Note autobiografiche: Rubinstein, Glass, Eno

 

 

(due pagine in fascicolo speciale musica),
in Ultrasuoni/Alias n. 32, il manifesto del 9 agosto 2003

 

 

ARTHUR RUBINSTEIN, Autobiografia, gli anni della maturità, Napoli 1991, Flavio Pagano Editore, traduzione di Maria Consiglia Vitale

 

“In quel periodo si stava diffondendo un’epidemia musicale: la pianola. Qua e là, in Europa, avevo sentito parlare di quest’invenzione di un certo Welte-Mignon, che dava la possibilità ai pianisti di ascoltare le proprie esecuzioni suonate da un altro pianoforte; tutto quello che bisognava fare era inserire un rullo di carta perforata in uno di quei moderni strumenti. Improvvisamente, i musicisti di New York non parlavano d’altro. I più interessati erano, naturalmente, i pianisti, dato che c’era da guadagnare un mucchio di soldi. In Europa, Busoni e persino Ravel furono indotti a provare il rivoluzionario mezzo di riproduzione. (p. 67)

 

Dopo la seconda guerra mondiale, Stravinsky era considerato da tutti come il migliore compositore del suo tempo. Richard Strauss, il suo rivale di prima della guerra, perse molti dei suoi ammiratori, in parte perché con l’andar del tempo divenne chiaro che la sua musica conteneva una certa evidente volgarità e in parte anche per la simpatia che aveva mostrato per il regime nazista. Quando tornò a Londra, il pubblico e la stampa lo accolsero con tutto il rispetto che si deve a un grande compositore. Intervistato, tutto quel che ebbe da dire fu: «Sono venuto a Londra solo per riscuotere i miei diritti d’autore, che aspetto da tanto tempo».Bartòk, una volta morto, divenne improvvisamente famoso, dopo una vita di lotta e stenti. Schönberg e i suoi due allievi, Anton von Webern e Alban Berg, diventavano sempre più importanti; il mondo musicale li ascoltava con sempre maggiore interesse e comprensione. Riguardo a Stravinsky : l’esaltazione e l’entusiasmo che avevo provato ai suoi primi balletti, L’Uccello di fuoco e Petrouschka, e la convinzione che La sagra della primavera schiudesse nuove vie alla musica, si erano affievoliti con gli anni. Scoprii che qualcosa di fondamentale importanza mancava nella sua produzione musicale: intendo dire un’invenzione melodica originale. Fu un grande choc, quando andai per la prima volta in Russia, scoprire che praticamente tutto il materiale melodico de L’uccello di fuoco e di Petrouschka  era stato preso da qualche ben nota tradizione folclorica e che, come tutti ormai sanno, aveva usato un valzer di Joseph Lanner e un motivo popolare francese per illustrare musicalmente la fiera pasquale di San Pietroburgo. In seguito non mi meravigliai affatto quando accettò di scrivere un balletto basato interamente su musiche di Tchaikovsky per la compagnia di Ida Rubinstein, ed un altro per Diaghilev su musiche d Pergolesi. Un particolare notevole era il modo in cui cambiava stile da un lavoro a un altro, come Picasso. Dopo il magnifico dramma orchestrale La sagra della primavera, si dedicò all’affascinante e lirica Histoire du soldat e più tardi a Les Noces, un brano stilisticamente ancora molto russo, ma adattato in modo del tutto originale: quattro pianoforti sostituivano la solita orchestra. Da allora in poi la sua musica fondamentalmente russa divenne sempre più internazionale. (p. 547)

 

Con l’andar del tempo la musica di Arnold Schönberg divenne più gradita alle mie orecchie. Il suo nuovo metodo e la completa atonalità continuavano ad essermi incomprensibili, ma iniziavo a distinguervi dei suoni inusuali, sì, però anche interessanti, e a volte belli. (...) Con l’opera di Berg Wozzeck mi sentivo ancora di più a mio agio; nonostante la grande influenza di Schönberg, la sua musica mi suonava piuttosto familiare e l’intreccio diventava più commovente ad ogni ascolto. Anton von Webern, il più importante allievo di Schönberg, fu accettato da tutti e personalmente posso solo dire che dopo aver ascoltato un’esecuzione di un suo lavoro desideravo sempre riascoltarlo. La mia profonda scontentezza per gli ultimi sviluppi della musica cominciò quando sentii alcuni dei lavori dei suoi maggiori esponenti: Boulez, Stockhausen, Cage, Nono e i loro tanti imitatori. (...) Non mi sono mai permesso di emettere giudizi sulle opere d’arte che non comprendo e sono in totale disaccordo con le persone che le rifiutano per pura e semplice presunzione. Tuttavia non accetto il modo in cui i compositori ultramoderni usano i nostri nobili e amati strumenti. Il trattamento arbitrario del pianoforte, che viene percosso con i pugni o colpito ritmicamente sui pedali, io lo considero un vero e proprio reato. La vera tragedia è che questa nuova corrente, che nega l’emozione in musica e in tutte le altre arti, è nata, secondo la mia opinione, dal mondo in cui abbiamo vissuto a partire dall’ultima guerra”. (p.549)

 

Tre brani di riferimento:

Fryderyk Chopin, Ballata op. 47 n. 3  eseguita da Arthur Rubinstein, in “Strumenti di una volta: il pianoforte automatico” (Fonè, 1990) 

Maurice Ravel, Sonatina, secondo movimento, eseguita dal medesimo Ravel, in “Welte-Mignon” (Intercord, 1986) 

Alban Berg, Sonata op. 1, eseguita da Alfred Brendel (vinile Philips, 1985)

 

Commento:

Bisogna avere tra le mani la ponderosa enciclopedia autobiografica del celebre concertista per lanciare uno sguardo su quello che doveva essere il mondo della musica colta all’epoca dei ‘pianisti di giro’, figure in via d’estinzione. Ci racconta della Ampico, del Welte-Mignon, dell’invenzione dei rulli perforati, registrandone l’interesse riscosso nel mondo dei compositori, i quali avevano finalmente la possibilità di tramandare il loro lavoro con tecniche di perforazione “a strati” e aggirando la figura intermedia dell’esecutore. I rulli rappresentarono una sorta di primitiva tecnica di riproduzione, in grado di anticipare l’idea di replicazione  delle idee musicali, cosa che ci permette oggi di ascoltare il modo di suonare di Debussy o Ravel. Il libro è anche un dizionario sui ‘nuovi’ compositori: Stravinskij, che viene condannato per le medesime ragioni per le quali, invece, viene oggi  rivalutato; Boulez e Stockhausen, dei quali si intuisce il disinteresse per tutto quanto è coinvolgimento emotivo e la predisposizione per lo sperimentalismo delle tecniche.

 

 

 

PHILIP GLASS, La mia musica, Roma 1993, Edizioni Socrates, traduzione Leda Spiller.

 

“L’ho detto più volte che sono diventato compositore d’opera per caso. Non mi ero mai riproposto di diventarlo, e ancora oggi uso la parola ‘opera’ con una certa riluttanza. Negli anni ‘50, quando ero allievo della scuola di musica, studiavo con zelo il repertorio lirico tradizionale e frequentavo regolarmente il vecchio Metropolitan nella 39a Strada a Broadway, dove, su nel loggione, per 50 cents si poteva seguire uno spartito. L’ascolto era perfetto, da lì, ma per vedere bisognava sporgersi in avanti e sforzarsi di guardare giù: una posizione non solo scomoda, ma anche decisamente pericolosa. Da questa prospettiva limite ascoltai - e, in un modo o nell’altro, vidi anche - un numero infinito di opere, sia vecchi cavalli di battaglia che cose più moderne: per esempio il modernissimo (tale, almeno, era considerato allora) Wozzeck. Erano frequentazioni obbligate, che dovevano servire ad affinare la mia educazione. Ero mille miglia lontano dal pensare che un giorno avrei potuto scrivere un’opera io stesso, e tanto meno che avrei trascorso la maggior parte dei miei anni maturi a comporre per il teatro. Avevo trentanove anni quando, di punto in bianco, con l’ Einstein on the Beach, mi ritrovai di fatto a lavorare nei teatri lirici. L’ Einstein fu presto seguito da altre due opere (Satyagraha e Akhnaten), che insieme formarono una trilogia di ‘ritratti’ teatrali-in-musica di grandi personaggi che in particolari momenti hanno monopolizzato la mia attenzione. Ero diventato un compositore d’opera. Ora, nello scrivere di queste prime tre opere ‘ritratto’, mi sembra che uno degli aspetti più interessanti della loro creazione sia proprio la sequenza degli ‘avvenimenti fortuiti’ che mi hanno fatto approdare alla lirica. Per questo, nonostante la mia intenzione di scrivere solo di queste mie opere, credo che dovrò invece cominciare la mia storia almeno da dieci anni prima, dal tempo del mio primo lavoro in campo teatrale a Parigi, verso la metà degli anni ‘60. Furono gli anni in cui il mio lavoro musicale e la musica per il teatro si intrecciarono inestricabilmente tra di loro. Senza dubbio furono il particolare tipo di teatro da cui sono stato sempre attratto e la musica per il teatro, per certi versi anomala, che io allora cominciavo a scrivere, a determinare quell’approccio personalissimo al dramma musicale (all’ ‘opera’, se volete) che caratterizza questa trilogia. (pp. 37 ss.)

 

Le idee che andavo scoprendo nel mio lavoro con Ravi Shankar e con Alla Rakha erano così nuove per me, e così grandi, che cercai subito di applicarle alla musica che proprio allora stavo cominciando a scrivere. Alcuni anni dopo, nel 1967, Ravi Shankar fu nominato professore aggiunto al City College di New York, e rimase a New York per l’intero anno accademico, insieme ad Alla Rakha (...). Le nuove capacità che avevo acquisito studiando con Mademoiselle Boulanger, e i nuovi orizzonti che quei primi contatti con la musica indiana mi avevano aperto, contribuirono in modo decisivo all’avviamento del mio nuovo linguaggio musicale. I miei contatti con l’ambiente teatrale e il gruppo di amici di teatro che frequentavo allora fecero da elemento catalizzatore, fornendomi l’occasione per sperimentare alcune di queste nuove idee in una serie di nuove composizioni. Mi ero accorto già che questi pezzi - la musica per il Play di Beckett e alcune opere da camera - suscitavano una resistenza violenta nei musicisti che avevo intorno. Avevo cominciato a lavorare in uno stile molto riduttivo e ripetitivo, che irritava profondamente la maggior parte dei musicisti che si imbattevano nella mia musica, così che questi si rifiutavano - senza mezzi termini - di averci a che fare. (p. 65)

 

Arte e cultura sono invenzioni. Siamo noi che le creiamo, e senza di noi non esisterebbero. Viviamo a così stretto contatto con la cultura che finiamo con l’attribuire all’Arte un’esistenza naturale e indipendente, che ovviamente non ha. Se gli uomini vivessero da soli, isolati gli uni dagli altri, per un periodo sufficientemente lungo, sono certo che smetterebbero di fare Arte, perché l’Arte esiste solo nel suo rapporto con la gente. Però nessuno può vivere solo, completamente isolato dal resto della società. Neanche l’eremita, perché anche lui si porta dietro, nel suo eremo, la Società. L’Arte, lo diciamo spesso, è una forma di comunicazione umana. La società e la cultura sono formate dalle cose che la gente crea collettivamente. E questo vale per l’Arte più che per qualsiasi altra cosa.” (p. 103)

 

Tre brani di riferimento:

Philip Glass, Koyaanisqatsi, dall’omonimo album (Island, 1983)

Ravi Shankar, Offering, in “Passages” di Shankar-Glass (BMG, 1990)

Philip Glass, Einstein on the Beach, opera in versione integrale (Elektra Nonesuch, 1993)

 

Commento:

Seduce in Glass l’idea di veder riprodotta musicalmente la reiterazione e la gestualità delle società post-industriali. Le musiche per i film di Godfrey Reggio ne sono forse la migliore rappresentazione. Quando però i primi pezzi minimal arrivarono al pubblico si registrò una reazione di forte ostilità, che ancora sopravvive in alcune posizioni dell’accademia e della critica militante.

“La mia musica” è il racconto autobiografico del percorso che, a partire dal 1969 e fino al 1976, con Einstein on the Beach, ha rinnovato le strutture delle forme musicali coinvolgendo perfino il genere operistico. ‘Chiave di volta’ della ricerca di Glass è il momento collettivistico, dove la ricerca non porta agli assolo cerebrali e solitari dei compositori ‘di penna’ ma tiene conto dei percorsi di senso che si innescano tra le persone.

La minimal si è infine radicata come rizoma nel nostro quotidiano; viene oggi usata per pubblicità o colonne sonore. Ha perfino perso quel carattere di ostilità che ne aveva caratterizzato le origini, diventando quasi rassicurante.

 

 

 

BRIAN ENO, Futuri impensabili, Firenze 1997, Giunti, traduzione di Paolo Bertrando e Gianrico Bezzato

 

“Ti ho visto in TV l’altra sera. (...) Eri molto chiaro, con un’aria da vero guru, e ho pensato che dovresti sempre parlare indossando cappello e occhiali scuri (...). Ma qualcosa mi ha colpito davvero con forza. Da una parte c’era Kevin a fare il panegirico della rivoluzione tecnologica e di ciò che significa in termini di acquisizione di potere e libertà. Ma alle 21.00, proprio dopo il programma, c’era il notiziario: un gruppetto di matti, a Tokyo, ha mandato tremila persone all’ospedale. Mi ha colpito molto (di nuovo) che più noi rendiamo il nostro mondo ‘ricco di connessioni’, più lo rendiamo vulnerabile. L’acquisizione di potere va in due direzioni: più cresce la complessità delle cose, più cresce la capacità di destabilizzarle da parte di un numero sempre più ridotto di persone. Questo, mi colpisce, è il vero limite dello sviluppo... Che accettiamo la minaccia del terrorismo come limite della nostra possibilità di rendere complesso il mondo. Così la visione dell’Utopia tecnologica, un futuro ricco di connessioni, non si avvererà mai... Non perché non sia possibile (tecnicamente) farlo ma perché, riconosciuta la sua vulnerabilità, ce ne asterremo. Così io mi aspetto che si raggiunga un limite, un’idea di trattenersi da ciò che è possibile. A sua volta seguito da ondate di nostalgia-per-il-futuro-che-avrebbe-potuto-essere. Canzoni country che diranno: «Avremmo potuto avere tutto» ecc. cc. Un senso di delusione verso noi stessi... Forse come quello che pervase l’Europa al tempo del fallimento della Società delle Nazioni. (p. 77)

 

24 Marzo. Provare qualche canzone country da una prospettiva futura.

Regole per oggetti-trovati: gli oggetti devono essere abbastanza piccoli da starmi in tasca, liberi (scartati) e trovati nella camminata mattutina tra la stazione di Wembley e il Magazzino Ghiande. (...) Mi ci è voluto Face Of The Gods per ispirarmi. Due cose mi colpiscono: 1. usa tutto quello che hai sottomano; 2 se non la chiami ‘arte’, hai più probabilità di ottenere un buon risultato. (...)

Modi di far entrare l’Africa nel modo in cui sentiamo.

25 marzo. Due suoni hanno tenuto. Comprato trapano elettrico, lunghe punte di trapano, asciugacapelli (...) Radio a onde corte / Trovare registratori auto-reverse / Sorgenti d’energia / Stendere i fili - grandi altoparlanti nelle sale A? Pannelli di plexiglass opalescenti / Piccoli attrezzi / Blu-Tack / Filo da pesa / Altra radiolina. (pp. 77-78, abstracts)

 

Nuove misure di valore. Bene, una delle funzioni degli artisti (e di altre figure sciamaniche) è quella di investire di valore aree differenti del mondo. Cose che pensavamo di non volere o cose che non avevamo notato di avere, d’incanto ci ammaliano e diventano cariche di significato e di pregio. E’ un concetto analogo a quello dello scoprire un’ ‘anima’ in tute le cose... La base delle religioni animiste. Pensa, ad esempio, alla distorsione: tutto ciò che la tecnologia fa e che non volevamo che facesse. Pensa a come impariamo a leggere la ‘distorsione’ come evocazione di nuovo significato... In questo modo la grana delle pellicole 8 mm viene a significare urgenza, dilettantismo, l’incalcolabile momento catturato per caso e senza preparazione. La chitarra in saturazione viene a connotare l’idea di rottura degli schemi e dell’attrezzatura, creando qualcosa che non può essere contenuto - e ciò aggiunge una parte totalmente nuova alla gamma espressiva di una persona, in quanto diventa possibile giustapporre cose che possono essere contenute a cose che ‘non possono esserlo’. Il concetto d’artificio è un altro passaggio interessante... Quando qualcosa cessa di essere un ‘sottoprodotto’, una ‘conseguenza’ un ‘effetto secondario accidentale’ e diventa invece parte di una terminologia accettata, pur mantenendo in parte le risonanze della sua accidentalità originaria. Tutti questi processi aggiungono pregio, infatti creano valore indirizzandolo dove prima non esisteva. Questo mi sembra un tentativo umano essenziale di non dare il mondo per scontato... Cercare di guardare ogni cosa come se esistesse per scopi che noi forse non abbiamo ancora scoperto o compreso. Il mio amico Peter Schmidt era solito dire: «Non fare le cose che nessuno a mai pensato di non fare», che è il processo inverso - dove si esclude la premessa che tutti fanno sempre e si sta a vedere cosa succede (esempio: la premessa che Cage escludeva era che la musica dovesse essere fatta di suoni prodotti intenzionalmente). In questa versione del processo si scopre valore nell’assenza di qualcosa... Infatti si scopre che l’assenza di qualcosa rivela qualcos’altro.” (p. 237-238)

 

Tre brani di riferimento:

Brian Eno, The Lost Day, in Ambient # 4, in On Land di B. Eno (Virgin, 1982)

John Cage, Cheap Imitation (Cramps, 1989)

Negativland, Don’y fool me, in “Deathsentences of the polished and structurally weak” (Seeland, 2002)

 

Commento:

Non linearità, tecnologia, artificio, consapevolezza dell’intreccio tra nuove estetiche e società del futuro. Distorsione, uso degli ‘accidenti’,  di oggettini e giocattoli che permeano, affogano, reificano infine la nostra quotidianità. Brian Eno li usa nella sua musica per generare stupore, desituandoli, collocandoli fuori contesto. “Futuri impensabili” è pieno di annotazioni, anche ipertestuali, sulla musica dell’avvenire: vi si racconta della sottrazione che paradossalmente aggiunge senso ai discorsi e porta all’attenzione, della ‘saturazione’ dei suoni, equivalente all’ overbuffer delle informazioni, all’insofferenza per dati che si sovrappongono e mascherano i significati.

La ‘Ambient’  viene dagli arredamenti di Satie e transita per gli “spazi sonori totali” di Cage. Anche “in questa musica nuova non accade niente altro che suoni”. Ma i silenzi dell’attenzione di Eno non sono più le pause di Cage;  equivalgono allo sprofondamento in lunghi bordoni, all’assenza di valore dei delay return infiniti, che fanno ‘rallentare’ le persone e propiziano un ritorno al pensiero. Deviazione degli oggetti divergenti, ritorno di senso.

 

Autore: Girolamo De Simone

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