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 Libro del mese   

Anno 2018


Mente e cervello GIUGNO 2018 Prima edizione e-book, 2016

Gli Autori

Andrea Lavazza è uno studioso di neuroetica presso il Centro universitario di Arezzo.

Luca Sammicheli è uno psicologo forense.

Andrea Lavazza
Luca Sammicheli



Il delitto del cervello. 
La mente tra scienza e diritto

Editore

Codice, Torino, 2012. 

ISBN: 978-88-7578-312-9

Delitto del cervello

"Non sono stato io, ma il mio cervello!" Questa affermazione, che potrebbe sembrare fantasiosa, in realtà  esemplifica cosa potrebbe succedere nelle aule dei tribunali se si realizzasse la rivoluzione controintuitiva che le scienze cognitive stanno mettendo in atto. Nei prossimi anni l’impatto delle neuroscienze sull’universo del diritto potrebbe portare a sentenze che tengono conto della conformazione del cervello ai fini della formazione della prova.

"Non sono stato io, ma il mio cervello!" significa quindi postulare una netta separazione del cervello dalla mente (errore!) e stabilire che, dei due, quello buono è il cervello. La conseguenza: possono aumentare i casi di non imputabilità. Questo è lo scenario che si sta componendo sotto i nostri occhi; è meglio iniziare a rifletterci sopra.

L'idea, condivisa da secoli, secondo cui le persone sono caratterizzate dal fatto di poter decidere quali azioni compiere e di riflettere sulla propria autodirezione, viene oggi messa in dubbio. Vi si contrappone l'idea che bisogna escludere dall'osservazione tutti i comportamenti che non sono misurabili dalle scienze (fisica, biochimica, fisiologia). È la storica diatriba monismo/dualismo, dove il primo termine rappresenta l'idea che mente e cervello sono un tutt'uno inscindibile, mentre il secondo afferma l'idea che esistano due sostanze (la res cogitans e la res extensa) ben distinte tra loro.

L'essere umano visto dal diritto.

Nel sistema penale italiano un concetto fondamentale è quello di elemento soggettivo del reato. Il reo, cioè, deve aver avuto la volontà di compiere un crimine.A questo punto si introduce la nozione di libero arbitrio: è l'atteggiamento (o la disposizione) in relazione al quale il comportamento è rimproverabile solo se è [liberamente espresso] (p. 66).

Il giudizio di colpevolezza (valutare cioè se l’azione è stata compiuta con dolo, colpa o preterintenzione) è un giudizio psicologico. Esso spetta al giudice, che può ordinare l'effettuazione di una perizia psichiatrica ai fini di valutare l'imputabilità. Le azioni umane prive di libero arbitrio non sono imputabili.

Allo stato attuale, quindi, il diritto italiano assume e risolve in senso negativo l’identificazione mente-cervello, prevedendo normativamente i casi in cui invece tale identificazione si può venire a creare. Quando l’azione è totalmente determinata dal cervello, per il diritto tale azione non è neppure umana, ma è ritenuta puro accadimento naturale. Quando invece l’azione è frutto di una mente malata, il diritto la considera azione umana, sebbene priva di libero arbitrio. La differenza è senza dubbio rilevante (p. 71).

Genetica e neuroscienze cambieranno il diritto?

Le neuroscienze permettono oggi di effettuare esami accuratissimi del cervello. Inoltre, gli esami genetici permettono di individuare anche un singolo allele "fuori posto". 

Quali sono i punti della dottrina giuridica che sono sotto attacco?
1. La concezione retributivistica della pena;
2. La mens rea (mente colpevole), ovvero l'elemento soggettivo del reato.

Gli studi ormai celebri di Benjamin Libet (libro del mese luglio 2008) hanno acceso un lungo dibattito nella comunità scientifica. Lo scienziato ha studiato la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Gli esperimenti hanno riscontrato che i soggetti diventavano consapevoli dell’intenzione di agire circa 350 millisecondi (ms) dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo II (tipico delle azioni non pianificate e più spontanee) e 500-800 ms dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo I (tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate). Il processo volitivo sembra quindi prendere avvio inconsciamente, in quanto il cervello si prepara all’azione molto prima che il soggetto divenga consapevole di aver deciso di compiere un movimento. (p. 110-11)

La sfida delle neuroscienze al diritto

Se l’annoso dibattito filosofico sul libero arbitrio è stato riplasmato dalle incursioni delle neuroscienze, ciò che interessa il diritto non è la soluzione definitiva del mistero, ma una comprensione adeguata e, al contempo, funzionale all’amministrazione della giustizia. La prospettiva aperta dagli studi di Libet è quella (paradossale) di una conferma empirica del totale determinismo cerebrale, il quale costituisce una tesi metafisica, di per sé indimostrabile. Se quindi l’idea che la libertà sia un’illusione mina fortemente le basi degli ordinamenti penali, tale concezione, presa alla lettera, si rivela al contempo contraddittoria e inutilizzabile. Ciò a motivo del fatto che liberi non sarebbero, oltre ai criminali, nemmeno i giudici che li processano, né i riformatori.
Diverso è invece proporre, in linea con le conoscenze genetiche e neuroscientifiche, che il libero arbitrio debba essere pensato in modo diverso da quello consueto, a causa dei limiti posti in misura diversa a ciascun individuo dal proprio DNA e dalla propria configurazione cerebrale. In particolare, risulterebbero cruciali le componenti del controllo inibitorio (la capacità di bloccare lo stimolo ad agire in modo potenzialmente dannoso), il senso di agentività (la sensazione di essere il padrone delle proprie scelte) e la valutazione dei corsi di azione (la capacità di giudicare le conseguenze del proprio comportamento). Un deficit in queste funzioni (rispetto a un’ipotetica normalità) è in grado di restringere gli spazi di libertà e, di conseguenza, il grado di responsabilità per ciò che si è compiuto in quelle condizioni. (p. 116)

A parere dell'Autore, la sfida è considerare come unica dimensione rilevante quella fisiologica osservabile strumentalmente e che sia vera la descrizione che i neuropsichiatri compiono grazie alle tecniche di analisi del sistema nervoso oggi disponibili (p. 195).

Una pretesa che viene da lontano

Cesare Lombroso. Fatta la “tara” a tutti gli aspetti aneddotici e folcloristici (la “faccia del criminale”), il principio che il delitto possa essere determinato da una patologia di carattere neurologico è esattamente il nucleo dell’intera riflessione della Scuola positiva. (pp. 140-141) Sia per Lombroso sia per i contemporanei, nella misura in cui la scienza evidenzia, accerta e dimostra (o almeno pretende di farlo) che il comportamento non può che essere determinato dal cervello (e in ogni caso, geneticamente determinato, quale qualsiasi evento della natura), ecco che le nozioni fondanti della scuola classica [del diritto] basata sul concetto di libero arbitrio perdono ogni legittimità teorica. (p. 142)

Io concordo con quanto trovo scritto alle pagg. 164-165: le analisi neurobiologiche aggiungono  informazioni a una diagnosi condotta facendo riferimento esclusivamente a dati di carattere sintomatologico. Ciò non deve essere erroneamente interpretato nel senso che le tecniche neuroscientifiche permettano di ricostruire le malattie psichiatriche, le quali sono, e restano, malattie del comportamento.

L’impatto innovativo delle neuroscienze non si esplica solo sul piano diagnostico e strumentale (cioè attraverso l’analisi di un determinato stato psichico nelle sue componenti osservabili), ma anche, e soprattutto, mediante una rivoluzione dei modelli di mente che è in grado di suggerire. A nostro avviso, i filoni che potrebbero suggerire modelli cognitivi in qualche modo sovversivi per il diritto sono sostanzialmente due. Quelli relativi ai processi attributivi, ovvero come si costruisce il comportamento significante (premessa di ogni valutazione morale), e quelli relativi al ragionamento morale e alle variabili di tale giudizio. (p. 165)

Un caso esemplare: lo psicopatico

È stato sostenuto che la psicopatia sia stato il primo disturbo di personalità a essere identificato in psichiatria. Lo psicopatico, apparentemente, costituisce “il cattivo” per eccellenza. Per quanto riguarda la responsabilità penale, nei sistemi occidentali fino a oggi si è ritenuto che lo psicopatico sia psichiatricamente sano e, quindi, pienamente imputabile. (p. 182)

Come dovremmo trattare oggi lo psicopatico? Secondo la scienza, sembra che gli psicopatici soffrano dell’impossibilità di comprendere le norme morali e di afferrare pienamente il significato che guida le loro azioni, perciò vanno ritenuti non responsabili. (p. 192)

Che cosa discende dalla presunta irresponsabilità dello psicopatico? Alla luce dei dati neuroscientifici avviene un capovolgimento di posizione. Dal momento che il cervello dello psicopatico sembra renderlo privo del controllo sulla propria condotta, e/o privo di cognizione del male che compie, ne discende che egli non è responsabile moralmente delle sue azioni e quindi ogni eventuale punizione appare insensata. (p. 195)

Ci sono però quattro rilevanti conseguenze.
1. Domanda: quanto una società può andare contro le sue intuizioni morali consolidate?
2. Per analogia, finiremmo per considerare non imputabili anche altre categorie di persone con disturbi (e chi è che non ha qualche disturbo?);
3.  La terza ricaduta invece porta, paradossalmente, alla disumanizzazione dello psicopatico. […] Se lo psicopatico viene considerato malato, essendo anche apparentemente non curabile, viene di fatto classificato come un cane rabbioso, senza nemmeno averne l’apparenza. Si può anche notare che questa è esattamente una conseguenza estrema della naturalizzazione dell’essere umano;
4. L’ultima conseguenza, che basterà qui accennare, implica che la psicopatia dia sostegno alla falsificazione del razionalismo etico e alla corroborazione dell'emotivismo in psicologia e filosofia morale. (pp. 197-99)

Nella mente dell'imputato

In questo capitolo si affronta il tema delle tecniche neuroscientifiche come prova giudiziaria.
Tralasciando il poligrafo (il nostro ordinamento lo vieta) passiamo in rassegna i principali strumenti di indagine neuroscientifica:
1. Neuroimaging (osservare in vivo l'attività cerebrale): in pochi decenni ha rivoluzionato la ricerca e favorito, di fatto, la nascita delle moderne neuroscienze cognitive (“il pensiero è diventato visibile”). Le tecniche di neuroimaging comprendono: TAC, RM, TDI, PET, SPECT e fMRI;
2. Tecniche di registrazione dell’attività elettrica del cervello. Le principali sono EEG ed ERP.

La tecnica di “neuroimmagine” entra nel processo per dire qualcosa su uno stato di mente giuridicamente rilevante. L’aspetto che tuttavia rende la materia così spinosa è quello relativo alla stessa collocazione scientifico-culturale che si vuole attribuire a tali discipline. Esse, infatti, nel guadagnarsi il diritto di ingresso nel processo, non solo devono integrare i canoni della generale affidabilità scientifica, ma anche rispettare l’impianto filosofico e normativo che sostiene un dato sistema giuridico. L’esempio più eclatante è quello della lettura neurobiologica dell’agire criminale. Una tale impostazione (che colloca nel soma la causa del crimine) non si limita a fornire evidenze per la corretta applicazione di norme giuridiche (come una semplice radiografia), ma determina la stessa messa in crisi di tali norme. Dire che un delitto è stato determinato (o codeterminato, poco importa) da un dato corredo genetico significa che il crimine non è più crimine nel senso in cui (attualmente) lo intende il codice. (pp. 206-7)

In sintesi, dunque, bisogna decidere se il delitto sia sempre del cervello, oppure se lo sia solo quando si suppone che il cervello risulti malato. […]
Le neuroscienze non dicono sulle emozioni più (o meno) di quanto non dicano sulle attività mentali superiori: il ruolo delle emozioni nel ragionamento non è un’invenzione delle neuroscienze (nei manuali di psicologia generale abbondano capitoli intitolati Emozione e cognizione o Effetti delle emozioni sul ragionamento). Esse applicano semplicemente il loro metodo anatomo-clinico anche a tale tema di indagine (andando cioè a esplorare la correlazione tra l’attivazione del sistema limbico, sottocorticale, sede delle risposte emozionali, con quelle delle zone corticali che presiedono alle funzioni cognitive dette superiori).
Se dunque il delitto lo si ritiene sempre nel cervello (come qualsiasi altro comportamento umano), allora il sistema giuridico va riformato in armonia con le nuove assunzioni delle neuroscienze (dato che viene meno la distinzione, in relazione al libero arbitrio, tra sani e malati). Quando invece si vuole considerare il delitto del cervello malato è sufficiente che la neuroscienza rispetti i criteri di strumento scientifico valido per accertare ciò che è già definito negli istituti del diritto (la possibilità che in alcuni casi il complesso mente/cervello del soggetto non sia “normale” come nella generalità dei cittadini e possa essere causa del delitto: il delitto, appunto, del cervello) (pp. 216-17)