Ippopotami notturni. Alla radio

 

 

(rubrica su Einaudi-Chailly-Stalteri ed il corso della border music),
in Ultrasuoni/Alias n. 4, il manifesto del 26 gennaio 2002

La musica di Ludovico Einaudi è certamente ‘radiogenica’, vale a dire che, seguendo certi criteri messi a punto negli anni, essa viene trasportata dalle emittenti radiofoniche in modo ottimale. Il suo ultimo disco, “I giorni” (Bmg), diventa ben presto un ‘cult’, annunciato dalla voce suadente di speaker non italiane, voci che fanno compagnia di notte, quando si viaggia.  Lo trovi più facilmente nelle cittadine di provincia: i megastore della cultura l’hanno esaurito, e si sono affannati a procurarsene scorte molto più ampie. Lo ripongono sul bancone, nella bacheca-icona del “disco che state ascoltando”. “I giorni” arriva al pubblico dopo il successo di alcune colonne sonore (musica versus immagine), di ampi reportage sull’Africa pubblicati da settimanali patinati, per andare un po’ verso il villaggio globale, e suggerire ancora il viaggio. Nelle poche note di copertina, il lamento di una civiltà che cambia, quella del Mali, con il mantra dell’ippopotamo ucciso dal cacciatore, l’ippopotamo che viveva all’incrocio di due fiumi, e che viene ora ricordato come se fosse stato l’ultimo grande re, o l’ultimo grande amore.

Anche Cecilia Chailly ha pubblicato da poco un nuovo disco. Si chiama “Ama” (Sony), e si inserisce nel filone della new age ‘evoluta’, quella che vuole combinare la provenienza dal mondo della musica strumentale colta con la ricerca di una nuova possibilità di fruizione.

Einaudi si rivolge al mondo della ballata, semplifica il minimalismo di Philip Glass e lo rende gradevole sfondo sonoro, Cecilia Chailly sperimenta la forma canzone, introduce voce e percussioni. Le ‘canzoni’ che si susseguono nel cd sono mediamente più lunghe di quelle di provenienza pop, c’è l’arpa elettrica e quella acustica, ed in generale una estetica di ‘presenza’ del suono, una interferenza con il mondo del rock appena mediata dall’uso di strumenti etnici come darbouka, djeridoo, etc. Presenza più che sottrazione: il richiamo va al metodo classico della ‘orchestrazione’, e si tratta certamente di una scommessa coraggiosa.

In passato, i due avevano anche lavorato insieme, ad un disco intitolato “Stanze” (Ricordi). C’era complessità e semplicità, presenza e sottrazione, allo stesso tempo. Profondità armonica, effervescenza strumentale, effusività melodica: una alchimia, forse un capolavoro.

Una strada ulteriore è quella di Arturo Stalteri. Uno che da tempo esplora il confine tra i generi, che ha assimilato linguaggi plurimi, che può triturarli come per gioco e riassemblarli in modo scoppiettante, gioioso. Nei suoi dischi, che non a caso riscuotono un sempre maggior gradimento anche all’estero, può trascrivere, ma è molto meglio dire ‘ricreare’, Brian Eno, o Philip Glass, eppure dettare la sua cifra stilistica, come nella recentissima nuova versione di “Siryarise” (Materiali Sonori). Conservare il gioco del rimando, del rinvio ad altro, che è poi tipico della storia della musica colta, oppure inseguire sogni gitani, come fa nel recentissimo “Gypsies” (Materiali Sonori), con Dorado Cortjzo, Giampiero Bigazzi, Ismail Saliev.

Autore: Girolamo De Simone

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