La notte

 

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La notte

 

L’essere umano e la morte. Nella fedeltà alla conclusione dell’anime: è possibile che la morte abbia avuto un ruolo importante nella sfera emotiva della nostra Oscar?

 

“Ogni goccia buca la mia pelle ad addolcire lentamente il sangue,

guardo in ogni angolo la notte.

E  se muoio prima di svegliarmi prego in silenzio

perché altrove sia ancora giorno per sognare.”

 

(Marina Rei, La notte)

 

I

 

La luna.

Sembra quasi falsa da qui, una madonna di marmo imprigionata nel cartone di un cielo stellato senza nuvole.

Una madonna altera posta a vigilanza di un bivio nella campagna. Quando la raggiungi, nel suo tripudio di fiori e cere, più che rassicurarti nel cammino ti scruta con aria indifferente ed inevitabilmente ti convince di dover far ammenda per un peccatuccio qualsiasi che con l’andar del tempo, dimenticato, si ingigantisce sotto il velo di polvere dell’oblio.

Tutto può assumere una dimensione diversa a seconda del vetro cui guardi attraverso.

Niente sembra vero nelle nottate come questa.

Sdraiata di traverso sul divano di fronte alla finestra: la prospettiva è completamente rovesciata.

Il cielo non è più che lo sfondo di un palcoscenico per marionette, sotto di me il nulla mentre galleggio verso l’aria aperta.

Respiro a pieni polmoni. Ogni odore si fa più intenso nel gareggiare con gli altri. L’aria dolciastra che sale dai canali del lungosenna, l’intensità rassegnata dell’erba lasciata a seccare, la putredine dello sfiorire che prelude al frutto.

Su tutto prevale il tepore del vento, grande rimescolatore di essenze, e la polvere fastidiosa che si deposita sugli abiti per mischiarsi all’acredine del sudore.

Rabbrividisco, in questa notte di giugno, splendidamente decadente.

L’opulenza del fiore, la sfrontatezza dei colori, la provocazione del profumo giusto un attimo prima di volgere al bruno della fine.

Dal suo imputridire e disintegrarsi nascerà il frutto.

Nascerà un mondo migliore dalla disgregazione del precedente oppure una pianta carnivora sempre più esigente nei propri tributi di sangue?

Fa freddo.

Sono io ad avere freddo.

Potrei gelare questa candida notte estiva se liberassi il ghiaccio che conservo dentro di me.

Vasta, desolata, inesplorata e gelida, inchiodata ad un istante dilatato nel tempo come l’ala del falco, spiegata nel silenzio che prelude l’attacco.

Da un punto imprecisato delle mie viscere si propaga un sussulto che mi fa sobbalzare il petto, mi solletica la nuca; tremano le mani ed il respiro si ferma per un istante.

Sento incrinarsi la spina dorsale come vetro.

Reggerà?

Reggerò?

Ora passa. Ora passa. Ora passa.

Calde gocce di sudore mi scivolano lungo le tempie ed i fianchi.

Panico. Direi che è la parola più adatta allo stato attuale delle cose.

Perdita completa del controllo di sé.

Adesso passa.

Un battito di ciglia nell’immobilità tesa del mio corpo stanco e rimane solo la paura.

Posso controllarla. E’ una vita che lo faccio: trentatré lunghi anni consacrati all’esercizio dell’autocontrollo, alla repressione della paura, al mantenimento della lucidità nelle situazioni a rischio.

Trentatré anni saranno pur serviti a qualcosa.

Mi è stato insegnato molto: seppur non priva di intelligenza ed ingegno non mi sono mai stati risparmiati esempi pratici, punizioni, prediche e strumenti.

Mio padre ha compiuto un lavoro prodigioso con me.

Mi ha lasciato con un’unica falla: non mi ha  insegnato ad accettare la defezione del mio corpo.

Si capisce, il generale riteneva fosse un discorso inutile. Suo figlio doveva essere superiore a molte cose, perché non allo scorrere del tempo?

Per di più si presuppone che un ufficiale debba andarsene con onore nell’esercizio delle sue funzioni, di schianto, senza neppure il tempo di un lamento.

Invece il mio corpo ha deciso di abbandonarmi in una lenta agonia, nel modo, se è possibile, più indecoroso: un disfacimento lento e regolare che mi porterà all’insufficienza polmonare, poi cardiaca, infine alla morte.

Ho giocato gran parte della mia vita sulla fisicità.

Non posso negarlo.

Ho sempre fatto affidamento sul mio corpo e sono orgogliosa di poter dire che non mi ha mai tradito in nessuna occasione. Paradossalmente mi ha servito con tenace efficacia tanto nel momento del pericolo quanto nell’occasione più faceta. L’hanno venerato chiuso nell’uniforme adorno del solo ferro della spada  gli stessi sciocchi che in seguito l’hanno ammirato incatenato dal corsetto e dall’oro dei gioielli.

Ironia della sorte…

Penso che nessuna donna al mondo sia mai stata ossessionata dal proprio corpo quanto me.

Nella mia ostentata  indifferenza ho imparato più e meglio di qualsiasi altra ad ascoltarlo.

Di un nemico si saggia nel contempo la forza e la debolezza: in quale altro modo si riuscirebbe a controllarlo e combatterlo? Ho condotto una minuziosa, attentissima, chirurgica campagna di guerra cedendo terreno talvolta all’istinto talvolta alla razionalità, talune volte diventando persino indulgente… d’altronde si trattava pur sempre di me stessa.

Le costole sembrano volersi aprire nella carne mentre il diaframma si contrae in spasmi sempre più deboli. Mi si annebbia la vista, non posso impedire agli occhi di riempirsi di lacrime.

La odio, questa dannata tosse e quell’affanno tutte le volte che faccio un sforzo…

A fine giornata raccolgo tutta la mia disciplina mentale per impedirmi di pensare ossessivamente che ad ogni passo la schiena sia sul punto di spezzarsi. Ringrazio il cielo di non avere più un vice così presente come in passato Girodel: dissimulare il dolore in certi momenti ormai richiede energie che non posso permettermi di spendere.

Solo adesso riesco a capire come dovevi sentirti, André, mentre ti dicevano che non avresti più potuto vedere. La vita mi ha nuovamente messo di fronte ad una condanna e lo ha fatto nel modo più inaspettatamente crudele.

Il rammarico più grande verso me stessa è al solito questo smisurato orgoglio che mi impedisce ogni volta di fare la scelta giusta senza lasciare morti e feriti sul campo: devo affrontare ogni secondo di ogni ora di ogni giorno il rischio di perdere la mia vita per arrivare ad ammettere il mio amore.

Quanto dovrò pagare ancora per la mia disperata testardaggine?

Quanto ti ho fatto pagare, André? Quanto dovrai pagare ancora?

E se questo mio sentimento fosse indotto dalle circostanze, dalla necessità di appoggiami a qualcuno nel momento estremo della dipartita? Se avessi semplicemente paura di morire senza il conforto dell’unico essere umano che mi abbia mai sinceramente amato? O di vivere quel poco che mi resta nella solitudine più nera?

Mi sembra tutto falso. Stanotte mi sembra tutto più che mai ribaltato.

Eppure quando ti guardo il sangue riprendere a scaldarmi le vene e mi sembra che il futuro dischiuda ancora di fronte a me il ventaglio delle possibilità. Dev’essere un retaggio infantile.

Sei sempre stato un uomo di principio e hai sempre saputo ciò che volevi. Mentre mi dibattevo in mille elucubrazioni, mi arrabbiavo all’inverosimile e sguainavo la spada più volte di quanto fosse necessità, tu mi richiamavi all’ordine con quel tuo modo riflessivo di osservare la vita.

Oggi ancor di più sento emanare da te la forza, la mitezza, il calore e nel contempo il coraggio, la passione e la costanza di continuare a vivere, ad amare nonostante tutto.

Da qualche parte frugando dentro me potrei ritrovarla, potrei scoprire che l’hai conservata tu in mia vece, la speranza.

E’ per questo che ti temo? Perché sei sempre stato migliore di me? Perché sei sopravvissuto all’amore, alla malattia, al dolore senza un lamento mentre io inseguivo sogni impossibili nella convinzione che la vita mi dovesse dare qualcosa in cambio?

L’avevi capito da prima di me che la vita riversa sulla terra il bene nella maniera più inconsueta tanto quanto amministra la sofferenza con crudele casualità.

“Guarda, Oscar, gli uccelli migratori volano verso sud. Volano liberi e felici nel cielo. Ma poi in primavera torneranno nei luoghi da dove sono partiti. Nessuno può impedire questo.” (*)

Per quanto tu possa controllarti, dissimulare, combattere tu morirai, Oscar. Presto.

Questa grande verità che ogni uomo acquisisce brutalmente venendo al mondo nel dolore io l’ho scoperta a trentatré anni suonati in una notte di giugno.

Perché allora non correre a perdifiato tra le querce secolari del giardino e scuoterle e graffiarne la corteccia, strappare l’erba ed i fiori di campo, calpestare le rose urlando loro l’invidia che provo per una vita priva di dolore, rassegnata alla morte come riconoscente alla vita? Perché non distruggere tutto quello che capita sottomano gemendo, piangendo, maledicendo se stessi ed il mondo?

Urlare quanto io sia terrorizzata all’idea della morte.

Perché fisso con la testa reclinata all’indietro questo cielo lattiginoso senza emettere un suono, senza muovere un muscolo?

Canta ancora André.

Canta perché non mi senta sola.

Canta per non sentirti solo.

Tienimi ancorata a quel che resta delle mie convinzioni.

Sciogli la sensazione di essere stata ingiusta con te tutta la vita perché io stessa avevo subita un’ingiustizia.

Donami il vuoto. Svuotami la memoria.

Rendi questa canzone l’unica ragione delle nostre vite sospese.

“Non posso donarti la pace,

amor mio,

non posso donarti la pace.

Non posso comprarti la felicità,

amor mio,

come un pesce argenteo

alla fiera del paese.

Non riesco a trovarla,

amor mio,

la fine dell’arcobaleno.

Se entrambi tornassimo bambini

forse i sogni sarebbero gli stessi,

sarebbero gli stessi…

Non posso trovare la chiave,

amor mio,

che altri mondi possa aprirti.

Non posso difenderti dagli anni,

amor mio,

dall’incuria e dal gelo

e dalla spietatezza  del tempo.

Ma posso abbracciarti teneramente,

amor mio,

e a furia di carezze colmare il tuo dolore,

a furia di carezze calmare il tuo dolore.”

 

II

 

E mi circondi come il calore dell’acqua di mare riscaldata dal sole rovente d’agosto.

Coraggioso e incosciente ti immergi dentro di me con la sicurezza di chi mi conosce da sempre.

Teneramente assorto con caldo respiro modelli la mia anima inquieta attraverso la tua, trasfusa di calma luce, come il fuoco della fornace facilmente fonde il metallo.

Sei ovunque, sei mani, labbra, occhi, confusione di sensi, mentre un dito scivola lungo la spina dorsale l’altro mi attorciglia i capelli. Calore ovunque e lampi di luce e chiazze di nero. Scie di fuoco mentre galleggio nell’aria mi attraversano le braccia.

Non c’è più niente nell’universo tranne il mio corpo inchiodato al tuo, la mia mente annientata dallo scorrere liquido dell’ energia verso il centro del nostro essere. Non brucia. Scorre sopra e sotto di noi, sbatte dentro di noi ostinata come la risacca sulla spiaggia.

La eco corre lontana verso gli anni confusi in cui pretendevo di essere sola.

In un momento ho creduto che, atterrito, il gelo fosse scomparso per sempre.

Nel momento dell’annullamento mi sono ritrovata pura anima immortale mischiata alla tua e a quella dell’universo intero.

13 luglio 1789.

Siamo solo un uomo e una donna che urlano in questa notte nel tentativo di salvare una scheggia di vita in un mondo che va in frantumi.

Ci siamo quasi. La storia come un cavallo impazzito corre verso albe di sangue.

La notte non ci illuderà che per poche ore ancora. E quando il giorno rischiarerà le macerie nella città il nostro gemere nell’amore ci parrà molto dissimile dal lamento della morte?

Anime non adatte a questo mondo, spiriti incarnati per sbaglio in attesa di libertà: questo pensavo mentre mi sussurravi all’orecchio “resteremo nascosti nell’oscurità… abbracciati… ci sarà mai un luogo abbastanza buio per noi?”

Prima rosa in un inverno rigido e piovoso ho imparato a sopravvivere al buio senza mutare in forme orribili e contorte.

Ho costretto la mia anima nella forma richiesta dal destino.

Fu allora che iniziammo ad attendere.

L’ attesa, dell’uno e dell’altra: separati da mura, in stanze diverse e contigue, sommersi da incalcolabili distanze ma soggiogati dai medesimi tormenti, pensieri simili, raggomitolati in angoli opposti della mente.

Per lungo tempo il fuoco sollecito ha accecato l’ anima alla vista di colui che si consumava al mio fianco.

Ma una rosa resta sempre una rosa.

Ed una notte mi ha accompagnata a diventare tua per sempre.

Una notte ti ha ascoltato sussurrarmi all’orecchio: “Il tempo che attesi non pare più così lungo.”

Una notte, con gli occhi increspati di rugiada, mi ha guardato gridare al vento la follia della separazione.

L’insensatezza della tua morte.

Ed ora vorrei averti creduto anche solo un secondo. Vorrei essermi concessa il lusso dell’amore adolescente, dell’abbandono inconsapevole ed ingenuo.

Vorrei non sentire, anche in questo momento, il peso dell’indifferenza, della crudele vicinanza dei nostri corpi da sempre, della consapevolezza che, sebbene tanto offuscati, i tuoi occhi hanno saputo vedere meglio e più lontano.

Ora nell’amarezza di ciò che viene a mancare, nello stupore di ciò che ci ha abbagliato per una sola notte, nel silenzio assordante del respiro accelerato, nella folle visione notturna della violenza del desiderio a lungo represso, nei battiti di un cuore diverso dal proprio, nella certezza del nulla e nella pienezza di ogni cosa vissuta, scopro un battito d’ala.

Scopro che non te ne sei mai andato davvero.

Amore.

Non è più un’illusione.

Amore è ovunque tu sia.

Il mio respiro nell’intrico delle tue ciglia mi consegna al sonno.

Alla notte.

 

Fine

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(*) Il significato di questa frase è ovviamente riferito a Fersen. La mia Oscar lo ricorda nel significato più generale: ci sono cose nella vita che non si posso controllare per quanto esse ci facciano soffrire, per quanto noi ci si opponga con tutte le nostre forze.