L'ultimo autunno
Seguito di Autunno di Laura
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Questo è il seguito del mio racconto “Autunno”,
pubblicato nel 2001 sul mio sito Laura’s Little Corner
1794
È una guerra sporca.
La coprono col velo e le parole di Nazione, ma la
verità è che non serve a niente. Neanche a distrarre, come vorrebbero, dai
problemi interni.
Si fa quasi la fame. È freddo, freddissimo. Siamo
lontani, spersi in mezzo a queste montagne. Certe mattine sembra quasi di
essersi raccolti in questi paesini come una scelta volontaria di vita
ritirata. C’è allegria, ci si guarda tra scampati. Non ci si conta mai. Lo
si sa e basta.
Certe mattine paiono di festa, e il gesto di una mano
amica che ti ha scaldato qualcosa per colazione – perché, nonostante tutto,
io non ho mai imparato –, è più di tante altre cose.
Ma non è festa.
Non è niente.
Il fronte non avanza.
A volte li vediamo, i nemici. Nemici… nemici altri
esseri come noi. Addestrati alla disciplina, alla violenza. Anche loro.
Sparano. Li sentiamo, da qui. Lontani, in questa guerra, che non si
comprende.
A volte penso che vorrei solo andarmene. È tutto un
errore tremendo. Mentre ci sparano, un attimo, e non si esiste più. In una
vergognosa, enorme presa in giro.
A volte penso che mi manderanno a morte per
incapacità. Forse sono tutti pazzi eroici e io l’unica vigliacca. Devo
obbedire, ma non voglio mandare a morte i soldati. Per cosa, poi?
Il nuovo corso della politica. Terrore. Pugno di
ferro. Follia.
E giovani di ottime speranze a rimpiazzare noi
vegliardi.
Sarebbe così bello tornarsene a casa, amore… me ne
starei lì, con te, accoccolata accanto alla nostra stufa, e tu mi
proteggeresti da tutto – ma non da me stessa –.
Cosa mi prepari, stasera?
Accenderai il camino per me? “Anche il camino –
sorriderai – ma è caldo…”, e stringerai le dita attorno alle mie spalle,
perché poi mi ti abbandoni contro, vinta, sempre?
Voglio tornare
a casa…
Si alza, un gesto di stizza e stanchezza, quello con cui
accartoccia quelle parole di debolezza.
Non può certo mandargli una lettera del genere. Sorride.
Anche ammesso che passi la censura e che nessuno la intercetti; anche ammesso di
scampare il patibolo per i contenuti contrari al senso dello Stato, lui che
potrebbe fare, se non preoccuparsi? Lo sa benissimo come si sta lì.
Si gira verso di lei d’impeto. Le serra le mani.
E lei sente una stretta calda, febbrile, d’amore.
“Ripensaci…”
“La prossima volta non chiedermi ‘posso restare’ ma
‘posso entrare nel tuo letto e scoparmiti saltuariamente’”, annota, un po’
stanco, un po’ aspro. Soprattutto deluso.
“Polemico?” lo sfiora con uno sguardo rabbuiato. Una
comunicazione ridotta. Lui non può vederla. Non può essere ferito da uno
sguardo. Ma ha l’impressione, invece, che lui se lo senta addosso. Ogni volta.
“Non posso permettermelo, di quindici giorni in quindici
giorni”, sospira, che, poi, tra i viaggi e tutto, saranno undici sì e no.
Che gran fregatura, la vita… ma per lei vale la pena,
anche così. Anche questa vita a metà – se fosse metà si considererebbe
sommamente fortunato –, un po’ come quella di prima, ma più solo, una solitudine
praticata con intensità e convinzione.
Mai stato tanto solo.
Non è questo la persona che ero.
Si può stare con qualcuno ed essere così soli?
Se cambiare non dispiace, why not?
Ma cos’è una vita a due? E può rendere la vita di uno dei
due, una vita a metà?
Se lei non gli mancasse così tanto, peggio che l’aria…
alla fine ci si abitua. Forse, ci si abitua a tutto, riflette. Alla fine.
Ma quando l’hai quasi perduta. E quasi vista morire. Come
puoi accettare che viva la sua vita senza di te?
L’amore sarà pure un atto di egoismo, non lo nego. Il
volere per sé qualcuno che è autonomo. Il reinventare insieme percorsi pensati
per solo. Ma a volte l’amore è saggezza. E la saggezza ti dice di non farti
ammazzare al fronte, per quei politici che se ne fottono di te, tu sei solo uno
tra i tanti e perfettamente sostituibile – dal loro punto di vista. La politica
è cinica. Disumana. Spietata. Una corsa al potere e non certo al senso delle
istituzioni e dello Stato. Che, se poi arrivi da un periodo di dispotismo, e
ogni ambizioso si presenta come liberatore, e intanto ingrassa le proprie
famiglie, i propri clan, ognuno ben piazzato in qualche carica o posto
strategico, gli scandali messi a tacere, figuriamoci… mica vanno loro, alla
guerra. Oscar va a morire. Mica loro.
Avrei voluto passare ogni singolo attimo della mia vita,
con te… che strano pensarci divisi. Eppure, dovrei esserci abituato. Non era me
che avevi scelto. Non ero io. Io sono stato il rifugio. La fuga.
Eppure, non ti basto. Sei meravigliosa, è straordinario
quando siamo assieme. E non ti basto.
Vaffanculo.
La cosa peggiore è che non sto male, solo.
Sono stato male. Malissimo. Schifosamente.
Eppure, ragionando, mi sono abituato.
A volte mi dico che basta che tu stia bene. Che tu sia
viva.
Vaffanculo.
Per avermi costretto a vivere di paure e speranze. E, io
che nemmeno prego, di preghiere. Che tu viva. Che non ti becchi una pallottola o
una polmonite. E covo e rigiro mille paure di cose che potrebbero accaderti, e,
ogni sera, prima di dormire, e ogni mattina, quando mi sveglio, mi chiedo cosa
starai facendo.
Vorrei poterti dimenticare.
Vorrei cancellarti dal mio cuore. Dalla mia mente. Da
ogni parte di me che conserva ogni tua memoria – e, credimi, sono tante. Non
troppe, però. Di te non ne ho mai abbastanza. E, soprattutto, di te non ho mai
avuto abbastanza. Ci sono amori che ti stancano. Non era questo. Ma sono stanco,
infinitamente stanco.
Vorrei provare, a volte, una vita parallela. In cui non
ti ho mai conosciuto e tu, chissà, o non esisti, o vivi la tua vita, anche tu,
senza conoscermi. Liberi, finalmente. Senza, ammettiamolo, il problema che siamo
stati, reciprocamente, io nella tua e tu nella mia vita. Perché, altrimenti,
sarebbe stato diverso. Tu, senza nessuno che ti proponesse mai la variabile
impazzita nella strada disegnata per te. Io, senza quel continuo confronto che è
stato averti di fronte. Non è questione di innamorarsi. È una cosa diversa. È
che sia tu sia io siamo stati per l’altro un’alternativa che dall’esterno non
era stata prevista. E, alla fine, quell’alternativa l’abbiamo scelta e percorsa,
deviando dal cammino usuale. Sempre che il concetto di usuale abbia un senso.
Perché per me la normalità sei tu. È quello che abbiamo insieme. Noi due.
È difficile partire. Pensare di doversi allontanare. Il
distacco. Cambiare. Ogni volta. Poi, una volta dilaniata, è più semplice. Lo sa.
Si tratta solo di resistere quegli ultimi giorni di
parole non dette, tristezza nascosta da frasi inutili. Non inutili, se adora
ascoltarlo parlare.
Alza il viso dalla scrivania, alla luce del camino, tra i
fogli sparsi. Appoggia la penna. Lo osserva. Lo trova bellissimo, un tuffo al
cuore, a guardarlo. Il mento appoggiato a una mano, un velo di barba, i capelli
mossi… lo sguardo lontano, da tanto… prova una fitta al cuore. È stata solo
colpa sua. E mai, mai potrà smettere di rimproverarselo. Si alza. La sente.
Sente come lo sguardo di lui, su di sé. Le tende una mano. Un invito.
E lei, annientata, vinta, felice, vola tra le sue
braccia.
Non mi lasciare.
Non lasciarmi andare mai… non lasciare che io vada…
Stringe i lacci del bagaglio, appoggiato sul tavolo.
“Mi dispiace…”
L’accompagna fino alla diligenza e ad ogni passo gli
sembra di morire.
Ogni distacco, ogni volta, è così. Non ci si è mai
abituato.
La stringe più forte a sé, sotto il mantello, e pensa che
è ancora più magra. Pensa che potrebbe non ritrovarla più viva. Pensa che
potrebbe essere l’ultima volta…
Eppure, continua, passo dopo passo, senza fermarsi.
Dev’essere così, in fondo, che si cammina verso il patibolo.
Anche lì, non c’è certezza del momento esatto,
probabilmente ogni attimo conta mille.
Come qui, in fondo. Respiro sospeso, non aiuta
l’abitudine agli addii, al riguardati, ti voglio bene, quegli abbracci in
fretta, quasi a vergognarsi di un sentimento così. Così come, poi…
Resta il senso del dovere. La sua lealtà di compagno, di
marito. Deve sostenerla. Accettarla.
Ha dovuto accettare tante cose, come attendente. Il suo
senso del dovere fortissimo. Ora, come marito, deve accettarne altre. Ma saperle
stare vicino. Camminarle accanto, sostenerla, stringerla, così sempre più esile
(che fine hanno fatto le tette, le ha chiesto, l’altra sera, allarmato).
Le dita che si staccano sarebbero l’ultimo gesto, calore,
pressione. Invece, è tornato indietro, e lei ha sorriso, sorpresa di tenerezza,
quando l’ha visto affacciarsi al finestrino, stringerla una volta ancora, un
bacio discreto, nascosto dai capelli.
Odia gli addii.
Dopo, comincia l’attesa.
Fatta di paure scacciate, di ansie improvvise, di
tentativi inutili di riempire una vita che, senza di lei, gli appare sempre più
vuota. Assurda.
Deve anestetizzare il cuore, ogni volta. Vegetare mesi e
mesi per vivere quei pochi giorni di licenza.
È una fregatura, la vita, si dice.
Una volta andava in cerca dei dispacci, dei bollettini.
Chiedeva, quasi mendicava, che glieli leggessero, perché, nonostante abbia
studiato il metodo Haüy, le notizie di guerra non erano riportate. Ora
preferisce non sapere.
Ti prego, non
morire. Le preghiere sono mute nel suo cuore. Parla con lei silenzioso tutto
il santo giorno, a volte si domanda se a lei arrivino quei suoi messaggi
ininterrotti. A volte pensa di sì, tanto ognuno di loro sa leggere nell’altro.
Cosa gli aveva detto, quella volta, il suonatore, nell’ennesima notte alcoolica?
Che erano i cuori, a parlarsi. Gli occhi non servivano…
Oscar, basta che stai bene. C’è chi
si annoia di questa mancanza di novità. Lui la trova straordinaria. Non è
strano, quando si vive così, alla giornata, distanti, ad aspettare solo che
torni. Non puoi fare altro.
Non puoi costruirti una vita. Né di coppia, né tua. Vivi
aspettando.
Non è il massimo.
È difficile trovare un equilibrio tra le parti con e
quelle senza lei. E non è facile amare una persona come lei. Speciale. Non è
facile rinunciare a tanto di sé. Succede, però, quando, nella coppia, l’uno
*vale* più dell’altro. E sa che il termine non è corretto, ma non ne trova un
altro. Questione di esigenze, di responsabilità. Lei ha i suoi soldati, le
strategie. Lui, quattro allievi sparuti, contatti umani intensi ma sporadici.
Eppure, è ancora una persona allegra. Nonostante questa vita da eremita che
avrebbe dovuto rappresentare il coronamento del suo amore.
Alza le spalle, gli viene da ridere. “Cazzo, sembro una
sposina”, ironizza. “Coronamento di che… ma siamo matti?” Ecco, è riuscito a
distrarsi dalle botte di magone che lo afferrano e soffocano.
Va così… lei parte, lui sta di merda, prima, al pensiero,
e dopo, all’assenza, poi…
Mette in ordine le cose attorno a sé, le immagina, nella
mente. Le vede, ancora. Vede lei. Si domanda se sia cambiata, rispetto a come la
ricordava. Poi, si rende conto che, in tutti gli anni che le è vissuto vicino,
l’ha vista mutare, davanti a sé, senza accorgersene, ma sorprendendosi quando,
nella memoria, riemergono immagini esatte di lei, in singoli momenti, a età
diverse. Rivede le sue guance rosee e bellissime di ragazzina, quando si era
innamorato di lei, e anche allora sapeva che avrebbe dovuto trattenersi, e il
sole farle brillare gli occhi, i capelli. Rivede la sua mano stringere la spada.
Una mano piccola, delicata. E, più avanti, a cercare, altri quadri della mente.
Che strano, riuscire a evocarli anche da cieco… Oscar è stata, a lungo, tutta la
sua vita. C’è stato il buio, poi, è tornata ad esserlo. Oscar ora è sua. Va bene
così. Va bene così. Deve ritrovare se stesso, dirsi e sentire davvero che è così
che va. E, allora, si dedica a se stesso, a casa loro… casa loro… sorride. Poi,
riprende il lavoro. I libri, lasciati in giro. Si rabbuia, giusto un attimo. Li
avevano letti insieme. Ora… chissà se, quando tornerà, gli leggerà ancora
qualcosa… lei, con quella voce limpida, calda… Il plaid sul divano, perché lei
ha sempre freddo. Ripristina le scorte, anche l’alcool da sopravvivenza e
tristezza. Ha imparato, in questi anni, a non lasciarsi comunque andare. Basta
che, ora che c’è, sia pur assente, lei stia bene. Viva. Basta quello.
Poi, giorno per giorno, si riscopre a provare interesse
per il resto del mondo. Da quelle prime ore penitenziali, senza di lei,
lentamente ritrova una vita normale – se si possa definire normale una
solitudine imposta. Se era questo che volevi di noi, Oscar, contenta tu… io,
invece…
Io invece odio Alain che ora è al tuo fianco. È a lui che
affidi tutto, adesso. È di lui che ti fidi. No. Non lo odia, invece. È solo
triste al pensiero. Da una parte c’è la preoccupazione, sempre, latente.
Dall’altra l’esclusione che l’ha colpito. Non solo è cieco, ha dovuto imparare
ad adattarsi, a rinunciare, a inventare. Ma non fa più parte della vita di lei.
Quello che prima era affidato a lui ora sono altri che lo svolgono. Tra questi,
Alain.
Alain le vive accanto. Lavora con lei. Organizzano ed a
lui Oscar si affida. È qualcosa che ha dovuto accettare, André, ma non era certo
questo che sperava. Stare con lei, vivere con lei, ma fare ancora parte della
sua vita e non essere relegato in un’area teoricamente protetta – questo,
nell’idea di Oscar –, che poi significa solitudine infinita e smazzarle i casini
quando piomba in casa.
Che, poi, quando lei è a casa – e quest’espressione e più
ancora, forse, l’idea, gli scaldano il cuore –, lei è incredibile. La riempie,
con la sua presenza. Anche quando è di là, in silenzio, e si lascia andare,
avvolta in un plaid.
Oscar è così. Prendere o lasciare.
E, visto che gli è stata lasciata…
Spera di non stare avvampando, mentre, lo sguardo
lontano, oltre il vetro, oltre il paesaggio che si fa più brullo e spoglio, si
stringe nei brividi e lo rivede. Lo sente. In sé. Sfiorarle il viso in una
carezza. Labbra. Mani.
Non vorrebbe mai partire. È dilaniante. Ma stavolta è
stato peggio. Come un presentimento aleggiasse su di loro.
A poco a poco è l’idea del viaggio a prendere il
sopravvento.
Lo sa. Succede ogni volta. E, ogni volta, con un dolore
dentro, sordo, tenace, poi, a sfumare, lascia che accada.
Quando l’emozione del distacco, lentamente, si placa.
Allora, quando l’immagine, la voce, tutto di lui possono lasciare spazio al
resto – che, sempre, quasi scompare, nel confronto, fino all’ennesimo addio –,
può trovare l’attenzione, la curiosità per notare l’impeto della natura, e
piccoli, infinitesimi scorci, che la commuovono. Sempre.[1]
E, poi, il lavoro. Il dovere.
È un viaggio duro. È stanca.
Fa sempre più freddo.
Alza il mantello e ringrazia i capelli lunghi che un po’
la proteggono. Come fanno quelli che li portano corti… lei ha sempre freddo…
Chissà che hanno combinato, i ragazzi.
E lui, che ritorna alla sua vita solitaria.
Se solo non avesse perso la vista… ma non può portare sul
campo un attendente cieco. Sarebbe la condanna certa. Non gli darebbe scampo.
Se gli succedesse qualcosa, non se lo perdonerebbe. I
chirurghi miliari fanno cose raccapriccianti e, soprattutto, per non perdere
tempo, amputerebbero di tutto. Lei, ora che s’è conquistata faticosamente la sua
preda, non vuole mollarla. Lasciarla vegetare, coltivarla con calma, tenerla da
parte, non sprecarla. Non darla in pasto a quella vita del cazzo. Lei vuole
proteggerlo. Vuole che resti a casa loro, al sicuro – sicuro nell’imponderabile,
si sa… la vita è una stronzata malefica: ti trovi vivo senza averlo chiesto, e
se va bene campi ignaro, se no vieni a patti con l’idea della morte – e mica è
bello. Nemmeno facile.
L’inverno pare non finire mai, quest’anno. Winter never
seems to end, this year.
Detesto stare
senza di te, eppure, a volte, mi abituo.
Risento il tuo
odore nell’aria. Addosso a me.
Rivivo le cose che
ti piacciono, di quando stiamo insieme.
Ti amo.
Non posso farne a
meno.
E odio non essere
con te. Eppure, esisto, e vado avanti. Dicono che quando non ci sei, sono
diverso. A me pare di non essere, di esistere come dimezzato. Anche se vivo.[2]
Esiste il tuo lavoro, così come esiste la tua vita. Ed
esiste la mia solitudine.
Non è meno reale delle esigenze di chi ti spedisce al
fronte a farti ammazzare.
È difficile abituarsi a farne a meno, quando ti sei
adagiato su del sano sesso coniugale, ride tra sé. I ragazzi che non sono
impegnati si danno da fare, nel paesino. Qualche generale fa vita da nababbo e
sperpera in banchetti sontuosi, nonostante la fame, gli assegnati, la
svalutazione terribile. Un giorno o l’altro, forse, faranno giustizia. Ma tanto
è tutto una corruzione e un coprirsi a vicenda. Il potere fa schifo.
Vorrebbe che lui fosse lì, con lei, eppure, non può
chiedergli di rischiare la vita. Non se la sente. È già stata abbastanza
egoista.
Un refolo di vento muove le foglie secche rompendo il
riflesso sulla lastra della pozzanghera.
La figura alta viene scomposta.
Un passo. Un altro.
Si guarda attorno, come se tutto dovesse essere diverso.
Ma resta uguale.
Nonostante la guerra. Nonostante le vite le muoiano
attorno quasi ogni giorno. In città non si sente come si sta là, lontano. Per
fortuna.
Oggi si è fermata a parlare con Alain, al pozzo.
Parlavano di lui.
Lei ci pensa ogni momento. Sempre presente. E sempre
latente. Anche lui è un’assenza. Anche quel loro rapporto, fuori dalle regole e
fuori dalla norma.
Quel ridursi a vivere in parallelo. Poi a perdersi.
Ritrovarsi, vivere a distanza. E abituarsi. Forse è soprattutto questo, che
risponde poco alla norma. Ma non può portarlo con sé. Davvero non può, riflette,
o è che non vuole? Non basterebbe lasciargli tempo di ambientarsi, di conoscere
le stanze, i luoghi? E quando si trasferiscono?... Lui ce la farebbe. È che si
realizza talmente tanto in quella dimensione sua propria, che non lo vuole
spettatore, neppure cieco. È che quella è la sua vita e non ne vuole turbamenti?
Non saprebbe dirlo, realmente. Se anche ci si arrovella, trova solo che è stata
una combinazione di casi ed eventi. E non un piano studiato a tavolino. Anche se
a volte capita che la casualità segua, misteriosamente, le vie delle
aspettative. Non sempre. Di solito, quando lo temi. Non quando non lo vuoi. Il
caso è un gran stronzo.
Con lui è bello. Normale. Caldo. Appagante. Mite. Noioso.
Avvolgente.
Non è più come quando ogni distrazione da lui le pareva
un delitto. Il pensiero di correre da lui. Il perdere anche un solo attimo una
possibilità catastrofica. Ma, dentro o fuori gli schemi e le norme, è comunque
il loro amore. Quello che è diventato. Anche se le manca, e tanto, ciò che era.
Ma, a guardarsi indietro, le sembrerebbe – ciò che era –,
in fondo incompleto, se comparato ad ora. E chissà come le sembrerà, comparato,
nel futuro. Ancora più incompleto. Anche il presente.
Quel presente fatto di assenza. Reciproca.[3]
Se ne stanno abbracciati, a letto.
“Rosalie ci ha invitato…”
Si gira, pigra, tra le sue braccia. “Non ho voglia di
andarci…”
Le sorride, le carezza un braccio, pensoso. “Preferisci
rinchiuderti in casa…”
“Con te…” gli sorride.
“Adesso ti distraggo…”
“Non abbiamo mai tempo di stare insieme…” quasi si
giustifica.
E si rende conto di aver affrontato l’argomento
sbagliato.
“Lascia che venga con te…”
“No.”
“Prenderò un paio di stanze in affitto… Così potremo
stare insieme.” Avrebbe voluto dire ‘vederci’, ha imparato a correggersi
velocemente.
“No.”
“Perché?”
“Perché ci spostiamo di fronte continuamente… non
servirebbe a niente…”
“Ma se sono due anni che restate sempre nella stessa
zona…”
“Ma cambierà presto… e poi…”
“Poi?” La incalza, ma lei resta in silenzio.
“Preferisco tornare qui, a casa…”
“Anche se è un paio di settimane ogni qualche mese?”
“Sì.”
“Non credo sia la cosa giusta...”
Mi pare un modo di buttare il nostro
tempo…
è bello
starsene abbracciati e rimanere così per ore. È uno strano senso di pace e di
appartenenza. Non sembra tempo sprecato. Non è rinunciare a fare altro, insieme.
È la scelta di vivere ogni singolo attimo insieme. Il respiro tra i capelli. Le
mani di lui che si serrano le braccia di lei attorno al corpo.
È come se stia per piovere, e l’umidità, sotto i tetti,
sembri cadere giù dal cielo grigio. Un grigio di mille sfumature, consistenze.
Plumbeo. Perlaceo. Argenteo. E come si riverbera sui colori attorno,
spegnendoli, a volte.
Le punte delle dita di lei sono gelate, al solito. Si
accomoda meglio tra le sue braccia e le scalda, serrandole delicatamente, tra le
sue. Un sorriso soddisfatto. Gli basta poco per essere felice.
È abituato alle assenze. Ha una consapevolezza, lontana,
latente: lei esiste, anche lontana, ed è sua. Per questo, in qualche contorto
modo, è tranquillo.
“È crudele”, le dice. Come un’accusa. Ma è più la
tristezza di una constatazione. “Pensavo di averti perso. Avevo rinunciato a te.
E devo accettare questo.”
Si è girato verso di lei, nel parlare. O forse era
emettere una condanna. In quel movimento, ha notato le ciocche che gli
incorniciavano il viso. Era bello. Le è sembrato di guardarlo negli occhi.
“La prossima volta che tornerò”, gli risponde, “sarà per
sempre.”
E così è stato.
“No! Stavolta non ti lascio partire!”
Neanche gli risponde. Si sente la febbre. Deve sbrigarsi
e andarsene, prima che lui lo scopra.
Non vuole un addio con un litigio.
“Accompagnami”, gli dice, forse troppo brusca. Ci
ripensa, cerca la sua mano. “Ti prego…”
Mi dispiace, non volevo ferirti. Ma resta in silenzio. La voce non ha forza.
“Bernard, ho bisogno del tuo aiuto. E del tuo, Rosalie”.
E non avrebbe mai voluto. Quei due spesso devono fuggire,
per colpa dell’attività di lui. È così precaria, la loro vita, col piccolo
François. Ma un’angoscia troppo forte lo mette in allerta.
“Zio!”
Lo cerca con la mano, ne sente i capelli. François è
pronto a scalarlo.
“Prendimi in braccio!” e se lo stringe forte, addosso,
come un gattino.
“Giochiamo!!!”
“Quando torno, François...”
“Stai tranquillo, André. Può far comodo anche a noi, se
ci tocca nasconderci…” Una brava persona. Sicuramente. E così, si è trovato in
breve installato su una carrozza, dopo aver memorizzato la tabella di viaggio,
le soste, l’itinerario, i tempi. E col cuore in gola, perché chissà come la
prenderà male, lei. O, forse, forse no. Una volta avrebbe saputo prevederla.
Adesso… alza le spalle, sospira e stringe la mano contro la tasca interna in cui
conserva i documenti di viaggio. Una strana ansia non lo abbandona.
“Sono venuto per te…” si immagina dirle. “Per restare. O
per portarti via…” Glielo dirà. Deve dirglielo. Non si può sempre essere
ragionevoli. Deve capirlo, lei, che lui la ama, che non starà ancora lontano.
“In ogni caso, voglio stare con te”.
Quanti anni sono passati, tra questi rivedersi, tra quei
pochi ritrovarsi che, tutti, valevano il loro amore?
Non lo sa, mentre respira l’aria fredda e si assicura il
bagaglio nella mano. Ora arriva il difficile. Si sente emozionato, sente la
propria voce tremare, nel chiedere indicazioni. Quanto tempo è che non si
confronta con il mondo più esterno dei suoi quartieri di Parigi? Che cosa si era
aspettato, dalla vita? Con Oscar, sarebbe andato in capo al mondo… alla fine, ne
aveva conosciuto molto meno.
“Cerco il generale Jarjayes”.
Gli hanno spiegato dov’è il comando. È riuscito a
raggiungerlo.
Il piantone di guardia lo osserva. “Sareste?”
“Suo marito.”
S’intenerisce al ricordo, nell’attesa.
“Sposami…”
Aveva alzato gli occhi su di lui, in quell’anno lontano,
un giorno lontano.
Quasi imploranti. Sorpresi.
“Mi vuoi ancora?”
Allora, l’aveva abbracciata forte. Se l’era stretta
contro.
“Certo…”
“Certo che ti voglio…”
Era andata così.
“André!!!”
Sorpreso, la voce concitata di Alain.
“Alain, ma…”
Non ha il tempo di sorprendersi, solo di percepire
l’angoscia e, forse, il sollievo nella voce.
“Dov’è Oscar?”
“Meno male che sei qui!
“Ma cosa… cosa…”
“Il generale, André… meno male che sei qui…”
“Che cosa succede? Che cosa succede a Oscar!?!”
Brucia di febbre, Oscar.
“Da quanto? Perché non sono stato avvisato?”
“L’altro giorno, ha iniziato a star male. Ma ha tenuto
duro. Ha fatto finta di niente.”
“Tu sai che ha avuto la tisi…”
Alain lo guarda, sorpreso. Un’espressione indicibile. La
sua, e quella che legge sul viso teso di André. Scuote la testa.
“Rispondimi!” Non
ti vedo!
“Scusami… no. Non sapevo niente.” Gli trema la voce.
“Che ha detto il medico?” Rabbia, ansia, preoccupazione,
in quelle parole.
“Ora che so della tisi, capisco meglio…” ammette il
dottore.
“Che cosa mi dite?” L’angoscia, nella voce di André.
“Se passa questa crisi, portatela via. Se avete
possibilità, portatela lontano, in un clima mite. Fatela riposare.”
Il letto è vuoto, quando rientrano.
La vede, Alain. Pallida, tremante, si è alzata. Non può
vederla, André.
“Generale…”, le si fa incontro.
Capisce André, la cerca con le braccia. E non saprà mai
degli occhi di lei nei suoi, gonfi d’amore. Di pena. “Ti amo”, trova la forza di
dirgli, mentre si accascia contro, tra le sue braccia. “Ti amo. Perdonami… non
volevo…”
Farti questo…
ma non riesce a dirlo. Quasi non ha più voce
“Dimmi che mi perdoni…”, mentre le lacrime gli bagnano la
giacca, le mani.
La solleva.
“Aiutami”, fa ad Alain, che lo guida verso il letto.
Tutto è spartano in quella stanza. È fredda. Non sa come
abbia retto, tutto quel tempo, Oscar, lì.
Li ha lasciati soli, Alain. Ma prima André si è fatto
descrivere tutto ciò che li circonda. I colori. Le cose. Dove sono. Come
trovarle. E la camera rispetto al resto.
Gli pare assurdo doversi preoccupare di questo, mentre
lei sta così male. Ma lui ora è cieco, e potersi muovere conoscendo i luoghi
significa anche che qualcuno glieli descriva. I racconti di lei in proposito gli
dicevano altro. La stanza. L’atmosfera. I commilitoni. I colleghi. Quando lui le
domandava e lei cercava di spiegargli. Ma intuiva un pudore, perché Oscar sapeva
che lui si sentiva tagliato fuori da quella grande parte della sua vita.
Non ha mai rimpianto la sua scelta, di rischiare la
vista. Ma oggi sì, perché forse, vedendo, avrebbe potuto esserci, aiutarla, e
forse tante cose non sarebbero accadute.
Resta lì, accanto a lei. A tenerle la mano. A carezzarle
il viso. A fare mille giuramenti.
Le cerca, con delicatezza, leggero, con le dita gli
occhi, naso, labbra, a ripassare col tatto i suoi lineamenti. Appena i capelli
in una carezza…
Lei ha un gemito. Allora, temendo di darle disturbo,
ritira la mano.
Ma, poi, torna a sfiorarle la guancia. Incapace di
trattenersi.
Come sei bella…
e si commuove, di fronte a quel miracolo che è quel singolo essere umano,
accanto a lui, così complesso, denso di mille infinitesimi fattori, pensieri,
ricordi, denso di vita bruciante. E ora, ora sta così, si dice. Senza forze,
lontana da casa, a farsi ammazzare per cosa? Per il Terrore? Era questo per cui
avevamo lottato, Oscar? Non era questo. Volevamo eguaglianza, e le donne e chi
non ha censo non l’hanno avuta. Non volevamo dei pazzi al potere, anche se forse
sono passaggi obbligati per sovvertire la tirannia.
Non so più neanche cosa penso, so solo che ti amo.
“Ti amo, Oscar… ti amo”, glielo sussurra piano, tra le
lacrime.
“Tieni duro, non mollare, amore…”
“Tu sei il mio amore…”
“Lo sai, vero?”
“Sei il mio amore…”
“Lo sei sempre stato…”
Sente una voce lontana, triste, Oscar.
Sei tu…
Sei venuto a
prendermi…
Mentre lui cerca di non avvelenarla confondendo le
medicine, e Alain osserva, triste, stranito, perché anche lui la ama e non potrà
averla, e, peggio ancora, ha paura. Di perderla. E si dà del coglione, per non
aver capito neanche lui. Oscar è molto più forte di tutti loro. Tanto di
cappello, generale. Non pensava di poterla perdere. E forse lei non saprà mai
che un altro la ama, oltre André. Questo lo rattrista. Ma sa di dover tacere.
Eppure, quanto vorrebbe almeno dirglielo. Ma, forse, lei l’ha capito. E tace. E
lo sa anche André.
Maledetta lealtà.
Se sei tu, io non
voglio morire…
Se sei tu, io
voglio continuare a vivere…
“Oscar… Oscar…”
Sente una mano sulla guancia.
“La barba…” articola a fatica lei, la voce incrinata dal
silenzio di giorni.
La lacrima scende, raggiunge le dita di lei.
“Non piangere…”
“Non piango, amore…”, mentre con la mano, le copre, le
protegge le dita, contro di sé.
Apre gli occhi. Infine.
Lo guarda, a lungo. Accanto a sé. I capelli lunghi,
arruffati.
Glieli accarezza.
“Me l’aveva detto, Alain, che sembravo un barbone…”,
ammette.
“Ti amo.”
“Anche io…”
“Non lasciarmi mai…”
“No.”
“…”
“Ti porto via.”
“…”
“Non appena il dottore ti dà il permesso di affrontare un
viaggio. Noi andiamo via…”
Siamo tornati. E partiti, di nuovo. La porto dove c’è il
sole. Dove l’aria è buona. Dove il Terrore non è ancora arrivato.
Siamo felici. Sembra una lunga vacanza. Finalmente
possiamo cavalcare insieme, senza nasconderci se ci baciamo. Lei mi abbraccia. È
bellissimo essere amato così, da questa donna straordinaria.
Camminiamo felici lungo la spiaggia, e in certi momenti
mi pare di vedere ancora… chissà, forse è perché questi luoghi li conosco. È
quello che non abbiamo mai potuto avere. Tutto quello a cui abbiamo dovuto
rinunciare. Ed è reale.
La stringo tra le braccia. Facciamo l’amore. Sempre.
Sempre. Sempre, perché ho paura del tempo che passa, del tempo che me la ruba.
Mi ha già portato via la vista. Non voglio arrendermi e consegnarle anche lei.
Alla malattia, quando torna.
Facciamo l’amore come fosse l’ultima volta. Forse lo è.
A cosa sia servito ritrovarti per perderti ancora… è
crudele, io… io avevo rinunciato a te. All’idea di te. Ti sapevo lontana e
poteva bastarmi. Ma, ora, dopo aver toccato la felicità, la serenità, lo
sconforto di saperti via, la tristezza della tua assenza, ogni volta credendo
ferocemente che saresti tornata, cullando quell’illusione, ora, no, non posso…
io non posso…
Si copre gli occhi con le mani, un gesto di disperazione.
No, non morire, Oscar, non morire…
Mi sta morendo tra le braccia.
Ogni respiro si fa più difficile. Può solo stringerla, e
non sa se questo le dia conforto. Non saprebbe dire come si senta, se sia
cosciente.
In alcuni momenti apre su di lui uno sguardo doloroso e
lucido. A tratti immenso d’amore.
Lì, abbracciata da lui, in certi istanti riesce a
sentirsi felice.
È come se si stia distaccando da tutto.
L’idea di non vederlo mai più è terribile. Forse è peggio
solo quella di doverlo lasciare solo.
Spera che lui non faccia idiozie. Solo questo. Ha
sistemato ogni cosa, non avrà problemi, se solo si decide a vivere. In fondo,
non è difficile.
“Quella notte l’enormità di quel passato non condiviso le
aveva rubato le parole”.[4]
è felice.
“Ma non è una felicità facile. Non è una felicità
gratuita”.[5]
Oscar è partita mille volte. E mille volte tornata.
Ogni volta, facciamo l’amore.
Già di per sé questa infrequenza dovrebbe essere
contraccettiva, ride tra sé, André. Ma aggiungiamo del nostro, in materia.
Nessuno di noi due vuole perpetuare la propria atipicità. Bastiamo noi due a
soffrire delle nostre strane vite. A fare i conti con la consapevolezza di
trovarsi nati e dover morire, il tutto senza aver deciso noi in proposito. Ci
amiamo. Siamo noi. Basta, ci siamo detti. Finisce qui. Con noi.
Se amare è un atto di egoismo, è già sufficiente farlo
verso un essere umano vivo, e consenziente. Ben disposto.
Farlo arbitrariamente verso ipotetici nuovi esseri,
ignari, e imporre loro noi due, vivere e dover morire, no. Ci pare troppo. Oscar
è una persona materna, sa meravigliosamente prendersi cura degli altri. Sarebbe
stata una madre meravigliosa. Io sarei stato contento di tanti piccoli Andréini.
Ma abbiamo deciso così. Vogliamo dedicarci ognuno all’altro, totalmente. Essere
felici, noi due.
E così, Oscar va, torna. Vorrei andare anche io. Essere
anche io con lei. A volte, la seguo. Mi lascia fare. Ora sa che posso cavarmela.
Quando è via, mi manca da morire. Ed essermi ricostruito,
nonostante tutto, una vita, aiuta, ma non basta.
Ogni volta, ho paura di perderla. Ma, ora, torna più
spesso. E vado a trovarla.
Ogni volta che torno, mi pare un miracolo ritrovarlo.
Lui, e la sua esistenza nuova. Come la mia. Ricostruita.
Così diversa, così diverse dalle nostre di prima.
Prima che completa ora.
Prima, che mi fa abbassare gli occhi e non voler guardare
negli occhi lui che non mi vede.
Prima, era ieri.[6]
Siamo qui, noi due, davanti al camino.
È tardi.
Oscar ha il suo brandy. Ogni tanto André gliene ruba un
po’. La circonda col braccio. Sereno. Appagato. Oserebbe dire felice.
“Oscar… d’ora in avanti, verrò con te.”
“No. Non posso portarti, in queste condizioni.”
“No. Io verrò con te. Per sempre.”
La guerra è
finita.
FINE
Nota
Quando scrissi “Autunno”, in due nottate a un anno di
distanza, tra il 2000 e il 2001, non avevo previsto un seguito. Scritto,
intendo. Dentro di me, il seguito che vedevo era un’immagine. Oscar, alla
scrivania, davanti al camino, a casa sua e di André. Non c’era altro che io
volessi dire. Li volevo insieme. Li vedevo così.
Avevo sempre considerato “Autunno” – e “12” – una delle
cose più belle che avessi scritto. Io non mi rileggo mai, dopo. Mi capita di
rado. Una volta che ho corretto, limato, a lungo, è finita, non provo
l’autoesaltazione di rileggermi, o di riguardare i disegni, perché scrivo e
disegno per una mia esigenza – anche quando mi impongo le corvée di pubblicare
un tot di cose stampate entro un certo periodo –.
Nel frattempo, erano successe molte cose. Mia madre si è
ammalata ed è mancata improvvisamente.
Nel 2005, rientrando a casa, ho sentito che quello che
provavo doveva trovare un canale. E iniziai a scrivere questo testo.
Probabilmente risente di quello che sentivo negli anni tra 2005 e 2008.
Poi, mi è capitato di rileggerlo, parlando con Stellato.
Ed è arrivato, il 13 e il 16 luglio 2019, quello che mancava.
Grazie a Stellato. Grazie a Meri.
[1] Da appunto sms del 15-6-
[2] Appunti 28-5-06.
[3] 16-3-07 più sms marzo 2007.
[4] K. HOSSEINI,
Mille
splendidi soli, Casale Monferrato, Piemme, p. 391, 26-5-2008.
[5] K. HOSSEINI,
Mille
splendidi soli, Casale Monferrato, Piemme, p. 394, 26-5-2008.
[6] 21-9-2014.
Laura, 2005-2008, 2014, luglio 2019, pubblicazione sul sito Little Corner luglio 2019
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
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Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com