Mente e cervello | GIUGNO 2018 | Prima edizione e-book, 2016 | ||
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"Non sono stato io, ma il mio cervello!" Questa affermazione, che potrebbe sembrare fantasiosa, in realtà esemplifica cosa potrebbe succedere nelle aule dei tribunali se si realizzasse la rivoluzione controintuitiva che le scienze cognitive stanno mettendo in atto. Nei prossimi anni l’impatto delle neuroscienze sull’universo del diritto potrebbe portare a sentenze che tengono conto della conformazione del cervello ai fini della formazione della prova. "Non sono stato io, ma
il mio cervello!"
significa quindi postulare una netta
separazione del cervello dalla mente (errore!) e stabilire
che, dei
due, quello buono è il cervello. La conseguenza: possono
aumentare i casi di non imputabilità. Questo è lo
scenario che si sta componendo sotto i nostri occhi; è
meglio iniziare a rifletterci sopra. L'essere umano visto dal diritto. Nel sistema penale italiano un concetto fondamentale è quello di elemento soggettivo del reato. Il reo, cioè, deve aver avuto la volontà di compiere un crimine.A questo punto si introduce la nozione di libero arbitrio: è l'atteggiamento (o la disposizione) in relazione al quale il comportamento è rimproverabile solo se è [liberamente espresso] (p. 66). Il giudizio di colpevolezza (valutare cioè se l’azione è stata compiuta con dolo, colpa o preterintenzione) è un giudizio psicologico. Esso spetta al giudice, che può ordinare l'effettuazione di una perizia psichiatrica ai fini di valutare l'imputabilità. Le azioni umane prive di libero arbitrio non sono imputabili. Allo stato attuale, quindi, il diritto italiano assume e risolve in senso negativo l’identificazione mente-cervello, prevedendo normativamente i casi in cui invece tale identificazione si può venire a creare. Quando l’azione è totalmente determinata dal cervello, per il diritto tale azione non è neppure umana, ma è ritenuta puro accadimento naturale. Quando invece l’azione è frutto di una mente malata, il diritto la considera azione umana, sebbene priva di libero arbitrio. La differenza è senza dubbio rilevante (p. 71). Genetica e neuroscienze cambieranno il diritto? Le neuroscienze permettono oggi di effettuare esami accuratissimi del cervello. Inoltre, gli esami genetici permettono di individuare anche un singolo allele "fuori posto". Quali sono i punti
della dottrina giuridica che sono sotto attacco? Gli studi ormai celebri di Benjamin Libet (libro del mese luglio 2008) hanno acceso un lungo dibattito nella comunità scientifica. Lo scienziato ha studiato la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Gli esperimenti hanno riscontrato che i soggetti diventavano consapevoli dell’intenzione di agire circa 350 millisecondi (ms) dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo II (tipico delle azioni non pianificate e più spontanee) e 500-800 ms dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo I (tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate). Il processo volitivo sembra quindi prendere avvio inconsciamente, in quanto il cervello si prepara all’azione molto prima che il soggetto divenga consapevole di aver deciso di compiere un movimento. (p. 110-11) La sfida delle neuroscienze al diritto Se l’annoso dibattito filosofico
sul libero arbitrio è stato riplasmato dalle incursioni
delle neuroscienze, ciò che interessa il diritto non
è la soluzione definitiva del mistero, ma una comprensione
adeguata e, al contempo, funzionale all’amministrazione della giustizia.
La prospettiva aperta dagli studi di Libet è quella
(paradossale) di una conferma empirica del totale determinismo
cerebrale, il quale costituisce una tesi metafisica, di per
sé indimostrabile. Se quindi l’idea che la
libertà sia un’illusione mina fortemente le basi
degli ordinamenti penali, tale concezione, presa alla lettera, si
rivela al contempo contraddittoria e inutilizzabile. Ciò a
motivo del fatto che liberi non sarebbero, oltre ai criminali, nemmeno
i giudici che li processano, né i riformatori. A parere dell'Autore, la sfida è considerare come unica dimensione rilevante quella fisiologica osservabile strumentalmente e che sia vera la descrizione che i neuropsichiatri compiono grazie alle tecniche di analisi del sistema nervoso oggi disponibili (p. 195). Una pretesa che viene da lontano Cesare Lombroso. Fatta la “tara” a tutti gli aspetti aneddotici e folcloristici (la “faccia del criminale”), il principio che il delitto possa essere determinato da una patologia di carattere neurologico è esattamente il nucleo dell’intera riflessione della Scuola positiva. (pp. 140-141) Sia per Lombroso sia per i contemporanei, nella misura in cui la scienza evidenzia, accerta e dimostra (o almeno pretende di farlo) che il comportamento non può che essere determinato dal cervello (e in ogni caso, geneticamente determinato, quale qualsiasi evento della natura), ecco che le nozioni fondanti della scuola classica [del diritto] basata sul concetto di libero arbitrio perdono ogni legittimità teorica. (p. 142) Io concordo con quanto trovo scritto alle pagg. 164-165: le analisi neurobiologiche aggiungono informazioni a una diagnosi condotta facendo riferimento esclusivamente a dati di carattere sintomatologico. Ciò non deve essere erroneamente interpretato nel senso che le tecniche neuroscientifiche permettano di ricostruire le malattie psichiatriche, le quali sono, e restano, malattie del comportamento. L’impatto innovativo delle neuroscienze non si esplica solo sul piano diagnostico e strumentale (cioè attraverso l’analisi di un determinato stato psichico nelle sue componenti osservabili), ma anche, e soprattutto, mediante una rivoluzione dei modelli di mente che è in grado di suggerire. A nostro avviso, i filoni che potrebbero suggerire modelli cognitivi in qualche modo sovversivi per il diritto sono sostanzialmente due. Quelli relativi ai processi attributivi, ovvero come si costruisce il comportamento significante (premessa di ogni valutazione morale), e quelli relativi al ragionamento morale e alle variabili di tale giudizio. (p. 165) Un caso esemplare: lo psicopatico È stato sostenuto che la psicopatia sia stato il primo disturbo di personalità a essere identificato in psichiatria. Lo psicopatico, apparentemente, costituisce “il cattivo” per eccellenza. Per quanto riguarda la responsabilità penale, nei sistemi occidentali fino a oggi si è ritenuto che lo psicopatico sia psichiatricamente sano e, quindi, pienamente imputabile. (p. 182) Come dovremmo trattare oggi lo psicopatico? Secondo la scienza, sembra che gli psicopatici soffrano dell’impossibilità di comprendere le norme morali e di afferrare pienamente il significato che guida le loro azioni, perciò vanno ritenuti non responsabili. (p. 192) Che cosa discende dalla presunta irresponsabilità dello psicopatico? Alla luce dei dati neuroscientifici avviene un capovolgimento di posizione. Dal momento che il cervello dello psicopatico sembra renderlo privo del controllo sulla propria condotta, e/o privo di cognizione del male che compie, ne discende che egli non è responsabile moralmente delle sue azioni e quindi ogni eventuale punizione appare insensata. (p. 195) Ci sono però
quattro rilevanti conseguenze. Nella mente dell'imputato In questo capitolo si affronta il tema delle
tecniche neuroscientifiche come prova giudiziaria. La tecnica di “neuroimmagine” entra nel processo per dire qualcosa su uno stato di mente giuridicamente rilevante. L’aspetto che tuttavia rende la materia così spinosa è quello relativo alla stessa collocazione scientifico-culturale che si vuole attribuire a tali discipline. Esse, infatti, nel guadagnarsi il diritto di ingresso nel processo, non solo devono integrare i canoni della generale affidabilità scientifica, ma anche rispettare l’impianto filosofico e normativo che sostiene un dato sistema giuridico. L’esempio più eclatante è quello della lettura neurobiologica dell’agire criminale. Una tale impostazione (che colloca nel soma la causa del crimine) non si limita a fornire evidenze per la corretta applicazione di norme giuridiche (come una semplice radiografia), ma determina la stessa messa in crisi di tali norme. Dire che un delitto è stato determinato (o codeterminato, poco importa) da un dato corredo genetico significa che il crimine non è più crimine nel senso in cui (attualmente) lo intende il codice. (pp. 206-7) In sintesi, dunque, bisogna decidere se il
delitto sia sempre del cervello, oppure se lo sia solo quando si
suppone che il cervello risulti malato. […] |