Epistemologia e storia del pensiero scientifico |
MAGGIO 2018 | Prima edizione, marzo 2004 | ||
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Nel febbraio 2016 recensivo un libro di Nicla Vassallo datato 1997 (La naturalizzazione dell'epistemologia). Il tema del libro era un'opera di Willard Quine, Two Dogmas of Empiricism. L'opera è del 1951 e Quine è un filosofo. In quella recensione scrivevo che, per non essere influenzato, non avevo voluto leggere la biografia di Quine. Ora ho tra le mani un'opera di Hilary Putnam. Anche Putnam è un filosofo, per la precisione un filosofo analitico. Questa recensione è la continuazione (il compimento?) di quella del 2016. Allora, visto che voglio andare avanti, ho deciso di leggere qualcosa su Quine. Giusto qualche coordinata. Apprendo che è morto nel 2000. Anch'egli è considerato un filosofo analitico, come Putnam. Two Dogmas of Empiricism è considerata una delle sue maggiori opere. Scopo di Nicla Vassallo era confutare le idee di Quine. Io scrivevo: “Al momento in cui sto leggendo questo libro sono passati 19 anni dalla sua pubblicazione. Non so se le cose siano cambiate o no. A distanza di ben 19 anni non so quale direzione abbia preso la ricerca epistemologica su questo fronte”. Adesso ho tra le mani un'opera del 2004. Non è molto recente, ma arriva comunque sette anni dopo il libro della Vassallo. Io all'epoca non prendevo posizione, ma adesso una posizione ce l'ho anch'io: sono dalla parte di Quine proprio grazie alla lettura di questo libro. Nell'Introduzione Mario De Caro spiega che Quine in Two Dogmas of Empiricism intendeva affermare che ogni enunciato scientifico ha il proprio contenuto empirico (quindi extralinguistico). In altre parole, non esistono enunciati analitici al 100%. Per quanto riguarda Putnam, De Caro spiega quali i suoi temi preferiti. Innanzitutto la polemica contro il realismo metafisico da una parte e contro il relativismo dall'altra; il primo è la concezione secondo cui esistono enunciati analitici, cioè proposizioni che definiscono con certezza un dato oggetto. Ho appreso il concetto nella recensione sopracitata. Il termine “realismo metafisico” è stato coniato dallo stesso Putnam. Il termine originale era “realismo scientifico”, ma secondo Putnam chi lo professa in realtà crede in una metafisica. La seconda idea contro cui polemizza Putnam, il relativismo, è apparentemente l'antitesi del “realismo metafisico”, ma in realtà è anch'esso frutto di una posizione ideologica travestita da teoria scientifica. Altri temi trattati da Putnam nelle sue opere: la ripresa del Pragmatismo (Putnam concorda con Charles S. Peirce e John Dewey) e la tesi secondo cui ogni giudizio di fatto contiene anche un giudizio di valore (pag. XIII). La sua opera più importante è Reason, Truth and History, uscita nel 1981. I primi due capitoli del libro sono dedicati alla (falsa) dicotomia tra giudizi di fatto e giudizi di valore. La dicotomia metafisica fatto/valore è nata con David Hume e ha raggiunto la forma nella quale ha avuto così tanta influenza nel XX secolo con il positivismo logico. Essa è stata confutata da Willard Quine. Nel terzo e quarto capitolo Putnam sposta la polemica fatto/valore sul terreno dell'economia. Com'è noto, è maggioritaria l'opinione secondo cui i giudizi di valore debbano rimanere fuori dall'analisi economica, per non deteriorare il suo carattere scientifico. Putnam ritiene invece che le analisi economiche possano fare riferimenti ai valori e all'etica per il semplice motivo che i “fatti” sono inestricabilmente intrecciati con i valori. I tentativi di separare i due ambiti non solo sono palliativi ma contraddittori (pag. XX). In questo si allinea con il pensiero di Amartya Sen, economista-filosofo Premio Nobel (Putnam e Sen sono stati anche colleghi all'Università Harvard). L'Autore introduce il suo concetto di “capacitazione”. La “capacitazione” è la “capacità di svolgere funzioni dotate di valore” (pag. 71). I primi tre capitoli sono racchiusi nel titolo “Introduzione” (a me sembrano invece un trattato completo!). Ho provato ad andare avanti. Il resto del libro (capp. 4-8) è racchiuso sotto il titolo “Razionalità e valore”. Nel capitolo 4 Putnam spiega il procedimento utilizzato da Amartya Sen per confutare la concezione dualistica fatto/valore in economia. Il quinto capitolo è un saggio pubblicato originariamente nel 1996 su una rivista tedesca di filosofia. Tratta un argomento a parte. Io non l'ho letto. Anche il capitolo sesto non è inedito: si tratta di un saggio apparso nel 1995 su una rivista giuridica. Ho capito che tutti questi capitoli sono materiale già pubblicato. L'ottavo e ultimo saggio ha un titolo che ha attirato la mia attenzione: L'elusione dei valori da parte dei filosofi della scienza. L'Autore argomenta così: egli si è occupato per molti anni di come i giudizi di valore vengano presupposti nella ricerca scientifica. Cioè, nello scegliere se abbracciare una teoria piuttosto che un'altra, gli scienziati sono mossi da valori come “coerenza”, “plausibilità”, “semplicità” ed “eleganza”. Gli scienziati, in fondo, applicano giudizi informali alle teorie. Nel tempo ha notato che i suoi colleghi che si occupano di filosofia della scienza, lungi dal valutare questo fenomeno come più o meno importante, eludevano semplicemente il tema. Il primo nome che appare è – sorpresa – Willard Quine. Il grande filosofo analitico, già professore di Putnam ad Harvard, era un empirista. Ma la sua posizione sul problema delle teorie è stata via via sempre più espressa in termini totalmente non realisti (p. 152). Per esempio, se gli si chiedesse cosa ne pensava di un'epistemologia più realista, che riguardasse i modi in cui scienziati reali riescono a scegliere fra teorie reali riguardanti dati reali, si sarebbe sentito rispondere: “Perché non accontentarsi della psicologia?” (p. 153). L'Autore aggiunge: “Ciò che molti lettori non hanno capito è che quando Quine diceva queste parole diceva sul serio”. L'”epistemologia naturalizzata” nel senso di Quine significa mettere da parte l'epistemologia. La 'psicologia' è tutta l'epistemologia che vogliamo. Questa è un'elusione ad oltranza della questione epistemologica!” Dopo Quine c'è Reichenbach, ma la dimostrazione della sua elusione è troppo complicata. Poi c'è Rudolph Carnap, il quale voleva ridurre la scelta delle teorie ad un algoritmo. Segue Karl Popper: anch'egli sperava di ridurre il metodo scientifico ad una semplice regola: si mettano alla prova tutte le teorie solidamente falsificabili e si mantengano quelle che superano la prova. Ma già Quine (e qui Putnam lo cita in positivo) aveva dimostrato che “quando una teoria è in conflitto con ciò che prima era ritenuto essere un fatto, talvolta rinunciamo alla teoria e talvolta al fatto e la decisione è una questione di bilanciamenti”. Cioè gli scienziati non aspettano che siano i dati osservativi a decidere (pp. 155-56). La trattazione si conclude con Richard Rorty e Alvin Goldman. Dopo aver letto il libro ed aver scritto questa recensione sono andato a vedere i dati biografici di Putnam ed ho appreso che è scomparso nel 2016. |