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A CASA DI CORNELIO

Scuola della Parola 2008/09


Tutto io faccio per il Vangelo… (1Cor 9,22-23)
Scuola della Parola (1)


16 ottobre 2008


Siamo alla VI edizione di Scuola della Parola. Ad accompagnarci quest’anno sarà l’apostolo Paolo di cui ricorre il bimillenario della nascita. Pur ascoltando brani delle sue lettere durante la liturgia in realtà Paolo resta figura sconosciuta ai più.


Paolo è colui che per primo ha provato a dare un assetto alla teologia cristiana. Uomo moderno, Paolo, la cui forza risiede proprio nella capacità di tenere insieme da una parte la sua integrità (uomo integro, non rigido) dall’altra l’insicurezza della sua posizione. Uomo complesso, che ben riflette il nostro tempo. Molto diverso da Pietro: segno che il modo di esprimere la fede non è unico ma personale, proprio di ciascuno di noi.


Un uomo che si può incontrare solo nella misura in cui ci si apre all’universalità. Egli appartiene a tre mondi e a tre culture: ebraica, greca e romana. Cresciuto in un ambiente familiare, intellettuale e religioso in cui si incrociavano il mondo semitico, quello greco e quello latino, si trovò senz’altro favorito nell’assumere un atteggiamento di apertura ad altri mondi culturali. Forse proprio per questa sua molteplice appartenenza Paolo viene chiamato dal Signore ad essere segno di una salvezza offerta a tutti, giudei o greci. E per fare questo ha accettato il rischio di porsi su una barca instabile pur di raggiungere tutti, gettando una rete nell’oceano abitato da qualunque tipo di pesce, in nome di quell’agàpe che nessuno esclude. Un ministero, quello di Paolo, eterogeneo e accogliente.


Fu lui il massimo artefice dell’apertura della prima comunità cristiana a quelli di fuori. Fu lui a intraprendere un coraggioso tentativo di dialogo culturale con il mondo greco come attesta il suo discorso nell’Areopago (At 17,22-31). Senz’altro uomo di più grandi visioni e dal respiro immenso.

Saulo si racconta: da persecutore a confessore
Chi è Saulo?
È lui stesso a fornirci qualche indicazione qua e là nelle sue lettere:
“Circonciso l’ottavo giorno… ebreo figlio di ebrei; riguardo alla legge, fariseo” (Fil 3,5);
“Io sono nato a Tarso in Cilicia, ma allevato in questa città (Gerusalemme) e istruito ai piedi di Gamaliele per oltre cinque anni nell’esatta conoscenza della legge dei nostri padri, pieno di zelo per Dio” (At 22,3);
“Per zelo, persecutore della Chiesa di Dio, e in quanto alla giustizia della legge, irreprensibile” (Fil 3,6).
Ma tutte queste cose che per me erano un guadagno, io le ho stimate invece una perdita per amore di Cristo…” (Fil 3,7-8).
Un forte elemento di rottura fa da spartiacque nella vicenda di Paolo: l’incontro con Gesù di Nazaret sulla via di Damasco segna l’abbandono di tutto il suo passato e l’apertura a nuove prospettive religiose per sé ma anche per gli altri. La sua esistenza nettamente divisa in due da un incontro che lo ha trasformato. Non ha conosciuto come accade alla maggior parte di noi un percorso graduale che è andato perfezionandosi nel tempo. Per lui la prospettiva è mutata radicalmente e per sempre. O il sistema religioso che si rifaceva a Mosè e alla legge o Cristo. Prima era legato anima e corpo al primo campo, dopo Damasco ha sostenuto il secondo contro il primo.
Cosa accadde a Damasco? E chi era il Paolo in cammino verso Damasco?
Uno che, sulle basi di una forte ortodossia religiosa, acquisita a Gerusalemme, intravedeva nel movimento che faceva capo a Gesù di Nazaret un grande rischio per l’identità giudaica. Come era possibile sostenere che per essere giusti davanti a Dio bisognava credere in Gesù Messia crocifisso, che si doveva ritenere solo scandalo e maledizione?


A Damasco accade un riconoscimento: prima ancora che essere Paolo a riconoscere il Signore è il signore stesso che riconosce Paolo. “Saulo, Saulo…”: Paolo si sente riconoscere come persona al di là di quello che egli stava facendo, che sia stato buono o cattivo. Lì, in quell’essere chiamato per nome, c’è tutta la fiducia di Dio per lui, nonostante andasse a perseguitare i cristiani.


Resterà cieco per tre giorni: un’esperienza di buio per ripensare la sua storia.


Egli scopre di non sapere chi è Dio, nonostante gli studi e tutto il suo impegno nella religione. Altro è Dio. Avrà bisogno di un fratello, Anania, per farsi aiutare a trovare Dio che lo chiama. Anania è il segno che il cambiamento non è solo interiore, in termini solo individualistici, ma all’interno di una comunità dove gli altri non sono accidentali ma fondamentali per aprirsi al Dio rivelato da Gesù. Forse possiamo comprendere da qui l’insistenza di Paolo nell’invitare le comunità a ricercare la comunione fraterna e l’unità.


A Damasco Paolo è chiamato a dare un nome alle sue ombre, alle sue paure, alle sue insicurezze che fino a quel momento erano ben coperte e difese attraverso successi, proiezioni e arroganza. A Damasco Paolo è rimasto davanti a Dio con tutto se stesso, sentendosi chiamato non per quello che aveva realizzato, ma unicamente attraverso la benevolenza di Dio. Questa percezione della scelta gratuita da parte di Dio non lo abbandonerà mai più: amato da Cristo mentre ne era avversario.


A Damasco percepisce che Dio chiama e ama nella debolezza, rendendolo non meno forte di prima, ma più consapevole, docile, disponibile. La sua personalità non è annientata ma riletta. La forza di prima gli permetterà di affrontare pericoli, fatiche, ansie, persecuzioni.


Quell’incontro fa di Paolo il persecutore Paolo il confessore della nuova fede. Verso Damasco persecutore e perseguitato si ritrovano faccia a faccia l’uno con l’altro. Cristo affascina proprio colui che più lo combatteva. Per Paolo resterà chiaro: non è stato lui a convertirsi a Cristo, ma Cristo lo ha convertito a sé. Quel Gesù che egli rifiutava gli si è mostrato agli occhi della sua anima vivo, presente, come uno che gli veniva incontro. Anzi, Gesù si identifica, fa tutt’uno con i credenti in lui: io sono Gesù che tu perseguiti (At 8,5). E se ciò che più ci ostacola custodisse anche per noi una particolare rivelazione di Dio?


In quel momento Paolo comprende tante cose:


· Dio gli ha mostrato Gesù come suo Figlio, mediatore di una salvezza che non è solo per i giudei ma anche per i pagani;


· conoscere lui vale più di ogni altra cosa;


· l’uomo è giusto (occupa cioè il suo vero posto davanti a Dio) solo per grazia e per fede, non già in virtù delle opere che la legge mosaica prescriveva (Fil 3,7-11).


Fino a questo momento il Crocifisso rappresentava per lui solo un povero e miserabile illuso che la sua tragica fine aveva delegittimato di ogni attendibilità, maledetto da Dio agli occhi di tutti gli ebrei che sapevano bene ciò afferma la Scrittura: maledetto chi pende dal legno (Dt 21,26). Lì a Damasco comprende che proprio il maledetto è motivo di benedizione per tutti i pagani.


Messo sulla bilancia da una parte il suo passato di ebreo privilegiato per nascita e per scelte e comportamenti di vita e dall’altra Gesù Cristo e la conoscenza di lui, il piatto pende decisamente verso quest’ultima. La scelta non è tra il meglio e il buono ma tra guadagno e perdita, vantaggio e svantaggio.


A Damasco scopre una diversa scala di valori: ora il segno meno è assegnato alla sua passata posizione di forza e di gloria. Paolo incarna il contadino di Mt 13,44-46; “avendo trovato un tesoro nascosto nel campo… pieno di gioia va a vendere tutto quello che possiede e compra quel campo”. Rinunciando alla giustizia che deriva dalla legge Paolo si ritrova un rapporto con Dio rettificato. Non è l’appartenenza ad un popolo che dice l’appartenenza a Dio. E allora Paolo sceglie di essere posto alla pari di quanti pativano l’handicap nativo della propria esclusione dall’alleanza.


A Damasco Paolo vive una esperienza di grazia che gli restituisce la consapevolezza di essere amato da Gesù Cristo: “questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).


A Damasco il persecutore Paolo è trasformato in credente in Cristo e suo apostolo. E non un apostolo qualunque ma apostolo dei gentili (dei pagani) (Gal 1,15-16).


Il Paolo convertito da Cristo non è un uomo irreligioso. Tutt’altro. Il suo pedigree di ebreo è invidiabile. Credente nel Dio unico, fedele osservante delle prescrizioni della legge, persecutore della Chiesa di Dio. I suoi occhi erano luccicanti di fanatismo. Ebreo con la spada in pugno. Gli sta a cuore difendere la causa del suo Dio che ha stabilito un’alleanza con il suo popolo e ha dato una legge da osservare scrupolosamente. Strenuo difensore dello status quo, non senza aggressività e oppositore agguerrito nei confronti di ogni novità. Presente, anche se non attivo, al linciaggio di Stefano (At 7,58; 8,1; 22,20), ad un certo punto appare non tanto come un persecutore ma la persecuzione fatta persona. Non risparmia nessuno: prima la comunità di Gerusalemme, poi quella di Damasco. È addirittura un sanguinario: “io perseguitai a morte questa nuova dottrina” (At 22,4). Si comprende perciò lo stupore e la lode a Dio da parte delle prime comunità quando vengono a sapere che “il nostro persecutore di un tempo ora annuncia quella fede che allora cercava di sradicare, e glorificavano Dio a mio riguardo”. Così scrive lo stesso Paolo in Gal 1,22-23.


Quello di Damasco non è un vero e proprio evento di conversione ma di rivelazione. E tuttavia il Signore chiese a Paolo altre conversioni.


Dovette imparare a convertirsi ai progetti di Dio, mettendo da parte i propri: avrebbe voluto cominciare la sua missione da Damasco dove Gesù gli si era manifestato, ma gli fu impedito e lo stesso accadrà a Gerusalemme. Nel secondo viaggio missionario avrebbe voluto fermarsi in Asia Minore, ma lo Spirito glielo impedì (At 16,6-7) e lo chiamò in Macedonia.


Dovette poi imparare a convertirsi ai tempi di Dio: dovette attendere anni lui che che con foga voleva buttarsi nella missione.


Inoltre dovette imparare a convertirsi ai modi di Dio: anche il fallimento e la personale esperienza di fragilità non erano da considerare materiale di scarto ai fini della realizzazione dell’universale progetto di salvezza.


Damasco rappresenta il tempo della svolta, una vera e propria esperienza di crisi: Paolo sembra essere passato da una sorta di perfezionismo, dove contavano le riuscite, il dovere, l’osservanza dei comandamenti e Dio era piegato al proprio schema mentale, a un diverso modo di comprendere le cose. Se prima era Paolo che con la sua stessa volontà, con la sua irreprensibilità e arroganza gestiva la relazione con Dio, ora egli impara ad affidarsi a Dio e a lasciargli le redini della sua vita.

purché Cristo sia annunciato


Se c’è una espressione che in qualche modo racchiude tutto di Paolo questa la si può ravvisare in Fil 1,18: purché Cristo sia annunciato.


Una vicenda piuttosto complessa quella di Paolo ma con questo unico motivo di fondo: far conoscere Gesù Cristo. La strada è il suo luogo abituale di vita e il viaggio la sua condizione. L’orizzonte è il mondo intero (2Cor 11,23ss). E allora ecco i viaggi per terra e per mare, in regioni montuose e deserte, i naufragi, le persecuzioni, i disagi di ogni tipo. In brevissimo tempo tante le distanze percorse e le comunità fondate. Sa che il vangelo cammina con le gambe dei suoi annunciatori. E dove non può arrivare con le sue gambe affida alle sue lettere non tanto il suo pensiero quanto la sua sollecitudine e il suo amore per le comunità nate sul suo cammino.


Paolo privilegia i grossi centri, le grandi città, i luoghi di snodo. Pur muovendosi continuamente un grande affetto lo legava alle comunità fondate, come testimoniano le sue lettere. Capace di tenere insieme da una parte la vastità dell’impegno e la fretta per raggiungere più luoghi possibili e dall’altra la responsabilità verso le comunità fondate e perciò l’esigenza di fermarsi o di ritornare. Sebbene spesso in movimento mai superficiale, uomo universale e al contempo capace di comunione. Uomo a servizio della comunione tra membro e membro delle singole comunità, tra gruppo e gruppo e soprattutto tra comunità di tipo giudaico e comunità di tipo ellenistico. Favorirà una colletta per i cristiani poveri di Gerusalemme che non è semplicemente un dono ma uno scambio: i cristiani di Gerusalemme condividono la propria ricchezza spirituale e le altre comunità provvedono alle loro necessità materiali. Ognuno dona quello che a sua volta ha ricevuto. Misura del proprio dono il dono di Dio stesso che da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà (2Cor 8,9).
Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo (1Cor 9,22-23). Paolo è un uomo che ha molto chiara la motivazione su cui gioca la vita (tutto per il Vangelo). Questa consapevolezza è ciò che gli fa vivere nella libertà e con maturità le relazioni interpersonali.
Il suo farsi tutto a tutti non è secondo una logica di superficialità o di svendita della propria personalità, ma è espressione di un amore non selettivo né esclusivo né interessato. L’unico intento è quello di portare gli altri nella relazione con Gesù e dalla relazione con Gesù arrivare agli altri.

Nel rapporto interpersonale ha dovuto fare i conti con la diffidenza: “venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo” (At 9,26).

Ha poi dovuto imparare a gestire i conflitti: “ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto” (Gal 2,11).
Ha imparato a stare a contatto con la propria fragilità: “mi è stata messa una spina nella carne… perché io non vada in superbia” (2Cor 12,7).
Ha conosciuto anche la tenerezza delle relazioni: “tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto” (At 20,37-38).
Ha sperimentato e promosso uno stile del prendersi cura: “ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo… Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore” (Fm 1,10-12).