una ragazza
leggera, e non mi vorrai più bene, ma io l’ho fatto perché te ne voglio tanto e
anche perché mi hai detto che vai ad arruolarti e chissà quando ci rivedremo”.
Il fatto successe alla fine del mese di agosto, ed effettivamente non ebbe più
occasione di rivederla, ma in quella notte del suo compleanno sentì un enorme
nostalgia per quella ragazza e si disse che, appena libero dagli impegni,
sarebbe passato a ritrovarla nel negozio di Piazza XX Settembre, nel caso fosse
ancora al suo posto e magari cercare di uscire di nuovo con lei.
Altre volte, nelle “festine” private, che oramai andavano sempre più
diradandosi, dati i tempi, quando si ballavano i ritmi lenti, “slow”, o “tango”,
o “valzer lento”, nello stare abbracciato a qualche ragazza che gli piaceva,
sentiva il basso ventre di lei spingere verso il suo e così avvinghiati, con gli
“strusciamenti” dei due corpi, si mimava il rapporto sessuale, ma al di là di
questi episodi, Giorgio la donna ancora non la conosceva e pensando a quello che
gli aspettava alla serata del giorno dopo, gli crescevano in petto, sempre più,
grosse preoccupazioni.
“Ma come sarà?”
“Ci riuscirò?”
“E se non ce la faccio, gli amici cosa mi diranno?”
“Mi seccherebbe assai di esser messo alla berlina per un episodio del genere”.
La sua immaginazione correva in continuazione a quella “cosa” che ormai da
alcuni anni era sempre in testa ai suoi pensieri, e ai suoi desideri e forse
avrebbe voluto arrivarci attraverso strade diverse e possibilmente con una donna
che ti piacesse realmente e ancor più, forse, ma non ne era ben sicuro, esserne
anche innamorato e non con “una di quelle” che lo facevano solo per danaro e poi
in un posto dove andavano tutti, “cani e porci”. Certamente non poteva più
tirarsi indietro. Lo avevano “incastrato”. Riuscì finalmente ad addormentarsi
con in testa quello che era per lui, in quel momento, un vero e proprio
“dramma.”
Il giorno dopo i festeggiamenti del compleanno, Giorgio si svegliò con l’assillo
della “prova” o dell’ “esame”, che avrebbe dovuto affrontare in serata; la
giornata passò abbastanza tranquilla con la partecipazione ad alcune lezioni
tenute da dirigenti del Partito Fascista Repubblicano quali il noto giornalista
e sindacalista, Nino Saverio Basaglia, che parlò al suo reggimento dei 18 punti
di Verona e dell’importanza della socializzazione quale idea rivoluzionaria per
il superamento del conflitto tra capitale e lavoro, attraverso una conoscenza
diretta della gestione da parte di tutti gli operatori con la fissazione di equi
salari, oltre ad una giusta ripartizione degli utili tra dirigenza
dell’industria e lavoratori.
Inoltre, nei punti fondamentali studiati nella carta elaborata nel Congresso di
Verona, veniva sancito il diritto alla proprietà della casa per tutti i
lavoratori, anche attraverso i contributi e l’assistenza delle imprese e dello
Stato.
La seconda lezione venne tenuta dal Colonello Ignazio Battaglia, che era stato
anche Comandante della Scuola Allievi Ufficiali della GNR di Modena e che parlò
loro del comportamento e delle tattiche da seguire nelle operazioni di
rastrellamento contro le bande partigiane.
Giorgio le seguì con una certa attenzione, dato che ambedue i relatori sapevano
come fare per tenere desta l’attenzione e gli argomenti erano altamente
interessanti, però il pensiero correva frequentemente al suo prossimo “impegno”.
Al rancio serale “l’esaminando” cercò di non appesantire lo stomaco dato che gli
era stato detto che era bene non affrontare quelle prove dopo laute libagioni e
dopo cene o pranzi abbondanti.
Si apprestarono ad accompagnare l’amico quelli del suo “gruppetto” e vicini di
branda quali, Emilio Rebecchi, Renato Venturelli, Armando Fantoni, Romano
Beltrami e Simonini Umberto, tutti un pò più vecchi; c’era chi aveva compiuto
diciannove anni, ma anche chi aveva da poco superato i venti, e tutti, chi più
chi meno, se non erano proprio dei frequentatori costanti di quelle case, pur
sempre avevano già avuto svariate esperienze e per loro, entrare al numero 9 di
Via Catecumeno, la strada dei “bordelli” modenesi, era ormai “ordinaria
amministrazione”.
All’ingresso di quella casa, considerata “media” nelle classifiche dei “casotti”
che andavano da quelli di lusso, con splendide ragazze ma con prezzi che le loro
tasche non si potevano permettere, a quelli di “scarsa qualità” con donne già
anziane o sulla via di andare in pensione e frequentate dalla “bassa truppa”,
mentre nelle case “medie” trovavi frequentemente anche belle ragazze e le cifre
che si dovevano spendere per una “marchetta” o per una “doppia”, di tanto in
tanto, erano abbordabili se, per qualche tempo, ti controllavi nelle spese e
riuscivi a crearti un “fondo” per quelle occasioni.
All’ingresso, dopo aver suonato per entrare e, così dicevano gli “esperti”, non
trovando la fila per l’attesa davanti al portone, si prospettava una serata
tranquilla, con una presenza nelle sale accettabile e perciò con la possibilità
di valutare bene le “scelte” da farsi, si presentò una donna “in età”, con un
paio di occhiali spessi che squadrò il gruppetto e si fece consegnare da
ciascuno il documento di identità e, quando arrivò il turno di Giorgio, si diede
una sistemata agli occhiali per controllare bene la data di nascita,
accorgendosi che il ragazzo aveva appena compiuto i diciotto anni, ed essendo
molto esperta, notò che non apparivano tracce di scolorina, come di tanto in
tanto era abituata a trovare, sbarrando, di conseguenza l’ingresso al
malcapitato che aveva cercato di “gabbarla”, perciò si limitò, con un sorriso,
che sembrava più un “ghigno”, ad augurare al ragazzo di “passare una buona
serata”.
Giorgio e i suoi amici entrarono in una vasta sala, con poltroncine lungo i muri
ed un divano più ampio e circolare al centro; vi si trovavano, ovviamente, varie
ragazze, chi sedute in pose più o meno provocanti, ed alcune altre che si
aggiravano tra gli otto o dieci clienti presenti, in maggioranza persone mature
ed anche qualche anziano, queste si presentavano seminude, coperte da veli più o
meno eleganti e guardavano gli uomini, accarezzandoli, andando, di tanto in
tanto, a sedere sulle gambe di qualcuno di loro, sussurrando frasi lascive e
promettendo di saper fare cose “eccezionali”, che avrebbero fatto toccare loro
con mano, “il paradiso”.
Il gruppo di “camicie nere” si mise a sedere su di un'unica panca, erano i primi
giovani ad entrare nel locale quella sera, pertanto le ragazze si avvicinarono
sorridenti e non scontrose come tante volte facevano quando erano presenti molti
uomini o quando la maggioranza dei clienti erano anziani. Gli amici furono molto
comprensivi e non fecero pressioni su colui che doveva “affrontare l’esame”,
anzi, i commenti erano più che corretti nei confronti delle ragazze che li
circondavano e Giorgio si accorse, con piacere, che tre o quattro di loro erano
anche molto carine e per niente volgari; in un angolo della sala, vicino alle
scale che ovviamente dovevano portare alle camere, dietro ad un banco e seduta
su di un alto sgabello, stava una signora “anzianotta” che, molto probabilmente,
da giovane, doveva essere stata anche bella; consegnava dei gettoni, le
“marchette”, alle ragazze quando scendevano con i loro clienti e, alcune di
queste, si accorse, salutavano con un bacio sulle guance gli uomini che avevano
appena terminato di “fare all’amore”: la situazione non era poi così pesante
come si era prospettato.
La “Maitresse”, di tanto in tanto, con voce suadente e non eccessivamente
volgare, invitava i presenti con frasi tipo: “coraggio ragazzi, in camera”,
“queste ragazze sono tutte belle e brave”, “suvvia non facciamo flanella”, ma la
maggioranza degli uomini continuava a restare seduta, anzi molti si fermavano in
quei locali a lungo per far passare semplicemente il tempo, allora la “signora”
si arrabbiava veramente e sgombrava il locale.
Del gruppo di Giorgio, in due si decisero per primi e presero per mano,
ciascuno, una ragazza e con loro salirono le scale, Emilio stimolò il ”nostro”
che, avendo notato una bella morettina, somigliante molto alla ragazza dei
giardini pubblici con la quale aveva fatto la prima conoscenza della donna,
preso coraggio si avvicinò a lei e, “rosso in volto” le chiese: “sei libera?”,
al che la ragazza, ovviamente esperta e ormai conoscitrice della psicologia
maschile si accorse che quel ragazzo timido si stava preparando alla sua prima
esperienza, pertanto gli fece un largo sorriso, lo prese per mano, e con lui
salì le scale; raggiunsero così l’ultima stanza di quel lungo corridoio e
Marisa, così si chiamava la ragazza, lo fece entrare chiedendogli se quella era
la “prima volta”, cosa che, se da un lato lo mise in imbarazzo, dall’altro lo
rassicurò, poiché si rese conto che lei non usava quell’arroganza o quel
distacco che tanti amici gli avevano descritto sul comportamento di molte di
quelle “donnine”.
La “maitresse”, dopo che l’amico Emilio aveva a lei versato la quota per la
“doppia”, quando erano saliti, aveva fatto alla ragazza, con la mano un cenno
convenzionale, che voleva dirle di essere “comprensiva”, anche nel tempo, con
quel ragazzo.
Aveva così inizio l’avventura, e Giorgio, nel frattempo, si guardava in giro
notando, mentre la ragazza lo faceva spogliare e lei stessa si era messa a
sedere sul “ bidet” per lavarsi, che sì, non era proprio la camera di una delle
studentesse, nelle quali, alcune rare volte, e solo per studio, gli era stato
concesso di entrare; quelle stanze “virginali” delle amiche, avevano qualche
cosa di simile negli odori e in alcuni oggetti a quella del “casotto” che, in
realtà, non era tanto squallida, come aveva sempre pensato.
Stava così allentandosi la tensione, un bel letto grande, un comodino con sopra
due fotografie, forse di famigliari di lei, un paravento che divideva il letto
dal reparto “lavaggi” al quale fu invitato Giorgio dalla ragazza per l’
”aspersione”, e questo per lui fu una sorpresa, dato che, prima di uscire dalla
caserma, aveva provveduto autonomamente per presentarsi, “pulito”, alla
“bisogna”.
La ragazza però gli fece capire che quello era un “rito” obbligatorio, non ci si
poteva rifiutare, e tutte le ragazze dovevano controllare l’ ”oggetto”, prima
della “consumazione” e accertarsi che non fossero presenti, o deformazioni o
eventuali malattie; in quei casi dovevano subito avvisare la signora che
provvedeva lei a comunicare al cliente di presentarsi al più presto, da qualche
medico per curare una delle tante forme di malattia venerea, quali, “piattole”,
“scolo”, “sifilide” o quant’altro, che probabilmente l’uomo aveva in atto.
Al lavaggio, delicato ma abbastanza consistente, Giorgio si sottopose
gradevolmente e si rese conto che, tra l’altro, gli piaceva, dato che iniziava,
graduale ma costante, una certa “erezione”, così si avvicinarono al letto e
Marisa si apprestò a guidarlo, considerato che era già pronto, ad entrare in
lei.
Giorgio stava dicendosi che fino a quel momento era stato tutto abbastanza
facile, tutto procedeva per il meglio, difatti continuò per un certo periodo,
che lì per lì non riusciva a quantificare dato che gli sembrò, lunghissimo e
brevissimo nello stesso tempo, sino a quando non concluse, sentendosi totalmente
appagato.
Si alzarono, lei tornò a lavarsi e così lo invitò a fare la stessa cosa, ma
questa volta da solo. Dopo di che, con lei sempre sorridente, scesero le scale
rientrando nella sala, dove trovò tutti i suoi camerati ai quali rivolse un
chiaro sorriso di soddisfazione e loro, mentre Marisa gli “appioppava” un
bacione sulle gote, fecero un applauso di circostanza, compreso anche dagli
altri presenti in sala, che si resero conto del motivo di quella manifestazione,
aggregandosi nei complimenti e partecipando ai festeggiamenti, con una buona
dose di complicità maschile.
Arrivarono in quel periodo, sempre più frequentemente, notizie di agguati, di
attentati a fascisti isolati, fossero essi civili o militari, in modo
particolare dalle zone del carpigiano e del mirandolese dove furono uccisi, sia
militari fascisti, sia parecchi soldati tedeschi. Alla Caserma “Galluppi” si
viveva in uno stato di continua tensione, si verificavano spesso furti presso
abitazioni private. Le uscite per controlli e per rastrellamenti erano
frequentissime.
Giorgio, dopo l’esperienza in “quella casa”, si sentiva decisamente più sicuro
di sé e le prove che dovette superare nelle azioni a cui era costretto il suo
battaglione in quei giorni lo stavano rendendo sempre più maturo e conscio del
ruolo che aveva in quello scontro quotidiano contro fratelli che lo aspettavano
nascosti, o dietro a una siepe, o nel buio di una stradina, per “fargli la
pelle”, raramente in scontri aperti, come invece si sarebbe aspettato di
affrontare “il nemico” quando pensava di dover combattere.
Si sapeva che i “capoccia” dei banditi rossi erano emissari delle centrali
moscovite, gente che aveva preso parte alla guerra di Spagna dalla parte dei
“repubblicani”, gente senza pietà che aveva partecipato, in quelle terre, ad
eccidi, a esecuzioni in massa di “falangisti”, di preti, di tutti coloro che
erano avversi all’ideologia comunista, e ora la stavano portando nei nostri
territori e nella nostra società, già provata da una dura guerra, forse in parte
già compromessa, spandendo odio a piene mani, facendo diventare sempre più
crudeli i comportamenti di giovani, da ambedue le parti in lotta, che mai
avrebbero pensato di doversi “scannare” tra loro.
Il mese di Novembre iniziò con una serie di avvenimenti di notevole portata
all’interno della Brigata Nera modenese dopo che ai primi giorni, nella zona di
Soliera, furono uccisi cinque fascisti, mentre, sempre in quella zona, gruppi
“gappisti” catturarono, dopo averla attirata in una imboscata, una commissione
italo-tedesca che doveva svolgere delle rilevazioni tecniche sul territorio.
Il gruppetto era composto da un tenente tedesco, da un sottufficiale della “Lutfwaffe”,
da quattro soldati della Wehrmacht, da un interprete altoatesino, da un milite
della GNR e da una ausiliaria, dopo un breve tentativo di resistenza, fu
disarmato e portato in un casolare sperduto, nella zona di Limidi.
Proprio il giorno prima era arrivato a Modena, in visita al reparto della B.N.
“Mirko Pistoni”, il Comandante Generale della stessa, il Segretario del Partito
Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini presente in zona, anche perché nella
vicina Reggio Emilia erano sorte problematiche nella Brigata Nera di quella
città, tanto che il Comandante della Brigata modenese, il Colonnello Ignazio
Battaglia, era stato trasferito in quei giorni a comandare i reparti reggiani.
Il reparto di Giorgio era, di conseguenza, sotto una notevole pressione, tra
incontri con i vertici del Partito, azioni di pattugliamento in città e
rastrellamenti nelle campagne; si dormiva male e di rado. Difatti anche il
Comando tedesco, appena saputo della cattura di loro uomini da parte di bande
partigiane, fece mettere in moto la macchina della rappresaglia e subito,
reparti tedeschi e del 633° Comando Provinciale, compreso un reparto delle B.N.,
andarono a circondare la frazione di Limidi di Soliera dove furono rastrellati
circa cento ostaggi, poi trasportati, su dei camion, parte nella vicina Carpi e
parte presso l’Accademia Militare di Modena.
A poca distanza da quella zona, sempre in territorio carpigiano, fu attirata in
una imboscata una pattuglia della Guardia Nazionale Repubblicana che era stata
inviata in servizio d’ordine, in località Ponte Nuovo, sulla strada
Carpi-Correggio, per fare controlli su di un furto che i partigiani della zona
avevano effettuato qualche giorno prima.
Ci fu una delazione e i “ribelli” riuscirono a preparare al meglio l’agguato ai
quattro componenti la pattuglia, i militi, di conseguenza, quando raggiunsero la
località, furono circondati da un numero considerevole di armati che, in breve
tempo, li catturarono e li uccisero con cinica freddezza; i quattro ragazzi
uccisi, tra i quali un buon amico di Giorgio con il quale aveva passato la
serata della sua “iniziazione” in Via Catecumeno, si chiamavano:
Allegretti Giorgio, Beltrami Romano, Cipolli Stelio e Schiatti Giovanni, ed
erano tutti ventenni.
Vi era pertanto notevole tensione, sia tra i reparti tedeschi che, a loro volta,
avevano subito parecchie perdite in una serie di attentati e di agguati, oltre a
sei commilitoni fatti prigionieri, cosi come tra le file fasciste che, in pochi
giorni, si erano viste uccidere una decina di camerati.
Il Comando tedesco fece affiggere in tutte le località del Carpigiano un
manifesto che, con queste parole invitava, pena gravi sanzioni, a rilasciare i
prigionieri:
“Il Comando tedesco esige che i catturati siano rimessi in libertà per potersi
trovare il giorno 18 Novembre 1944, alle ore 12, presso il comando germanico di
Carpi. Nel caso che le richieste del comando germanico non vengano esaudite
saranno prese le seguenti misure di rappresaglia:
1) tutte le persone catturate durante le azioni della GNR il giorno 15 Novembre
a Limidi di Soliera saranno trattenute in arresto. Tutti gli uomini verranno
passati per le armi;
2) I paesi di Limidi e di Soliera saranno rasi al suolo.
Il Comando germanico troverà inoltre i mezzi e i modi per dare ai banditi
colpevoli la giusta punizione.
Nessun membro di queste bande potrà contare sull’amnistia del Duce.
Firmato. Il Comando germanico
Il 28 Ottobre in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma, celebrato
anche dai militari della caserma “Galluppi”, il Governo della RSI, a firma di
Benito Mussolini, aveva promulgato un provvedimento di amnistia, che, anche in
seguito al proclama emanato il 13 Novembre dal Generale Alexander per la
sospensione dell’attività della guerriglia che si sarebbe dovuta riprendere in
primavera, molti reparti della “partigianeria” dell’ appennino modenese, come la
Brigata Est e quella guidata dal pavullese “Armando”, andarono a rifugiarsi al
di là della linea gotica in braccio alle truppe d’invasione angloamericane, di
conseguenza arrivarono tra le file dell’esercito Repubblicano, un certo numero
“di sbandati” e di giovani che, sino a quei giorni, avevano preferito
nascondersi.
A dimostrazione che i tedeschi non minacciavano invano, fecero trasportare
presso il cimitero di Limidi tutti gli uomini arrestati e, se entro le ore 12
del giorno richiesto i ribelli non avessero liberato i prigionieri, il plotone
d’esecuzione avrebbe iniziato la sua opera. L’atmosfera in quelle zone si fece
incandescente, tutte le pressioni su coloro che comandavano i reparti che
avevano catturato il gruppo di italo-tedeschi, in particolare quelli del Partito
Comunista Italiano clandestino andarono inizialmente fallite dato che questi si
rifiutavano di accettare le proposte tedesche precisando di non voler sottostare
al “ricatto nazifascista”.
Successe che, a fronte di questo irrigidimento assurdo, i familiari degli
ostaggi si ribellarono seguiti dalla maggioranza della popolazione e si
radunarono in massa nella piazza di Soliera; qui, oratori improvvisati, hanno
inscenato un “comizio” e con frasi violentissime si sono scagliati contro questi
“ribelli” che colpendo tedeschi e fascisti stavano mettendo a repentaglio la
vita di tanti solieresi. Vi è stato un continuo “tira e molla” con l’intervento
anche del Vescovo di Carpi, Monsignor Della Zuanna, poi, fortunatamente, i nove
prigionieri vennero rilasciati così come sono stati ai patti i Comandi tedeschi
e fascisti.
Subito dopo i rastrellamenti di Soliera e dintorni, a Giorgio venne richiesto,
dal Comandante della sua Compagnia, in considerazione della sua frequenza
all’ultimo anno del Liceo Classico e della sua predisposizione allo scrivere, di
redigere un resoconto dettagliato dei fatti. Doveva consultare i comandanti
degli altri reparti, e descrivere la situazione che si era venuta a creare in
quei territori, a partire dalla serie di agguati e di attentati portati dai
“ribelli” a formazioni tedesche e fasciste con l’uccisione di numerosi soldati e
ufficiali, per arrivare alla cattura dei nove componenti la squadra italo
tedesca che stava compiendo rilievi tecnici nella zona e della successiva
minacciata rappresaglia.
Giorgio si mise al lavoro di buona lena e, dopo avere ascoltato le dichiarazioni
di alcuni ufficiali che avevano partecipato a quelle azioni, ricordandosi anche
di quanto fosse stata pesante, come gli avevano raccontato, la “repressione
teutonica” sul territorio modenese in particolare nella zona di Montefiorino
dove, dopo una serie di uccisioni di circa una ventina di soldati tedeschi e di
una quindicina di militi italiani, furono rase al suolo tre piccole frazioni di
quel Comune, Monchio, Susano e Costrignano e dove vennero sterminate centotrenta
persone da parte della formazioni della Divisione SS “Herman Goering” che,
acquartierata nelle vicinanze di Bologna, durante il mese di Marzo, per un
periodo di riposo dalle lunghe e pesanti battaglie sostenute sul fronte di
Cassino, si trovarono improvvisamente a dover partecipare ad una rappresaglia
sull’ Appennino modenese contro delle inermi popolazioni, in seguito ad azioni
di guerriglia da parte dei partigiani di quelle zone che prima colpivano e poi
scappavano, lasciando le popolazioni in preda alla rabbia di coloro che erano
abituati a fronteggiare a viso aperto il nemico.
Giorgio si era anche trovato, Domenica 30 Luglio, a passare in Piazza Grande a
Modena, due ore dopo un'altra atroce rappresaglia tedesca, quando fucilarono
venti cittadini, detenuti nelle carceri di S. Eufemia sospettati di essere dei
partigiani, e passati per le armi dopo che erano stati uccisi alcuni loro
camerati. Rimase sconvolto nel vedere tutti quei corpi a terra in un lago di
sangue, con una pattuglia tedesca a controllare che i cittadini non si
avvicinassero ai cadaveri, dato che dovevano rimanere esposti a monito per la
popolazione; seppe anche che stava per essere fucilato un Ufficiale della
Guardia Nazionale Repubblicana, il Tenente Bruno Piva, poiché si era rifiutato
di far parte del plotone di esecuzione composto da militari germanici.
Impiegò alcune ore a scrivere la relazione, molto apprezzata dal comandante che,
da quei giorni, aggregò Giorgio al responsabile dell’Ufficio Stampa, il Dott.
Francesco Bocchi che era Direttore dell’ organo ufficiale del Partito Fascista
Repubblicano modenese, “Valanga Repubblicana”.
Vi fu un altro episodio che lo portò ad occupare quella posizione da “scrivano”,
contrariamente al ruolo attivo che stava facendo nel reparto dal momento che era
entrato “volontario” nella formazione modenese della Brigata Nera; fu costretto
a quella posizione da “imboscato” causa un piccolo incidente verificatosi in
palestra, nella vicina sede dell’Istituto Magistrale Sigonio dove le varie
squadre della “Mirko Pistoni” si stavano affrontando in quei giorni in un mini
torneo interno di Pallavolo e Giorgio, durante una di queste partite, cadde
malamente distorcendosi, abbastanza seriamente, la caviglia sinistra che venne
strettamente fasciata e “cartonata”. Dovette restare quasi immobile, dato che, a
malapena, riusciva a camminare per pochi passi, appoggiandosi ad un bastone.
Svolse così, per circa tre settimane, le funzioni di “impiegato” che lo misero
nella condizione di esaminare le “scartoffie” del reparto modenese della BN e di
venire a conoscenza di tanti risvolti, anche “delicati”, sia dei suoi
commilitoni, sia degli ufficiali superiori, oltre tutto veniva immediatamente a
conoscenza di moltissimi episodi che accadevano, e in città e in Provincia.
Difatti in quei giorni, in mezzo a continue notizie di uccisioni di fascisti, o
di presunti tali, sempre colpiti a tradimento e di solito isolati, lo
impressionarono due episodi ravvicinati che avvennero nella zona di Cavezzo,
dove dovette intervenire, con alcuni camerati del suo reparto per svolgere le
indagini di circostanza.
Il primo fu orribile e gratuito: la violenza nei confronti di una ragazza
giovanissima, molto bella e procace, tale Irma Balestri tenuta segregata, da un
gruppo di partigiani di quelle contrade, che ne approfittarono per “allietare i
loro ozi”, in un “chiuso” per maiali, per otto giorni, sottoponendola a continue
sevizie e violenze carnali quotidiane e, dopo averla così “usata”, la
eliminarono brutalmente.
La seconda uccisione, sempre a Cavezzo, fu quella del Dott. Enrico Benatti,
ucciso mentre sul suo calesse stava ritornando a casa, dopo aver effettuato le
visite quotidiane ai suoi ammalati sparsi in quelle campagne. Il medico, come il
padre del poeta Giovanni Pascoli, che ne raccontava la fine nella poesia, “La
cavallina storna”, fu colpito da una sventagliata di mitra sparatagli da dietro
una siepe, a circa un chilometro dalla sua abitazione; venne colpito di striscio
anche il cavallo che, impaurito, si mise al galoppo sfrenato per andare a
fermarsi davanti alla porta dello studio del suo padrone.
A Cavezzo, hanno detto delle persone che lo conoscevano bene e che conoscono la
situazione di quelle contrade, che essendo stato il Dott. Benatti, nominato da
non molto tempo, Presidente di un caseificio, risultando di conseguenza
responsabile dei formaggi depositati nel magazzino, si era rifiutato di
consegnarne un certo quantitativo a dei partigiani che glielo avevano chiesto.
Non essendo lui proprietario di quei beni, non poteva disporne l’uso; i
partigiani se la “sono legata al dito” e sbrigativamente si sono vendicati. Il
Dottore, tra l’altro, non era nemmeno iscritto al Partito Fascista Repubblicano
e, anche durante il “Ventennio”, era stato un fascista molto tiepido.
Colpì Giorgio, in quei giorni, la notizia dell’uccisione di Alexander Ascenko,
che aveva avuto l’opportunità di conoscere durante un rastrellamento, chiamato
da tutti “Nikolaj”; era un ex prigioniero russo dei tedeschi che, dopo aver
combattuto, come tanti altri cosacchi del Don, assieme a loro contro le truppe
di Stalin, si trasferì, al seguito dei reparti germanici, in Italia e da poco
tempo aveva voluto iscriversi alla Brigata Nera di Reggio Emilia per combattere
contro i comunisti nostrani, che riuscirono, attorno ai primi giorni del mese di
Novembre, a catturarlo e ad ucciderlo ferocemente, in quanto vedevano in lui il
traditore della “grande patria del comunismo”, desiderata invece dai rossi
nostrani, contrariamente a “Nikolaj” che il comunismo aveva potuto “toccarlo con
mano e in casa sua”, attraverso tutti gli orrori di quella perversa ideologia
che aveva disseminato la sua terra di milioni di morti. Fu pertanto “eliminato”,
per sua somma sventura, da comunisti non sovietici, ma italiani.
Nell’ufficio di Giorgio arrivavano quotidianamente le notizie di uccisioni di
fascisti, civili e militari e frequentemente pattuglie della Brigata Nera “Mirko
Pistoni”, assieme ad altre della Guardia Nazionale Repubblicana, venivano
inviate sul luogo delle uccisioni per i rilievi e le indagini, che raramente
portavano alla scoperta degli esecutori in quanto questi fuggivano e andavano a
nascondersi tra la popolazione innocente.
In questi giorni la maggior parte degli attentati si verificarono nelle zone
della bassa modenese tra San Possidonio, Concordia e Carpi mentre si erano
attenuate le azioni “gappiste” in montagna; il giorno 27 Novembre, in città,
veniva brutalmente ucciso il milite della GNR, Silvio Ferrari di trentasei anni,
nativo di Serramazzoni e, solamente due giorni prima, i partigiani, in un feroce
agguato a San Possidonio, riuscivano ad uccidere lo squadrista della Brigata
Nera, Arisaldo Bonini, del reparto del suo Battaglione che da alcuni giorni si
era trasferito a Mirandola e ancora, nella zona di Piumazzo, i banditi
“eliminarono”, con il classico sistema degli assassini vigliacchi che colpiscono
alle spalle il predestinato; tolsero, in questo caso, la vita al milite della
GNR di quarantacinque anni, Procolo Ferrarini.
Lo stillicidio delle uccisioni degli uomini del reparto di Giorgio non dava
tregua: a Carpi avvennero in rapida successione una serie di omicidi che
colpirono anche civili di fede fascista come tali Attilio Baraldi e Alfredo
Coppi che era padre di otto figli pur avendo solamente quaranta anni, mentre a
Mirandola, gli assassini che si facevano chiamare “gappisti”, prendendo tale
nome dall’acronimo Gap che sta a significare “Gruppi di Azione Patriottica”; ma
quali “patrioti” sono questi che sparano alle spalle ad Amilcare Gavioli e ad
Angelo Vavassori, e poi vanno a prelevare dalla sua abitazione, e la sopprimono
nelle vicine campagne, la casalinga di quella località, Matilde Bassoli?, si
chiedevano Giorgio e i suoi camerati. E che dire dell’esecuzione del milite
della GNR, Elio Palatello al quale gli “eroici” partigiani hanno “mozzato la
testa?”
“Ecco, vedi Giorgio”, disse Renato seduto di fronte alla scrivania dove l’amico
stava inserendo nelle cartelle apposite le notizie appena arrivate dalle zone
degli omicidi, in qualità di addetto all’ufficio stampa del suo Battaglione,
agli ordini del dott. Bocchi:
“i comunisti sono riusciti, o stanno per riuscire, nel loro intento di far
arrivare la guerra civile in ogni contrada della nostra Italia portando ovunque
lutti; solamente in questi ultimi tempi hanno disseminato di cadaveri le strade
della nostra città e delle nostre campagne malgrado abbiano avuto gli ordini da
parte dei loro mandanti e fornitori di armi e danaro, gli inglesi e gli
americani, di sospendere le azioni di guerriglia durante i mesi invernali. Ma i
loro “capoccioni”, che rispondono solamente agli ordini che arrivano da Mosca,
spingono gli esecutori nostrani a continuare nelle esecuzioni dei fascisti
inermi e isolati, stimolandoli ad ucciderci, malgrado le reazioni dei nostri
comandi siano sempre più pesanti, come quelle avvenute pochi giorni orsono
quando, dopo l’uccisione di alcuni dei nostri, hanno dato l’ordine di fucilare
alcuni “presunti” partigiani qui a Modena, oltre che a Vignola, Concordia, e a
San Giacomo Roncole; ma in questo modo si scava sempre più il fossato che ci
divide.”
“E’ incredibile”, rispose Giorgio;
“almeno per me, che non ho mai sopportato la violenza e il sangue mi ha sempre
fatto terrore. Ho sempre cercato di mettere pace tra i litiganti, non dico di
essere stato il sostenitore della formula: “porgere l’altra guancia” se ti fanno
del male, ma quasi; mi trovo adesso a dover prendere parte ad una lotta
sanguinosa dove vige solamente “la legge del taglione” e dove, sia “noi” sia
“loro”, mettiamo in atto la regola dell’ ”occhio per occhio, dente per dente”.
Ma come è possibile restare indifferenti quando, come è successo nei giorni
scorsi, arrivi a trovare alcuni tuoi cari amici, stesi a terra in una pozza di
sangue, crivellati di proiettili sparati dai mitra di tuoi coetanei che,
addirittura, abitavano nella tua stessa casa e con i quali avevi giocato e
partecipato a tante situazioni della vita civile sino al giorno prima, e ora
vengono addestrati e portati all’odio di parte e alla pratica del terrore, da
personaggi senza scrupoli che, approfittando della drammatica situazione in cui
si trova la nostra Patria, gettano sempre più benzina sul fuoco non curandosi
dei lutti che vanno a procurare con questi omicidi che, oltretutto, causano le
rappresaglie, le quali aumentano vertiginosamente la spirale dell’odio; oppure,
come pochi giorni orsono quando siamo andati per una ricognizione in quella casa
di campagna, dove abbiamo trovato, sotto pochi centimetri di terra, il cadavere
della nostra camerata, Bianca Zannini, Ausiliaria e Camicia Nera della nostra
Compagnia, ridotta in una condizione orribile dopo che era stata stuprata,
violentata e seviziata, poi finita con un colpo di pistola alla nuca, da un
“branco” di delinquenti che si fanno passare per partigiani e che hanno
approfittato di lei, per giorni e giorni, tenendola rinchiusa, come quell’altra
ragazza di Cavezzo, in una porcilaia.”
Giorgio e Renato si guardarono in faccia e per poco, ad entrambi, non scesero le
lacrime dagli occhi. I loro cuori erano esacerbati e il “groppo alla gola” non
andava né su né giù; ma poi, tutti e due non vollero rivelare all’altro la parte
debole e sensibile del loro carattere dovendo sempre e in ogni caso dimostrare,
ma specialmente con loro stessi, di essere dei “duri” anche se, in realtà, di
fronte a tante situazioni analoghe e a spettacoli orripilanti, era pur sempre
difficile, per ragazzi così giovani, nascondere i propri sentimenti.
“Ma ti rendi conto”, proseguì Renato:
“a quale livello di abbrutimento umano siamo arrivati; e io mi chiedo, quale
sarà il prezzo che dovranno pagare coloro che risulteranno gli sconfitti di
questa carneficina, al termine del conflitto?
Come reagiremo, noi fascisti domani, nel caso veramente si rovesciassero le
sorti della guerra come da tante parti si sente dire, se effettivamente la
produzione bellica tedesca riuscisse a produrre quelle terribili armi promesse
dagli alti comandi e che, come abbiamo visto in alcuni filmati, stanno per
essere completate e pronte a funzionare, se usciranno dai “bunker” dove le
stanno mettendo a punto in alcune zone segrete della Germania e dell’Austria che
sembrano introvabili e irraggiungibili da parte della strapotente e devastante
forza aerea angloamericana che attualmente sta distruggendo il nord Italia e il
Terzo Reich? Saremo magnanimi con gli sconfitti o vendicativi?
Come sarà possibile vendicare tutte le vittime che hanno causato e stanno
causando in tutta Europa, i terrificanti bombardamenti terroristici
angloamericani che massacrano le inermi popolazioni, senza che da parte nostra
vi sia la minima possibilità di risposta, anche semplicemente corrispondente
all’un per cento di quello che fanno loro, e i nostri concittadini, malgrado
tutto questo, sono pronti ad accoglierli come dei “liberatori”, termine che
usano già in tanti?
Al contrario, nel caso fossero i “rossi”, che stanno sfruttando la strapotenza
bellica dei nostri nemici che li sovvenzionano e li “foraggiano” in
continuazione, a prevalere, in quale modo ci potranno far pagare certi nostri
atteggiamenti “prepotenti” nei loro confronti? Comprese le nostre, e ancor più
pesanti, rappresaglie tedesche che si attengono, sì alle leggi internazionali
della convenzione di Ginevra la quale predica che è possibile rispondere agli
attentati ai militari, da parte dei civili, nel rapporto di dieci a uno, ma che
ugualmente stanno provocando lutti devastanti su tutto il territorio della
Repubblica Sociale? Lo sappiamo bene che episodi similari a quello che ha
distrutto il territorio di Montefiorino, si sono verificati in altre zone e la
furia e la rabbia dei tedeschi non hanno risparmiato nessuno. Non
dimentichiamoci, inoltre cosa andiamo cantando noi per le strade della nostra,
una volta, bell’Italia; hai presente le parole del nostro inno cosa dicono? Te
le ricordo:
Ci sparano alle spalle per le strade
Che di venirci avanti hanno paura
E per risposta noi delle Brigate
Ai mitra abbiamo tolto la sicura.
Chi siete io non lo so
Chi siamo ve lo dirò
Siam le brigate nere e
Abbiam la forza di spezzarvi il cuor!
Siam stati nel Piemonte e in Lombardia
A rompere la schiena dei ribelli
Abbiam lasciato i morti per la via
Con sulle labbra i nostri canti belli.
Chi siete io non lo so
Chi siamo ve lo dirò
Siam le brigate nere e
Abbiam la forza di spezzarvi il cuor!
home page
Questo noi stiamo
dicendo e facendo; molto probabilmente, come detto, se saranno loro a prevalere,
visto e considerato come si sono comportati in Spagna, sono gli stessi che ora
guidano quelli che, vigliaccamente, ci “accoppano” in attentati quotidiani,
provvederanno ad una vera e propria eliminazione di tutti coloro che li
ostacolano o potranno, anche domani, ostacolarli nella presa del potere, come è
avvenuto in Russia, e come tanti reduci da quella campagna sfortunata dell’Armir,
che adesso fanno parte dei nostri reparti, ci hanno raccontato. Ricordiamoci
sempre quanto è spietata “l’ideologia comunista”.
“Hai ragione Renato”,
gli rispose sempre più perplesso Giorgio,
“ma io ho l’impressione che la situazione sia irrecuperabile e che di questa
assurda lotta fratricida ne trarranno vantaggi esclusivamente i nostri nemici,
inglesi, americani e russi che, economicamente e politicamente conquisteranno i
nostri mercati, le nostre nazioni, la nostra civiltà che ha avuto il coraggio di
contrapporre allo strapotere economico del capitalismo internazionale, alleato
con il comunismo, la volontà di non lasciare solamente a loro il dominio del
mondo; e con questi gli servi sciocchi del comunismo internazionale che, qui in
Italia, pur restando i lacchè dei padroni capitalisti, con la scusante di
portare avanti le istanze del “popolo lavoratore”, diventeranno i padroni e i
profittatori della situazione traendone, a livello dei soli “capoccia”, tutti i
vantaggi possibili.
Intanto ci stanno massacrando con una crudeltà che non avrei mai potuto
immaginare, in quanto quelli che ci sparano alla schiena sono i nostri camerati
di ieri che con noi partecipavano entusiasti a tutte le manifestazioni del
fascismo, sino a ieri trionfante, e oggi, spinti dalla propaganda comunista e
angloamericana oltre che dai rubli, che copiosamente arrivano loro dalla Russia,
ovviamente ad esclusivo vantaggio dei loro comandanti che stanno cercando di
“indottrinare” i tanti giovani corsi in montagna, dopo il tradimento badogliano
e della monarchia, al credo del “paradiso sovietico”.
E’ talmente chiaro il disegno del partito comunista nella sua scalata alla
conquista del potere in Italia a spese anche dei piccoli partiti del CLN,
socialisti, democristiani, liberali, azionisti, che pensano di rifarsi dalla
cocente sconfitta subita nel 1922 quando, per loro incapacità, lasciarono che il
fascismo conquistasse il potere assoluto; ma l’operazione che stanno conducendo
oggi sta andando solamente a vantaggio dei “rossi” che in realtà sono poi quelli
che hanno imbracciato le armi e che hanno scatenato la guerra civile.
In Russia, attraverso la “rivoluzione”, i comunisti sono arrivati al potere
servendosi degli “utili idioti” con il terrore e lo sterminio di milioni di loro
concittadini. Stanno preparando, da noi, con la stessa metodologia e con gli
stessi sistemi quell’operazione che è andata bene in quelle terre; è un piano
ben programmato e ci stanno sopprimendo ad uno ad uno con ripetitività costante
e quotidiana che permette loro di trarne tutti i vantaggi psicologici possibili,
sia immediati che futuri, nell’ipotesi di una vittoria della loro parte.
Noi, attraverso le ritorsioni, le rappresaglie, le fucilazioni e le carneficine
irrazionali dei tedeschi, che, vabbè il tradimento che hanno subito pesi loro
parecchio, ma quelli che muoiono nelle rappresaglie sono i nostri fratelli, e
noi non facciamo altro che prestarci al loro gioco, seppure perverso esso sia, e
dal quale, un domani ne potranno trarne tutti i vantaggi.
Come verremo trattati, al termine del conflitto, se risulteranno loro i
vincitori, dalle popolazioni che hanno subito tante vessazioni? Sono le
popolazioni che noi stiamo cercando di difendere quotidianamente, dalle
incursioni aere, dai mitragliamenti, dai furti nelle case, dai mercanti della
borsa nera e da tutti i delinquenti che, in bande o isolati e con la scusante di
essere dei “ribelli”, difensori della libertà, non fanno altro che approfittare
di questo caos generale e compiere tutti i soprusi possibili.
Andiamo constatando, noi stessi, quando si va di pattuglia o in giro per
rastrellamenti, che dovrebbero servire a tutelare la popolazione, che da parte
di molte persone vi è diffidenza nei nostri confronti, siamo guardati “di
traverso” e solamente quando sfiliamo in manifestazioni ufficiali troviamo
ancora chi ci applaude e ci saluta calorosamente dato che noi, in realtà
crediamo ancora a quello che stiamo facendo, pur essendo ben consci che un
domani potrebbero farcela pagare cara.
E “loro” continueranno nella guerra contro i “padroni” come vanno blaterando,
per servirne poi uno solo, quel “baffone” che stanno facendo entrare
nell’immaginario collettivo come “il salvatore della Patria” e questi uomini,
come hanno fatto in Russia, porteranno avanti il verbo di Stalin, a prescindere
dalle eventuali divergenze, come hanno pagato pesantemente i deviazionisti,
“trotzkisti” o “leninisti” di quelle contrade, che si allontanavano dall’
ortodossia comunista e che furono eliminati a centinaia di migliaia o che
subirono la sorte di passare decine di anni nei campi di concentramento
Siberiani.
A volte mi chiedo se hanno visto giusto quei nostri amici e camerati che si sono
nascosti in qualche tana per uscire poi allo scoperto a guerra finita, come mi
avevano consigliato i miei genitori, per schierarsi con quelli che saranno i
nuovi padroni. Io credo ancora fermamente che andremo sino in fondo rischiando
sino alla fine quella “pellaccia” che già da tempo è a rischio ogni minuto che
passa, ma almeno avremo tenuto fede a tutto quello in cui abbiamo creduto, anche
se, molti di coloro che hanno inculcato in noi le idee, che andremo a difendere
sino in fondo, sappiamo bene che si sono schierati contro di noi e ci sparano
alle spalle portando in capo, al posto del fez che avevano prima, il berretto
con la “stella rossa”; molti di questi saranno, con molta probabilità,
“scaricati”, come è successo in Spagna e in Russia, dopo che avranno prestato i
loro “servizi”.
Una cosa sola mi ha dato veramente molto fastidio, nelle scelte, spesso
lungimiranti del nostro “capo”; perché nel 1938 Mussolini si è lasciato
trascinare dai nazisti in quella politica “antisemita” che, probabilmente, (ma è
un argomento che non conosco a fondo per non averlo mai affrontato e perché non
è mai stato esaminato nel modo dovuto), aveva una ragione di essere in Germania,
ma era assolutamente fuori posto in terra italiana?
Si cominciò con una campagna denigratoria contro certi gusti esterofili dei
nostri connazionali, furono messe al bando molte parole di origine inglese o
francese e furono tolti dalle librerie i titoli di autori non graditi, fino ad
arrivare a quel gravissimo errore che furono le "Leggi razziali", accolte con
scarso entusiasmo, e “obtorto collo” da una ristretta minoranza, anche
all’interno del Partito, mentre dalla maggioranza dei “capoccioni” dello stesso,
venivano contestate, mi ricordo di quanto era contrario Italo Balbo.
A Modena poi, in modo particolare, gli ebrei erano ben inseriti nel tessuto
sociale della nostra comunità e moltissimi avevano aderito incondizionatamente
al fascismo, basti ricordare il sacrificio del “martire fascista” Duilio
Sinigaglia al quale, da sempre, in tutte le celebrazioni in cui vengono
ricordati i fatti del 26 Settembre 1921, furono sempre tributati grandi onori.
Ho saputo che, qualche tempo fa, molti miei amici di famiglia ebraica, che io
minimamente sospettavo lo fossero, come Dante Sacerdoti, o Federico Camerini, ed
Enrico Modena, e Federico Padoa e tanti altri, con i quali c’era una
frequentazione costante nelle aule scolastiche, molti erano nostri compagni di
classe al Liceo, o nelle manifestazioni del Partito, al “Sabato Fascista” e alle
conferenze sulla “mistica fascista”, sono dovuti “espatriare” velocemente per
non incorrere, e nella “confisca dei beni” e nell’arresto, e per non essere
“internati” nei campi di concentramento, dei quali, mi si dice, ne esiste uno
anche nella nostra Provincia, a Fossoli di Carpi.
In realtà, a quanto ne sò, il problema si è acuito solo ultimamente con la
presenza massiccia dei tedeschi sul nostro suolo e questi non transigono sulla
attuazione delle leggi razziali, che applicano con quella “rigidità” tipica del
modo di ragionare tedesco, ma io ricordo che lo stesso Mussolini, dichiarò che
l’antisemitismo in Italia non esisteva, e che: “il sacrificio di sangue dato
dagli italiani ebrei, era stato, largo, vastissimo, generoso.”
Ebbe anche una donna ebrea, quella giornalista, Margherita Sarfatti, che ha
scritto il famoso libro “DUX” un “peana” sulla figura del capo del fascismo.
Nonostante il razzismo antiebraico sia stato contrastato da tanti gerarchi e da
tanti componenti il “Gran Consiglio del Fascismo”, furono emanate in quel
periodo una serie di leggi e decreti che avevano lo scopo di togliere gli
israeliti dalla vita della nazione.
Non conosco più la situazione di alcuni di questi amici che si sono rifugiati,
dalle poche notizie avute, uno in Svizzera e due addirittura negli Stati Uniti
d’America. Questa è una responsabilità non indifferente che ci resterà sul
“groppone” per parecchio tempo.
Ma come dici tu, Renato, nel caso fossimo noi a vincere, molto probabilmente
risulteremo satelliti del nazismo che, obiettivamente, e per la profusione di
energie spese in questa guerra, per i sacrifici sopportati, e per i tradimenti
subiti, compreso il nostro, saranno i veri padroni della situazione in Europa e,
l' unica speranza dell’Italia sarà quella di affidarsi alla diplomazia del
nostro grande statista, in quanto Mussolini è sempre stato così considerato e
non solo dal suo amico Hitler, ma anche da tanti capi di Stato europei e
mondiali.
Come verremo trattati dai nostri attuali alleati che, non dimentichiamoci, sono
rimasti e lo constatiamo tutti i giorni, notevolmente “scottati” dal tradimento
italiano che ancor oggi ci stanno facendo pagare. Riuscirà, Mussolini, che già
con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana è riuscito a mettere un
freno alla “rabbia” tedesca, un domani, a fronteggiare la protervia germanica
dato che, come succede in questi giorni, si vengono a verificare spesso
contrasti tra i nostri soldati e alcuni reparti germanici quando, o la GNR o le
Brigate Nere cercano di mettere un freno alle loro rappresaglie e non sempre i
nostri ci riescono. Verremo trattati come amici o con quella “tracotanza” che
oggi dimostrano verso di noi?”
“Caro Giorgio” lo riprese Renato, “è quasi l’ora di cena e con le nostre
riflessioni, anche amare, non risolveremo di certo il problema e al momento, pur
considerando che “la guerra è pur sempre una brutta bestia”, non ci resta che
aver fiducia nei nostri comandanti e continuare a credere nella nostra
“Missione”.”
I due amici si salutarono per raggiungere ciascuno il proprio plotone e Giorgio
si accorse che la caviglia praticamente non gli dava più fastidio, pertanto il
giorno dopo avrebbe potuto togliere la grossa fasciatura.
Nei resoconti che quotidianamente redigeva, Giorgio si era reso conto che,
praticamente, il suo reggimento della Brigata Nera modenese, assieme a quelli
della Guardia Nazionale Repubblicana, avevano lasciato sul terreno, uccisi dai
“ribelli”, un milite al giorno; sembrava che quei “rinnegati” così come li
chiamavano i soldati con addosso una divisa ben riconoscibile ed essa stessa
facile bersaglio, si moltiplicassero come le formiche pur senza mai farsi
vedere.
I combattenti repubblicani che, nella quasi totalità, si erano arruolati per
scontrarsi con il “nemico invasore del sacro suolo italiano”, invano speravano
di incontrarli “faccia a faccia”, ma questi quasi sempre sfuggivano e parevano
invisibili e le loro fucilate e le loro sventagliate di mitra colpivano sempre i
fascisti e i tedeschi alle spalle e attaccavano Giorgio e i suoi amici solamente
quando erano ben sicuri di essere in netta superiorità numerica e tutto questo
modo di comportarsi rendeva furiosi i ragazzi che erano obbligati, anche
attraverso i categorici ordini superiori a non mollare mai e molti uomini in
camicia nera morivano sull’arma e, al termine degli scontri, dove ben
difficilmente ci si trovava a diretto confronto, i militi si dovevano riportare,
negli “accasermamenti”, i caduti, portandoli a spalla e covando sentimenti di
rabbia e di odio nei confronti di chi subdolamente ti colpiva a tradimento.
Allora, quando eri costretto ai rastrellamenti come quello che andarono ad
effettuare reparti della Brigata Nera di Modena e Mirandola nelle zone attorno a
Carpi ai primi giorni di Dicembre, molti di quei giovani, comandati a prendere
parte ai plotoni di esecuzione, non provavano rimorso, a rispondere con
“identica ferocia”, al pensiero dei loro camerati falciati negli agguati dei
giorni prima e cosi, tra Cortile di Carpi e Fossoli, in quei giorni fucilarono
cinque giovani partigiani trovati armati e pronti a far fuoco su di loro.
Poi, terminato il rastrellamento, ritornavano in città con caricati sui camion i
loro caduti lasciando gli altri, i “nemici”, sulle strade e ritornavano cantando
le loro canzoni “truculente” come l’inno della Brigata che così faceva:
Brigate Nere, avanguardia di morte
siam vessillo di lotte e di orror,
siamo l'orgoglio trasformato in coorte
per difendere d'Italia l'onor.
Viva l'Italia!
Fascisti, a noi!
Il Fascio è simbolo di tanti Eroi
Brigate nere, dai saldi cuori
contro i nemici di dentro e di fuori!
Come una rapida freccia che scocca
scatta il pugnale che sa vendicar;
siamo Fascisti, guai a chi ci tocca,
ogni nemico facciamo tremar!
Viva l'Italia!
Fascisti, a noi!
Il Fascio è simbolo di tanti Eroi
Brigate nere, dai saldi cuori
contro i nemici di dentro e di fuori!
Era una guerra assurda, non era il “fronte” ricercato dagli ex balilla diventati
appena un po’ più grandi e disposti anche a lasciare le loro giovani vite sul
campo, ma quello “scontro” con i fratelli era devastante, più sul piano
psicologico che su quello fisico.
Quel periodo sembrava dovesse portare una tregua tra i due schieramenti e per
l’appello del Generale Alexander alla “partigianeria”, e per il clima, dato che
ci si stava inoltrando in un inverno particolarmente gelido e nevoso. Al
contrario, attraverso l’opera dei comandanti politici dei “soviet”, gli uomini
della “stella rossa” italiana portarono ancor più il terrore tra la popolazione
e lo schieramento fascista. Così, gradualmente, anche le giornate di Dicembre
non furono tanto diverse da quelle dei due mesi precedenti in particolare nella
zona ovest della “bassa Modenese”.
Il reparto di Giorgio, il giorno 1 Dicembre, fu inviato, assieme ad altri
reparti della Guardia Nazionale Repubblicana e ad alcune pattuglie tedesche, a
partecipare ad un vasto rastrellamento nel carpigiano, dopo che informatori
repubblicani di quel territorio, avevano comunicato la notizia che riguardava la
concentrazione in quelle zone di notevoli formazioni di “ribelli”.
Si verificarono, per tutta la giornata, scontri in varie località del carpigiano,
ma in particolare nella zona di Cortile dove furono catturati, in breve tempo,
alcuni partigiani che, trovati con armi alla mano, vennero fucilati sul posto.
Si trattava di tali Giorgio Violi, Antonio Simoniello, Ivo Martinelli ed Eolo
Papazzoni; mentre nella vicina Fossoli ci fu la fucilazione di certo Ivano
Aguzzoli.
I reparti rimasero in zona, per quasi tutta la giornata e quelli tedeschi
diedero fuoco ad alcune case. Pochi giorni dopo furono trovati in zona alcuni
volantini, diffusi dalla federazione modenese del PCI, dove si tracciava questo
falso bilancio:
"Nelle prime ore del 1° Dicembre un grosso contingente composto di circa 2000
fra tedeschi e fascisti iniziava una vasta operazione di rastrellamento in tutto
il Carpigiano. Dalle prime informazioni 8 fascisti e 19 tedeschi sono rimasti
uccisi..."
Niente di veritiero poiché al massimo, la presenza dei militari tedeschi e
fascisti non superava le centocinquanta unità e circa un centinaio saranno stati
i componenti delle bande. Mentre tra le forze in divisa fu colpito a morte il
tenente dell’esercito territoriale William Walter.
Numerosi fascisti furono uccisi il 3 Dicembre in agguati o attentati; a Cognento
di Modena due fratelli, entrambi militi della GNR, sono trucidati dai
partigiani: si chiamavano: Cesare Bonacini e Lino Bonacini, e furono colpiti
alle spalle assieme all'autista di trentaquattro anni: Giovanni Pedrielli.
Mentre in città veniva prelevato dalla sua abitazione, e ucciso in Stradello San
Faustino, il calzolaio di trentotto anni: Dario Olivieri, e sempre a Modena
veniva colpito a morte, in un agguato, tale Secondo Golinelli.
Sempre nel modenese, l'inarrestabile spirale della vendetta porta altri lutti. A
San Matteo, frazione del Comune di Modena sono fucilati sette giovani partigiani
come rappresaglia a tutte le uccisioni di fascisti dei giorni precedenti.
La tragica sequela delle esecuzioni isolate di fascisti continua nelle zone
della bassa modenese con un ritmo inarrestabile. Elementi partigiani uccidono,
in un agguato, a Mirandola, l'ex squadrista di cinquantuno anni: Arturo
Valentini.
Ancora nella bassa, a Novi di Modena, viene "eliminato" da partigiani di quelle
zone, il militare della RSI, di ventuno anni: Rino Marchi. Mentre a Mirandola
vengono uccisi dai partigiani, i fascisti o presunti tali: Delmo Diazzi ed
Emilio Luppi, l'agente di Pubblica Sicurezza: Renzo Bianchini, il milite della
GNR di ventidue anni: Artioli Franco, oltre a Gaetano Ferrari e Vittorio
Mambrini.
A Modena i “ribelli” uccidono il finanziere Michele Loprieno, e nella zona di
Carpi, “gappisti” di quelle contrade uccidono, ben quattro fascisti: Gino
Pollastri, Ardilio Lugli, Alfonso Malvasi e Livio Sassi.
La sera del 15 Dicembre, la camicia nera Giorgio Campari, assieme agli altri
dieci componenti della sua squadra d’azione, furono convocati urgentemente dal
Comandante la seconda compagnia della Brigata Nera che comunicò loro la notizia
che il mattino successivo, alle ore cinque, sarebbero partiti, con alcuni
Comandanti, per Milano dove avrebbero preso parte ad una manifestazione molto
importante che era stata comunicata alla Federazione Modenese dal responsabile
regionale del Partito, dott. Franz Pagliani, e pertanto avrebbero dovuto fare da
scorta alla rappresentanza del fascio modenese.
All’ora prefissata, con un camion del reparto sul quale salirono i militi e con
due automobili sulle quali si sistemarono il Federale di Modena, Giovanni
Tarabini Castellani, il Dott. Francesco Bocchi, Direttore del giornale “Valanga
Repubblicana”, il Comandante della Brigata Nera, Walter Bartolozzi, il
giornalista e sindacalista, Nino Saverio Basaglia, l’addetto stampa della
Brigata Mobile “Attilio Pappalardo”, dott. Enrico Cacciari, e il Dott. Franz
Pagliani, Comandante della Brigata Nera Pappalardo, partirono per il capoluogo
lombardo.
Giorgio apprese, in quella livida mattina “decembrina”, che il gruppo avrebbe
raggiunto Milano per presenziare, in rappresentanza del fascismo modenese,
all’incontro con Mussolini il quale, da alcuni mesi, raramente si faceva vedere
o sentire, in manifestazioni ufficiali, e sicuramente avrebbe preso parte al
raduno verso il quale il gruppo di modenesi si stava recando.
Il viaggio fu assolutamente tranquillo e non vi furono incontri di sorta
“particolari”: anche la mattinata, fredda e nebbiosa, metteva il convoglio al
sicuro da eventuali attacchi aerei che, ormai da tempo, in giornate con buona
visibilità erano frequenti in molte zone del nord Italia, in particolare sulle
grandi vie di comunicazione, come la Via Emilia che collega Modena a Milano,
dove vi arrivarono in circa tre ore, e già alla periferia cominciarono a vedere,
sulle strade, un notevole afflusso di cittadini diretti verso il centro della
città, precisamente verso la zona del Teatro Lirico dove era previsto il
convegno.
Raggiunsero quel luogo verso le ore nove e trovarono la piazza e le strade
adiacenti già gremite da una folla entusiasta e vociante e dentro al teatro,
strapieno, i fascisti milanesi intonavano in continuazione gli inni della
rivoluzione; Giorgio, assieme ai suoi Comandanti e ai giornalisti, con i quali
doveva collaborare a stendere una cronaca delle giornate milanesi, riuscì ad
entrare nella sala, mentre i suoi camerati rimasero all’esterno assieme ai
reparti di Brigate Nere di altre città.
Mussolini arrivò puntualissimo, alcuni minuti prima delle undici, ora fissata
per l’inizio della manifestazione, accolto da deliranti applausi che durarono
parecchi minuti. Il Duce è sul palco, e in sala vi è un continuo agitare di
fazzoletti bianchi in segno di saluto, assieme a canti e ad evviva poi, man mano
il rumore si placa sino a diventare totale silenzio.
L’atmosfera è quasi surreale, mentre si può notare sul viso degli uomini della
gerarchia fascista la tensione palpabile, accumulata nelle ore precedenti e che
gradualmente sta attenuandosi, sui volti di Alessandro Pavolini, di Buffarini
Guidi, di Vincenzo Costa, e di tutti gli altri gerarchi, comprese anche le
autorità tedesche e giapponesi presenti.
Man mano che il discorso del “Capo” procede, si nota una totale distensione,
sino al sorriso compiacente, in quanto, sentendo il calore che emana dalle sue
parole, assieme al calore immenso della folla che viene pervasa da quel senso di
partecipazione collettiva che solamente il “Duce” riusciva a portare nelle
piazze italiane a milioni e milioni di connazionali negli anni del suo fulgore,
ci si rende conto che le preoccupazioni delle ore precedenti erano state
eccessive e fuori posto. L’uomo trascinava ancora le folle. Inizia il suo dire
in tono amichevole e distensivo:
”camerati, cari camerati…”
entrando subito nel vivo per esaminare i vari problemi che hanno caratterizzato
l’andamento della guerra e la situazione italiana dopo il “tradimento del 25
Luglio e dell’ 8 Settembre”, rivendicando l’onore del popolo italiano e qui si
rivolge, con uno sguardo intriso da spirito polemico, al palco dove è presente
l’ambasciatore tedesco Rahn; poi precisa:
“Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati
giapponesi, che l’apporto dato dall’Italia Repubblicana alla causa comune dal
Settembre 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del territorio della
Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto comunemente si creda..”
Continua poi con una serie di considerazioni sulle Forze Armate, sulla volontà
del popolo italiano di sentirsi ancora fascista, parla dei 18 punti di Verona e
dell’importanza della Socializzazione; è polemico con il Governo del Sud e
accusa l’Inghilterra di essere responsabile della penetrazione in Europa del
“bolscevismo”. Il discorso viene sottolineato, punto su punto, da frenetici
applausi e lo conclude sottolineando lo sforzo delle potenze alleate che, tra
l’altro, stanno realmente preparando armi tali che porteranno a fare il miracolo
del ribaltamento delle sorti della guerra. Precisa inoltre che:
“Noi vogliamo difendere, con le unghie e con i denti la Valle del Po, noi
vogliamo che la Valle del Po resti Repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia
repubblicana.”
Affermò, ancora, che la mostruosa alleanza tra plutocrazia e bolscevismo, aveva
portato, con la sua barbara guerra, alla distruzione delle opere della civiltà,
ma non dello spirito eterno che da essa emana. Andò alla conclusione con un
appello ai soldati della RSI che dovranno arrivare, di nuovo, a superare gli
Appennini per riappropriarsi dei territori attualmente occupati e trovarvi ancor
più fascisti di quanti se ne erano lasciati, poiché dove regnano miseria e
abiezione morale queste suscitano sempre cocenti nostalgie.
Al termine del discorso i fascisti presenti scoppiarono in un frenetico
applauso; si sentiva che si era di nuovo stabilito tra il Duce e i suoi gregari,
l’antico rapporto, notevolmente allentato a causa delle infauste sorti della
guerra, negli ultimi tempi. Dopo un ora e un quarto di discorso entusiasmante,
Mussolini si spostò dal Lirico alla Prefettura, poi in Piazza San Sepolcro, sede
della Federazione Fascista milanese per passare in rivista i reparti della
Brigata Nera “Aldo Resega”. Ai camerati riuniti nella Piazza, dove nel 1919
nacque il Fascismo, Mussolini parlò brevemente, lodando Milano e la sua gente
per quanto aveva sofferto e sopportato.
Al pomeriggio, Giorgio riuscì a riunirsi ai camerati modenesi con i quali andò a
prendere alloggio nella caserma a loro riservata e, dopo un frugale rancio,
mentre i loro comandanti e altri esponenti del Fascismo locale tra i quali il
modenese avv. Enrico Vezzalini, in quei giorni Prefetto nella città di Novara
erano riuniti in un vicino locale, si recarono a fare una lunga passeggiata per
le vie del centro milanese ancora pieno di vivacità e di gente entusiasta e
tutti in preda ad una generale euforia.
Il giorno successivo, 17 Dicembre, fu altrettanto pieno di avvenimenti e della
partecipazione corale della folla: Mussolini girava per le strade di Milano,
trasferendosi da un punto all’altro, su di un automobile scoperta e in piedi,
acclamato ovunque da folle in delirio, così come si trovò in Via Dante per la
sfilata dei reparti della Legione autonoma “Ettore Muti” dove il Duce “arringò”
gli entusiasti milanesi stando in piedi sulla torretta di un carro armato di
quel reparto.
Vi fu poi un momento di particolare commozione provocato dalla visita che
Mussolini volle compiere, improvvisamente, nella “mensa collettiva” in Piazza
Dante, gremita di lavoratori che stavano consumando un pasto caldo; tutti si
alzarono in piedi e gli si strinsero attorno acclamandolo: si recò, subito dopo,
al Castello Sforzesco, dove le ausiliarie dei corsi: “Italia”, “Roma”, “Brigate
Nere”, “Onore”, “Giovinezza” e “Fiamma”, hanno giurato fedeltà al Duce e alla
Repubblica Sociale Italiana, assieme al Prefetto di Milano Bassi, al Federale
Vincenzo Costa e a Nicola Bombacci; si è, inoltre, recato in visita ai posti
della città più colpiti dai bombardamenti angloamericani, dando ordine alle
autorità di intensificare l’assistenza alla popolazione che aveva subito danni.
Ha salutato tutti i milanesi dopo un “bagno di folla” che nessuno dei gerarchi
presenti si sarebbe potuto immaginare dichiarando, tra l’altro:
“Mentre lascio Milano che ha dato in questi giorni la piena misura della sua
volontà e della sua fede nei destini della Patria, voglio esprimervi il mio
elogio per l’opera che avete svolto, elogio che estendo anche a tutti i
legionari della Brigata Nera che custodisce e tramanda la memoria purissima di
Aldo Resega."
Al termine delle due splendide giornate di grande entusiasmo, Giorgio e i suoi
camerati ripresero, nella serata del giorno 17, la strada per Modena ancor più
convinti della loro battaglia. Impararono, nei giorni successivi, che la lotta
fratricida nel capoluogo lombardo aveva subito un impennata, per l’azione
spietata delle bande ribelli scatenate dal Partito Comunista, dopo la visita
compiuta da Mussolini, per cercare di annullare l’ondata di entusiasmo e
simpatia sollevata dalla presenza del Duce, anche tra le masse popolari.
Nel frattempo, nelle zone della bassa modenese, continuava, spietata, la
sanguinosa guerra civile. A Cavezzo due fratelli fascisti furono trucidati,
assieme alla loro madre; si trattava del milite della GNR, Vincenzo Sala, di
trenta anni, e del fratello di ventitré anni, Libero Sala, assieme a loro venne
uccisa la madre di cinquantasei anni: Sala Zerbini Aquilina.
La famiglia Sala abitava all'Uccivello, una piccola frazione del Comune di
Cavezzo; gente tranquilla, buona, estranea alla politica, era composta dalla
madre, vedova di cinquantasei anni, dalla figlia sposata a Cavezzo e di due
maschi; uno, assicuratore, abitava a Mirandola, l'altro, ventenne accudisce la
madre al lavoro dei campi.
Un pomeriggio si presenta un giovane che chiede del fratello maggiore; alla
madre ed alla figlia appare subito evidente che si trovano di fronte ad un
partigiano, davanti alle precise richieste del giovane, la figlia, di sua
iniziativa, scivola fuori di casa inosservata e corre a Cavezzo ad avvisare del
fatto il cognato, vice capo delle Brigate Nere di quella località. Subito
questi, con due commilitoni accorre sul posto; ne nasce un conflitto in cui il
partigiano rimane ucciso, ma anche il vice-capo riporta una grave ferita che,
nel giro di pochi giorni, lo porta a morte.
La Domenica, 17 Dicembre, alcuni partigiani in bicicletta, tra i quali una
donna, fanno irruzione in casa Sala e vi sorprendono la madre con il figlio
maggiore; senza preamboli ingiungono loro di seguirli: i disgraziati, intimoriti
e non sospettando quello che li attendeva, si avviano verso San Martino Secchia.
Per somma sventura, poco lontano dalla abitazione s'incontrano con l'altro
figlio che stava ritornando a casa dopo aver passato la notte al lavoro
obbligatorio per i tedeschi. Incontrando madre e fratello, naturalmente chiese
dove stessero andando, a questo punto i partigiani prelevarono anche lui.
Sempre tutti assieme arrivano, per la strada Canalazzo, al gruppo di case prima
dell'argine del Secchia. Si fermano e sospingono i tre disgraziati sul bordo
della strada con le spalle rivolte al profondo canale che la fiancheggia. Il
capo dei partigiani inizia una concione – processo, accusando gli sventurati di
aver fatto uccidere un partigiano; i poveretti negano ogni addebito, ma tutto è
inutile né vale il pianto della vecchia madre: il partigiano li condanna a
morire subito. I mitra vengono puntati ed una nutrita scarica li fulmina, i
poveretti rotolano nel canale dibattendosi, negli ultimi aneliti di vita, nella
poca acqua che copre il fondo. Si dice che uno dei disgraziati fosse rimasto
sulla riva, ma che un partigiano con una pedata lo abbia gettato giù. I tre sono
rimasti due giorni semisommersi dall'acqua del canale, finché non vennero
avvisate le autorità Comunali che provvidero a rimuovere i cadaveri.
Al ritorno da Milano Giorgio imparò che due squadre del suo reggimento si erano
recate, in quei giorni, in appoggio alla Brigata Nera di Gonzaga, una cittadina
del vicino mantovano, dove, nella serata del 19 Dicembre, si verificò, da parte
di formazioni partigiane dislocate nella zona di Carpi, un attacco di una certa
consistenza, a quel distaccamento, e l’amico Renato e altri commilitoni gli
raccontarono, quando rientrarono a Modena, quello che era successo quella notte.
Il paese di Gonzaga era presidiato, in quei giorni, da 40 squadristi della
Brigata Nera, da 20 militi della GNR e da 17 tedeschi. La zona era calmissima:
non si erano mai visti partigiani. L'azione, infatti, fu organizzata fuori da
quel territorio e i partigiani giunsero, alla spicciolata, all'imbrunire del 19
Dicembre. Dopo essersi concentrati nel recinto della Fiera, questi si mossero
verso le 23 e bloccarono le vie di accesso al paese. Il caso volle che una
pattuglia partigiana catturasse il Comandante del Presidio tedesco, certo
Zimmermann e la sua segretaria. Il tedesco venne costretto a salire su di una
automobile e condotto davanti all'ingresso dell'edificio delle scuole dove era
accasermato il suo presidio.
Là giunto lo Zimmerman, sotto la minaccia delle armi, dovette annunciare alle
sentinelle che la vettura faceva parte di un convoglio in arrivo e che il
portone doveva essere aperto per lasciare entrare gli automezzi. Le sentinelle,
una italiana e una germanica, non sospettarono di nulla (era buio pesto) e i
partigiani penetrarono così nell'edificio.
Uccisero subito le due sentinelle, poi si lanciarono nelle aule dove dormivano i
soldati tedeschi e li massacrarono tutti prima che questi comprendessero che
cosa stesse accadendo.
Anche alcuni militi della GNR, che dormivano nell'edificio, furono uccisi: solo
uno riuscì a fuggire e a dare l'allarme alla vicina caserma della Brigata Nera.
Contemporaneamente all'attacco all'edificio delle scuole, un altro gruppo di
partigiani si portò davanti alla caserma della GNR, dove si trovavano, in quel
momento, appena una quindicina di militi.
Quando i partigiani si trovarono davanti alla porta, la moglie del brigadiere
comandante la GNR, sentendo del tramestio, e sospettando qualcosa, aprì i
battenti. Si trovò così di fronte ai guerriglieri, armati fino ai denti. La
povera donna, in stato interessante, si spaventò talmente che non riuscì nemmeno
a gridare. Così i partigiani raggiunsero senza colpo ferire le camerate dove
dormivano i militi, catturandoli tutti e uccidendone subito alcuni.
La Caserma, sistemata a Villa Gina, dove si trovavano i 40 squadristi della
Brigata Nera non venne attaccata e i partigiani si limitarono a spararvi contro
alcune raffiche di mitra ottenendo una rabbiosa reazione da parte dei militi
della BN.
Il presidio della brigata, appostato alle finestre e alle feritoie, attese a
lungo l'attacco partigiano che non avvenne, ci fu solamente, quella notte, un
atroce massacro di soldati tedeschi e di militi della GNR, colti nel sonno oltre
all'uccisione di una donna, fulminata da una pattuglia partigiana alla periferia
del paese.
I camerati di Giorgio hanno precisato inoltre che vi erano in caserma anche dei
prigionieri, in tutto una quindicina. Questi prigionieri non furono
assolutamente liberati dai partigiani. Anzi, allorché finito l'attacco, il
comandante della Brigata Nera si offrì di liberarli, onde sottrarli ad una
eventuale rappresaglia tedesca, i prigionieri si rifiutarono di lasciare le
celle, fidando che gli squadristi avrebbero testimoniato sulla loro assoluta
mancanza di responsabilità in merito all'attacco partigiano. E nessuno, infatti,
ha toccato loro un cappello.
I partigiani hanno ucciso due dei nostri camerati modenesi, gli disse ancora
Renato, precisamente il residente a San Prospero, Mario Tassi e il mirandolese
Giuseppe Gabrielli, ambedue arruolati nella Guardia Nazionale Repubblicana.
Nelle giornate che seguirono il ritorno dall’entusiasmante avvenimento al quale
aveva partecipato nel capoluogo lombardo, Giorgio dovette prendere parte ad una
serie di serate di pattugliamento, assieme ai camerati Dino Corradi e Vincenzo
Artioli, nel centro storico. Le giornate sono freddissime ed ancor più la notte,
Modena con l’oscuramento appare in una veste quasi spettrale e poca gente
circola per le strade, l’andare di pattuglia comporta rischi non indifferenti,
in varie circostanze i “ribelli” nascosti dietro agli angoli delle strade e
sotto i portici, negli anfratti più bui, ne approfittano per colpire
vigliaccamente alle spalle militari isolati ed anche cittadini che, per qualche
ragione, sono costretti ad avventurarsi per la città durante le ore del
“coprifuoco”.
E’ questo che si avvicina al Natale, un periodo abbastanza tranquillo, di notte
raramente si verificano agguati e attentanti in centro storico, è più pericolosa
la periferia e la pattuglia di Giorgio ha ricevuto l’incarico di controllare la
zona sud est della città, oltre alle stradine attorno al Duomo e quelle vicine
alle carceri di Sant’ Eufemia; in quei giorni il pericolo maggiore per i ragazzi
che restavano in servizio notturno era quello del grande freddo e di tanto in
tanto si incontravano con altre pattuglie con le quali scambiavano due
chiacchere, per poi procedere nei percorsi prestabiliti.
Natale viene festeggiato nelle case modenesi al lume di candela e sono poche le
famiglie che riescono a fare un cenone come si era soliti fare qualche anno
prima e per i prezzi altissimi di certi prodotti alimentari che si possono
trovare solo al mercato nero e per le restrizioni dell’ “oscuramento” che, se da
un lato possono sottolineare un certo clima natalizio, non permettono molti
spostamenti da una casa all’altra. La tradizione è però talmente sentita che,
anche se in forma ridotta, in ogni casa, un certo “festeggiamento” viene messo
in atto.
L’anno si chiude con i “botti” regalati alla città di Modena dagli aerei
angloamericani che, dopo l’avviso delle sirene che annunciano l’incursione,
sganciano alcuni grappoli di bombe che colpiscono il centro della città e
distruggono alcuni edifici mentre Piazza Grande ne riceve alcune proprio nel bel
mezzo e il Palazzo di Giustizia viene investito da una tempesta di schegge; ma
questo bombardamento è uno dei minori che ha subito la città e fortunosamente
non si lamentano vittime.
Il nuovo anno inizia con il solito stillicidio di agguati e di attentati e il
reparto di Giorgio deve intervenire nella zona di Castelfranco Emilia e
precisamente a Panzano, dove due fratelli, di sentimenti fascisti, sono
assassinati dai partigiani: Guido Serafini di trentuno anni, e Giovanni Serafini
di ventidue anni. Mentre un'altra pattuglia deve accorrere a Villa Freto, in
Comune di Modena, dove è stato prelevato dalla propria abitazione, e poi
brutalmente assassinato, il milite della Guardia Nazionale Repubblicana,
Manicardi Lauro.
Contemporaneamente inizia, su tutto l’Appennino modenese, una vasta azione di
rastrellamento effettuata per cercare di debellare l'azione partigiana che
aumentava gradualmente d'intensità e che, date le condizioni climatiche poteva
raggiungere, secondo i Comandi militari tedeschi e fascisti buone possibilità di
successo. La zona viene attaccata, partendo dalla direttrice principale della
Via Giardini, su tre grandi linee: da Pievepelago verso Frassinoro, da Lama
Mocogno verso Montefiorino e da Serramazzoni su Gombola. Una serie di
combattimenti si protrassero per alcuni giorni, in particolare nelle zone di
Santa Giulia, San Martino e Frassinoro.
L’ otto Gennaio, al Comando della Brigata Nera, giunge la comunicazione che a
Carpi, in Viale Carducci, in un casolare denominato "casa rossa" dove abita una
famiglia di contadini, composta da un solo uomo e da tante donne, si è
verificato un attacco dei “ribelli”. La più giovane delle donne è fidanzata con
un fascista repubblicano. Tanto bastò per essere tacciati, tutti, come spie
fasciste e quindi da eliminare. I partigiani, in folto gruppo e ben armati,
invasero la casa di notte quando erano tutti a letto.
Le povere vittime vennero portate al pianterreno e falciate a raffiche di mitra.
In questo massacro rimasero vittime della violenza: Virginia Morandi di anni
sessantadue; Domenica Gatti, di settantasei anni, Annamaria Sacchi, di ventuno
anni, era figlia del Sacchi Attilio ucciso a Soliera il 4 Novembre del 1944,
Maria Poli di venti anni; Secondo Martinelli di sessantasette anni e Cita
Vincenzi, di ottanta anni; quest'ultima signora anziana venne finita nel suo
letto con un colpo in bocca, in quanto era paralitica.
Il giorno dopo giunge al Comando della Brigata Nera “Mirko Pistoni”, la notizia
di un altro drammatico eccidio portato in territorio del Comune di Modena da una
banda di assassini che si fanno chiamare partigiani. A San Damaso, piccola
frazione alla periferia della città, viene sterminata un’intera famiglia, quella
del veterinario Carlo Pallotti, di quarantasette anni, ucciso assieme alla
moglie Maria Pallotti Bertolacelli, ed ai giovani figli: Luciano Pallotti, di
quindici anni, e Maria Pallotti, di dodici anni. Così venne redatta, nei giorni
successivi dall’ufficio di Giorgio, la ricostruzione dei fatti: erano circa le
diciannove e la campagna del modenese, quella sera, era avvolta da una nebbia
fittissima.
Il contadino Fernando Vaschieri era intento a puntellare la porta della sua casa
con alcune travi. Aveva salutato da poco il Dott. Pallotti, un veterinario di
Modena che proprio quella mattina era andato ad abitare al piano di sopra; la
famiglia Pallotti era sfollata dalla vicina città in questa casa di campagna.
Vaschieri stava quindi per chiudere l'uscio, allorché dovette alzare le mani,
minacciato dai mitra di alcuni individui, sbucati dalla nebbia.
Questi individui si avvicinarono sempre più ed entrarono in casa: i loro volti
avevano quel beffardo sorriso di chi protegge la propria vigliaccheria puntando
un arma da fuoco contro un inerme. “Siamo partigiani” dissero, “abbiamo l'ordine
di portare al nostro comando il Dott. Pallotti”.
Vaschieri fù spinto in un angolo, accanto ai suoi familiari ammutoliti dal
terrore. I partigiani salirono al piano di sopra dove abitava la famiglia del
Dott. Pallotti. Il dottore aveva ottenuto due anguste stanzette, per il fatto
che il giorno precedente era stato costretto ad abbandonare la villetta dove era
sfollato, in seguito al tentativo di una squadra gappista di sfondare la porta.
In quell'occasione i partigiani comunisti avevano preso a sparare sulle finestre
e la figlia del dottore, Maria Luisa di dodici anni, s'era messa a letto “spaventatissima”,
con una febbre da cavallo. L'altro figliolo, Luciano, s'era dimostrato più
coraggioso, ma aveva chiamato il babbo in segreto, gli disse che aveva molta
paura e che, per il bene di tutti, sarebbe stato meglio trasferirsi altrove. Il
veterinario allora aveva chiesto al Vaschieri due stanzette.
Salendo su per una scaletta, i tre armati raggiunsero lestamente il piano
superiore. Vaschieri intese il grido della bambina ed il pianto disperato del
ragazzo. Poi un grido di donna: vi fu un tramestio, come di seggiole
violentemente sbattute e un tizio, rimasto di guardia alla porta, ad un tratto
corse di sopra. Si udì allora un ordine secco seguito da alcune raffiche di
mitra. Poi più nulla. Carlo Pallotti, sua moglie e i due bambini, giacevano
riversi sul pavimento di mattoni, unendo i loro rivoli di sangue.
Uno degli assassini si chinò sul corpo crivellato del veterinario; era ancora
caldo di vita, il sangue seguitava a uscire a fiotti dalla gola e c'era pericolo
che la bella giubba di pelle indossata dal morente si sporcasse. A quel punto
l’uomo, prossimo alla fine, fu spogliato e il suo carnefice si rimirò con
soddisfazione in uno specchio pendente alla parete. Alla signora Maria furono
tolti gli orecchini, l'orologio da polso e le fedi. A Maria Luisa venne
strappata una medaglietta della Madonna.
Così terminò l' "azione di guerra".
I “giustizieri” ridiscesero le scale, diedero una voce al Vaschieri, scaricarono
ancora i mitra contro una parete:
“non ti muovere fino all'alba. Stattene tranquillo perché hai visto cosa succede
ai nostri nemici”.
Fernando Vaschieri si strinse presso i suoi familiari, inebetito, incapace di
comprendere ciò che era successo. La fiamma di una candela fissata su una
bottiglia cominciò a sussultare perché s'era tutta consumata. Il contadino ebbe
il terrore di rimanere al buio: si mosse, cercò una nuova candela, la accese, si
rimise nel solito cantuccio. Su di una piccola mensola, una sveglia scandiva gli
attimi di interminabile angoscia.
Ma ad un tratto il Vaschieri udì un lamento: era una voce fioca che proveniva
dal piano di sopra. Non c'erano dubbi: era la voce di Maria Luisa. Si trattava
di un pianto sommesso, rotto a tratti da una invocazione straziante:
"papà, mamma, perchè non rispondete? Anche voi avete tanto male. Ed allora
perché non vieni tu, Gesù ad aiutarmi?".
Vaschieri guardò l'orologio alla parete.
“Era trascorsa appena un ora dalla strage. La bimba di sopra chiamava, la voce
era sempre più fioca:
“Gesù perchè non vieni?”
C'era da accorrere presso la bimba, ma il contadino non aveva un cuor di leone e
non volle disobbedire agli ordini dei carnefici. Non ebbe nemmeno il coraggio di
affrontare il pericolo del coprifuoco per correre poco distante, chiamare aiuto,
cercare un medico per la povera Maria Luisa:
“tanto è destinata a morire” si scusò con se stesso. E non si scosse nemmeno
quando, all'alba, la piccina cessò di invocare Gesù.
Giorgio rimase profondamente colpito da questo crimine efferato che è andato a
colpire un padre di famiglia che aveva sì sentimenti fascisti, ma che non aveva
mai fatto del male a chicchessia e tanto meno i suoi due giovani figli e la sua
sposa.
Ancora il giorno seguente Giorgio dovette recarsi, assieme ai camerati della
Brigata Nera di Carpi, per cercare di sapere notizie relativamente ad altre
uccisioni di donne, totalmente innocenti ed estranee ad ogni attività politica,
in quella zona; a Gargallo, frazione in Comune di Carpi, è stata violentemente
soppressa la giovane ventunenne, Evalda Maini; sulla base delle indagini
effettuate, così venne stilata la relazione relativa a questo ennesimo e
gratuito omicidio.
In un fondo del mezzadro Stermieri, a Gargallo, la sera del 20 Gennaio, un
contadino del luogo vede, vicino a casa, un giovane che trascinava una ragazza
tenendola saldamente per un braccio. La ragazza piangeva e puntava i piedi. Il
contadino per prudenza, tirò via; arrivò poi un altro individuo armato che
ordinò al contadino di abbandonare immediatamente la casa.
Il contadino non se lo fece dire due volte. Insieme a tutta la famiglia andò a
rifugiarsi presso un fratello che abitava a qualche chilometro. Quando ritornò a
casa, il giorno dopo, non trovò più nessuno. Ma nelle stanze c'erano i segni di
una baldoria notturna.
Non è difficile immaginare ciò che accadde quella notte nella casa colonica.
Due, o più individui, sconosciuti, si ubriacarono con il vino dei contadini,
usarono violenza alla ragazza prelevata poche ore prima, poi la uccisero e la
seppellirono nuda dove è stato ritrovato il cadavere.
E’ sufficiente, per questi bastardi, che una donna sia figlia, o sorella, o
fidanzata di un fascista, che questa può essere prelevata, con la minaccia delle
armi, strappata dal letto, trascinata via seminuda portata in mezzo a un campo,
o in una stalla, sottoposta ad ogni sorta di oltraggi e poi uccisa con una
raffica di mitra e sepolta nuda lungo un filare.
Il giorno dopo i “partigiani” si accaniscono contro un'altra giovane donna e il
suo genitore; questa volta in un piccolo centro della zona pedemontana; a
Castelnuovo Rangone, vengono prelevati dalla loro abitazione ed uccisi, padre e
figlia, il primo di cinquantadue anni la seconda di ventitré anni: Giuseppe
Gozzi, e Ines Gozzi.
Ines è una laureanda in legge, ed è sfollata a Castelnuovo Rangone con la
famiglia, proveniente da Modena; la giovane aveva trovato un lavoro come
interprete presso il Comando tedesco del posto. Si prodigò per la popolazione in
tante circostanze e quando, nel mese di Novembre, vennero uccisi due soldati
tedeschi, con il suo intervento, riuscì ad evitare una spietata rappresaglia,
che i tedeschi volevano mettere in atto attraverso la fucilazione di numerosi
ostaggi e con l'incendio di molte case del paese.
Per questo suo intervento venne soprannominata: "la salvatrice". Era fidanzata
con un Ufficiale fascista. I partigiani l’hanno prelevata nel pomeriggio,
assieme al padre, portata in aperta campagna, dove è stata violentata sotto gli
occhi del genitore. Poi i due furono finiti con un colpo di pistola alla nuca ed
i cadaveri gettati in un pozzo nero.
In questi giorni gli agguati e le imboscate contro fascisti e tedeschi non si
contano più; a Bomporto viene assassinato il milite della Guardia Nazionale
Repubblicana: Dante Astolfi; mentre a Maranello i partigiani prelevano e poi
uccidono, il fascista: Telemaco Caselli.
A Carpi, in un agguato, teso dai partigiani di quelle zone, vengono catturati e
poi trucidati, un gruppo di soldati tedeschi e fascisti: i militi della Brigata
Nera uccisi dai partigiani sono: Neldo Furoni, Alcide Gavioli, e Dante Turchi.
E’ il 24 Gennaio e ancora presso Gargallo, un reparto partigiano apre il fuoco
su tedeschi e fascisti di scorta ad una colonna di bestiame requisito, fanno
prigionieri tre fascisti e due tedeschi, inoltre attaccano, subito dopo, un auto
con a bordo delle SS, che rispondono al fuoco e feriscono mortalmente il
partigiano Enzo Benetti, ma alla fine anche una SS è catturata, mentre un altra
riesce a fuggire.
Tutti i prigionieri vengono passati per le armi dai “partigiani” e lasciati
sulla strada davanti a un casolare distrutto. Al corpo dei fucilati fu appeso,
dai “ribelli”, un cartello con la scritta: "Basta con il terrore! Basta con i
soprusi! Basta con le deportazioni!”
A seguito di tutte queste uccisioni vengono effettuate una serie di rappresaglie
in alcune località, e precisamente a Cavezzo dove sono fucilati: Ezio Pavan e
Ezio Sommacal; a Soliera: con la fucilazione di Gino Ferrarini; mentre a
Quartirolo di Carpi reparti tedeschi e fascisti effettuano una delle più
spietate rappresaglie avvenute nella Provincia modenese. Trentuno partigiani
furono fucilati alla "svolta Cattania".
Di un ulteriore episodio, di soppressione di un fascista, si dovette interessare
Giorgio, quando gli venne comunicato di recarsi a San Giacomo di Bastiglia per
accertamenti circa l’esecuzione da parte, si suppone, di una banda di “ribelli”,
di Saverio Cavazzuti, Capitano della Milizia Forestale, avvenuta domenica 28
Gennaio.
Il dott. Cavazzuti aveva cinquantadue anni, ed era laureato in Agraria; si
iscrive alla RSI dalla sua costituzione. Andava affermando, apertamente, a voce
e per iscritto le sue idee di fermo attaccamento all'onore della Patria e di
avversione ai partigiani.
Rimanendo sempre fervidamente cattolico, si stacca, per questo, da parenti ed
amici tiepidi e temporeggiatori. Era stato assalito in casa, una prima volta,
dai ribelli e, messo al muro, si dimostra impavido davanti alla morte, rifiuta
di supplicare, dicendosi lieto di offrirsi per la Patria e di salire a Dio.
Viene rilasciato, ma non abbandona per questo, nè il suo servizio, nè la città.
In quella Domenica di fine Gennaio, mentre percorreva in bicicletta, solo e
disarmato, con la strada coperta di neve che conduce da Bastiglia a Modena,
viene fermato dai partigiani comunisti che lo conducono con loro. Pare sia stato
tenuto vivo una notte e che abbia dichiarato "sono cattolico e fascista", verso
l'alba venne condotto a morte. In che modo non è stato appurato. La vedova non
vuole nessuna rappresaglia.
Un altra testimonianza conferma che il Capitano Cavazzuti venne fermato da due
persone di Bastiglia, poi portato in giro per arrivare ad una casa che si trova
tra Bastiglia ed Albareto, poco dopo San Matteo, prima del Cantone, tra la
strada Provinciale e il Naviglio. C'è là una casa con una tettoia, o si chiama
tettoia la casa stessa, isolata. In questa località sembra che una donna abbia
visto arrivare un gruppetto di uomini, tra i quali il dott. Cavazzuti; poi li
vide uscire e Saverio era in mutande e maglia. Al chè la donna disse, in
dialetto:
"Ma cum as fà a purter via un cristian in c'la manera lè?", (ma come è possibile
portare via un uomo in quelle condizioni?), le venne risposto, sempre in
dialetto:
"ma al gà da fer poca streda" (ma deve fare poca strada).
“Non vi sono, al momento, elementi che possano permettere il recupero del
corpo”, così dovette scrivere Giorgio nella sua relazione.
L’umore di Giorgio, dopo quella serie di orrendi delitti, dei quali aveva dovuto
prendere diretta conoscenza per ragioni d’ufficio, era andato a finire, “sotto
la suola delle scarpe”. Lui che era sempre stato di carattere allegro e
buontempone, pronto alla battuta salace, allo scherzo con amici e commilitoni,
portato alla buona barzelletta, insomma il classico “compagnone” attraversava in
questo periodo momenti misti di rabbia e di scoramento, che lo rendevano sempre
più triste e poco disponibile al superamento della situazione in cui tutti si
trovavano; era stato preparato psicologicamente alla guerra e alle brutture che
questa comporta, però le uccisioni di tanti innocenti, compiute da italiani su
dei loro fratelli, in particolare poi gli accanimenti contro le donne indifese e
contro ragazzini e bambini che non hanno nessuna colpa se non di esistere e di
essere figli di persone invise od odiate da questi assassini, lo lasciavano
totalmente demoralizzato e, nello stesso tempo, gli mettevano addosso un
desiderio quasi morboso di rendere “pan per focaccia”.
Si rendeva conto, a quel punto, che la battaglia nella quale ancora credevano
tanti suoi camerati, si stava perdendo o era già completamente perduta. Era
sempre più convinto che i suoi connazionali che, come Giorgio, avevano
fortemente creduto nel fascismo, nelle sue idee e nel suo “capo”, compresi tutti
coloro che lo avevano “portato per mano” fino a quando le cose andavano bene, si
erano poi rivelati, nella stragrande maggioranza, dei pavidi, dei traditori,
gente senza onore. Erano stati, letteralmente, “presi per i fondelli”. A
cominciare dalle alte cariche dello stato per arrivare sino all’ultimo
fantaccino di un esercito che si era dissolto in un attimo, malgrado fosse
composto da “otto milioni di baionette” (fasulle), pronte a sacrificarsi per
“gli alti destini della Patria” attraverso tutta quella pletora di gerarchi e di
“gerarchetti” che, dopo essersi pavoneggiati in uniformi e atteggiamenti
militareschi da “operetta”, alle prime vere difficoltà e al primo fischio di
pallottola reale e non come quelle delle “esercitazioni premilitari”, se la sono
squagliata e “se la sono fatta sotto”: Avevano così lasciato spazio a quella
esigua minoranza che, ben indottrinata e abituata a colpire alle spalle e poi a
nascondersi, lasciavano causassero che le conseguenze drammatiche delle loro
“azioni vigliacche”, cascassero addosso alle innocenti popolazioni, attraverso
un orchestrazione degli attentati e degli agguati scatenati per creare
ritorsioni e rappresaglie che scavano sempre più l’odio tra la gente.
Ma nello stesso tempo, e “obtorto collo”, almeno questi “signori” hanno il
“coraggio” delle loro azioni (nefaste) e sono, di conseguenza, disposti all’
“estremo sacrificio” della “propria pelle”, come quella parte più
“ideologizzata” dei “ribelli”, i comunisti, che sanno bene i rischi che corrono,
perché, se noi li catturiamo, per loro non vi è scampo. Per questo, anche se
sono nostri acerrimi nemici, a loro và portata maggiore considerazione rispetto
a tutti coloro che si nascondono, “tremebondi” e paurosi, senza alcuna dignità
pronti a sfruttare a loro vantaggio la situazione, non appena le armi
smetteranno di funzionare.
Quante “balle” gli hanno raccontato questi “invertebrati” che adesso, o nascosti
dietro ad una siepe e pronti a sparare, o nascosti nelle sagrestie, o nelle
cantine e nei granai delle case, sono in “trepida” attesa dei “nemici – amici”
che, tra l’altro, li stanno massacrando, indiscriminatamente, anche loro con i
bombardamenti terroristici.
Certo che a Giorgio non verrebbe mai in mente di fuggire, di disertare, dato che
la sua è stata una scelta ponderata e senza tentennamenti. Diversamente è
successo ad alcuni coetanei arruolati nei corpi più svariati dell’esercito
repubblicano quali, la Guardia Nazionale, la Decima Mas, o reclutati in una
delle quattro divisioni che hanno fatto il loro addestramento in Germania, oltre
ad essere stati armati ed equipaggiati dagli alleati tedeschi, ed anche alcuni
che sono entrarti nelle Brigate Nere, poi hanno gettato, la divisa e le armi,
“alle ortiche” e si sono rifugiati presso qualche banda ribelle, oppure sono
tornati a nascondersi tra “le braccia della mamma”. Alcuni di questi sono stati
catturati e “passati per le armi” per diserzione, come prevedono le leggi di
guerra in tutti i paesi del mondo.
Più ci ragionava sopra, meno risposte riusciva a trovare e, a volte, pur non
amandoli troppo, riusciva a comprendere meglio i soldati tedeschi, ed anche ad
ammirarli, per la loro sicurezza e per la loro “rigida e tetragona” mentalità
che li portava alle estreme conseguenza una volta compiuta una scelta e che,
particolarmente sui campi di battaglia, si differenziavano dagli italiani. I
nostri comportamenti, complessivamente, non ci hanno mai fatto distinguere, nel
mondo, come dei validi combattenti, a parte pochi scelti reparti.
Certamente, e spesso ne discuteva con i camerati del suo reparto, la loro
situazione diventava ogni giorno più difficile e le prospettive di un definitivo
cedimento delle forze dell’Asse, si avvicinavano sempre di più. Durante il mese
di Febbraio, si iniziarono ad avvertire le avvisaglie di un prossimo,
consistente attacco; il nemico stava riprendendo e massicciamente, i pesanti
bombardamenti terroristici su tutto il Nord e in queste giornate cominciano ad
essere battute le retrovie del fronte e in particolare tutto il modenese dove,
sia la zona montana, sia quella collinare, vengono costantemente tenute sotto la
pressione di micidiali bombardamenti aerei e molti paesini dell’ Appennino,
furono presi di mira risultando completamente devastati anche da micidiali
cannoneggiamenti da terra.
In questi giorni Giorgio si incontrò con un camerata che era da poco tornato
dalla Germania dove si era trovato, al seguito di un giornalista e di un
sindacalista, nelle vicinanze di Dresda dove era residente un nutrito gruppo di
italiani, tra i quali molti modenesi, operai e contadini, che si erano recati,
già da parecchi mesi, come volontari, a lavorare in quel territorio e che gli
raccontò, con abbondanza di particolari, cosa successe su quella città, il
giorno di Martedì grasso, 13 Febbraio.
“Ti devo raccontare, Giorgio, questa storia, perché, a parte l’orrore che mi
sono trovato davanti agli occhi, ho potuto constatare l’enorme potenza
dell’aviazione inglese e americana che, giornalmente, riesce a mandare in volo,
sulla Germania, migliaia e migliaia di giganteschi aerei, chiamati “fortezze
volanti”, con dei carichi di bombe inimmaginabili e i tedeschi non riescono ad
opporre la benché minima resistenza, a dimostrazione che ormai la guerra è
persa, per noi”.
Così esordì l’amico in quella serata, verso la fine del mese di Febbraio,
trascorsa a cena a casa di Giorgio durante uno dei rari permessi che riusciva ad
ottenere dal suo Comandante.
Il Tenente Franco Baracchi era diventato buon amico di Giorgio sin dai giorni
della sua entrata nelle file della Brigata Nera modenese e, per quanto più
vecchio di lui di cinque anni, con una buona esperienza in campo militare e
giornalistico, era entrato in sintonia con il più giovane, in quanto aveva
trovato in questo una maturità difficilmente riscontrabile nei giovanissimi.
Franco, su incarico del Ministro Mezzasoma e per l’interessamento degli
ufficiali superiori dell’ organizzazione Todt italiana, che a Modena ha sede
sulla Via Nonantolana, in località Crocetta, era stato inserito nella
commissione istituita per recarsi in visita in Germania. Questa struttura era
una sorta di grande impresa di costruzioni che, inizialmente, operava ed opera
ancora nella Germania nazista e in seguito in tutti i paesi europei dove sono
presenti le forze armate tedesche, impiegando, fondamentalmente nei lavori di
costruzioni di strade, ponti, e altre grandi opere difensive, migliaia di
operai, in parte anche prigionieri di guerra ma nella maggioranza volontari, e
in realtà anche discretamente pagati.
Molti operai, particolarmente nelle nostre zone, si sono arruolati nella
organizzazione della Todt, e per sfuggire ai reclutamenti forzati per le
industrie in Germania, ed anche per ottenere uno stipendio molto utile in questi
tempi difficili, oltre al tesserino rilasciato dai Comandi tedeschi per poter
circolare liberamente laddove questi, causa la presenza di formazioni
partigiane, mettevano sulle strade severi posti di controllo alla circolazione.
Molti connazionali e molti modenesi prestavano la loro opera in Italia, ma molti
erano andati anche volontari in Germania, sia nell’industria, sia nelle comunità
agricole tedesche dove parecchi contadini modenesi, di Serramazzoni e di
Maranello erano presenti, malgrado la situazione difficile di quelle contrade,
ma dove si trovavano particolarmente bene, a quanto hanno riferito alcuni di
loro ritornati da quelle zone.
Il Ministero aveva voluto inviare, secondo accordi presi precedentemente, una
commissione di esperti della Repubblica Sociale a far visita ai connazionali e
controllarne le loro condizioni. Dopo un viaggio piuttosto rocambolesco e pieno
di difficoltà, il gruppetto di tecnici italiani, dei quali era stato chiamato a
farne parte anche il Tenente Franco Baracchi, era riuscito ad arrivare, alla
fine del Mese di Gennaio, nella zona attorno a Dresda dove erano sistemati, in
varie fattorie della zona, i nostri connazionali, compresi un buon numero di
modenesi.
La maggioranza di questi era sistemata nelle vicinanze di un piccolo centro
rurale, Niederau, in Sassonia, a circa trenta chilometri di distanza dalla
bella, grande ed importante città, Dresda, situata sul fiume Elba, e a soli sei,
dal grazioso centro di Meissen, cittadina di poco più di ventimila abitanti,
denominata anche “culla della Sassonia”, centro assai importante per la
produzione di pregiatissime porcellane artistiche, dominata dallo splendido
Castello di Albrechtsburg, e sede di una bella cattedrale gotica.
“Eravamo sistemati anche noi presso dei privati che, malgrado le grosse
difficoltà che avevano nel procurarsi un po’ di cibo, riuscirono ugualmente a
farci ottenere il puro necessario per la sopravvivenza, a base di tante “kartofen”,
e crauti che abbiamo mangiato in abbondanza.”
Così iniziò il suo racconto Franco, seduto davanti al desco, discretamente
imbandito dalla mamma di Giorgio, composto da alcuni prodotti tradizionali
modenesi ai quali fece una gran festa, compresa la buona bottiglia di lambrusco
che gli sciolse ancor più la lingua a vantaggio del suo racconto, specialmente
dopo i “quasi digiuni” in terra germanica.
“Abbiamo trovato bene i nostri connazionali, anzi alcuni erano addirittura
entusiasti perché, in particolare quelli addetti ai lavori dei campi, non
soffrivano la fame, come invece capitava a milioni di tedeschi, in più, data la
scarsità di uomini locali, quasi tutti impegnati sui vari fronti europei, le
relazioni con le ragazze tedesche erano abbastanza facilitate.”
Giorgio e il papà si guardarono con un sorriso di compiacimento, mentre mamma
Mirella, anche lei sorridente, accennò, con la mano, a un bonario scappellotto
verso Franco.
“Abbiamo avuto la possibilità di muoverci con una certa autonomia, anche se,
purtroppo, vi sono notevoli difficoltà negli spostamenti, oltretutto nella zona
di Dresda e dintorni si era verificato, in questi ultimi tempi, un afflusso
incredibile di gente proveniente da tante altre città in seguito ai
bombardamenti, praticamente giornalieri, su tutto il territorio, mentre sembrava
che questa città d’arte, ricca di storia, di splendidi monumenti, potesse
restare indenne dalla furia devastatrice degli aerei angloamericani.
Pensate che prima dell’avanzata dei russi, provenienti da est, la città contava
circa seicento trentamila abitanti e, man mano che le truppe sovietiche
avanzavano in territorio tedesco, i rifugiati dai territori invasi hanno portato
la “Firenze del Nord” a più che raddoppiare la popolazione. La quasi totalità di
questi profughi è composta da persone anziane, donne, bambini, malati, feriti,
prigionieri di guerra che, praticamente, hanno occupato ogni minimo spazio ed il
problema alimentare, per questa massa di disperati, è di una tragicità
impressionante.
Avevamo sentito parlare di un devastante bombardamento sulla città di Amburgo
avvenuto in quella città portuale, con un numero altissimo di morti, e di altri
terrificanti bombardamenti su tante città tedesche, ma il clima di Dresda era,
nei giorni in cui noi siamo arrivati, abbastanza sereno. Si sentiva, nell’aria,
da parte di questa massa di cittadini disperati il desiderio di passare una
giornata allegra e serena per la festa di Martedì grasso del 13 Febbraio. Siamo
andati, pochi giorni dopo il nostro arrivo, a fare una breve visita a questa
splendida città adagiata sulle sponde del fiume Elba.
Il piccolo gruppo era accompagnato da un connazionale, certo Giovanni Soldati,
bolognese, da tempo residente in quei territori, il quale seguiva gli italiani
recatisi in Germania a lavorare nelle varie fattorie dislocate attorno a
Niedernau, oltre ad una ventina di operai che si erano inseriti in alcune
piccole industrie della zona, in qualità di tecnici specializzati, si prestò a
farci da guida.
Siamo arrivati abbastanza presto a Dresda e già si notava una notevole presenza
di persone per le strade. L’amico bolognese ci spiegò che la città, costruita
inizialmente sulla riva sinistra del fiume Elba, era nota già nel dodicesimo
secolo e fu fondata dai margravi della vicina Meissen, signori della Sassonia;
due secoli dopo questi ne fecero la loro sede e Dresda diventò ricca e potente,
tanto da essere tra le maggiori città del Terzo Reich come numero di abitanti,
attraverso, principalmente, l’industria dei panni e delle porcellane.
Abbiamo visitato, solo dall’esterno, il Teatro dell’Opera, costruito in uno
splendo stile del barocco italiano, poi siamo passati a vedere alcuni palazzi
sede di importanti Musei, chiusi in quei giorni oltre a tante bellissime chiese,
costruite per merito di un gruppo eccezionale di architetti che, tra il Seicento
e l’Ottocento, hanno realizzato, sulle due rive dell’Elba, un complesso
scenografico di edifici religiosi e civili, con delle superbe realizzazioni che
ci hanno lasciato letteralmente stupiti per la armonia e la bellezza delle forme
di uno splendido rococò europeo e di un raffinato barocco.
Opere come lo Zwinger, la Chiesa dei Re Magi, il Palazzo giapponese, i palazzi
Taschenberg, Bruhl e tanti altri, li abbiamo trovati di una eleganza fuori dal
comune. Così come alla periferia della città ci sono apparse altre stupende
costruzioni, come i castelli e i parchi di Pillnitz, di Moritburg e il
Gross-Sedlitz. Sempre in quei tempi, era stata istituita a Dresda la prima
manifattura europea della porcellana.
Abbiamo girato tutto il giorno per questa città straordinaria, che attualmente è
stata occupata da centinaia di migliaia di persone sfollate dai territori
dell’est, invasi dalle truppe russe che stanno portando il terrore nei territori
che man mano si prendono e qui, noi, sentiamo e vediamo, in modo drammatico, la
disperazione che attanaglia i tedeschi che ormai sentono la fine vicina e
nessuna speranza di ribaltare le sorti della guerra, che tutti avvertono già
perduta.
Siamo rientrati, stanchissimi, nel tardo pomeriggio, ai nostri alloggiamenti
contenti di aver visitato questa bella città ma nello stesso tempo avviliti nel
vedere e nel sentire che la situazione della “Grande Germania” è ormai
disperata. Ugualmente, parlando con i nostri connazionali ed anche con alcuni
tedeschi, tutti si trovano d’accordo nel sostenere che Dresda difficilmente
potrà essere bombardata dato che, trovandosi quasi al confine con la
Cecoslovacchia è molto lontana dagli aeroporti da dove partono le formazioni
anglo americane, e che ben difficilmente, potranno raggiungerla, inoltre, non vi
erano in zona particolari insediamenti di industrie belliche o grossi impianti
industriali.
Tutti, residenti e sfollati, cercavano di avvicinarsi sereni ai pochi
festeggiamenti del Martedì grasso che erano stati previsti, malgrado le scarse
disponibilità di quei giorni, avevano ugualmente portato i bambini a vestire gli
abiti del carnevale, maschere colorate e “costumini” di varia foggia, quando, la
sera del giorno 13, alle ore 22,13, contrariamente a tutte le previsioni,
arrivarono sulla città centinaia di bombardieri “Lancaster” che, guidati da
migliaia di bengala lanciati a illuminare gli antichi tetti dei tempi di Lutero,
indifesi da un inesistente contraerea; oltretutto nessun aereo tedesco ebbe la
possibilità di alzarsi in volo per contrastare la valanga di aerei stracarichi
di bombe, questi ebbero facilitato l’ingrato compito di effettuare, in tutta
tranquillità, quell’ennesimo bombardamento terroristico. Il Teatro dell’Opera,
ed altri teatri della città avevano ancora in atto rappresentazioni teatrali, i
treni nella stazione erano strapieni di gente.
Cominciammo a sentire i primi boati, sebbene ci trovassimo a parecchi chilometri
di distanza e si iniziarono a vedere i bagliori delle prime esplosioni; ci
stavamo rendendo conto dell’imponenza di quell’attacco aereo e del dramma che
stavano vivendo migliaia di tedeschi sotto quella pioggia infernale di bombe:
arrivarono, via via, altre ondate di aerei che, sempre a centinaia, prima con le
bombe dirompenti, poi con le bombe incendiarie, misero veramente a ferro e fuoco
la città di Dresda.
Imparammo, al mattino, eravamo rimasti svegli praticamente tutta la notte, da
alcuni che erano riusciti a scappare da quell’inferno e a rifugiarsi nel paesino
dove ci trovavamo, di scene raccapriccianti, di migliaia e migliaia di morti, di
un vero e proprio macello, con automezzi dei pompieri e di soccorritori che
giungevano in aiuto dalle città vicine, inceneriti dalle ondate successive.
Ovunque corpi, carbonizzati, triturati, spezzettati, masse irriconoscibili,
miseri mucchietti di ossa e di cenere. Le esplosioni, gli incendi che
arroventavano l’aria, avevano provocato un uragano di fuoco e la carenza di
ossigeno aveva costretto centinaia di persone a gettarsi nelle gelide acque
dell’Elba o nei canali, dove invece trovavano, ad incenerirli, fiumi di fosforo
incendiario che colava dalle strade.
Ed è stato un continuo per tutta la notte e ancora il giorno dopo, a mezzogiorno
e un quarto, arrivò un'altra ondata di ferro e di fuoco da parte di centinaia di
aerei che completarono la gigantesca opera di distruzione e, a seguirli, si
gettarono a bassissima quota, altri aerei della scorta, i caccia “Mustang”, a
mitragliare e spezzonare la popolazione terrorizzata che fuggiva, in colonne
interminabili, e questi “eroici” piloti americani giocavano alla caccia
all’uomo, passando e ripassando sulla devastazione di una città, praticamente
“rasa a zero”.
L’impressione fu enorme; a noi italiani ci fu chiesto di allontanarci
rapidamente dalla zona, e rapidamente, dopo aver salutato i nostri connazionali
salimmo sulle nostre due auto con le quali eravamo giunti dall’Italia; cercando
strade di non grande traffico; ci siamo diretti verso sud, raggiungendo Bayeruth
e Norimberga; due giorni dopo aver attraversato Monaco di Baviera, siamo
arrivati al confine e, dal Brennero, siamo riusciti a raggiungere Modena senza
grossi intoppi, solamente con qualche difficoltà nel trovare il carburante che,
sia in Germania sia in Italia è molto difficile scovare e per questo, in tante
circostanze, abbiamo dovuto fare deviazioni non indifferenti, recandoci presso i
nostri comandi, onde avere le giuste autorizzazioni, per poter proseguire il
viaggio con una certa sicurezza, nelle varie zone attraversate.”
Il padre di Giorgio era rimasto molto colpito dal racconto del Tenente e gli
chiese dei pericoli corsi in quel avventuroso viaggio, ebbe da Franco la
risposta:
“mentre in Germania il grosso pericolo sono i bombardamenti, pertanto abbiamo
sempre cercato di evitare i grossi centri abitati, in Italia bisogna pur sempre
stare attenti alle incursioni aeree dei caccia isolati che sono alla ricerca
esasperata di ogni cosa che si muove, ma in più si corre il rischio di fare, per
le strade, brutti incontri di pattuglie partigiane che, se ti “beccano” puoi
star certo che la tua fine è segnata, e non sempre, nei vari comandi dove ci
siamo fermati, vi è stata la possibilità di trovare qualche reparto disposto a
farci da scorta.”
Al termine della cena, i due militi, dopo aver ringraziato e salutato i genitori
di Giorgio, si congedarono per ritornare in Caserma, da dove l’amico Tenente si
sarebbe preparato per trasferirsi alla “Brigata Nera Mobile A. Pappalardo” che,
sino a quei giorni, era stata comandata dal modenese, dott. Franz Pagliani, per
avere compiti di collegamento con gli altri reparti dislocati nella regione.
Questa Brigata era la terza, delle cinque costituitesi nel mese di Luglio, ad
essere chiamate “mobili”, dato che hanno la possibilità di muoversi sul
territorio con maggiori opportunità di manovra, rispetto alle formazioni
territoriali: ha sede a Bologna e si sposta frequentemente, in particolare nelle
zone del modenese e del parmense. Ha preso il nome del Capitano della Guardia
Nazionale Repubblicana, Attilio Pappalardo ucciso a Bologna in località Ponte
Ronca, da “gappisti” bolognesi, il 6 Settembre 1944.
La notte tra il 27 e il 28 Febbraio, erano circa le 21, la squadra di Giorgio fu
urgentemente inviata nella vicina Via Prampolini dove l’odioso bombardiere
notturno, “Pippo” aveva lasciato cadere le sue micidiali bombe. Stava
transitando, sui viali del parco cittadino, una colonna di tedeschi composta da
camion e da molti carri ippotrainati; sentendo il rumore di un aereo il
comandante del convoglio ordina alle truppe di mimetizzarsi sotto gli alberi.
Alcune bombe arrivano su quei soldati e sui cavalli che rimangono a terra in
buon numero, ma vengono centrate anche molte case della vicina Via Prampolini.
Giorgio e la sua compagnia sono sul posto pochi minuti dopo le deflagrazioni; il
caos è incredibile, cavalli e muli che scappano come impazziti, in tutte le
direzioni, i soldati tedeschi che soccorrono i loro commilitoni e compongono i
resti dei morti.
Dalle case Menziani e Allesina giungono urla strazianti dei civili colpiti dalle
schegge delle bombe cadute nel giardino di casa Menziani attiguo a quello della
famiglia del prof. Giovanni Allesina, chè è il Preside della Scuola Media
Carducci, ed è composta dalla moglie, Teresa Tavernari e da quattro figli, Maria
Allesina, insegnante di 28 anni, Mario Allesina, un geometra di 24 anni che
presta servizio all’Unpa, Angiolo Allesina, di 23 anni, che ha fatto la guerra
nei ranghi della Marina Militare Italiana col grado di Tenente di Vascello e dal
più giovane, Luca Allesina, di 21 anni che, in quell’orario, non era in casa
perché era andato dalla fidanzata Iole che abitava nella vicina Via Vedriani,
con loro abita anche il cane “Lampo” che “sente” l’arrivo degli aerei ancor
prima delle sirene.
Pure quella sera avvisa il padrone con guaiti e mugolii, prima dell’arrivo delle
bombe; le schegge devastano gli interni della villetta. Quando arrivano i
soccorsi, militi dell’Unpa, vigili del fuoco e i militi della brigata nera di
Giorgio, assieme alle autoambulanze, si trovano di fronte ai corpi di tutta la
famiglia, colpiti dalle schegge delle bombe e, anche il cane Lampo giace a terra
con il ventre squarciato.
Tutti vengono rapidamente trasportati all’Ospedale Sant’ Agostino, ma per il
capo famiglia, il Preside Giovanni Allesina non vi sarà nessuna possibilità di
salvarsi, difatti muore alcune ore dopo sotto i ferri dei Professori Montanari e
Gibertini, che hanno operato tutti i componenti della famiglia oltre ad altri
gravemente feriti come, le ragazze: Elide Morselli di 19 anni, Delia Monzani di
ventuno anni, di Adriana Bolognini di ventinove anni, che porteranno per sempre,
nelle loro carni il ricordo delle schegge della bomba lanciata dall’ “eroico”
pilota americano: muoiono invece, Carla Monzani di venti anni, abitante nella
villetta a fianco degli Allesina e il militare Celestino Seghedoni di ventotto
anni.
Alcuni giorni prima, il 24 Febbraio, la compagnia di Giorgio si recò
urgentemente a Concordia in quanto era arrivata comunicazione, in Via Canalino,
che i partigiani, di quella località, ad una trentina di chilometri da Modena,
si erano portati all’attacco della Caserma della Brigata Nera di quel centro.
Arrivarono alla periferia di Concordia che si sentivano ancora raffiche di
mitra, ma quando giunsero sul posto non vi era più “ombra” di partigiani.
I circa trenta “brigatisti neri” si erano difesi egregiamente ed energicamente
da quell’attacco, portato da notevoli forze di “bande ribelli” che tennero sotto
scacco, i militi per oltre un ora, ma questi riuscirono a metterli in fuga.
Quando arrivarono i modenesi era tutto finito, solamente due militi erano
rimasti leggermente feriti, mentre i partigiani dovettero trascinarsi dietro
morti e feriti, ma non si seppe quanti.
I primi giorni del mese di Marzo vedono una tragica successione di uccisioni di
militi e civili fascisti che fanno scattare l’ira dei comandi i quali ordinano,
per il giorno 9, una feroce rappresaglia al Ponte di Navicello, sul fiume
Panaro, località alla periferia della città. Erano stati uccisi, solamente in
Comune di Modena, in quei giorni, più di una decina di militi, oltre alla feroce
esecuzione, in Comune di Cavezzo, di una bella ragazza di soli diciotto anni,
uccisa con la “drammatica accusa” di essere figlia di un “fascista della prima
ora”, in più “legionario fiumano”, la ragazza si chiamava, Maria Grazia Nivet.
Giorgio era a letto, influenzato da due giorni, così evitò di prendere parte al
plotone di esecuzione degli undici partigiani, uccisi anche da suoi commilitoni,
che furono costretti dai loro comandanti ad entrare nel gruppo dei “fucilatori”.
Questo era uno dei problemi che assillava Giorgio e parecchi dei suoi camerati;
tutti si rendevano conto che le rappresaglie, in quel clima, avevano una loro
giustificazione, i ribelli non ci andavano tanto “per il sottile” nell’uccidere,
in imboscate ed attentati i militi della Brigata Nera e raramente si trovarono,
come successe a Concordia, ad affrontare in veri combattimenti i militi
fascisti, loro si nascondevano, in abiti borghesi, dietro a una siepe o dietro a
una colonna e uccidevano senza pietà per camuffarsi poi in mezzo alla gente; ma
mettersi a sparare contro uomini schierati, impotenti, contro un muro era una di
quelle cose che Giorgio non riusciva a “mandar giù”. Sino a quei giorni lo aveva
sempre evitato, ma se gli venisse imposto? Come si comporterebbe, quali reazioni
potrebbe avere? Sperava di non poterci mai arrivare, ormai negli scontri che
alcune volte si erano verificati durante i rastrellamenti, raffiche di mitra ne
aveva sparate senza essere mai venuto a sapere se avesse ucciso qualcuno, ma sin
lì ci stava, la fucilazione “nò”.
Ci fu, pochi giorni dopo, un fatto che lo fece riflettere e quasi fare ”marcia
indietro” sulle riflessioni relative ai plotoni di esecuzione: il giorno 16
arrivò in caserma “Galluppi”, la notizia dell’ennesimo attentato partigiano in
città, andarono ad accertarsi con la sua pattuglia in zona Ferrovie Provinciali
e si trovarono di fronte tre cadaveri: uno era quello del suo “Capo” all’ufficio
Stampa della Brigata Nera; in un lago di sangue giaceva a terra Francesco Bocchi,
che mescolava il suo sangue con quello della madre, Italina Marisi Bocchi e con
quello del vecchio professore, suo amico, Roberto Ranieri.
Il dott. Bocchi stava ritornando a casa assieme al vecchio amico, a loro
incontro stava andando la mamma di Francesco quando, nascosti dietro ad una
siepe, alcuni partigiani cominciarono a far sgranare i loro mitra che in pochi
istanti misero fine a quelle tre vite. Quando Giorgio e la pattuglia arrivarono,
poche persone si trovavano nelle vicinanze, ma a debita distanza dalle vittime:
i “brigatisti” quando si accorsero di chi era il corpo dell’unico in camicia
nera, rimasero sbigottiti.
Due di loro si precipitarono subito al comando per avvisare i loro superiori
mentre gli altri fecero una breve perlustrazione nei dintorni facendo alcune
domande ai pochi presenti, che ovviamente, non avevano visto niente. Era già
verso sera, e da lì a poco sarebbe scattato il “coprifuoco”, la gente in giro
era rarissima e a sentire crepitare i mitra quei pochi vanno il più lontano
possibile: Bocchi era un personaggio di spicco nel fascismo modenese, era stato
Segretario del Fascio a Montefiorino, centro dove si trovava anche il comando
partigiano e dove svolgeva la professione di Direttore Didattico nelle scuole di
quel paese, si trovò poi a Modena nel ruolo di Vice Federale.
Due giorni dopo si svolsero i solenni funerali con la partecipazione di una
folta rappresentanza della Brigata Nera “Mirko Pistoni” e con la presenza,
naturalmente, del milite Giorgio Campari e della sua pattuglia. Si disse che in
questa circostanza, cosa che non avvenne, se ci fosse stata la rappresaglia, con
tutta probabilità anche lui avrebbe preso parte al plotone d’esecuzione.
Il Federale di Modena, in occasione della scomparsa del suo “vice”, gli dedicò
questo testo:
"Come la sinfonia in si minore opera 9 di Schubert è l'opera di Bocchi.
Incompiuta. Troncata nel punto di maggiore ascesa....A diciassette anni era
ardentissimo squadrista e creava le sue prime opere poetiche il lingua italiana
e latina. Lavorava e studiava ma non era divenuto nel suo grande sopralavoro un
vinto dei libri. Sapeva essere armonioso in tutte le sue manifestazioni ma
sempre ardito come nella penna così nello spirito attivo.....(omissis)...Bocchi
era il puro, era il buono: tutto aveva dato alla Patria e nulla aveva chiesto.
Viveva di infiniti stenti.....Portato dal suo lavoro di Direttore Didattico,
viveva con la sposa e la piccola Bianca Maria nella Rocca di Montefiorino. Ma
Montefiorino era la sede del comando partigiano ed Egli, Segretario del Fascio
Repubblicano si trovò nel campo di battaglia più infido e più minato, dove gli
agguati partigiani provocarono le più cruente e devastatrici rappresaglie
tedesche. Ed egli un giorno dovette scendere a Modena potendo portare con sè una
sola cosa: la fede. Cominciò a vivere di stenti ma, con addosso la camicia nera,
si consegnò subito al servizio del partito. Colgo dal suo libro "Niche" un suo
epitaffio:
L'olocausto della Camicia Nera: - Divampò nell'ardor de la mia nera fiamma la
vita che in beltà si estinse."
Il Vice federale di Modena, che si dilettava di poesia, ne aveva scritta una
poca prima di morire e l’aveva consegnata all’allievo prediletto. Giorgio
l’aveva conservata con cura e appena ebbe occasione di passare da casa, mise tra
le sue carte quella poesia che così recitava:
ESORTAZIONE
Ogni tuo lembo, o Patria, che strappato
sia da la rabbia del nemico insulto,
ogni tuo grido alle ferite inferte
dai tuoi figli a la carne di lor carne,
patria, m'è strazio e dilaniante doglia,
quasi sia la mia vita a mè divelta.
Oh, si faccia barriera all'invasore
con la virtù che già fù nostra, e spenta
non ancora è nei cuori; con la fede,
nostro antico alimento, che guatammo
nè dubitanti giorni: or combattiamo!
A un lavacro di sangue ti rinnovi,
patria e t'adergi verso il tuo futuro,
colma di fato, di promessa colma.
Oh, dei tuoi figli a la certezza irrompi,
sii per noi l'alta forma in cui sperammo,
come ostensorio da 'l dolor raggiante!
Chi ci disse che tu spenta saresti
a l'amor nostro? oh, tu sarai per sempre,
ritroveremo in te, vergine intatta, integra
al fondo de la nostra angoscia,
che disperatamente a te s'avvinghia!
chè senza te, con te gettata a l'onta
orrenda parve, e fù, la vita, in forse
se valesse il respiro onde s'avviva;
se da tè avulsi, dal tuo grande spiro,
a te, madre, profonda anima nostra,
ancor la vita un palpito serbasse:
or combattiamo, or combattiam per essa!
Vagheggieremo allora la rifatta
patria del sogno, quale intravedemmo
ne la bufera in serenante lume;
la patria in cui s'affiocchi ogni rancura
ogni rissa s'oblii, posi l'affanno,
si ritrovino i cuori alfin placati;
la patria cui rifà degna il lavoro
redento alfine, alfin pacificato,
sonante nell'immane ansito intenso;
la patria che si fà nova pe l'novo
amore che l'investe e la solleva
da dove eterna in sua vittoria stia;
or combattiamo, or combattiam per essa!
Fu per Giorgio un colpo tremendo, tante giornate passate assieme a Francesco
Bocchi glielo avevano fatto conoscere perfettamente, la sua bontà d’animo, la
sua generosità, la totale dedizione all’idea e alla sua camicia nera, oltre alla
sua profonda cultura, ne facevano, in quel tragico periodo dove l’odio regnava
incontrastato e dove la pietà non esisteva più, una figura quasi ieratica,
completamente distante dalle violenze e dalla brutalità della lotta fratricida.
Questa continuava con una progressione geometrica impressionante, la spinta
delle forze anglo-americane premeva ormai pesantemente, le incursioni aeree
erano sempre più frequenti, non si circolava quasi più poiché, da un momento
all’altro, ti arrivavano addosso i caccia che, spietati, vomitavano le loro
mitragliere su ogni cosa che si muoveva, inoltre, nascosti dietro alle siepi, i
partigiani si facevano sempre più pericolosi e falciavano quotidianamente, di
giorno e di notte, quei fascisti, militari e civili, che mettevano nei mirini
dei loro mitra e dei loro fucili che “piovevano giù dal cielo”, paracadutati dai
“Mustang” o dai “Mosquito De Havilland”, in quantità massicce. I “poveracci in
divisa” erano bersaglio quotidiano di questi cacciatori che “giocavano al tiro
al piccione”, mentre le “prede” tentavano, con le solite e inutili ritorsioni e
rappresaglie, di rispondere alla “occhio per occhio, dente per dente”, pur
rendendosi conto che la “partita” stava per chiudersi.
Ogni giorno il reparto di Giorgio era chiamato in continuazione per andare sul
posto delle tante esecuzioni di camerati, correvano, correvano cercando di
arrivare rapidamnete sui luoghi, alla prima periferia della città, a Navicello,
ad Albareto, Marzaglia, alla Crocetta, alla Madonnina e nei Comuni vicini, a
Formigine, a Soliera, a Nonantola dove arrivavano, quasi sempre, a breve
distanza di tempo dalle feroci esecuzioni, ma ogni volta trovavano solamente i
corpi dei camerati uccisi e dei partigiani nessuna traccia: qualche pattuglia si
è anche lasciata andare a ritorsioni violente con gente che, in alcuni casi non
aveva alcuna responsabilità di quegli attentati, molte volte gli ufficiali
prendevano provvedimenti verso queste forme di “ribellione”, poi anche loro,
negli ultimi tempi, lasciavano correre.
In alcuni casi toccava anche andare nei Comuni più lontani come quando vennero
inviati, il 9 e 10 Aprile, con due camion, nel Comune di Cavezzo, dove in
continuazione i partigiani commettevano i delitti più atroci, in particolare
contro persone indifese; in quei giorni furono uccise due donne, madre e figlia;
la madre, Prima Cattabriga Stefanini, di trentotto anni, la seconda, Paolina
Cattabriga, di diciotto anni; i partigiani si erano portati a Motta di Cavezzo
per prelevare la giovane ragazza, ma la madre si mise ad urlare e ad implorare
perchè non le portassero via la figlia; prelevarono anche la madre.
Furono entrambe trascinate sull'argine del Secchia, spogliate completamente e,
una accanto all'altra, violentate, poi uccise e sepolte in un qualche modo. Le
vittime erano di umili condizioni e non si erano mai interessate di politica.
Sempre a Motta di Cavezzo, due giorni dopo i “ribelli” penetrano nottetempo
nella casa di due fratelli possidenti e la svaligiano di tutto quello che capita
loro tra le mani. Compiuta la razzia, ordinarono alla donna, Latina Morselli, di
quarantadue anni, di uscire con loro, il fratello, Alberto Morselli, di
quarantotto anni si oppose ed anch'esso venne prelevato.
Furono portati in un campo a circa due chilometri da casa, gli uomini hanno
usato violenza alla Morselli davanti al fratello. Al termine, uno di questi
domandò: "c'è più nessuno?", quindi portò la canna del mitra contro il grembo
della povera donna e sparò una raffica. Subito dopo fu ucciso il fratello ed i
due cadaveri vennero sepolti in un unica fossa; quando si trovarono i corpi,
questi affioravano dagli arenili del fiume Secchia. Quello della donna intatto,
di sopra a quello del fratello, ma questi aveva la testa tra le gambe, segno
evidente che il disgraziato venne gettato là dentro con la testa spiccata dal
tronco.
I militi ritornarono alla caserma “Arturo Galluppi”, dopo questi spettacoli di
orrore e di morte, completamente avviliti e con il morale “in fondo alle
scarpe”, negli alloggiamenti serpeggiava ormai aria di disfattismo, di
abbandono, di scoraggiamento, di rinuncia e molti si preoccupavano del come era
possibile mettersi in salvo, onde evitare di essere catturati dalle formazioni
partigiane che, si diceva, sarebbero arrivate in buon numero dalla montagna dove
erano “imboscate” già da tempo. Giorgio e Renato si consultarono e cominciarono
a formulare qualche piano.
Il 18 Aprile, Giorgio e l’amico Renato Venturelli, dato che abitavano vicini,
insieme fecero un “salto” a casa, per vedere se “tutto era in ordine”; erano
prima passati presso la sede della GNR in Rua Muro, dove sapevano che avrebbero
trovato il Comandante Franz Pagliani, il quale, anche lui, consigliò a tutti di
stare a disposizione dei propri Ufficiali, e che, a “ranghi compatti” si sarebbe
lasciata la città nel pomeriggio o nei giorni successivi, a seconda del
precipitare, o meno, della situazione.
Giorgio si rese conto dello sconforto che regnava tra i militi ed anche tra gli
ufficiali e, seppure ancora non completamente in preda al panico, molti di loro
non avevano la certezza di poter eseguire gli ordini per cercare di ritirarsi in
Lombardia, sapendo che le truppe angloamericane stavano ormai dilagando sulla
pianura padana ed erano già ai margini della Provincia di Modena.
Nell’andare verso casa, poco lontano dalla caserma, i due ragazzi stavano
valutando, con imbarazzo, la situazione; si dissero che la guerra era persa e
che, forse, era meglio trovare una soluzione in autonomia per cercare di non
cadere in mano ai partigiani; a Giorgio gli ritornò in mente l’episodio di poco
più di un mese prima, quando trovò, catturato e portato, prima in Accademia
Militare, poi alle carceri di Sant’ Eufemia, il caro amico e compagno di scuola,
Maurizio Maletti, sospetto di appartenere a una formazione partigiana, e a
rischio di finire al muro alla prima azione fatta contro i fascisti, cosa che
ormai avveniva quotidianamente. Si motivò, andando appena gli fu possibile, alle
carceri per parlare con il Direttore, Angelo Zarella, con il quale era entrato
in buoni rapporti di conoscenza e, avendo ottenuto un autorizzazione liberatoria
dal proprio Comandante, dove si dichiarava che il giovane Maletti non aveva
nulla a che fare con le bande ribelli, se ne ordinava pertanto il rilascio;
uscì, con l’amico, da Sant’Eufemia, consigliandolo di rinchiudersi in casa e
attendere che le acque si calmassero.
Forse adesso era giunto il momento di andare a trovarlo e chiedergli di
ricambiargli, se ne aveva le possibilità, il favore che lui gli aveva fatto. Si
ricordava che abitava in fondo a Via Ganaceto, a poche centinaia di metri dalle
abitazioni di Giorgio e Renato, al quale espose il piano:
“adesso andiamo a trovarlo con la speranza di “beccarlo” in casa, gli esponiamo
il problema e se ha un locale dove può nasconderci lì andiamo ad aspettare che
passi il fronte, visto che non è il caso di mettersi a fare i “Don Chisciotte” e
andare a cercare “la bella morte” all’ultimo giorno di guerra”.
Mentre i due si stavano avvicinando a casa e mentre facevano queste
considerazioni, erano circa le tre del pomeriggio, sentirono passare sulle loro
teste alcuni grossi aerei a bassissima quota e immediatamente dopo grossi boati,
i bombardieri avevano sganciato parecchie bombe nelle vicinanze.
Dalla vicina caserma, che avevano da poco lasciata, anche perché da un po’ di
tempo a quella parte, la libera uscita ai militi veniva data alle ore 14 onde
appunto allontanarli dalle caserme, visto e considerato che i “liberatori”
privilegiavano, da tempo, quegli orari, per far cadere le loro “pillole”, si
alzavano colonne di fumo e dalla vicina Piazza S. Agostino si vedeva un gran
polverone. I due ragazzi, era già il terzo bombardamento che subivano in
compagnia, si precipitarono, di nuovo, nel luogo da dove erano venuti,
trovandosi davanti, su Via Rua Muro, ad uno spettacolo incredibile, sapevano che
all’interno vi era ancora il Comandante Franz Pagliani, che difatti era rimasto,
con altri, illeso, in mezzo ai calcinacci e dovette aspettare a scendere poiché
era al secondo piano e tutte le scale erano crollate.
Non esisteva più la parte posteriore e l’ala opposta del Palazzo a dove erano
riuniti i comandanti della Brigata Nera che stavano studiando i modi e i tempi,
per lasciare Modena; il Palazzo Margherita era stato centrato in pieno.
Parecchi militi rimasero sotto le macerie e alcuni riuscirono ad estrarli, anche
con l’aiuto di Giorgio e Renato che si prodigarono al massimo per portare aiuto
ai propri camerati intrappolati, ma per sei di loro non vi fu niente da fare,
compreso un loro amico, milite della Brigata Nera di sedici anni, che da poco
tempo si era arruolato ed era entrato a far parte della loro Compagnia, si
chiamava Armando Santoni.
Verso sera, affranti, anche in seguito a ciò che era capitato loro durante il
giorno e ormai convinti che “tutto era finito” si recarono a casa dell’amico
Maletti che trovarono intento a sistemare dei libri nella vicina libreria del
convento dei Frati Francescani, dove appunto il ragazzo aveva detto a Giorgio di
rivolgersi, nel caso non lo avesse trovato nella sua abitazione, che si trovava
in un edificio prospiciente la Chiesa dei Capuccini: quel palazzo aveva subito
molti danni dal bombardamento che aveva visto colpire pesantemente la zona di
Via Ganaceto e di Via Sant’ Orsola, compresa la Manifattura Tabacchi, la Scuola
elementare Campori, il Palazzo Campori e molti altri edifici, ma aveva lasciato
indenne la Chiesa dei Capuccini e l’annesso convento dei Frati; quello dei
Maletti era stato quasi completamente distrutto, ma erano rimasti abitabili
alcuni locali, compreso buona parte del suo appartamento, nel quale si recarono
dopo l’incontro in libreria.
L’ appartamento di Maurizio era situato al secondo piano dell’edificio, le
scale, dalle parte dell’ingresso dove era il suo locale erano rimaste intatte,
contrariamente all’altra entrata che era completamente crollata, crepe nei muri
da tutte le parti e, praticamente nessuno era rimasto negli appartamenti,
solamente il Maletti, di tanto in tanto, vi si recava.
Entrarono in casa che filtrava ancora un po’ di luce del giorno, i tre ragazzi
si misero a sedere attorno al tavolo nella sala da pranzo e dopo essersi
scambiati convenevoli di circostanza arrivarono subito al “nocciolo della
questione” e del perché si erano recati da lui.
“Vedi caro Maurizio”, attaccò Giorgio:
“sono venuto da te perché, quando ci lasciammo l’ultima volta, dopo l’uscita dal
carcere, tu mi avevi detto, dopo avermi ringraziato per quello che avevo fatto,
di correre subito, senza remore, nel caso mi fossi trovato in difficoltà.
Orbene, ci siamo, è finita, non stiamo a discuterci sopra, ovviamente avevi
ragione tu che adesso ti troverai dalla parte dei vincitori, ma noi, ora ci
troviamo in grosse difficoltà: sono venuto con Renato, che tu conosci bene, per
vedere se puoi darci un aiuto, stiamo pensando di non seguire la nostra Brigata
che vuole ritirarsi al nord, nello stesso tempo non vogliamo andare nelle nostre
case dato che, appena sarete voi i padroni, con molta facilità verrete a
cercarci, casa per casa, ed è immaginabile cosa potranno farci i “rossi”, visto
e considerato che ci stanno massacrando già da parecchio tempo. Vedi se ti è
possibile darci qualche suggerimento ed eventualmente consigliarci dove potere
andare”.
Maurizio rimase un attimo in silenzio:
“lasciami riflettere. In effetti, il contesto nel quale vi trovate, è grave. Ho
preso parte ad una riunione del Cln cittadino proprio ieri e siamo tutti pronti
all’insurrezione. Quelli della mia parte, i democristiani, assieme ai liberali e
ai socialisti sono del parere di prendere subito in mano la situazione cercando
di ripristinare la democrazia e tutte le rappresentanze politiche, con
l’autorizzazione di quelle che saranno le forze di occupazione. Andranno perciò
ad occupare il Comune e si cercherà di far sì che l’ordine pubblico sia
mantenuto nel miglior modo possibile, ma non sarà facile, perché, come tu sai
bene, la parte dei padroni in seno al CLN la fanno i comunisti e sono convinto,
come hanno già fatto capire che scateneranno la folla nella caccia al fascista.
L’unica speranza è quella che gli anglo americani prendano loro, velocemente, in
mano la “patata bollente” dell’ordine pubblico, ma nell’immediato non sarà
facile.”
Giorgio e Renato si guardarono perplessi dopo l’analisi fatta dall’amico, e si
limitarono a dire:
“allora tu pensi che sia bene per noi combattere sino all’ultimo e cercare di
farci prendere prigionieri dagli invasori, sempre che si riesca a rimanere
illesi nei combattimenti e sempre che i partigiani, non i tuoi, ma gli altri non
arrivino per primi a catturarci e scatenare su di noi il loro livore e la loro
rabbia per avere perso, sin dal 1922, il confronto con il fascismo?”
“Non è il momento opportuno per affrontare una delle nostre vecchie discussioni,
quando tutto attorno a voi stà crollando, ho pensato”, disse Maurizio, che aveva
continuato a riflettere su come affrontare quella delicata situazione, “che la
cosa migliore, al momento, sia quella di trovare un buon nascondiglio, per poi,
un domani, dopo aver visto come si comporteranno i vincitori, eventualmente
cercare di mettersi nelle loro “grinfie” piuttosto che in quelle dei partigiani
nostrani. Di conseguenza, personalmente, vi posso tenere qui al massimo per due
notti, dato che per questi giorni i miei genitori, che sono sfollati a Medolla
non si faranno vedere e voi potrete stare tranquilli, un po’ di provviste in
casa ci sono, nel frattempo andrò a sentire dai miei amici frati, qui di fronte
e con l’aiuto di Padre Angelico, il Padre cappuccino, bravissimo pittore, che
stà dipingendo dei quadri religiosi bellissimi, alcuni sono già esposti sulle
pareti della chiesa, vedrete che loro potranno aiutarvi e, spero, ospitarvi per
un certo periodo, nel frattempo vedremo come si presenterà la situazione;
certamente, prima o poi, la cosa migliore sarà quella di “cadere” nelle mani
degli americani ed entrare a far parte della numerosa schiera dei prigionieri di
guerra.
Questa sera rimango a dormire qui, con voi, intanto vi cerco degli abiti
borghesi, per il momento teniamo le armi a portata di mano, non si sa mai che
possano diventare utili, poi le nasconderemo.”
Giorgio era “abbacchiato”, disse sommessamente:
“ma cosa diranno in compagnia quando non ci vedranno rientrare?”
Al che Renato, che sino a quel momento era rimasto zitto annuendo sempre alle
proposte di Maurizio, sbottò:
“ma tu credi proprio che in questi frangenti, nel caos in cui si trovano, con la
paura che attanaglia tutti quanti, ci sia qualcuno che si preoccupa di noi?
Ognuno si occupa dei fatti suoi, potremmo già essere morti, falciati per strada
da qualche raffica partigiana, potremmo esserci aggregati a quelli della Brigata
Nera mobile “Attilio Pappalardo”, o a qualche altra formazione della GNR che si
sta muovendo verso la Lombardia, insomma datti pace, non abbiamo tradito e non
possono considerarci disertori, prima l’hai detto anche tu che la cosa migliore
da farsi, a questo punto, è quella di nasconderci, poi abbiamo sentito che
stanno cercando di farlo anche i nostri ufficiali; la guerra è finita: chi avuto
ha avuto, chi ha dato, ha dato” dice quella canzonetta napoletana, speriamo
solamente che passino velocemente questi giorni e intanto cerchiamo di far
perdere le nostre tracce in modo che nessuno venga a sapere dove ci troviamo.”
Si prepararono un piatto di maccheroni conditi con del ragù che era rimasto a
Maurizio dal mezzogiorno e che tutti e tre mangiarono con appetito; mancando
totalmente la luce andarono a letto prestissimo, mentre dalle strade, in
lontananza, giungevano, di tanto in tanto, i rumori di rabbiose scariche di
mitra.
Il giorno 19 e il giorno 20 rimasero chiusi in casa, sempre in attesa dei
rientri di Maurizio che si azzardava ad andare in giro, circospetto, per la
città; raccontò di avere assistito il giorno 20 ai funerali delle vittime del
bombardamento e di avere avuto un colloquio con il Padre Superiore dei
Cappuccini, Padre Salvatore, che lo ha rassicurato sulla possibilità di tenere,
per un po’ di giorni, in convento, i due ragazzi a partire dal pomeriggio del
giorno 21, pregandolo di fare in modo di entrare in Chiesa possibilmente in un
momento in cui la strada è deserta, per non farsi scorgere da nessuno, dato che
dovevano semplicemente attraversarla. Lui si farà trovare, verso le 19 in
Sagrestia.
Ormai, in quei due giorni, la maggioranza dei fascisti e dei tedeschi aveva
abbandonato la città. Vi furono parecchi scontri in varie zone, particolarmente
in quella di Piazza Impero, tra gli ultimi superstiti che, a quanto riferì ai
due ragazzi Maurizio, “vendettero cara la pelle” e parecchi partigiani, in
queste ultime ore, sono rimasti uccisi in scontri ravvicinati con gli ultimi
“irriducilibi” fascisti.
Nel pomeriggio del giorno 22 entrò in città il primo carro armato americano
seguito da un nugolo di camion, camionette ed altri mezzi che praticamente
occuparono tutta Modena dopo che al mattino anche alcune pattuglie di partigiani
avevano preso possesso di molti sedi istituzionali come il Municipio, la
Prefettura e la Questura.
Mentre nelle tarde ore pomeridiane alcuni gruppi tedeschi, che si erano
asserragliati dentro all’Accademia Militare, si arresero agli americani.
Maurizio, che aveva potuto incontrarsi con alcuni partigiani della sua Brigata
arrivata dalla montagna, si aggregò a loro potendo così girare indisturbato per
la città, vedendo tutto quello che succedeva, per poi raccontare i vari episodi
ai due giovani reclusi, comprese le esecuzioni che si stavano verificando, per
tutta Modena. Ad ogni angolo di strada, anche nei giorni successivi, si
trovavano sempre, in laghi di sangue, cadaveri di fascisti che rimanevano
esposti al ludibrio della folla per ore e ore.
I due ragazzi, il giorno programmato con il Padre Superiore, passarono dalla
abitazione dell’amico al Convento; mentre dal coro, dietro all’altare, giungeva
un canto gregoriano struggente, attraversarono la Chiesa poi, dalla Sagrestia,
furono accompagnati in due stanzette linde e ariose, le tipiche cellette dei
frati francescani; il padre augurò loro buona permanenza, dopo aver spiegato le
regole del convento, gli orari delle funzioni e delle colazioni, pregandoli di
attenersi scrupolosamente a queste, seguendo il comportamento degli altri frati,
possibilmente cercando di parlare il meno possibile.
Le divise e le armi erano rimaste in casa di Maurizio, ai giovani vennero
consegnati due “sai” che indossarono sorridendo, trovandosi subito a loro agio,
anche nel rispetto delle rigide regole francescane, ma quello che li lasciò
perplessi furono il paio di sandali che dovettero calzare ai piedi. Abituati a
tenerli dentro a scarponi pesanti, trovarono al momento, molto strano il dover
girare quasi scalzi.
Di tanto in tanto Maurizio passava in Chiesa, in orari prestabiliti, e dalla
divisoria della Sagrestia dove i frati avevano il permesso di conversare con gli
“esterni” e portava loro le notizie di come andava evolvendosi la situazione in
città.
Aveva difficoltà a raccontare quello che succedeva e la scarsa disponibilità, al
momento, da parte delle truppe di occupazione, che non erano ancora preparate a
compiti di polizia e di controllo del territorio praticamente ancora in mano
alla polizia partigiana la quale, invece di tutelare l’ordine pubblico, sembrava
solamente impegnata a svolgere operazioni di “pulizia etnica” attraverso
esecuzioni sommarie ed arbitrarie; vi era un piano ben preordinato, da parte dei
comandi comunisti, nella ricerca di far presto nell’ eliminare il maggior numero
possibile di fascisti e le poche altre componenti dei “Comitati di Liberazione”,
ben poco potevano fare, per contrastare tanta violenza, se non, come l’amico
Maurizio, cercare di nascondere i “poveracci” che avevano indossato la camicia
nera o che erano semplicemente invisi ai “rossi”, o che avevano ricoperto
semplici cariche pubbliche solamente nell’interesse della comunità.
Rimase molto colpito Maurizio Maletti, quando venne a sapere, e lo raccontò a
Giorgio, dell’uccisione, sotto i portici del Municipio, in Piazza Grande, del
Direttore delle carceri, che si era prestato all’intervento per il suo rilascio
da Sant’ Eufemia, per di più era considerato da tutti una brava persona.
Ai primi giorni del mese di Maggio, Maurizio comunicò ai due “frati francescani”
che la “Militar Police” americana aveva costituito, nel parco della Villa
Rainusso, subito dopo il cavalca-ferrovia della “Sacca”, un campo di
concentramento di prigionieri fascisti; era andato a fare una visita di
controllo per accertarsi che quelli lì riuniti, non subissero visite
“particolari” da parte dei partigiani comunisti e se i “carcerieri” americani
sorvegliavano bene il campo di concentramento, o più precisamente campo di
smistamento, per dirottare i fascisti nei campi più grandi che erano denominati
i PWE.
Giorgio e Renato, dietro suggerimento dell’amico partigiano, si decisero ad
uscire dal convento di Via Ganaceto, dato che non avrebbero potuto restarci a
lungo, per recarsi alla Villa Rainusso che, sino al bombardamento che la
distrusse completamente, era sede dell’Istituto per le malattie tropicali, per
mettersi nelle mani dei vincitori americani. Difatti, alcuni giorni dopo, era il
14 Maggio, accompagnati da Maurizio, si presentarono alla Militar Police, che
provvide subito a registrarli e a sistemarli in una delle tante tende da campo
collocate all’interno del parco, tutto circondato da un alta rete di filo
spinato dove si trovarono con alcuni commilitoni della loro Brigata, oltre ad
altri appartenenti ai corpi della Guardia Nazionale Repubblicana, ad alcuni marò
della Decima Mas, e ad un gruppo di soldati germanici che, dopo essersi
asserragliati dentro al Palazzo Ducale, nei giorni attorno al 20 Aprile, si
arresero agli anglo americani.
Passarono il tempo a raccontarsi le vicende della disfatta e dei vari percorsi
fatti prima di arrivare in quel campo, mentre al di là del filo spinato si
ammassavano tanti civili, tra parenti alla ricerca dei loro cari e anche tanti
curiosi a guardare i “fascisti in gabbia”.
Si sentivano gridare nomi, mamme che cercavano i figli chiedendo ai reclusi se
per caso avessero visto, o sapessero qualche cosa del “tale o del tal’ altro”,
in un caos indescrivibile. Poi, verso la fine del Mese di Maggio, dopo poco più
di dieci giorni di permanenza a Villa Rainusso, una sera arrivarono alcuni
camion sui quali i poliziotti americani, con metodi sbrigativi, e senza capire
con quale criterio, caricarono un buon numero di prigionieri, dicendo loro che
li avrebbero portati a “villeggiare” in Versilia.
I due amici si ritrovarono ancora assieme sullo stesso automezzo che, attraverso
un viaggio lungo e costellato da numerose soste, li portò ad attraversare gli
Appennini al passo dell’Abetone lungo la Via Giardini, per raggiungere Firenze
dove fecero una lunga sosta al campo di raccolta di Scandicci; era chiamato il
campo PWE 334, e qui, Giorgio, Renato e gli altri vennero trattenuti per circa
quindici giorni e con loro enorme sorpresa si accorsero che, pur essendo quella
struttura comandata dagli americani, all’interno, chi aveva il comando per la
gestione delle attività quotidiane, erano i prigionieri tedeschi, ai quali erano
state lasciate le loro uniformi compresi i gradi, mentre agli italiani era stato
tolto tutto. Giorgio venne destinato ad una baracca e Renato ad un'altra, ma
restavano pur sempre vicini. Si trovavano in quel campo anche molti partigiani
che venivano catturati dagli americani in quanto non volevano consegnare le armi
delle quali erano in possesso. Arrivavano con al collo i loro fazzoletti rossi e
quando si accorgevano di trovarsi in mezzo a centinaia di fascisti si toglievano
tutto quello che poteva farli distinguere, anche perché in molte occasioni si
erano presi “botte da orbi”.
Tutti i prigionieri con i quali Giorgio e Renato ebbero la possibilità di
scambiare quattro chiacchiere, si erano illusi che consegnandosi nelle mani
degli americani, seppure prigionieri, avrebbero potuto trovarsi decentemente
mentre, al contrario, si trovarono fin da subito, trattati malissimo e per il
mangiare e per le condizioni igieniche. Da quel sito Giorgio con Renato ed altri
italiani vennero spostati, il 10 Giugno al campo di concentramento PWE 338 di
Coltano, località nelle vicinanze di Pisa, in una zona dove si trovava una
concentrazione di prigionieri fascisti enorme, che raggiunse la cifra di circa
trentacinquemila unità.
Qui si trovava, suddiviso in tre PWE, (336,337 e 338) il grosso dei prigionieri
e a San Rossore, sempre nelle vicinanze di Pisa, vi era il campo PWE339. In
questi enormi campi, nelle vicinanze della Pineta di Tombolo, si sistemarono
sotto le tende canadesi anche Giorgio e Renato che, nei giorni successivi,
aggirandosi tra quella marea umana si incontrarono con alcuni amici modenesi che
avevano seguito la loro sorte.
Molti reparti erano riusciti a mantenere le loro divise, come i reggimenti della
Decima Mas e i paracadutisti della “Folgore”; vi era anche un dirigibile che
stazionava e girava da un campo all’altro a “sorvegliare” i prigionieri che,
denutriti e oppressi dalla calura, si aggiravano tra i reticolati come dei
fantasmi e parecchi di loro crollavano improvvisamente a terra colpiti da colpi
di sole e dalla carenza di cibo, inoltre erano falciati da svariate malattie e
tanti sono impazziti; molti furono internati all’ospedale psichiatrico di
Volterra e di troppi non si ebbero più notizie.
Così come dei numerosi decessi avvenuti all’interno del campo, altri vennero
uccisi dalle guardie perché avevano tentato la fuga; le punizioni, se si
trasgredivano le regole, erano severissime, molti furono messi in gabbie e
tenuti in quella condizione per più giorni; in quel modo venne trattato il
grande poeta americano Ezra Pound, prigioniero in quel campo, poiché aveva
aderito al fascismo; altra pesante punizione era quella della “fossa dei
fachiri”, che era una grande buca, cosparsa di pietre appuntite capace di
“ospitare” fino a dieci prigionieri, in piedi.
In seguito, dal 1 Settembre, il campo di concentramento di Coltano passò sotto
la competenza italiana, e i due giovani, Giorgio e Renato, assieme ad altri
settecento modenesi, furono “dati in custodia” ai militari del 509° Corpo del 3°
Reggimento Guardie e la vigilanza interna venne affidata ad un reparto di
Carabinieri. Questi militari furono accolti con molta simpatia da tutti i
prigionieri, erano in tanti casi amici e commilitoni di molti dei “reclusi";
avevano combattuto assieme sui vari fronti di guerra prima dell’8 Settembre, in
Africa, in Albania, in Russia, in Grecia, in Libia, in Spagna, erano quelli che
si trovarono al Sud dopo il tradimento e per ragioni contingenti, come per tanti
ragazzi al Nord, si schierarono con l’esercito del Re fuggiasco, e ora si
trovarono a fare da carcerieri a tanti ex camerati.
Era già Settembre avanzato e finalmente la grande calura era terminata, al campo
si stava decisamente meglio, pur vivendo sotto le tendine canadesi, ai
prigionieri erano state distribuite delle coperte poiché, con l’avanzarsi della
stagione autunnale, alla notte c’era più freddo; era ugualmente deprimente lo
spettacolo delle migliaia di persone attorno al campo che aspettavano il momento
per avere un colloquio con i loro cari e molti di questi pernottavano sulla nuda
terra in attesa di incontrarsi, con un padre, con un figlio, o con un fratello.
Furono inviate alcune commissioni a studiare il modo migliore per l’eliminazione
di quell’obbrobrio e per vedere di far ritornare alle loro case quella massa di
uomini e donne, poiché vi era anche il campo delle ausiliarie e, dal mese di
Ottobre, cominciarono ad essere liberati, gradualmente, i fascisti prigionieri.
I due modenesi furono tra gli ultimi ad essere rilasciati dato che riuscirono a
rientrare alle loro famiglie, alla fine del mese. Giorgio, appena arrivato a
Modena, fu dirottato dai suoi, alla casa dello zio in Via Cesare Battisti,
mentre Renato rimase presso la famiglia in Viale Berengario, e i due giovani,
che per tanto tempo avevano condiviso la stessa sorte, si trovarono separati e
vi restarono per un lungo periodo.
Giorgio, nel lungo intervallo nel quale rimase “costretto” in casa dello zio,
cominciò a leggere tutti i giornali che i genitori avevano conservato dietro sua
richiesta e a farsi un idea di quello che successe in territorio modenese a
partire dal 22 Aprile, giorno della cosidetta “liberazione di Modena” sino alle
giornate di fine Ottobre, i giorni del suo ritorno in città dal campo di
concentramento di Coltano. Iniziò anche a stilare un parziale elenco dei
fascisti o dei presunti tali uccisi in quei mesi di pulizia etnica chiamati
anche i giorni della “macelleria messicana” o della “mattanza delle camicie
nere”
Già nelle giornate attorno al 20 Aprile, la lunga pressione delle forze armate
anglo-americane sui fronti europei era alla sua conclusione. Lo strapotere
dell'industria americana con l'immissione sui vari teatri di guerra di un
potenziale bellico mai visto prima, riesce a vincere la strenua resistenza delle
truppe tedesche e dei loro alleati, anche in seguito al collasso totale
dell'industria nazista.
Sul fronte italiano, dai primi giorni d’Aprile, erano avvenuti vasti movimenti
di truppe, preceduti da forti cannoneggiamenti delle retrovie della linea gotica
e dai massicci bombardamenti aerei sui centri più importanti di tutto il Nord
Italia.
Tutta la zona Appenninica e pedemontana del modenese subì pesantemente questa
pressione. Moltissimi furono i piccoli paesi dell'alto Frignano totalmente
distrutti dai consistenti lanci di proiettili da cannone a lunga gittata; i
centri più grossi come Vignola, Pavullo e Formigine subirono violentissimi
attacchi e lo stesso capoluogo subì l'ultimo bombardamento aereo il giorno 18,
poche ore prima dell'ingresso delle truppe americane in città e che Giorgio subì
pesantemente assieme all’amico Renato.
Il crollo della linea gotica portò, in un tempo brevissimo, le truppe
anglo-americane dentro la pianura padana e di conseguenza, alla conclusione
delle operazioni belliche in Italia.
Contemporaneamente allo sfondamento del fronte italiano, le truppe alleate su
quello occidentale e su quello orientale le truppe sovietiche, in Germania,
danno l'ultima e definitiva spallata alla sconfitta del fascismo e del nazismo.
I vari movimenti della resistenza europea si apprestano, al seguito dei
"vincitori", a prendere possesso dei paesi e delle città abbandonate; in Italia
il CLN, dopo aver proclamato l'insurrezione, nomina i primi amministratori
democratici; Modena avrà, come primo Sindaco, un uomo del Partito Comunista,
Alfeo Corassori.
Giorgio si andava chiedendo in quei giorni, quanto ha potuto contribuire il
movimento partigiano alla sconfitta dell’odiato nemico “nazifascista" cercando
di valutare, il più possibile oggettivamente, l'importanza di tale
partecipazione ai fini della risoluzione finale. Non bisogna scordare, però, ciò
che ha detto il capo delle forze armate anglo-americane in Italia, Generale
Alexander, in proposito:
"Vi fu, beninteso, l'insurrezione del 25 Aprile; ma ciò avvenne dopo che gli
eserciti tedeschi erano stati distrutti in battaglia a sud del Po’, dopo che
essi avevano intavolato trattative per la resa e appena una settimana prima
della loro formale capitolazione finale."
La mattina del 20 Aprile le divisioni "alleate" iniziano lo sfondamento della
linea gotica ed entrano in Provincia di Modena da due direttrici: in montagna,
provenienti dal bolognese, conquistano Zocca e Monteombraro, mentre dal
pistoiese, ma il giorno dopo, sulla Via Giardini, arrivano a Pievepelago; più a
Nord, penetrano nella nostra Provincia tra Castelfranco, Nonantola e Ravarino
dove entrano il mattino successivo 21 Aprile.
Intanto le truppe tedesche e i comandi fascisti procedevano al ripiegamento
disturbati in minima parte dalle formazioni partigiane che, avvisate
dell'avvenuto attacco in forze degli "alleati", iniziavano a prepararsi per
entrare da padroni, nei paesi e nelle città.
Giorgio e Renato nel frattempo si erano rifugiati presso il convento dei
Capuccini in Via Ganaceto mentre la maggior parte delle truppe tedesche e
fasciste si erano concentrate a Modena da dove continuarono il ripiegamento
verso il Po’ e la Lombardia, attraverso le strade di comunicazione più
importanti e cioè la Statale del Brennero e da Carpi, la Romana-Moglia; non
tutti i distaccamenti, in modo particolare quelli sparsi nei piccoli centri,
riuscirono a sganciarsi e a raggiungere i propri Comandi, rimanendo pertanto
invischiati dagli attacchi partigiani che, sicuri dell'allontanamento del grosso
delle truppe tedesche e fasciste, cominciavano a farsi sempre più audaci e allo
scoperto.
Modena e Carpi furono conquistate dagli anglo-americani il 22 Aprile, mentre
centri quali: Sassuolo, Vignola, Concordia e Finale videro l'entrata delle
truppe americane il giorno successivo; praticamente dalla mattina del 24 Aprile
tutta la Provincia modenese era in mano ai "liberatori".
L'attacco principale alla Provincia di Modena è arrivato dunque dalla Pianura,
dato che la 5° Armata avanzava inarrestabile continuando l'offensiva scattata il
4 Aprile, mentre l'8° Armata alleata procedeva in direzione di Ferrara; si
minacciava pertanto l'accerchiamento delle truppe tedesche schierate sulla linea
della Garfagnana, dato che nessun attacco in forze, si verificò in questa zona.
Vi fu solamente qualche attività di pattuglie partigiane a disturbare la
ritirata tedesca, ma senza scontri di rilievo. La zona della montagna non vide
pertanto, all’opera, in vere azioni di guerra le forze partigiane che in pratica
non fecero nulla per la "liberazione”. Ma anche nelle zone di pianura non vi
furono grossi combattimenti, vicino a Modena i partigiani si limitavano a veder
sfilare una lunga fila di soldati della Wermacht in ritirata, erano colonne
interminabili che passavano sotto i loro occhi.
Le molte colonne tedesche, erano ancora forti e ben armate e subirono danni
dagli attacchi aerei e, solamente piccoli reparti, alcuni di retroguardia ed
altri che avevano incarichi di effettuare azioni di sabotaggio, ebbero scontri
armati con i partigiani: mentre invece i giornali già parlavano di “liberazione”
della città e della Provincia di Modena, ad opera dei partigiani, cosa
assolutamente non vera.
Modena, il giorno 21 Aprile, era praticamente terra di nessuno, dato che la
maggioranza di tedeschi e fascisti aveva lasciato la città abbandonando tutti
gli edifici e i centri più importanti, anche se, ancora la notte tra il 21 e il
22 Aprile colonne tedesche passavano per le strade modenesi. Solamente all'alba
del giorno 22 si affacciano in città i primi nuclei di "ribelli" ed uno di
questi era comandato da un piccolo prete che, con una banda di partigiani tenuti
nascosti nella Chiesa di Sant'Agostino, con un arma automatica sottobraccio, si
dirige con loro verso l'Accademia Militare. Si verificarono scaramucce alla
periferia della città, alla Crocetta, nel rione Sant' Agnese e nelle zone del
centro dove, tra Piazza Impero e Via Carteria, avvennero gli scontri di maggiore
intensità tra partigiani e gruppi di tedeschi, con morti e feriti da entrambe le
parti, come aveva raccontato ai due fascisti rifugiati dai frati, l’amico
Maurizio Maletti, il partigiano democristiano che li aveva aiutati e che poteva
girare tranquillamente per la città.
I primi carri armati americani si presentarono alla periferia di Modena verso le
ore 14; dopo parecchie ore di trattative con i tedeschi rimasti chiusi dentro
l'Accademia Militare, si arrivò a definire la resa, tanto che le truppe alleate
entrarono in città nelle primissime ore della serata.
La stampa si lascia andare alle interpretazioni più roboanti e mistificatorie.
Si passa dalle vicende epiche ed eroiche della più sfacciata ed impudente
propaganda, ai toni meno enfatici ma molto più veritieri di tanti altri, da
situazioni quanto meno paradossali, come quella di un testimone oculare che cita
la scalata al balcone di Palazzo Ducale da parte di un tizio isolato che va’ ad
aprire il portone principale, chiuso dall'interno e riappare con in mano i
biglietti da mille bruciati, dato che, il capitano della GNR, prima della fuga
aveva distrutto, "secondo il costume delle ritirate più importanti", denaro e
documenti, contraddicendo così buona parte dei giornalisti antifascisti che
accusano invece i comandi fascisti di essere fuggiti portandosi dietro le casse
ben fornite di denaro; non trascura poi, questo testimone, di sottolineare, in
modo emblematico, l'assedio e l'uccisione di un gatto sui tetti di una casa
vicina alla Chiesa di San Francesco, gatto scambiato, dai bellicosi partigiani,
per un cecchino fascista.
Ma a prescindere dall'epicità della lotta per la "liberazione" di Modena,
Giorgio da quelle letture si rende conto che le vere e reali operazioni di lotta
armata dei partigiani, avvennero contro quei "disperati" fascisti che, o perché
non riuscirono ad agganciarsi alle colonne tedesche e della RSI che cercavano di
trasferirsi oltre il Po’, o che, ingenuamente valutavano la loro posizione non
pericolosa, per non aver mai commesso soprusi e tanto meno azioni a mano armata,
in fondo per non essere responsabili di nulla se non, e neanche per tutti, aver
semplicemente aderito alla Repubblica Sociale, pensando di conseguenza di poter
rimanere nelle loro case, vicini alle loro famiglie.
Questi, furono i primi ad essere coinvolti dall'ondata dei prelevamenti,
esecuzioni ed uccisioni arbitrarie che insanguinarono in quei primi giorni della
"liberazione" le strade e le campagne del modenese. Pochissimi ebbero la
possibilità di difendersi e di vendere cara la pelle, molti credettero alle
false promesse partigiane che assicuravano ai fascisti salva la vita, se
avessero depositato le armi.
Ci sono stati alcuni cecchini asserragliati sui tetti e sulle altane delle case
del centro storico, ma in verità non furono molti i "franchi tiratori" modenesi
che resistettero sulle “terrazze” e solamente per poche ore cercando di vendere
cara la pelle.
E’ altrettanto vero che, come Giorgio e Renato, molti fascisti dovettero trovare
rifugi sicuri presso conoscenti od amici, in molti casi anche presso
antifascisti, oppure fuggire in altre provincie; ma tanti, troppi, furono
travolti dal furore omicida, dalle vendette personali, dalle ritorsioni, insomma
da quel terrore che tormentò le zone emiliane.
Negli altri centri della Provincia modenese l'intervento partigiano è da
considerarsi di modestissima entità o quasi nullo, come a Carpi, mentre
combattimenti di un certo rilievo si verificarono in Provincia, a Staggia,
Medolla e Concordia.
Vignola, in seguito ai cannoneggiamenti americani, fu "liberata" il 23 Aprile,
dopo che i tedeschi si erano ritirati, salvo pochi scontri tra partigiani e le
loro retroguardie.
Nel formiginese, una colonna americana fu fermata tra Magreta e Casinalbo da una
postazione tedesca che mise fuori combattimento tre carri armati. Alcune
scaramucce si verificarono anche a Sassuolo, ma nulla di più.
E così finì la guerra in Provincia di Modena: la popolazione si sentiva
finalmente sgravata dal grosso incubo che l'aveva attanagliata, specialmente
negli ultimi mesi; era veramente finita. Almeno per i tanti che si riversarono
per le strade della città, tra i palazzi e le case ancora fumanti per le
distruzioni provocate dai "liberatori"; i modenesi sfilavano osannanti e
applaudivano quelli che avevano portato su di loro la terrificante azione
terroristica fatta di bombardamenti e mitragliamenti; si fa presto a
dimenticare, anche l'Arcivescovo, schierato sino al giorno prima con i fascisti,
il giorno 29 Aprile iniziò il programma dei "festeggiamenti” con un "Te Deum" di
ringraziamento celebrato in Piazza Grande, visto che in Duomo non si poteva
contenere tutta la folla che si era radunata.
Alla fine di quella messa, mentre l'Arcivescovo Boccoleri, l'incensatore del
Capo del Fascismo, stava per pronunciare l'"ite missa est", un colpo di fucile
sfuggì ad uno dei partigiani appostati sul tetto del Comune scatenando una
confusione indescrivibile al punto tale che in pochi istanti la Piazza si
svuotò.
Il giorno successivo vi fu la sfilata dei partigiani, alcuni autentici ma, nella
maggioranza, dell'ultima ora, e che durò a lungo.
Nel frattempo, in migliaia di case della città e della Provincia, una folla
altrettanto numerosa di quella che si trovava per le strade ad applaudire i
vincitori, viveva nel terrore dei prelevamenti e delle esecuzioni sommarie;
bastava essere segnalati da qualche delatore, come simpatizzanti o sostenitori
del PFR che la vita diventava sospesa ad un filo che poteva spezzarsi da un
momento all'altro, e in tanti casi i processi dei famigerati "tribunali del
popolo" altro servivano se non a mettere ancor più alla "gogna" i malcapitati,
prima dell'immancabile esecuzione.
Giorgio si rese conto, che si stava compiendo, attorno a lui, uno spietato
massacro, ad opera delle "squadre della morte" che vanno a prelevare, in
qualsiasi ora del giorno e della notte i sospetti ed i loro familiari.
Avrebbe voluto entrare, in maggior misura, nei dettagli del poco edificante
tradimento tedesco nei confronti della Repubblica Sociale e del suo capo,
tradimento portato avanti dagli alti comandi germanici, con alla testa il
generale Wolff, del quale già si parlava nelle ultimissime ore di vita della RSI.
La resa delle truppe tedesche in Italia venne negoziata segretamente, senza che
Mussolini e le alte sfere della Repubblica Sociale Italiana ne fossero informate
e tutto questo avvenne nel periodo Febbraio-Aprile 1945, quando ancora Mussolini
stava sacrificando le sue ultime forze assieme a suoi fedelissimi in tutta
l'Italia del Nord, per tener fede ad un alleato, che si riteneva leale e
disposto a immolarsi sino in fondo, come da sempre dichiarato. Mussolini ed i
suoi seguaci ritenevano che il combattere sino all'ultima goccia di sangue
servisse a rendere più dignitosa la sconfitta ormai sicura e di conseguenza
concludere, decorosamente, quel periodo storico, anche per poter trattare il
passaggio dei poteri tra le nuove autorità italiane e la RSI, in modo tale da
poter risparmiare, il più possibile, vite umane.
Si può pertanto pensare che i tedeschi abbiano voluto renderci la pariglia per
quello che era successo con il tradimento dell'8 Settembre; ma non dobbiamo
dimenticare che in realtà i tedeschi, commisero, oltre a quella del generale
Wolff, altre azioni che possono essere annoverate, da un punto di vista storico,
dei veri e propri tradimenti nei confronti dell'alleato; basta citare il mancato
rispetto dell'impegno, in verità non scritto, ma annunciato chiaramente, di non
iniziare atti di belligeranza prima di tre o cinque anni dal momento della firma
del Patto d'acciaio che avvenne il 22 Maggio 1939; e ancora, il trattato segreto
con l'Unione Sovietica del 23 Agosto 1939, pochi giorni prima dell'invasione
della Polonia, a proposito del quale, lo stesso Mussolini, nei mesi successivi,
ebbe a portare pesanti critiche all’alleato.
L'ultimo atto di questa logica tedesca lo troviamo nell'Aprile 1945 a Milano, al
momento in cui, Benito Mussolini, che tardivamente aveva spostato da Gardone, al
capoluogo lombardo la sede del Governo della RSI, si rende conto del tradimento
dell'alleato.
Vittorio Mussolini, il figlio del Capo del fascismo è stato testimone degli
ultimi tragici momenti e, alla famosa riunione nella Curia milanese tra il padre
ed i componenti il governo del CLN, attendeva con ansia gli esiti della
riunione, organizzata dal Cardinale Schuster e dove si doveva trattare la resa;
il Maresciallo Graziani, capo delle Forze Armate della RSI, osservava che non si
poteva trattare senza prima mettere a conoscenza dei fatti il Comando tedesco:
ma venne fuori la sbalorditiva notizia, annunciata dal Prefetto Bassi:
"Qui, dopo di noi, verranno i delegati tedeschi per firmare la resa già
concordata con gli angloamericani e il CLN. Sembra ci sia anche un impegno che
riguarda l'ordine pubblico, che contempla, arrivati al caso, il disarmo delle
forze fasciste da parte delle truppe tedesche”.
Mussolini rimase allibito. Il Cardinale Schuster confermò, precisando che era
stato svelato un segreto, questo piano. Vi è da dire che la resa tedesca sarebbe
avvenuta nelle mani del Cardinale e non in quelle del Generale Cadorna, capo del
CLN, al quale i nazisti non riconoscevano alcuna autorità, e che le truppe
germaniche sarebbero state consegnate agli anglo-americani e non ai russi.
I fascisti in quei momenti, quando appresero del tradimento, ebbero un moto di
ribellione e nello stesso tempo si liberarono dall'incubo del peso che aveva
ipotecato la loro posizione per tanto tempo; l'accusa tedesca nei confronti
degli italiani era sempre stata pesante, anche se nessuno tra i fascisti si
sentiva "badogliano" o "traditore"; a quel momento si resero conto che nemmeno i
"super-eroi" tedeschi erano indenni dalle umane meschinità; tutto questo avvenne
però troppo tardi, non era più possibile risolvere al meglio i problemi
immediati, lo si poteva solamente ritenere un fatto morale, la realtà era troppo
incalzante ed il succedersi degli avvenimenti non permetteva minimamente alcuna
possibilità di organizzazione, tanto meno si poteva portare avanti il programma
del cosiddetto, "ridotto della Valtellina".
Era veramente la fine di tutto e, se di fine ingloriosa si è trattato, bisogna
darne una grossa responsabilità alla resa improvvisa e non prevista, dell"alleato"
tedesco.
Giorgio, quando ritornò da Coltano e rimase nella “prigione casalinga”, cominciò
a stilare un elenco dei fascisti uccisi nel modenese, ma solamente di quei pochi
che ne veniva data notizia dalla “Gazzetta dell’Emilia” e da una serie di
notizie di “prima mano”, che lo zio Francesco, medico, riusciva ad ottenere da
un funzionario della ricostituita polizia, suo amico; in seguito il “recluso” si
limitò a sottolineare solamente alcuni dei casi più eclatanti poiché,
specialmente durante i mesi di Aprile, Maggio, Giugno i morti fascisti per le
strade si contavano a decine, tutti i giorni, e si rese conto che mentre lui si
“scaldava” al cocente sole di Coltano i suoi camerati e amici finivano a
centinaia lungo i fossi o sepolti da poca terra nelle campagne modenesi. Seppe,
in seguito, da una amica abitante a Cavezzo, di una serie di uccisioni veramente
orripilanti tra le quali quella di un suo commilitone della Brigata Nera, ucciso
assieme all’anziano genitore: padre e figlio, entrambi appartenenti alle BB.NN
di quella località, il primo settantacinquenne ed il secondo di appena ventuno
anni: Petronio Lorenzini, e Aldo Lorenzini.
Il padre di 75 anni veniva accusato da partigiani di essere una spia, accusa
generica e quasi sempre incontrollabile che ha servito da pretesto per far
morire molte persone, ed il figlio ventenne accusato di essere stato un milite
della Brigata Nera. Per sua somma sventura gli era stato commilitone, nelle
BB.NN., un coetaneo amico carissimo sin dall’infanzia, che però faceva il
doppiogioco; sembra sia stato lui a volerne la morte. Questo “amico”, dopo
qualche tempo, maneggiando una bomba a mano per pescare, si uccise. La voce del
popolo disse che era la mano di Dio che lo puniva.
Sempre da quelle zone Giorgio venne a sapere di altre feroci esecuzioni, come
quella del Segretario del PFR di Cavezzo, di quarantadue anni: Casto Elmotti,
che un recluso in quelle carceri, un medico amico dello zio, così raccontò:
“sento nel corridoio, davanti alla nostra porta, dove ero tenuto prigioniero
assieme ad altri, un tramestio di piedi e di scarponi; si intuisce che
trascinano qualcuno e che ferocemente lo picchiano sbattendolo di quà e di là
contro i muri....Il respiro della vittima si fà affannoso, continuano a
batterlo....Venne anche lui portato al cimitero dove avvenne il massacro; quando
il necroforo, fatta una grande buca affinché contenesse i cinque fascisti (Elmotti,
i due Lorenzini, Nivet e Rebecchi) e due tedeschi assassinati, cominciò a
raccogliere le vittime per gettarvele dentro, arrivato all’Elmotti,
improvvisamente si alzò di scatto esclamando con orrore: “ma questo è ancora
vivo”, implorava con voce flebile un pò d’acqua; si dice che un partigiano
presente, con tutta calma esclamò: “poco male, lo finiamo subito”, e così una
scarica di mitra troncò, finalmente, la vita di quel povero disgraziato che da
tante ore penava, morente, tra i cadaveri.”
E poi ancora, Primo Rebecchi, che aveva quarantotto anni e, per un suo difetto
fisico era chiamato “il gobbo”; essendo stato parecchio tempo all’estero aveva
appreso a parlare correttamente il tedesco, pertanto fu assunto, come per lo più
avveniva, quale interprete al Comando tedesco di Cavezzo. Questo fatto, del
tutto normale, lo fece accusare di essere una spia. Dopo il suo assassinio,
venne arrestata e maltrattata anche la figlia, perché gli inquisitori volevano
che accusasse di immaginarie malefatte, il padre già ucciso.
Toccò per ultimo, ad essere ucciso dagli spietati aguzzini rossi, al Legionario
fiumano: Armando Nivet, anche questo, raccontò l’amico dello zio, non aveva
accuse precise; ma il cosiddetto tribunale del popolo lo mandò ugualmente a
morte, malgrado poche settimane prima, gli stessi partigiani comunisti, gli
avessero ucciso la giovane figlia.
Sempre nel piccolo centro della bassa modenese, viene sterminata una intera
famiglia di tre persone; il capofamiglia di cinquantasei anni: Vincenzo
Castellazzi, la moglie di cinquantaquattro anni: Bianca Castellazzi Rebecchi, e
la loro figlia di ventitré anni: Maria Castellazzi. Così ha raccontato il medico
testimone, allo zio di Giorgio:
“La maestra Bianca Rebecchi Castellazzi, di Disvetro, scompare con la figlia ed
il marito: si dice fosse accusata di aver rivelato il rifugio dei Benatti
(partigiani uccisi dai fascisti nei giorni precedenti la liberazione) alle
Brigate Nere; ma che in verità fosse completamente falso; certo è che i tre
disgraziati furono ferocemente soppressi e nel loro appartamento si sistemò uno
dei tre assassini. Se anche, per ipotesi, la maestra fosse stata colpevole,
quale colpa avevano gli altri familiari? Un testimone del loro supplizio
raccontò che prima venne violentata, poi seviziata ed uccisa la figlia in
presenza dei genitori; poi toccò alla madre subire lo stesso trattamento, indi
finirono lo sventurato padre.”
Al padre di Giorgio, che aveva un caro amico a Bomporto, dove spesso andava a
comprare dell’ottimo lambrusco, questo gli raccontò una serie di atroci delitti
avvenuti tra Mirandola e Bastiglia dove i partigiani hanno prelevato dalla loro
abitazione, per portarli nelle carceri del paese, per essere poi seviziati ed
uccisi, moglie e marito: Carmela Melloni Gualtieri, e Alfredo Melloni, ritenuti
dei fascisti e pertanto persone da “eliminare”.
Sempre in quel piccolo paese viene arrestato e cacciato in prigione il
Segretario del PFR. Era il fascista di quarantaquattro anni: Nando Tassi, un ex
pugile che aveva raggiunto notevoli traguardi a livello nazionale nella
categoria dei pesi medio-massimi. Un gruppo di partigiani entrò nella sua cella
per picchiarlo, ma lui non ebbe la calma ed il raziocinio di mettersi in difesa
passiva per cercare di prenderne il meno possibile.
Cominciò a sferrare ai suoi carnefici tali mazzate da mandare a gambe levate
tutta la compagnia, però si prese una fucilata ad una gamba. Dopo tre giorni,
dato che nessuno aveva pensato, o piuttosto aveva voluto farlo curare,
sopraggiunse l’infezione con febbre a quaranta. I partigiani se ne vollero
disfare, ma dato che il povero segretario godeva in paese di molte simpatie, non
si azzardarono ad ucciderlo pubblicamente e finsero di trasportarlo all’Ospedale
di Modena. Durante il tragitto lo gettarono in un fosso e lo massacrarono,
furono tali e tanti i colpi dati al morente che ne ebbe maciullato completamente
il viso.
Ha tentato di fuggire, si giustificarono i “patrioti”: ma la suora che era
presente mentre lo caricavano sul camioncino per portarlo via, disse che il
disgraziato Nando era così grave, che avrebbe potuto morire a breve distanza di
tempo. Vi fu chi volle far sapere alla famiglia chi erano stati gli assassini.
Nel portafoglio, restituito alla moglie, intramezzato alle altre carte personali
vi era l’ordine scritto del CLN di Bastiglia, che comandava di portarlo
all’ospedale di Modena, con nome e cognome dei mandanti e degli esecutori del
crimine.
In questi giorni, a Mirandola, i partigiani effettuano una serie di incredibili
delitti in particolare contro donne indifese. Vengono prelevate dalle loro
rispettive abitazioni e poi brutalmente uccise le signore: Rosalia Paltrinieri
Bertacchi di trentuno anni e madre di tre figli e la trentanovenne, Iolanda
Pignatti. Entrambe queste donne furono violentate davanti ai loro rispettivi
mariti e figli, quindi condotte vicino al cimitero e sepolte vive.
Giorgio venne poi a conoscenza che in quei giorni di fine Aprile due suoi amici
modenesi, appartenenti alla Brigata Nera “M. Pistoni”, che erano riusciti a
raggiungere Milano, furono catturati da dei partigiani che li fucilarono
immediatamente in Piazza Crovetto, erano: Amedeo Fiorini e Alfredo Soncini, con
i quali Giorgio, pochi giorni prima del 20 Aprile, aveva cercato di prospettare
loro la possibilità di rifugiarsi presso amici o parenti, e loro dissero che
probabilmente avrebbero trovato rifugio da dei loro zii, in quella città.
A Concordia, per
mano dei messaggeri della morte comunisti che ricercano sempre le più crudeli
nefandezze, vengono uccisi padre e figlio: il brigadiere della GNR di
quarantasei anni: Romeo Cavazza, ed il giovane figlio di soli venti anni: Euro
Cavazza, il quale, secondo le più spietate rappresaglie di stile mafioso, venne
evirato, e le parti asportate gli vennero cacciate in bocca.
Una cara amica di Giorgio, l'ausiliaria Barbara Forlani di Castelfranco Emilia,
viene fucilata dai partigiani a Rosasco, in Provincia di Parma, assieme ad altre
ragazze delle formazioni delle BB.NN. Barbara aveva venticinque anni ed era una
giovane maestra; frequentò il corso per le ausiliarie volontarie della RSI anche
contro il volere dei genitori, per essere fedele ai suoi ideali di Patria e per
assistere i combattenti.
Altri amici di Giorgio, in quei giorni di follia, furono brutalmente uccisi:
furono prelevati da un gruppo di partigiani, dalla loro abitazione in Modena, i
due giovani fratelli, militi della GNR; il ventenne maestro Alfredo Beltrami ed
il giovane studente di diciannove anni: Arnaldo Beltrami; in quella casa, mesi
prima, si era già pianto per la morte di un altro giovanissimo fratello di 16
anni, ucciso anch'esso dai partigiani in un’imboscata tra Carpi e Correggio, il
14 Novembre 1944.
Mentre a Vercelli viene barbaramente ucciso, assieme a moltissimi suoi
commilitoni, il giovane sottotenente della GNR, di venti anni: Paolo Rebucci. Il
padre di questo ragazzo è il medico molto amico dello zio di Giorgio il quale
raccontò al giovane, al suo ritorno da Coltano, la tragedia di quell’eccidio
dove vennero scannati a decine i giovani fascisti, dalle bande del partigiano
Moranino
Questo giovane modenese si arruolò giovanissimo nella GNR, precisamente il 1°
Novembre 1943; partì per Ravenna al Corso Allievi Ufficiali. Nell'Agosto 1944
divenne sottotenente. Fu orgoglioso di essere destinato a Vercelli poiché in
quella città occorrevano uomini sicuri, data la zona difficile e turbolenta. Pur
essendo ligio al dovere, quando al Comando vi era da trattare uno scambio di
prigionieri, gli emissari partigiani preferivano rivolgersi a lui, perché sapeva
comprendere e capire certe situazioni. Il 25 Aprile a Vercelli si forma una
colonna, detta dei "duemila", per andare a Como per l'ultima battaglia: era una
trappola, tesa dai partigiani con una telefonata anonima.
La colonna giunta a Cortellazzo è in dubbio atroce, poi la certezza del
tradimento diventa realtà; non sapevano più cosa fare: ritornare indietro?
Combattere? Sopraggiunse il Vescovo di Novara; espone la situazione disperata e
consiglia di deporre le armi per evitare uno scontro con i partigiani che
avrebbe potuto essere la rovina del paese. Promette salva la vita! Furono
disarmati, privati del loro denaro, internati nel campo sportivo di Novara, in
mano alle "Fiamme verdi", partigiani democristiani.
Subito cominciarono le sevizie e gli eccidi: a gruppi i disgraziati venivano
torturati, trascinati fuori e scannati. Ai primi di Maggio il campo fu assalito
da una folla di contadini armati di forche, badili, vanghe, che fecero scempio
di tanti infelici. Poi arrivarono i partigiani di Vercelli, con due automezzi,
per prelevare parte di coloro che erano sopravvissuti. Vennero caricati 75
prigionieri, tra i quali il sottotenente Rebucci e portati all'Ospedale
Psichiatrico di Vercelli. Arrivarono già massacrati di botte. Il Cappellano
dell'Ospedale diede l'assoluzione in massa, perché i partigiani avevano fretta
di "lavorarli"; l'orgia di sevizie durò delle ore, perché i carnefici si davano
il cambio. Fra questi "eroi" vi era un medico che sapeva torturare bene, senza
far morire il "paziente". Alle due di notte cominciarono a condurli a morte.
Parte nel canale Cavour, altri nelle campagne. Fu un vero e proprio massacro. La
salma del sottotenente Rebucci non venne mai più ritrovata, nonostante le
pazienti ed accurate ricerche portate avanti dai genitori.
Nelle campagne modenesi furono moltissime le donne che pagarono con la vita la
“colpa” di essere, mogli, fidanzate o sorelle di fascisti e solamente per queta
ragione venivano portate all’olocausto; a Nonantola, piccolo paese della bassa,
vengono uccise madre e figlia, la prima di sessantadue anni, la seconda di
ventuno anni: Erminia Tangerini e Maria Tangerini.
Nel famigerato "triangolo della morte", situato tra
Castelfranco-Piumazzo-Manzolino, furono uccisi un numero incredibile di
fascisti, Giorgio riuscì a farsi raccontare solamente di alcuni casi; in un solo
giorno vennero “soppressi” in quel territorio: il Capitano della GNR: Odoardo
Teagno, l'ex Federale di Cuneo: Ronza Secondo, e altre due persone: Ferdinando
De Stefani, e Carlo Zorgnotti. I partigiani non dimenticarono di inserire, tra
le persone da “giustiziare”, eufemismo usato per commettere le azioni più turpi,
due donne ritenute fasciste: Vittoria Cocchi, e Italia De Angelis.
E' in questi tragici giorni di Maggio che parte dal Nord, precisamente da
Brescia, diretto verso la Capitale, un camion del Vaticano con a bordo 40-50
persone che, tramite le autorità ecclesiastiche, avevano ottenuto dal CLN il
lasciapassare per raggiungere le famiglie, sparse in ogni parte d'Italia e in
particolare nelle zone del Centro e del Sud.
Erano, nella maggioranza, allievi ufficiali della Scuola della GNR di Oderzo
che, dopo aver ricevuto l'onore della armi alla loro resa, da questa località
avevano raggiunto Brescia, poiché da quel centro, attraverso particolari canali
avrebbero avuto la possibilità di raggiungere, con mezzi messi a disposizione
dal CLN e dalla curia, le località d'origine. Dal vescovado il camion, sul quale
- come su tutti gli altri mezzi in servizio per la P.O.A - era stata issata una
grande bandiera bianca e gialla, quella del Vaticano, raggiunse Porta Venezia
(nella zona orientale della città) per caricare altri passeggeri; poi lasciò
Brescia diretto a Mantova e attraverso il Po, a San Benedetto.
A bordo di questo mezzo viaggiavano, accalcate, 40-50 persone. A Bondanello
l'automezzo venne fermato da un gruppo di partigiani della polizia locale poi,
l'autocarro fu lasciato proseguire per Concordia ma fu fermato da un gruppo di
sette otto partigiani con il fazzoletto rosso armati di mitra bombe e pugnali.
L'autocarro fu scortato da costoro fin davanti alla Villa Medici di Concordia.
Alcuni dei presenti sull'autocarro vennero rilasciati, gli altri vennero
rinchiusi nel solaio di quella casa dove erano già trattenuti altri prigionieri
politici.
Non si riuscì mai a sapere, con esattezza, come andarono le cose su quel camion
che poi venne definito come, "la corriera fantasma" o "la corriera della morte".
Molti particolari di quel tragico viaggio Giorgio li acquisì alcuni anni dopo
quando, come cronista al “Tempo” di Roma e dopo la sua inchiesta sui fatti di
Dongo, il direttore del giornale gli diede l’incarico di effettuare una ricerca
sugli eccidi in Nord Italia, dopo il 25 Aprile. Dalla sua limitata indagine,
alla fine dell’ anno 1945, il reduce da Coltano si ritenne oltremodo fortunato
per aver trascorso alcuni mesi rinchiuso in quel campo, mesi che gli diedero la
possibilità di salvarsi la vita poiché, se fosse rimasto nella sua città e fosse
caduto nelle “grinfie” delle “belve rosse”, non avrebbe avuto la possibilità di
raccontare quei fatti. Si rese anche conto che i “vincitori”, che si erano
dichiarati tali schierandosi dietro ai vincitori veri, gli angloamericani,
avevano messo nel loro mirino molti uomini vestiti con “il sottanone nero”, che
non erano fascisti ma erano i preti, considerati “nemici del popolo” e pertanto
li si doveva semplicemente eliminare, così in Provincia di Modena furono
numerosi gli “scarafaggi”, come venivano chiamati dai comunisti, a cadere sotto
il piombo dei “giustizieri” come successe in due casi di cui Giorgio venne a
conoscenza.
A Montalto di Zocca a fine Maggio, fu prelevato dalla sua abitazione e
brutalmente ucciso, il Parroco di quel piccolo centro: Don Giuseppe Preci. Così
gli raccontarono della sua “eliminazione”:
“due individui si presentano alla casa di Don Preci. Quando la domestica Teresa
Tamburini va ad aprire, essi invitano il sacerdote a seguirli. A poche centinaia
di metri dalla canonica uno dei partigiani estrae la pistola e ammazza il Prete.
Poi gli assassini tornano in canonica e fanno man bassa dei beni di Don Preci.
Alla Tamburini viene dato del denaro per comprarne il silenzio.”
Un episodio analogo avviene negli stessi giorni nel “triangolo della morte”, il
parroco di Riolo di Castelfranco Emilia, Don Giuseppe Tarozzi, venne prelevato e
soppresso, da otto partigiani comunisti a scopo di rapina. La salma di questo
sacerdote non venne mai ritrovata e si ritiene sia stata bruciata in una
fornace.
In un piccolo centro della bassa modenese, Medolla si verifica una delle più
spietate ed efferate rappresaglie del dopoguerra. Il Maresciallo della GNR di
quella località: Giorgio Angelo Greco, di quarantotto anni, viene barbaramente
trucidato assieme ai suoi due giovani figli: l'ausiliaria ventitreenne: Eva
Greco, ed il giovanissimo figlio di diciassette anni: Santino Greco.
Questo orrendo crimine, emblematico per la volontà comunista di far scomparire
intere famiglie accusate di fascismo, dimostra il disegno precostituito per la
totale eliminazione fisica dei fascisti: una vera e propria strage etnica. La
povera madre e moglie, di questa famiglia così tragicamente decimata, chiese
ripetute volte, a coloro che ben sapeva essere gli esecutori materiali degli
omicidi, dove fossero stati sepolti i suoi familiari, ma venne sempre
sbeffeggiata.
Rimase sconvolto, Giorgio Campari quando venne a conoscenza della spietata
esecuzione di un gruppo di fascisti rinchiusi nelle carceri di Carpi: così venne
a sapere, di quell’episodio, dal racconto fatto da un suo conoscente
sull'eccidio compiuto nella notte del 15 Giugno nelle carceri mandamentali di
Carpi.
Quindici persone, già militanti nelle formazioni fasciste e fatte regolarmente
prigioniere da reparti partigiani, furono in quella notte radunate in una unica
stanza al primo piano delle carceri e trucidate a raffiche di fucile
mitragliatore, che era stato piazzato all'ingresso della angusta cella. I
colpevoli, compiuta la strage, scaricarono ancora colpi di pistola sui
prigionieri che, ancor vivi, sebbene gravemente feriti annaspavano nel lago di
sangue che si era formato, pur di tentare di sfuggire al massacro. Gli esecutori
dell'eccidio, cioè gli stessi elementi della polizia partigiana di Carpi che
avevano in custodia i prigionieri, tornarono nuovamente qualche minuto dopo sul
luogo del massacro per rendersi conto della impresa compiuta. Nell'angusta
cella, nel frattempo, si era sviluppato un incendio provocato dall'accensione di
una piccola valigia contenente fiammiferi ed originato dallo sventagliamento
della mitragliatrice; il fuoco aveva già intaccato gli indumenti dei morti
ammontichiati l'uno sull'altro e si rese necessario, per spegnere le fiamme, il
getto di numerosi secchi d'acqua.
Contemporaneamente, richiamati dalle notturne raffiche di mitraglia erano
accorsi altri elementi della polizia partigiana e militari alleati. Vi furono
due sopravvissuti: Gerardo Vinzani di anni 18 da Milano ed Enzo Cavazza da
Carpi.
In seguito il Cavazza ed il Vinzani sono stati ripetutamente oggetto di
tentativi di prelievo da parte degli esecutori dell'eccidio.
I disgraziati, “giustiziati” dalla polizia partigiana, sono stati:
il Tenente della GR, originario di Perugia: Giuseppe Fattorini, il milite della
GNR di ventuno anni di Carpi: Sesto Dallari; il ventenne, milite della GNR di
Carpi: Umberto Guinicelli; il venticinquenne di Campogalliano: Aldo Reggiani; il
Tenente della GNR, di ventuno anni, di Perugia, Gustavo Martelli; il brigadiere
della GNR, di Carpi, Giancarlo Vailati; la Guardia di P.S. di trentadue anni, di
Ferrara: Massimiliano Zanella; il milite della GNR di trenta anni di Modena:
Alfonso Fontanesi; il milite di quarantasei anni di Minerbio, Luigi Neri; il
vice-federale di Bologna di quarantuno anni: Walter Pincella; il milite della
Brigata Nera di Carpi, di cinquantacinque anni, Armando Pirondi; il Capitano
della GNR, di anni trentadue di Carpi, Giulio Silvestri; il milite della GNR, di
trentadue anni di Carpi, Dante Pantaleoni; e il milite della GNR, di Bologna di
trentasette anni, Arduino.Bergonzini
Giorgio rimase sconcertato quando, dopo pochi giorni il suo rientro a casa,
venne a sapere che il 25 Ottobre, il suo caro amico di ventuno anni Emilio
Rebecchi, ritornato da appena tre giorni, dal campo di concentramento di Coltano
era stato ucciso dai comunisti.
Abitava in Via Cialdini ed era stato richiamato alle armi nei corpi della RSI
nel Dicembre 1943 e assegnato al 42° deposito misto provinciale di Modena, fu
prelevato dalla propria abitazione da tre individui mascherati, in quel giorno,
e il 12 Novembre i Carabinieri di Villa Freto, nel corso di una indagine sullo
scoprimento di fosse comuni, in località Vigarani e Caletti, rinvennero quattro
salme, tre delle quali apparivano sotterrate sin dall'Aprile, mentre la quarta
venne riconosciuta per quella del Rebecchi.
Così come capitò ad un altro reduce da quel campo, anche lui appena rientrato a
Bastiglia, dove venne assassinato in quei giorni, il milite della GNR, di
ventiquattro anni: Paolo Gusmani.
Giorgio, “prigioniero” in casa dello zio, si disse che era andata bene a lui ma
che, più di tanto, sempre chiuso in casa non avrebbe potuto restare e che, di
conseguenza, era necessario prendere qualche risoluzione, o decidersi ad uscire
e correre tutti i rischi, oppure cambiare città
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