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eventi

 

28 marzo - 20 aprile 2009
Personale dell’artista:
Giuseppe Di Franco

"Esasperatismo a Napoli. Dentro e fuori le mura."

A cura di  Adolfo Giuliani
Presenta:  Clementina Gily.

 

Esasperatismo a Napoli.
Dentro e fuori le mura.

di Clementina Gily

cover.jpg (11874 byte)Esasperatismo a Napoli –Dentro e fuori le mura” è una mostra in cui il commentatore guadagna ad essere più un professionista di estetica che di storia dell’arte, perché Di Franco è un artista che molto pensa e scrive sul suo lavoro. Tutti gli artisti compongono sulla base di una poetica, che solo alcuni scrivono - e così facendo aiutano a correggere le teorie sull’arte, che a lungo sono state troppo attente al sentimento ed alla carica irrazionale. Certo, dal 700 almeno la filosofia riconosce la componente conoscitiva dell’arte, ma l’impeto del sapere fantastico, come diceva Vico, sconcerta il filosofo, lo induce più all’entusiasmo che all’analisi, proprio perché tende ad esagerare pensando al rigore e alla misura della logica. Tutt’oggi – e lo mostrano le poetiche di Van Gogh, di Degas, di Klee, le estetiche di Anceschi e di Trione – sono perciò gli artisti le guide più affidabili del cammino dell’estetica, anche se le filosofie dell’arte sono il fondamento e l’inquadramento del problema – e un artista sa che la cornice e il quadro sono la via stessa della luce.

Le poetiche tolgono l’impressione più nociva ad intendere l’opera d’arte, che è l’idea dell’immediatezza dell’immagine, che essa si capisca al primo sguardo. Questa idea sbagliata non è un frainteso che deriva da quella tanto criticata teoria del genio (che è recente e piuttosto ne deriva) ma proprio dalla natura dell’immagine. Sembra prodotta di getto, se è riuscita; il suo scopo è di connettere frammenti non rigorosamente relati, costruendo un ordine apparentemente casuale che dimostri coerenza. Se il lavoro è andato a segno, ne risulta una esperienza, e di qui viene l’impressione di immediatezza: che è falsa, perché al primo sguardo l’opera d’arte si riconosce, ma non si capisce. Simile unità è di tutte le immagini, in parole e in figura dicono la melodia del concetto, la perla di vetro che agglomera coriandoli – Epicuro avrebbe detto che il vaglio indirizza gli atomi per peso nella stessa direzione costruendo corpi; concretamente, è la professionalità dell’ordine fantastico, la sapienza/esercizio della mano a compiere l’opera. Cosi, laboriosamente dotata di forma, solo allora l’immagine splende.

Il mistero, cioè il punto dove si ferma la conoscenza e si apre il silenzio, è appena oltre. Ma quel che è in vista provoca compiacimento, dice Kant. Come l’attimo di Goethe – è il - fermati, sei bello – che istituisce l’opera per chi la guarda; ma in verità anche per l’artista che la fa. Infatti, quando racconta la sua creazione, sempre l’artista sottolinea l’importanza del fare quotidiano, della messa in forma, della ginnastica della mente che è conoscenza estetica e piacere del riconoscimento. Come una vita, come una scultura, pezzo dopo pezzo, l’opera assembla il puzzle nella luce.

Esasperatismo a Napoli comprende una serie di pittosculture, dette così per il carattere composito dei colori, che in realtà solo in parte sono tali. Sono anche materiali assemblati alla stessa chiave armonica di lettura, che si relazionano al resto donando spessori scultorei. La maggiore ricchezza del colore e della proposizione non copre la confusione di materiali ma scopre l’ordine in sordina., la linea unitaria cui tutti si tengono. Mentre spesso accade che l’interesse materico prenda la mano e l’interrogazione dell’artista sia dominata dal materiale, qui resta protagonista la luce; piega materie e colore a dire il paesaggio della mente, sino alla nascita, segnata dall’imposizione del nome – quando, cioè, si prende coscienza dell’accaduto.
Peppe Di Franco è medico e grande lettore; le brochure delle sue mostre sono piene di riflessioni che portano la discussione su livelli di analisi culturale, più che di poetica. Molto meditata, molto preparata, rispetta meno di altri artisti la necessaria inconsapevolezza del percorso; eppure, anche in lui, il nome segue l’attività fabbrile, in quanto trae le conseguenze del lavoro compiuto.

Come medico, si è dedicato all’arte nei momenti di pausa; ma contrariamente ad altri non ha custodito il suo spazio di libertà, ed è diventato esperto in arteterapia; perciò, ha coniugato cura e conoscenza dell’’infinito. Qui va visto il motivo per cui tanto ragionare non è sfociato nell’intellettualismo di chi non trova la speranza, o la forma, ma invece è confluito nella partecipazione umana e sociale. La sapienza della mano ha così appreso a seguire la mente, per scrivere simboli che traducano concetti in immagini. Giordano Bruno, maestro di quest’attività, vide la figura ben riuscita eguale al concetto vero: dice un solo punto, ed è chiave di volta. Passione e sapere sono il conoscere dell’arte.
Facile capire così la pronta adesione al movimento dell’ESASPERATISMO lanciato nel 2000 da Adolfo Giuliani, che ha modellato il suo medium nella realtà di un bidone di scarto, spostato dai commessi da un negozio all’altro per evitare i parcheggi abusivi durante i lavori della metropolitana di Napoli. Gli accadde perciò di assurgere a testimone muto, orgoglioso del suo riuso, partecipe della vita della città, della sua speranza, della sua inettitudine, della sua operosità. Medium che Giuliani stesso per primo ha interpretato laccandolo rosso e nero, i colori del vulcano, e da Napoli ha lanciato l’immagine oltre i confini regionali e nazionali, allestendo mostre di qualità e di ottima partecipazione.

Il bidone è un athanor, dice Di Franco, uno spazio esoterico. Perciò come molti spazi esoterici sta completamente nascosto nel quotidiano, pur restando carico del suo mistero oscuro. L’animismo magico lo carica di voluttà di essere e celarsi, di sembrare dimenticato e ricco di un intero protagonismo di sensi. In questa sua veste straordinaria, il medium si è prestato ad ogni versione, solida, pittorica, onirica, di denuncia, mitica, esistenziale, restando sempre testimonianza di uno strazio.
Avere un bidone non è una cosa gradita. Ci si può mettere la polvere delle stelle, bidone resta. Ma prendere dalle stelle silenzio e voce è transustanziare: ed ecco l’elegante trasformazione, la nascita del nome che nobilita la rabbia in indignazione, in pacata pretesa di rispetto, in cocciuta persistenza nell’ingombro, in un sit in gandhiano.
Il termine ESASPERATISMO, inesistente, ha il potere magico del Verbo, di trasformare l’esasperazione da traffico con gesticolo in categoria dello spirito. La sostantivazione dell’aggettivo eleva l’ara al Dio Sconosciuto, pone la giusta ribellione del napoletano – sempre piena di umorismo e poesia - contro la città ostile. Su di essa occorre immolare il sacrificio per sublimare l’offesa in nuova vita – il bidone è un capro, non una vittima ma un simbolo, che proprio perciò nel tempo ricorda come non vi sia trapasso senza aver toccato il fondo per risalire digrignando i denti a sbranare la mattina.
Non era alle sue prime esperienze estetiche Di Franco quando nel 2000 nasceva l’ESASPERATISMO. Nel suo percorso era già facile vedere prender corpo una matura e cocciuta partecipazione, che la collana attuale, ora in mostra, indica. Gli elementi compositivi si sono complicati in successive esperienze; dopo il disegno e la pittura già con il collage iniziava la frammentazione alchemica, indirizzata al nuovo mondo. Non si può vivere oggi senza avvertire la rivoluzione epocale del mondo della tecnica, che entra nelle case, nelle tasche, nella mente. Il futurista ha sentito giusto un secolo fa lo tsunami sin dal primo apparire. Ma poi tutti gli artisti hanno modulato il disorientamento, indirizzato il passo alla nuova misura, fatto i conti con la tradizione risistemandola. Il collage e tutte le esperienze affini meditano la necessità della decostruzione e deframmentazione, come direbbe Derrida, del nuovo spazio e del nuovo tempo che ricompone diversamente i testi senza alterarne le parti; ridando al puzzle il dettaglio ben detto ma senza sintesi perché sia il libero accostamento a indicare un altro senso. Una lunga stagione dedicata a questo compito, nel collage e nel disegno di collage, ha portato Di Franco a risultati di armonia, poi complicata dalla tridimensionalità, dall’irruzione della materia nella pittoscultura.
Ma se la modernità è frammento, è anche macchina, come mostra la collana Opus, dove una serie di macchinari ricordano che se l’organismo si compone sempre di pezzi, così la macchina; è la funzione che fa unità, sono simili i tempi di apertura e chiusura, di passaggio fluido, di fine che supera le parti. Nella catena dei dettagli è la chiave dell’intero, ma solo il senso supera i fini particolari e ricompone lo sfondo connettivo, il fine. Perciò, a fianco alle macchine Di Franco pone simboli; nella brochure della mostra ne fa un indice, solo parzialmente tradizionale. Macchine d’imitazione, macchine per sapere, per abitare, per vivere; macchine del tempo, infine, per regolare l’andare dei momenti della solitudine, delle ore che si dipanano l’una dall’altra e si affastellano raccontando le estasi degli istanti, il tempo non -tempo delle stagioni che influenzano ogni cellula e ogni sentire e volere. Estasi che danno forma a simboli scritti con una ventata di attenzione.
In questo percorso il bidone si presenta come il simbolo vivo, forse perché una delle caratteristiche del simbolo è appunto la condivisione. Il simbolo riconosciuto diventa fil rouge di successive evoluzioni, tante volte laccato si fa poi disegno che riassorbe la materia nel colore – ma sempre indica lo spazio dove tutto nasce e tutto torna. Sono diverse le collane di opere presentate, ed hanno una sorta di principio e fine, anche se le tappe s’inanellano come nel gioco dell’oca, non si va sempre avanti; ma quando la collana è compiuta, però, si sa che la via è finita e va oltrepassata. Anche in un artista così propenso all’approfondimento intellettuale, il work in progress cambia pagina da solo, forse malvolentieri.
In questa mostra, pare sia questa la consapevolezza che emerge. Si prende atto dell’alternarsi delle fasi di presenza e di silenzio in un percorso finito, dell’evoluzione dotata di senso e di decorso; come in ogni labirinto, c’è una via segnata, ma poi ci sono mille intersezioni e nuove creazioni. La coscienza della collana compone le unità in un intero, e val la pena di chiamarle stazioni – perché il nome è suggestivo, indica come il quadro sia una pausa di meditazione ed un punto di partenza e di ritorno. È la riflessione dell’artista sulla città offesa, questa Napoli che si fa amare ma che soffre di malanni insanabili. Sinora: la speranza è sempre dura a morire, quando si ama.
L’ESASPERATISMO nacque in anni di fermento e speranza, il rinnovamento pareva vicino. Tante cose poi sono successe. Il bidone può ancora fare da medium, perché nel suo riuso di simbolo laccato, è assiso con tutti gli onori ad osservare gli eventi. L’athanor ribolle della speranza in un futuro diverso e inizia il percorso, che così descrive l’autore

Esasperatismo a Napoli è il nome dell’opera esposta a Castel dell’Ovo nel novembre 2007 per la seconda mostra internazionale dell’Esasperatismo: una pittoscultura su tela che descrive uno spaccato degli agglomerati-palazzi napoletani antichi e tuttora in uso, edifici dormitorio e degradati. I colori sono il giallo-napoli, il colore sulfureo del tufo napoletano e delle mura greche e il rosso pompeiano,il cinabro mercuriale, delle sinopie e della parete pompeiana a indicare l’origine greco-romana della città. Le finestre a occhio stanno a indicare il sole nero, la “nottata” di Eduardo, e il sole giallo simbolo di un possibile riscatto. L’esasperazione è nelle grondaie e nei panni stesi insanguinati, la speranza è nella canorità dello strumento musicale a forma di lira inserito nel centro della struttura.
Esasperatismo giallo-napoli e Esasperatismo underground significano rispettivamente le finestre barocche inginocchiate dei palazzi nobiliari del 600 napoletano coronate da timpano e sovente incorniciate da decorazioni zoomorfe , e il sottosuolo misterioso e perturbante della città.
Paesaggio urbano vuole essere una rappresentazione di un’area degradata,un angiporto della città dove interni ed esterni interagiscono sullo stesso piano e un bidone corroso dal tempo emerge a sentinella.
Introitus allude alle porte, alle soglie, ai guardiani, limite iniziatico per coloro che anelano a nuovi saperi.
Edicola, incastonata come la precedente in un’antica finestra del settecento napoletano. rimanda alle edicole votive napoletane, sparse un poco dappertutto nella città dove convivono sacro e profano, paganesimo e cristianesimo.
Matrice sta per mater a indicare l’origine, lo stampo da cui scaturiscono i bidoni contenitori della vita.
Interno è lo spazio interiore, teatro della scena pittorica, luogo dell’opus dove il fare alchemico trasmuta il logo in luogo.
Sinopia è il colore dell’ocra rossa usato dagli antichi per i disegni preparatori di affreschi, a indicare il sottostante, il supporto di stratificazioni successive sfaldate dal tempo.
Insegna araldica è ciò che resta delle antiche insegne nobiliari sostituite dal segno del “bidone”.
Bidone alla finestra è l’apertura destinata a dare nuova luce all’interiorità, finestra che si apre al sole, a nuova speranza di vita.
Palazzetto giallo e Palazzetto rosso raccontano le vestigia di una città nobilissima, ora in degrado, in perenne attesa di uno scatto di orgogliosa rinascita.

Si comincia dall’impressione dolente delle finestre insanguinate e della volontà di canto, la lira di traverso. Entrambe linee guida rosse rosse – una speranza ferita deriva dal panorama: ma le case hanno scale, occhi, sorgenti – la speranza c’è, ma forse è più voluta che creduta. Ma è sempre una boccata d’aria. E allora si passeggia con un minimo di spensieratezza, si guardano quei particolari che nei paesi antichi sono sovrapposizioni d’ere: le balconate panciute, delizia dei bambini e dei cani che da esse si sporgono su quel che c’è sotto; a guardarle di fuori, formano un caleidoscopio da cui s’intravede quel che c’è dietro formando figure improbabili dai colori smorzati: Giallo-napoli e Undergroung, uno giallo, uno rosso, sono il vagare della mente del flanêur che va nei Passages, ma senza malinconia.
Il nuovo Paesaggio urbano immette di nuovo la sveglia e dissipa l’immaginario, mostra con un rosso vivo, intersecato di scuro, una casa perduta che reca ancora le tracce della vita. Dalla finestra a telaio trapelano ombre di gioco, dall’altra parte compare il bidone, il simbolo del rispetto che pretende attenzione. Mentre si camminava così tanto per fare, si cercavano emozioni nei ricordi delle architetture; d’un tratto si sa che si è già su di un nuovo cammino. Il drammatico rosso riporta alla domanda su una città che sa mescolare indignazione e memoria perenne d’affetto.
Introitus ed Edicola iniziano perciò un discorso pendolare, frutto della coscienza raggiunta: è quella che
Bruno chiama la magia del due, il ragionare correggendosi e protendendosi. Introitus, nelle tinte dell’ocra., ha chiara al centro una sagoma umana - il bidone è il suo cuore - che si avvia in una grotta che sembra Cuma: va all’interrogazione dell’oracolo. Antropomorfe, le rocce sbozzano elementi che accompagnano da presso e suggellano il cammino dell’uomo macchina in cerca – come per sostenerlo, perché la trasformazione che si vuole non è quella del questuante, che si fa carico dell’interrogazione. È la città che preoccupa il pellegrino, e la roccia calda di terra gli si stringe intorno a tenerlo saldo.
E infatti per l’altra stazione, Edicola, ecco spuntare da un rigattiere una antica porta settecentesca, un legno su cui dipingere – con reverenza, il ringraziamento per l’aiuto donato, dove le figure che animano il silenzio sono le tante religioni, di cui parlano le chiese barocche e i monasteri, i cui nomi echeggiano a Natale quando girano i dolci che ne portano il nome, insieme con i segni arcaici che in tutta Italia si intrinsecano con semplicità agli altri; al tempio dei Dioscuri nell’antico Foro risponde il complesso di San Lorenzo con le sue chiese cattoliche, lasciandogli le sue colonne romane. Come distinguere le anime morte delle Fontanelle dalla Trasfigurazione gloriosa – entrambe nella diversità coscienza comune del silenzio e dell’ispirazione, della speranza di superare le contrarietà per volare al mare. Napoli ha potuto moltissimo, contando spesso più sul gancio nel cielo che sul denaro contante. Nelle due immagini il bidone è giallo, per trasmutare subito nella seguente, Matrice, che apre il nuovo rintocco del pendolo. Si presenta come una litania urlata per dare impulso alla determinazione a vedere, cui occorre coraggio, e poi serenità del riflettere – e infatti il bidone è di nuovo giallo in Interno. Dalla volontà di vedere alla necessità di andare, si compie il pellegrinaggio che si interroga su cosa può andare oltre le nubi e far tornare il sole che c’è. Basta lasciare il tempo, quando si è compreso un problema, il silenzio fa emergere che la soluzione è la Sinopia, qualcosa cioè che sappia fare da base di affresco, senza pretendere il protagonismo. Collegare, tessere, spianare, sono le basi per costruire nuove chiese su quelle perse. La fretta, la pretesa di alcuni di emergere subito – sono queste le tare. La sinopia crea il fondo, modella il quadro, mescola insieme rosso e giallo senza definire, affida alla forza di ordine e non ordina – solo qui c’è la nuova possibilità, nella solidarietà, nel prendersi cura dell’intero. Un colore che domina senza senso, è una macchia.
La civilizzazione antica si presenta come burla, disprezzo di sé, faciloneria e core; immagine ormai distrutta da tanti nemici occulti ed emersi, ed anche consunta dal tempo. Ma sono tante le anime della civiltà, lo dicono le architetture - l’innovazione può anche non essere nuova tecnologia ma liberazione autonoma, presa di coscienza del valore comune oggi, come lo sentono tutti i napoletani. Di Franco arriva così al centro, al bisogno di riappropriarsi del sé, soprattutto evitando di diffidare o svalutare il potere dell’immaginifico. I napoletani criticano i napoletani mettendosi fuori dal mucchio o espatriando. Il bidone è un medium adeguato anche per questo: la povertà rimproverata come colpa è una ricchezza – ma non è facile capirlo e farlo capire. Sa chi l’intende che è una spinta alla comprensione, una volontà costruttiva che se non trova le autostrade del potere ne disegna altre.
Bisogna mostrare questa verità, così che chi vuole possa identificarsi in una idea in cui la fantasia, il mito di Virgilio, la favola con cui si vive il rapporto con la morte e con i morti, non siano chiacchiere e nemmeno tabacchiere di legno di nessun valore. Sono una ricchezza ed una risorsa, se solo si impara ad usarle. Si può avere istinto artistico, ma se non si conoscono i colori non si diventa pittore. Si improvvisa una caricatura d’effetto, uno schizzo, ma le professioni della fantasia si imparano con difficoltà, non ci sono impiegati, occorre accettare di lavorare per nulla: ma Andy Wahrol e Umberto Eco dimostrano quanto rende.
Per attuare questa consapevolezza, Di Franco crea un blasone. Insegna araldica ricorda la nobiltà della città dei Croce, dei Nicola Amore, dei De Nicola, delle tante famiglie aristocratiche dalle abitazioni regali. Lo stemma echeggia quelli che si vedono sui portoni. Ridisegna in corpo nuovo lo stile della porta settecentesca, delimita il campo con precisione, in giallo e rosso disegna simboli, un cuore - grappolo d’uva e sotto, a raccogliere il distillato, il bidone. Lo spirito guida del riuso, della decostruzione e deframmentazione, della fantasia al potere. Quindi esibisce Bidone alla finestra nel suo trionfo rosso nel giallo – e dà finalmente il senso diverso al colore del rosso, che non è più sangue ma festa e vino. La presenza ed il protagonismo spetta infine al bidone, assiso nella luce, con la grandezza ritrovata che motiva il coraggio e la lotta all’invasore. Tanti ne ha seppelliti la città, pur senza mai vincere, divisa tra troppo grandi e troppo piccoli da un potere che trova più comodo evitare il confronto. Le due città di Napoli derivano da questo la loro eternità, chi prende il potere si asside nello stesso errore – che si elimina invece solo dall’alto. Ma non divaghiamo.
L’artista non dà soluzioni, il suo compito è il simbolo, la musica del concetto. L’ha argomentata nel pellegrinaggio, la illustra nella fine: la coppia di Palazzetto giallo e Palazzetto rosso non disegna architettura ma colori e musiche: di qui si comincia. Due piedi uno più avanti dell’altro, ma poi il secondo diventa primo: il giallo inquadra il bidone dov’è una sorta di salamandra, che non brucia nel fuoco, che arde solo dentro il bidone. Tempra le sue forze, per uscire allo scoperto nel palazzetto rosso, dove si fa serpente piumato e luminoso, che ha lasciato nel bidone un fiore con tracce di luce. Grazie al lento arrostimento, è forte, è il segno di vita nel quadro tutto rosso e configurato come palcoscenico, in cui può infine muoversi bene, mentre il bidone prepara nuove risorse.
Concludendo, non solo si è raggiunta in questa collana la consapevolezza del processo, del binario da seguire, già prima di arrivare alla fine. Ma va anche detto che il bidone ha acquisito ben più del valore di semplice recipiente; Di Franco dice sin dall’inizio che è un athanor, ma solo ora acquista quel ruolo di matrice che consente il nome, e che porta sempre alla sovrapposizione di questi simboli al femminino – perché solo ora ha davvero avuto in gestazione e partorito una nascita. Si è svelato nella sua forza di produrre forza, di non essere solo sostrato di altrui creatività, ha mostrato il suo proprio ruolo.
E allora andiamo un attimo fuor di metafora: l’estetica la vince sull’immagine in chi scrive. Il silenzio, la meditazione, la riflessione, tutte simboleggiate dal femminino, la grande Madre, l’athanor e quant’altro, indicano che la chiave di volta è la capacità di creare un senso nuovo alla città ed alle sue manie grandi e piccole; e che la forza di farlo sta nella solidarietà e non nel potere sfrenato, nelle regole civili da stabilire e rispettare. Come si vede, la verità razionale è secca, poco poetica, nulla a che vedere col rutilante procedere dei colori e delle materie. Ma questo è il fascino dell’estetica, saper estrarre una melodia pulita da una marea di arabeschi, di fughe, di affollamenti di note che innalzano il sentimento sempre più su. Ma sulla cima, è come su di una vetta. Solo pace ed ordine sono intorno. E la parola chiara fa capire tante cose che solo le immagini imprimono nella mente, facendosi amare.

Clementina Gily, docente di Estetica-Educazione all’immagine. Università Federico II dir. OSCOM
Dip.Filosofia

 

 

 

 

CENTRO D'ARTE E CULTURA
«IL BIDONE»
Via Salvator Rosa 159
Orario: 16.30 - 19.30
sabato e domenica chiuso