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  Il linguaggio magico: proverbi, profezie ed incantesimi


Ove si concepisca la lingua e la parola come corrispettivi speculari della realtà che indicano, è assai probabile che ci sia anche un’identità magica tra cosa e nome, i quali non sarebbero che due differenti facce di una stessa realtà essenziale: un potere, un’energia, che però solo gli esperti dell’occulto, siano essi maghi, saggi, sciamani, preti o stregoni, sono in grado di utilizzare. Ogni nome possiede un potere evocativo. È da una simile concezione del linguaggio che nasce l’idea della formula magica. Più di una preghiera, la formula magica è un’appellarsi, anzi, un comandare ai poteri sottili della realtà (realtà intesa in un senso molto più ampio di quello abituale) di servire il mago per i suoi scopi. Recitare una formula magica implica non solo conoscere i nomi giusti, ma saperli anche pronunciare con la giusta intonazione.In The Lord of the Rings non abbiamo molte formule magiche e incantesimi ad esse legate. Spesso le poche formule che appaiono sono ambigue: possono essere sia formule che brani mitologici in versi. La maledizione dell’Anello iscritta lungo tutta la sua superficie “racconta” la storia dell’oggetto stesso, ed è tuttavia anche un appello alla natura del Malefico, il che spiega la ritrosia di Gandalf a pronunciarla. In un mondo dove la magia sta man mano svanendo, è anche facile concepire come le antiche formule siano degradate a statuto di filastrocche, specialmente quando sia necessaria una profonda conoscenza e preparazione per recitarli efficacemente.

Tom Bombadil è, come abbiamo visto, un altro detentore della magia formulaica, espressa attraverso versi o parole rimate. Tramite questi versi egli libera due volte gli Hobbit da grinfie malvagie. Egli, inoltre, insegna a Frodo una breve canzoncina che serve a chiamarlo nel caso che qualcuno abbia bisogno del suo aiuto nei pressi dei suoi possedimenti. Le due formule, oltre a chiamare Tom in aiuto, riassumono in poche parole la sua essenza legata alla Natura. Un’altra formula presente nel romanzo è quello che la Compagnia deve recitare per varcare i cancelli di Moria. Anche questa formula è fatta, in un certo senso, di una strofa e di una controstrofa: bisogna decifrare la scritta sul portale e trovare la “parola magica” che quella scritta comanda di pronunciare, affinché le porte si aprano. La scritta è in elfico antico, e recita semplicemente: “Le Porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate.”, ed è seguita da una iscrizione più piccola che riporta i nomi degli autori delle porte e della scritta (“Io, Narvi, le feci. Celembribor dell’Agrifoglio tracciò questi segni.”), sul modello delle prime iscrizioni runiche ritrovate su tutto l’antico territorio germanico, le quali indicano quasi sempre gli autori della scritta, o i creatori dell’oggetto marcato con quella scritta, o i loro proprietari, in una semplice sequenza di nome, verbo, oggetto. Gandalf intuisce immediatamente che “…queste porte sono probabilmente governate da parole.” L’enigma è capire cosa amici debba dire per entrare, enigma che nasce in realtà da una cattiva interpretazione dell’iscrizione stessa, la quale, scoprirà sempre Gandalf dopo un po’, dovrebbe semmai essere letta: “Dite “Amici” ed entrate.” La parola magica è quindi proprio amici, in elfico mellon, con tutte i richiami al valore tolkieniano dell’amicizia che, da una parte Gandalf stesso, dall’altra tutta la Compagnia, hanno finito per rappresentare. Tuttavia, prima di giungere a questa soluzione, Gandalf, certo di dover pronunciare una formula magica, attinge il più possibile dal suo bagaglio formulaico di mago: “Un tempo conoscevo qualsiasi incantesimo, in tutte le lingue degli Elfi, degli Uomini, o degli Orchetti, che fosse mai stato adoperato per tale scopo.”, testimoniandoci, con queste parole, un più ampio uso degli incantesimi, di cui però nel romanzo non è rimasta traccia. Solo quando neanche il tradizionale e universale Apriti, apriti! funziona, ecco che arriva l’insperata (e banale) soluzione:  “La parola chiave era innanzi a noi, scritta sull’arco! […] Estremamente semplice. Troppo semplice per un maestro delle tradizioni in giorni di diffidenza come questi. Allora i tempi erano più felici.” Tuttavia, nonostante l’esiguità delle formule, un alone di magia permane in altri aspetti linguistici, rappresentati dalle profezie, volontarie o involontarie, e dai proverbi, i quali possono spesso rivestire anche una funzione profetica. Come ogni società tradizionale che si rispetti, quella della Terra di Mezzo abbonda di proverbi. Le profezie pongono nelle menti degli eroi, come in quelle dei lettori, il seme di una possibilità, possibilità che un qualcosa accada. Non ci aspettiamo che ciò di cui parlano le profezie avvenga senza fallo, perché spesso queste profezie non hanno l’autorità tradizionale propria della loro categoria, la quale talvolta rende gli avvenimenti perfino scontati. Tuttavia, come un’eco che permane nella memoria, esse ritornano fuori sotto una luce differente, nel momento in cui non possiamo fare a meno di notare che davvero quello che era stato solo ipotizzato a parole, pagine o capitoli prima, è realmente accaduto. L’effetto sorpresa è aumentato dal fatto che tali profezie operano all’interno di una struttura narrativa che è tutt’altro che lineare, in cui gli accadimenti sono interrotti e frammentari. La prima importante profezia è quella enigmatica che spinge Boromir al Concilio di Elrond. È una profezia notevole non solo perché racchiude in pochi versi tutti i fili principali della ricerca dell’Anello, ma anche perché si ricollega al tema del sogno: essa è infatti giunta a Faramir, fratello di Boromir, proprio in sogno: Cerca la Spada che fu Rotta: Ad Imladris la troverai; I consigli della gente dotta Più forti di Morgu avrai. Lì un segno verrà mostrato Indice che il Giudizio è vicino, Il Flagello d’Isildur s’è svegliato, Ed il Mezzuomo è in cammino. A questa profezia sul ritorno di Aragorn, proprietario della Spada che fu spezzata, e sulla missione di Frodo, il Mezzuomo che si occuperà dell’Anello (detto anche la Rovina di Ilsidur dal mitico episodio che coinvolse l’antenato di Aragorn), segue un’altra profetica e proverbiale rivelazione del “saggio” Bilbo, assai nuovo in questo ruolo. Le sue parole vogliono mettere in luce, attraverso il potere dei versi, la possibilità che leggenda e mito possano finalmente risvegliarsi dal polveroso ruolo folkloristico in cui erano state imprigionate, e illuminare la via da intraprendere per salvare la Terra di Mezzo:   Non tutto quel ch’è oro brilla, Né gli erranti sono perduti; Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza E le radici non gelano.   Dalle ceneri rinascerà un fuoco, L’ombra sprigionerà una scintilla, Nuova la lama ora rotta, E re quei ch’è senza corona Un’altra profezia-chiave del romanzo, assai importante anche questa a livello strutturale, è quella legata all’attraversamento del Sentiero dei Morti da parte di Aragorn. Qui la profezia, come molta magia tolkieniana, ha la funzione principale di creare la causa, nonché la scusa, per questo avvenimento, una causa e una scusa che siano inattaccabili da ogni critica come da ogni rifiuto. E altrettanto bene Aragorn conosce l’altra profezia, quella legata alla leggenda per la quale i Fantasmi di quei guerrieri che una volta hanno tradito il Bene a favore del Male dovranno di nuovo servire la causa dei giusti per riscattare il loro tradimento, appena un altro potente e valoroso discendente di Nùmenor leverà la spada contro le tenebre. La “via più rapida” che Aragorn sceglie di percorrere non è intesa solo in senso geografico: è anche la più breve per raggiungere l’apice del suo ruolo di sovrano, colui che, fra le sue tante funzioni, è anche capace di far avverare le profezie. Non tutte le profezie sono in versi. E spesso appaiono addirittura più come speranze, sensazioni, che vere e proprie coscienti previsioni. Queste ultime sembrano quasi il residuo di un’antica capacità di “sentire”, propria di un mondo dove l’idea di una “sovra-realtà” era perfettamente, totalmente e comunemente accettata (e dove, quindi, le  capacità profetiche erano come pane quotidiano). Tolkien, giustamente, non ha voluto sovraccaricare la sua narrazione di meraviglioso, per non togliere tutta la credibilità alla sua subcreazione affidando ogni soluzione alla magia. Ci doveva essere spazio anche per il libero arbitrio, come per un Fato superiore agli eventi contingenti, oltre che, naturalmente, per la necessità, tutta narrativa,  di non uccidere la suspense e la sorpresa con un continuo alternarsi di anticipi profetici e realizzazioni puntuali di questi. Perciò certe profezie involontarie si avverano solo dopo un lungo travaglio, lungo il quale il loro valore meraviglioso sembra andare totalmente perso. Gandalf è spesso latore di queste profezie involontarie, alle quali la sua saggezza e autorità conferiscono già in parte una certa aura di certezza. Quando all’inizio del romanzo delinea per Frodo la figura di Gollum, egli commenta anche che Gollum “…è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia…”, il che, come apprendiamo nel corso della trama, si rivela vero: per il bene Gollum aiuterà Frodo e Sam ad attraversare Mordor, sebbene le sue vere intenzioni siano malvagie; e, infatti, malvagio strapperà a Frodo l’Anello proprio sulla cime del Monte Fato. Ma la sua azione gli si rivolterà contro, risultando alla fine benigna. Profetica è anche la considerazione che Gollum vada trattato con pietà, e non con violenza. La Pietà è il “trucco narrativo” che Tolkien utilizza per permettere che il cattivo Gollum sopravviva per “intervenire” dove il buon Frodo fallisce. Similmente Sam dirà di se stesso: “Ho qualcosa da fare prima della fine, qualcosa che si trova avanti a me…”, quasi sentendo che il suo ruolo all’interno della missione sarà assai superiore a quello di semplice “accompagnatore”. Frodo, a sua volta, è spesso soggetto di molte profezie, sotto forma di saggi apprezzamenti sul suo coraggio e sulla sua possibilità di essere molto migliore di quello che sembra; ed è a sua volta profeta accidentale di molti importanti accadimenti che si realizzeranno sul suo cammino. I primi Elfi che incontrerà diranno di lui: “Ecco un gioiello tra gli hobbit.”, osservazione acuta per ciò che Frodo dimostrerà di essere durante la sua ardua missione, e allo stesso tempo ironica per il forte legame che lo unisce al gioiello per eccellenza, l’Anello. Bilbo, dopo che il Concilio ha decretato la Missione sul Monte Fato, saluterà l’eroico nipote con questa frase, emblematica, in quanto sarà più o meno ricalcata da tutti coloro che dimostreranno fiducia nel giovane Hobbit: “Sembri solo un semplice hobbit,” disse Bilbo. “Ma c’è di più in te di quanto appaia in superficie.” Le proprietà sensitive di Frodo si infittiscono man mano che si addentra in Mordor, connesse probabilmente con l’accrescersi del Potere dell’Anello su di lui, con la ferita Nazgûl e con il conseguente affinarsi della sua sensibilità. A parte la continua impressione di essere osservato (che è reale: egli può percepire l’Occhio del Male seguire il suo cammino), egli sembra prevedere la fine di Gollum quando, liberatosi dal suo assalto alle pendici del vulcano, lo minaccia con dure parole: “Se mai dovessi toccarmi ancora, verrai gettato anche tu nel Fuoco del Fato.”, cosa che accadrà puntualmente due pagine dopo.
Analoghi esempi quasi si sprecano.
Un certo tipo di profezia lavora anche tramite il sogno, il quale, rivestendo però un triplo ruolo all’interno del romanzo, merita senz’altro un discorso a parte.

a cura di Tuor



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