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Giornate di riflessione e di incontro

Cristianesimo oltre la religione

Cristianesimo tra mercato globale e neoliberismo

Ripensare la vita e il cristianesimo a partire dai poveri

Cos'è e a che punto è la Teologia della Liberazione

Spiritualità e preghiera della Liberazione

Modelli alternativi di Chiesa per servire l'utopia

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


DOMENICA 24 ottobre '99

Cristianesimo oltre la religione

"Fra credenti"

Con l'incontro di oggi ricominciano le giornate di riflessione e confronto, dopo la pausa estiva. Si tratta di incontri fra credenti, non per fare proselitismo, ma per rafforzare le tensioni e le speranze comuni nel mondo oscuro, di restaurazione, in cui viviamo. Dire “fra credenti” sembra una limitazione, invece, tutto sommato, la limitazione è solo apparente. Vogliamo intendere con questo termine tutti quelli che credono che si possa realizzare un cambiamento e sono disposti a lottare per questo. Per i cristiani si tratterà di realizzare il regno di Dio (un regno di giustizia dove la creazione arriva finalmente alla pienezza), per altri sarà un lottare semplicemente per la giustizia, per altri ancora affermare dei valori umani, o religiosi di altro tipo, e così via. Sfuma così la distinzione tradizionale fra cristiani e laici, fra “credenti e non”, intesa solo in senso religioso.

Allora chi si esclude dicendo “fra credenti”? Si esclude chi si ostina nel non voler credere a niente; ma chi è così scettico sarà lui per primo a non aver interesse per questi incontri.

Possiamo anche parlare, pur mantenendo questa estensione del termine credente, di preghiera come atteggiamento di un uomo che cerca di lanciarsi oltre se stesso. Pensiamo che valga per tutte le religioni, come anche per chi, laicamente, non ne abbraccia alcuna.

Tempo di esilio

Con queste premesse ci sentiamo di affermare che, per chi è credente, questo in cui viviamo è, usando una terminologia biblica, tempo di esilio più che di esodo.

Il tempo dell'esodo (dal greco ex-odos, fuori strada) è il tempo della lotta, dell'impegno, ma anche dei frutti. I profeti biblici di questo tempo sono Isaia, Geremia, Amos.

Il tempo dell'esilio è il lungo periodo in cui gli Ebrei si trovano deportati a Babilonia. I profeti di questo tempo sono Ezechiele, Zaccaria e il cosiddetto Deuteroisaia con cui gli studiosi indicano l'ignoto autore dei capitoli 40-55 del libro di Isaia. Il loro linguaggio è diverso da quello dei profeti dell'esodo, perché cerca di educare alla resistenza, al radicamento nelle piccole cose per non perdere prospettive e speranze.

Le virtù di questo tempo di esilio sono:

Ai credenti, in questo tempo d'esilio, possono succedere tre cose, come in effetti si è verificato nel lungo esilio babilonese:

1. Adeguarsi al deportante. Il profeta Ezechiele accusa gli Israeliti di essere diventati come i Babilonesi; è un fenomeno di assimilazione, di simbiosi, diverso dall'arrendersi.

2. Suicidio. È la più alta forma di rifiuto, che si attua attraverso la negazione di se stessi. Non c'è solo il suicidio in senso stretto, si può anche perdere interesse a tutto, fino allo spegnimento totale di sé. Qualche esegeta, analizzando alcune espressioni di Ezechiele, deduce che il profeta stesso abbia pensato al suicidio.

3. Vivere la pazienza, la resistenza, il silenzio, la speranza. Gli Israeliti, a Babilonia, secondo l'usanza degli esiliati, si mettono in una posizione che guarda Gerusalemme, Ezechiele li aiuta a voltarsi, come dire: hai Gerusalemme nel cuore, d'accordo, però non la devi guardare fisso, perché chi resiste deve imparare a guardare in direzioni diverse.

Ora viviamo in periodo di esilio. Si sono spenti quei progetti di cambiamento globale tipici degli anni Sessanta/Settanta, quando gli interessi privati (quelli dei poteri forti) erano messi in discussione dalle rivoluzioni culturali. Il fenomeno di questi ultimi vent'anni viene definito, spesso con una sorta di soddisfazione cinica, riflusso. Sembra un processo spontaneo, ma viene da pensare ad un progetto che ha cercato di spegnere le energie di rinnovamento globale che tendevano ad una perequazione economica, ad un rinnovamento, condiviso, del pianeta. Alleato dei poteri forti, veri autori del riflusso, il Vaticano combatte tutte le forme di teologia che cercano di appoggiare quelle istanze di rinnovamento. Un termine più tecnico di questa restaurazione è neoliberismo, di cui diamo una definizione di Robert Mc Chesney del World Watch, l'osservatorio mondiale:

“Il neoliberismo è il paradigma economico-politico che definisce il nostro tempo: indica l'insieme delle politiche e dei processi storici che consentono ad un gruppo relativamente ristretto di interessi privati di controllare il più possibile la vita sociale allo scopo di massimizzare i profitti”
Aggiungeremmo anche i processi religiosi a quelli storici. L'effetto del neoliberismo è un massiccio aumento del dislivello mondiale con un peggioramento delle condizioni dei poveri del mondo. C'è una strategia mondiale di interessi privati forti, relativamente ristretti, che impostano questa strategia. Non c'è però il cosiddetto "grande vecchio”, come si indica il personaggio che manovra grandi progetti, anche se gli Usa fanno la parte del leone in questo gruppo di potere. La strategia si serve della mano militare e se occorre anche di quella diplomatica. Per esempio, ormai a 50 anni di distanza, si sa che, se nel 1948 il blocco popolare PCI/PSI avesse vinto, gli Usa avrebbero invaso l'Italia. Si sa pure che allo stesso disegno appartengono la strategia della tensione, le trame della loggia massonica P2, e così via.

Nel lungo esilio di Babilonia ci sono tre generazioni: quelli nati a Gerusalemme e morti in esilio, quelli nati e morti in esilio e quelli che, nati in esilio, si ritroveranno a morire liberi. Anche noi possiamo ritrovarci in una di queste tre generazioni. Come abituarci all'eventualità di morire in esilio?

I cristiani dovranno cercare il loro messaggio originario che è di liberazione, in altre parole far scendere i crocifissi dalla croce. Qualsiasi altro cristianesimo diventa complice di chi crocifigge.

Che fare in tempo d'esilio?

Abbiamo visto che c'è una strategia mondiale in atto e che ora è vincente. Occorre aprire gli occhi. Ci si può domandare che cosa cambi avere gli occhi aperti: per ora niente, ma i figli, per esempio, si ritroveranno una consapevolezza che potrà prolungare la resistenza fino a tempi più favorevoli ad un cambiamento.

La resistenza in esilio è fatta di piccole cose, non è tempo di grandi lotte; le strategie del tempo dell'esilio non sono quelle del tempo dell'esodo (lotta, azione…). Tornando al riferimento biblico, il cambiamento di strategia va colto anche nelle immagini letterarie del testo: il tempo dell'esodo è caratterizzato da segni potenti, come la nube e la colonna di fuoco che accompagnavano gli Ebrei nella loro marcia. Durante il tempo di esilio, invece, non ci sono più segni potenti, c'è solo la parola dei profeti, il lento voltarsi della gente sulla collina, dal passato al futuro.

Occorre avere chiaro in mente che siamo in tempo d'esilio, evitando però la rassegnazione. Non farsi prendere dalla vecchiaia, dalla debolezza.

Procedere, come suol dirsi, per “piccoli racconti”, che sono quelle piccole narrazioni liberatrici tessute nel quotidiano. Esse vengono a costituire la terra dove va il seme, un modo, cioè, per non cedere alla brutalità quotidiana, per far sì che la nostra persona diventi uno spazio escatologico, in altre parole un segno vivente di speranza. È importante mantenere in sé questo tesoro,cioè il seme sotto la terra; non cedere mai.

È il tempo di oscuri eroi di mille giorni, mentre l'esodo è il tempo dell'eroe luminoso di un giorno. La domanda da porsi è:

“Come essere squilibrati in tempo d'esilio?
” essere squilibrati significa andare contro il “riequilibrio” mondiale, in tempi in cui ognuno svende tutto ciò che aveva acquisito negli anni di lotta per “riequilibrarsi”.

Condivisione

L'esilio è anche un luogo per rivedere l'idea di Dio. Per esempio, l'ebreo, nell'esilio di Babilonia, non comprende più un dio, per lui traditore, che l'ha abbandonato al nemico. O, in tempi più vicini ai nostri, il prima e dopo Auschwitz. Ci si chiede: ma esiste un progetto di Dio che si contrappone al progetto dell'uomo? La storia è fatta dall'uomo, ma Dio – si dice - è nella storia. Come faccio a riconoscere Dio nella storia? Come faccio a riconoscere il povero da lui prediletto?

In tempo d'esilio viene esiliata quell'idea di Dio liberatore che è spaventosa per i poteri forti. Il libro di Jonas “Credere in Dio dopo Auschwitz” fa una ricerca in questo senso. Un teologo della liberazione sta studiando i carmi del "servo sofferente" nel libro di Isaia per scoprire il Dio liberatore. Per questo è in atto da tempo una guerra contro la teologia della liberazione, complici tutti i poteri forti: CIA, KGB, Usa, Vaticano, dittature sudamericane.

* * *

È difficile parlare di strategie in tempo d'esilio.Come si può essere sentinelle (alla maniera di Ezechiele), capire quando è il momento di parlare e quando quello di stare zitti, nel quotidiano? Il silenzio è la caratteristica saliente nel tempo d'esilio. Anche Ezechiele ad un certo punto deve tacere perché quello che poi dirà abbia un peso:

“Ti farò aderire la lingua al palato e resterai muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genìa di ribelli. Ma quando poi ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: Dice il Signore Dio: chi vuole ascolti e chi non vuole non ascolti; perché sono una genìa di ribelli.” (Ezechiele 3,26-27)
Anche questa è una strategia.

* * *

Un'altra difficoltà è nel fatto che non tutti hanno la percezione di trovarsi in esilio. Noi stessi, che partecipiamo a quest'incontro, forse non ci sentiamo in esilio rispetto alle stesse cose. Ci si domanda anche se sia possibile conoscere l'esilio se non si è attraversato l'esodo.

Va osservato, in effetti, che la realtà è sempre più complessa delle metafore che la rappresentano. Per quanto riguarda la memoria storica, gli ebrei in Babilonia avevano i racconti dei padri.

* * *

Viene portata un'esperienza concreta, quella della scuola: non si insegna più a porsi davanti ai grandi problemi studiando i filosofi e i letterati. Anche lo studio della storia è ridotto al minimo. Tutto è indirizzato alla preparazione al lavoro. È la strategia dei poteri forti: spazzare via la cultura e puntare tutto sulle competenze; parcellizzare sempre più le conoscenze, in modo da avere un esercito di schiavi. Dà un certo conforto sentire che, nella riunione scolastica citata come testimonianza, si è stabilito che l'unica cosa da fare è resistere: almeno si è percepita la condizione di esilio.

* * *
Indicazioni concrete son venute da più parti: stare insieme, dialogare con i figli, alcuni dei quali già si rendono conto di essere in esilio, aiutarsi a lottare, comunicare le proprie idee. Tutto questo s'è visto che è un modo più maturo di intendere il verbo amare.

Eucaristia

1Tessalonicesi 1-10 - Salmo 72/71 - Matteo 22,1-14; 41-46 Un modo per cercare di ritrovare le radici del nostro cristianesimo è quello di leggere le fonti più antiche. La lettura di oggi, il primo capitolo della prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, contiene le prime parole (in ordine cronologico) del Nuovo Testamento, essendo databili non oltre il 48. Sono parole di saluto e di riconoscimento ad una comunità che vive con entusiasmo, pur in mezzo alle difficoltà, il nuovo messaggio cristiano.

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“Il grido di dolore dei poveri è la voce di Dio” affermava il vescovo Camara, recentemente scomparso. È quello che emerge dalla Bibbia e, in particolare, dal salmo 72 che proclamiamo oggi. È un invito a resistere, come si deve fare in questo tempo d'esilio, con il conforto di avere per alleato un Dio che realizza la giustizia, come è ricordato più volte nelle prime strofe del salmo. Anche se, in questi tempi di trionfalismo, il Dio liberatore viene cancellato.

* * *

Dal capitolo 22 di Matteo, rileggiamo la parabola del banchetto nuziale ed il finale del capitolo, sulla questione di Gesù figlio di Davide. La parabola ci ricorda che si può rimanere esclusi dal Regno, non per elezione, ma per spreco della propria esistenza, per sbaglio voluto. Una lettura corretta di questo brano di vangelo ci fa rischiare l'esilio. La lettura allegorica, pur fatta in buona coscienza dai padri della chiesa, ha dei rischi. Indossare l'abito, come abbiamo visto domenica scorsa, vuol dire diventare operatori di giustizia. La lettura allegorica può portare alle interpretazioni parrocchiali, per cui l'abito si acquisisce attraverso la ricezione dei sacramenti ed evitando il peccato che poi, si dice più o meno palesemente, si riduce sempre a quello sessuale. Una lettura biblica, invece, ci può far riflettere, per esempio, sulla settima parola del decalogo che, dicendo “non rubare”, intende che ogni ebreo (il decalogo era rivolto a quel popolo) abbia il giusto, ossia quello che gli serve per vivere dignitosamente senza chiedere niente all'altro. Le beatitudini (Matteo, cap.5) mettono sullo stesso piano i poveri e i perseguitati a causa della giustizia: entrambi avranno il Regno.

 



 

 

DOMENICA 5 dicembre '99

Cristianesimo tra mercato globale e neo-liberismo: Resistenza o resa?

Venti/ottanta

Come sempre, questi incontri sono momenti di riflessione di fronte ad avvenimenti che incombono sul pianeta; avvenimenti di cui sappiamo poco o niente. Prima di riflettere, però, c'è bisogno di conoscerli, perché essi determinano sempre più l'infelicità degli uomini in generale e, in particolare, un'illusione di felicità in quella fetta di umanità, per così dire privilegiata, che gli studiosi ritengono costituire all'incirca un quarto dell'intera popolazione terrestre.

Uno degli scenari più inquietanti elaborati da alcuni economisti è quello che ipotizza, nei prossimi dieci anni, una configurazone del pianeta di tipo 20/80. Che significa? Che il 20% della popolazione mondiale sarà quello che lavora per mandare avanti l'azienda terra, mentre il rimanente 80% sarà inutile.

Questo scenario supera la tradizionale divisione tra primo, secondo e terzo mondo. In altre parole, quel 20% non è detto che si trovi (come si sarebbe portati a pensare) nel cosiddetto nord del mondo (Usa, Canada, Europa, Giappone), ma sarà delocalizzato, distribuito dappertutto. Ne è prova il fatto che già da ora nei ricchissimi Usa ci sono 26 milioni di poveri, nel senso di “disperati”, mentre nelle cosiddette tigri, le nazioni emergenti del sud-est asiatico, ci sono nuove ricchezze. Per dare alcuni esempi: la capitale della Malaysia, Kuala Lumpur, ha i grattacieli più alti del mondo, Taiwan è uno dei massimi fornitori asiatici di prodotti finiti. Per non parlare del Giappone la cui potenza economica è nota a tutti. Si è osservato uno spostamento dell'asse mondiale politico-economico dall'Atlantico al Pacifico. È difficile stabilire chi gestisce i flussi monetari internazionali. Non c'è il cosiddetto grande vecchio: tutti, anche i grandi, sono sottoposti a queste regole. Nel considerare le prime 60 potenze economiche mondiali, si osserva che nell'elenco redatto in base al PIL (distribuito con il materiale di questo incontro) non figurano soltanto gli stati, come ci si aspetterebbe in una statistica del genere, ma anche le imprese. Evidentemente si tratta di grandi multinazionali. Non essendoci più confini, succede che i mercati sono internazionali, globalizzati, come si dice ora, e le politiche nazionali non contano più. Il mercato ha il primato sulla politica, la priorità assoluta su tutte le altre questioni nazionali. Evidentemente è la fine del welfare state, termine con cui si indicano quegli stati che garantiscono i servizi sociali essenziali, e quindi un sostanziale benessere (welfare), a tutti i cittadini.

La scomparsa dei confini, almeno per quel che riguarda il dilagare dei mercati, ha provocato un'esplosione dei nazionalismi che è sotto gli occhi di tutti con i fatti recentissimi del Kosovo, di Timor Est, della Cecenia e così via. Attraverso le lotte nazionaliste, i più poveri cercano di ricuperare qualcosa. Non dobbiamo pensare che questo fenomeno arrivi all'improvviso: anche questo era previsto dagli economisti con il nome di effetto boomerang.

Poi c'è il problema del rimanente 80%. Brzezinski, che fu consigliere di Carter, presidente Usa sul finire degli anni Settanta, sta studiando le teorie per gestire quell'80% che avrà davanti a sé solo la disperazione. Per Brzezinski si tratta di trasformare la loro disperazione in illusione, soddisfacendo appena appena i loro bisogni primari. Una soluzione di un cinismo lucido, amorale, che lascia senza parole. Accanto alla soddisfazione dei bisogni primari, Brzezinski ipotizza il divertimento, che comprende lo svago vero e proprio offerto dai mezzi di comunicazione sociale e l'informazione, naturalmente addomesticata. In sintesi “Tittytainment” Che vuol dire “zinna e divertimento”. La prima è quella che dà il latte, quindi l'alimentazione, bisogno primario; la seconda serve per distogliere, per non far pensare all'ingiustizia di cui si è vittime.

Questa di Brzezinski non è una conversione avvenuta in vecchiaia verso il neoliberismo. Le sue teorie avevano già influenzato il presidente negli anni Settanta. Malgrado l'apparenza mite (era un pastore di una delle tante confessioni protestanti) e l'appartenenza al partito democratico, Carter è stato l'affossatore definitivo di quel programma di riforme a favore dei ceti meno abbienti, lanciato da Roosvelt nei lontani anni Trenta e noto con il nome di New Deal. Con Carter la povertà negli Stati Uniti aumenta in modo preoccupante.

Un altro economista, Friedman, premio Nobel per l'economia, sostiene che anche se tutte le amministrazioni conservatrici del mondo fossero sostituite da amministrazioni progressiste, non si potrebbero mettere in atto scelte economiche diverse da queste ipotizzate da Brzezinski. Una delle tesi di Friedman è che con il mercato globale si è raggiunta la fine, il massimo. Il pianeta, del resto, è incapace di proporre una visione alternativa. Esiste solo questa visione che incombe dalle università americane con la pretesa di essere definitiva. I prezzi inevitabili da pagare per tale sviluppo sono in quell'80% che è un gigantesco surplus. Una soluzione per eliminarlo potrebbe essere un genocidio, ma evidentemente è improponibile, quindi resta da gestirlo col metodo suggerito da Brzezinski.

Su analoghe posizioni si trova anche l'economista giapponese Francio Fukuyama secondo il quale il trionfo del capitalismo e di questo sistema politico è la fine della storia.

Un'altra caratteristica di questo scenario è la rivoluzione tecnologica. Il neoliberismo non si preoccupa più dell'accumulazione di capitali, come il vecchio capitalismo. L'asse è spostato sulla conoscenza tecnico-scientifica, soprattutto nel campo degli strumenti di comunicazione. La cosiddetta telematica, connubio tra informatica e telecomunicazioni, è il grande terreno di conquista del mercato globale. I mezzi di comunicazione sociale servono a far passare la teoria di Walt Disney, studiata nelle grandi università americane. Secondo l'apparentemente innoquo creatore di Topolino e Paperino, l'ideale ottimistico americano deve passare attraverso i divertenti e affascinanti cartoni animati che, tra l'altro, sono tra i più perfetti, dal punto di vista tecnico, che esistano sul mercato. Ed ora, nell'era della globalizzazione, l'ottimismo, che prima serviva per dare la carica agli Americani, serve ad imbambolare quel famoso 80%. A questo proposito c'è un dato sconcertante: in India si producono ottocento film all'anno; gli Indiani, afflitti da problemi enormi come la povertà, il degrado delle grandi città come Bombay e Nuova Delhi, passano sempre più tempo al cinema.

Sintesi e possibilità di reazioni

Il quadro che ci si prospetta è quindi il seguente:

1. Globalizzazione dell'economia. Spariranno le economie nazionali e le realtà delle nazioni stato, con eventuali effetti boomerang, probabilmente considerati transitori.
2. Rivoluzione tecnologica.

3. Sostituzione dell'asse Nord Atlantico con l'asse Pacifico.
Si parla sempre più di pensiero unico, perché l'ideologia neoliberista, con tutti i suoi aspetti economici, deve portare ad una doppia globalizzazione, economica e anche politica: tutto il pianeta dovrebbe avere gli stessi 500 canali TV gestiti da pochissime reti.

Davanti a questo quadro è arduo pensare a come reagire. La nostra opposizione sarebbe ridicola se nel lottare non tenessimo conto di avere a che fare con quello che alcuni studiosi chiamano leviatano, un mostro biblico che figura nelle suggestive rassegne del creato che ci dà la letteratura sapienziale, come uno dei tanti animali acquatici:

“Lo solcano le navi, il Leviatàn che hai plasmato perché in esso si diverta” (Salmo 104/103, 26)
ma anche, con una connotazione negativa, come drago malefico mutuato dalla mitologia fenicia dove era un mostro del caos primitivo:
“La maledicano quelli che imprecano al giorno, che sono pronti a evocare Leviatàn.” (Giobbe 3,8)
e, con altro nome, nel libro dell'Apocalisse dove è decisamente un nemico dell'umanità:
“Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna…” (Apocalisse 12,3)
Questo mostro perseguita una donna cercando di divorarle il figlio (allusione al Messia perseguitato), scoppia una guerra in cielo finché l'arcangelo Michele sconfigge il drago che si ferma sulla spiaggia del mare. Ma da lì darà forza ad una nuova bestia con sette teste anche lei che soggiogherà tutta la terra, cosicché tutti gli uomini adoreranno il drago che ha dato forza alla bestia (Apocalisse 12,1-13,9). È impressionante questo drago a sette teste (sette è simbolo di una realtà perfetta) cui non è possibile sfuggire. Non c'è un angolo del pianeta dove rifugiarsi. Tale appare la globalizzazione.

Il Chiapas, regione del Messico, rappresenta uno dei pochissimi tentativi di economia alternativa alla globalizzazione planetaria, una di quelle piccole schegge di speranza per cui possiamo provare ancora a sperare.

Un altro di questi tentativi è la rete lillipuziana, un tentativo di costruire tante piccole reti (nel senso di collegamenti informatici) di “gruppi che contestano l'attuale sistema e si sforzano di farlo cambiare, mettendo in pratica uno stile di vita diverso, dando voce alle campagne e facendo controinformazione” (Alex Zanotelli su Equonomia – sett.'99).

Non esistono però grandi rivoluzioni e, forse, non è più tempo. Le stesse realtà progressiste non hanno un modello alternativo da proporre, tant'è vero che la sinistra è al potere in molti governi occidentali, ma il modello delle economie di quei paesi è decisamente neoliberista.

E il cristianesimo?

Le religioni non sono estranee al fenomeno della globalizzazione. Il volontariato sembrerebbe essere uno di quegli elementi di resistenza che si inseriscono nel sistema, in realtà fa proprio il contrario: invece di ostacolare il processo di globalizzazione, gli risolve tanti problemi. Questo perché, in fondo, non fa altro che dare il minimo per la sopravvivenza all'80%, proprio come sostiene la teoria Brzezinski. Il neoliberismo è palese nella costruzione di mastodontici edifici di culto, nelle liturgie spettacolari che usano gli stadi per raccogliere maggiore folla ed in piccolo nell'amministrazione delle parrocchie. Nelle grandi chiese non si parla di povertà o di servizio, ma di efficienza, di budget. Oggi più che mai c'è carrierismo nella chiesa, non solo a livello di alte gerarchie, ma anche nel piccolo delle parrocchie. Si dà pure spazio alla carità, ma l'importante è che non si rifletta sul perché della povertà. Si fa la catechesi della Parola, ma non l'analisi dell'economia e delle cause della povertà. È ormai famosa la frase del vescovo brasiliano Helder Camara, recentemente scomparso: “Se aiuto un povero, mi dicono cristiano. Se mi chiedo perché ci sono tanti poveri nel mondo, mi dicono comunista”.

Fare spazio alla carità, senza rendersi conto delle cause che hanno prodotto la povertà, ci porta ad assimilare sempre più l'idea che la ricchezza sia benedizione di Dio, pensiero tipicamente calvinista che contrasta con il Dio biblico sempre dalla parte del povero. Si oppone la teologia della prosperità a quella della liberazione. Su questa linea finiscono col trovarsi anche quei movimenti che hanno un'apparenza di novità, come i Pentecostali in campo protestante e i corrispondenti Carismatici in quello cattolico, i Focolarini, i Neocatecumenali, eccetera: serpeggia in tutti l'idea che chi è fedele a Dio e segue le sue leggi morali è gradito a Lui e prospererà. Questa fedeltà a Dio non è vista in senso biblico, ma in un generico dare la vita a lui, pregare e contribuire con i nostri soldi alla chiesa. Così si è cercato di risolvere i problemi dell'esistenza: nell'ipotesi che il fedele sia povero e ammalato, la spiegazione è che non si è reso gradito a Dio. Il luogo dove questa teologia riscuote più successo è – ironia della sorte – il Sud America! È impressionante osservare come il modo di ragionare di teologi, vescovi e laici che si trovano su questa linea segue la stessa logica dell'economia di mercato:

economia: i poveri sono poveri, perché non sono capaci di guadagnare denaro e non sono capaci di consumarlo
teologia: i poveri sono poveri perché non hanno abbastanza fede. È la stessa logica di chi ringrazia Dio per le cose che vanno bene. Si tratta di un'abitudine molto diffusa tra i cristiani, ma non è molto corretta: se Dio è responsabile dell'andamento delle cose, perché alcune le fa andare bene e altre male?

Condivisione

L'ultima riflessione fa sorgere spontanea la domanda: “Ma allora di che possiamo ringraziare Dio?” La risposta ci viene dalla Bibbia: possiamo ringraziarlo perché ci parla, perché è vicino a noi, perché ci ha chiamati ad essergli vicini, perché ci dona la Torah (la sua parola) che è il sentiero da seguire per poter svolgere il nostro compito di alleati.

***

Viene sostenuta la necessità di mantenere l'autonomia delle scuole come difesa contro l'esigenza della globalizzazione che deve insegnare le stesse cose dappertutto. Tra l'altro questa globalizzazione non ha alcun interesse alla crescita culturale, spirituale, sociale delle persone, ma solo a specializzarle in vista della divisione 20/80. Gli effetti si vedono già nelle scuole dove si abbandonano le discipline umanistiche per orientarsi sulla tecnica, specialmente l'informatica.

***

Viene suggerito un altro scenario per interpretare la realtà in cui stiamo vivendo. Abbiamo un uno per mille che governa veramente; e lo “zinna e divertimento” in realtà è per quel 20% che avrebbe l'incarico di mandare avanti l'azienda terra e che deve consumare e guadagnare. L'80% forse è proprio fuori anche da questo palliativo. Anche la Chiesa (la gerarchia) è nell'uno per mille.

La soluzione del problema non è all'interno di questa esigua elite di potere. Germi nuovi di civiltà vera si trovano ad esempio nel Chiapas, dove le comunità dei campesinos, oltre a realizzare quell'economia alternativa cui si accennava prima, fanno azione sull'esercito affinché prenda coscienza e rinunci ad essere il braccio armato del potere. Un altro segno di speranza è nella contestazione messa in atto in questi giorni a Seattle, in occasione dell'incontro delle grandi potenze mondiali che stanno costruendo questo tipo di globalizzazione. Non basterà a fermare certi colossi, però è servito a mettere sotto gli occhi di tutti che esiste un dissenso di cui anche Clinton ha dovuto riconoscere l'esistenza e la fondatezza e soprattutto ad avvisarci che esistono dei manovratori che hanno le leve del pianeta.

***

C'è chi fa un parallelo con il famoso “panem et circenses” degli antichi Romani, però, riflettendo, si osserva che allora, pure con i 103 giorni di divertimenti continui per l'inaugurazione del Colosseo, che era un'eccezione, rimaneva sempre il tempo per pensare, perché i ritmi erano molto diversi. Oggi con le reti televisive, ancora più raggiungibili grazie ai satelliti da tutto il mondo, è uno spettacolo continuo, 24 ore su 24.

***

Resta la domanda, per il cristiano, “come rispondere a questo quadro?”. Non ci sono risposte immediate. Anche da questo incontro non sono emerse indicazioni specifiche, salvo il cenno ad alcune iniziative da approfondire. C'è però un dato: ciascuno di noi può decidere della propria vita, al di là di tutti i sistemi. Può fare una vita di sacrifici che potrà rivelarsi utile magari fra 20 generazioni. E si riafferma ancora una volta l'esigenza di stare insieme per darsi forza in questo.

Eucaristia

Isaia 63,16-17; 64,1.3-7 - Salmo 16/15 - Marco 13,33-37

I DOMENICA D'AVVENTO

Seguiamo la liturgia della prima domenica d'Avvento, perché sabato scorso l'abbiamo sostituita con una serata di riflessione comunitaria.

Si chiude il Tempo Ordinario e si entra nel tempo d'Avvento. I paramenti si tingono di viola, il colore dell'impegno e della riflessione.

In antico l'Avvento durava 40 giorni (tale è rimasto ancora nel rito ambrosiano), la stessa durata della Quaresima per dargli altrettanto valore di tempo forte di riflessione pensosa.

Anche l'anno liturgico si chiude e ne inizia subito uno nuovo, che è un “anno B”, caratterizzato dalla lettura del vangelo secondo Marco, di cui, prima della celebrazione, proclamiamo brevemente l'inizio.

Tutte le letture ci richiamano alla vigilanza. L'ignoto profeta, che scrive sotto il nome di Isaia, invita il popolo d'Israele, che si accinge a tornare dall'esilio, a trovare forza contro l'accidia che lo domina. Il vangelo non è da meno nell'invitare alla vigilanza. Noi cerchiamo di rendere plastico questo invito accendendo la prima delle quattro candele viola che ci accompagneranno per tutto l'Avvento ed il tempo di Natale. Il candelabro che le contiene, insieme con una al centro bianca che si accenderà a Natale, è la cosiddetta “corona d'Avvento”, il cui uso risale al XII secolo.

L'importante è però il senso dell'Avvento. Non è – ormai lo dovremmo aver tutti chiaro – l'attesa della nascita di Gesù bambino. Dove ci sono donne e uomini che camminano insieme, c'è Avvento. La speranza di questo periodo è ben rappresentata dal solstizio d'inverno che coincide quasi, appunto, col Natale: da questo giorno, nel nostro emisfero, la luce comincia impercettibilmente ad aumentare. Poco, ma sempre, come deve avvenire in noi. Bisogna guardarsi dalle grandi illuminazioni, dalle visioni, dalle folgorazioni improvvise che potrebbero avere breve durata. La luce non basta acquistarla, deve rimanere e perché rimanga ocorre vigilare:

“State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso” (Marco 13,33)
Non si tratta, come vogliono gli insegnamenti tradizionali, di vegliare per paura della morte, ma per attendere operosamente il Regno. Questa attesa avviene in due: c'è Dio, ma c'è anche l'uomo. Se l'uomo non spiana la strada, il Regno non viene. L'invito è a prendere sul serio il nostro impegno, a vigilare, a cercare di capire come vada realizzato quest'impegno che dev'essere magari minuscolo, ma testardo. Ecco l'Avvento: il regno di Dio che sta per realizzarsi.

Vigilate!”, è l'invito, al plurale, perché da soli si vigila male o per niente. È anche l'indicazione con cui si è concluso l'incontro di questa mattina.

L'invito non è quindi ad avere paura della morte, ma tutt'al più, se una paura ci deve essere, sia quella di vivere una vita addormentata, col rischio di fallirla.

 

 



 

 

DOMENICA 16 gennaio 2000

Ripensare la vita e il cristianesimo a partire dai poveri

Le radici

Una costante di queste giornate di riflessione e confronto è il silenzio. Necessario in ogni tempo, lo è più che mai ora che la situazione del pianeta impone a tutti una seria riflessione.

Sulla situazione del pianeta ci siamo confrontati nell'ultima giornata di riflessione, il 5 dicembre. Oggi ci proponiamo, in particolare, di chiederci come ripensare la vita ed il cristianesimo; ma prima ancora ci poniamo una domanda:

“Dove sono le tue radici?”
Avevamo visto il 5 dicembre come la situazione allarmante di questa nostra terra, e le prospettive future ancora più allarmanti, sono da addebitare soprattutto al mondo occidentale, dove gli USA fanno la parte del leone, ma noi Europei non siamo da meno. Gli Americani, del resto, sono un concentrato di Europei, perché discendono da Inglesi, Olandesi, Irlandesi e così via. Ma la ricerca di radici che proponiamo non riguarda le etnie, ma le due anime dell'Europa:

1. L'anima assolutista, totalitarista, cieca, che si può dire ha preso piede dalla Guerra dei Trent'anni in poi.

2. L'anima del dubbio, della ricerca, soprattutto su se stessi, che ha in Pascal e Cartesio i suoi rappresentanti più significativi e continua poi nella scuola filosofica francese di Maritaine, dove il dubbio e il confronto erano di casa; e anche in un papa dei nostri tempi, Paolo VI, che a quella scuola si era formato.

Si tratta allora di chiedersi a quale anima apparteniamo, alla prima o alla seconda.

La prima è vincente. L'intolleranza affermatasi con la Guerra dei Trent'anni ha prodotto gli assolutismi del Seicento e poi i totalitarismi del Novecento. Adesso questi ultimi stanno lasciando il posto al pensiero unico, una sorta di investitura messianica che cerca di tagliare via ogni deviazione. Si impone a tutto il mondo la “way of life” (modo di vita) americana, caratterizzata dal dominio assoluto del mercato, dall'ossessione del successo e così via. Un anticipo c'è stato già nel maccartismo degli anni Quaranta/Cinquanta, che prendeva il nome dal senatore americano Mc Carthy che si era ostinato a reprimere ogni forma di comunismo, vero o presunto, scatenando così una colossale caccia alle streghe.

La seconda anima è stata sempre sconfitta, ma ha viaggiato su vie sotterranee. Caratterizzata, come abbiamo detto, dal dubbio e dal confronto, si può ben descrivere citando i due francesi del Seicento nominati prima. Blaise Pascal sostiene che il dubbio è l'anima della fede. René Descartes, più comunemente conosciuto da noi italiani come Cartesio, si propone di rivedere tutto il suo sistema filosofico e per far questo si impone quattro regole fondamentali

“La prima era di non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza” (RENE' DESCARTES - “Discorso sul metodo” II/4)
Le altre tre sono più specifiche e riguardano il procedimento successivo. In sostanza si tratta di fare tabula rasa per poi ripensare tutto.

La domanda quindi che ci poniamo riguarda l'anima che possediamo, se è quella assolutista che ci impedisce ripensamenti della nostra vita, o l'altra che ci fa dediti alla ricerca, al dubbio, al confronto.

La povertà oggi

Fatta questa premessa, veniamo al tema della giornata, partendo da un evento storico preciso: la povertà nel pianeta sta diventando un fatto talmente esplosivo da divenire elemento di partenza per ogni riflessione del tipo di quella odierna.

La globalizzazione dell'economia introduce il fenomeno della concorrenza a livelli spropositati. Le aziende possono permettersi di chiudere alcuni stabilimenti anche se sono economicamente floride. Ci sono casi continui; uno è proprio di questi giorni e riguarda la Good Year che chiude lo stabilimento di Cisterna (LT) per ragioni strategiche, incurante dei problemi che crea ai lavoratori. Il pensiero unico è esente da qualsiasi rapporto con la comprensione umana, andando oltre, in questo senso, anche al vecchio capitalismo che, almeno, con il suo volto spesso paternalistico, aveva un barlume di umanità. Non si tratta nemmeno di cattiveria, di immoralità: c'è solo amoralità, l'unica cosa che conti è il rapporto profitto/convenienza. Chi si muove su queste linee sta solo facendo il suo lavoro, anzi, se lo fa bene, obbedisce ad una nuova religione che consiste nel mettersi al servizio del dio-capitale; non importa se crea un mare di dolore. Occorre notare che così si colpisce anche chi fino a poco prima pensava di star bene (è un esempio il caso della già citata Good Year) e probabilmente era solidale con il sistema o quantomeno non si poneva il problema.

Anche i rapporti con i governi cambiano; avevamo visto nell'incontro precedente come nelle graduatorie delle potenze economiche mondiali le imprese figuravano accanto agli stati nazionali. Si tende quindi ad annullare il controllo da parte degli stati sulle imprese. Il denaro conta in sé, spostandosi in gran massa a livello planetario, indipendentemente dai prodotti. Tutto va privatizzato. È la fine del Welfare State.

Tutto questo è la povertà.

Come si può pensare di vivere o addirittura di dichiarare di aver fede, come se niente fosse? Di nuovo ci si propone la domanda:

“Dove sono le tue radici?”

Se le mie radici stanno in quell'anima dubbiosa del pensiero europeo, io sono già una persona inquieta; allora è possibile che a mano a mano che mi sveglio dal sonno della quotidianità mi cominci a chiedere come vivere un cristianesimo a partire dai poveri, termine biblico che per noi uomini e donne del nostro tempo corrisponde a tutto ciò che è stato sintetizzato prima sulla situazione del pianeta.

La Bibbia è piena di situazioni in cui Dio vuole la giustizia del povero. Malgrado quanto vediamo (o dovremmo vedere) in quest'era di globalizzazione, c'è sempre il rischio di identificare il povero, l'orfano e la vedova delle Scritture con il barbone portato la vigilia di questo Natale appena trascorso in piazza san Pietro in occasione di una delle tante celebrazioni giubilari. Certo il barbone è sintomo del male del pianeta, ma non è limitandosi ad un atto di pietà (per di più scenografico, in contrasto con Mt 6,1-4) che ci si mette a fianco di Dio nel cercare la giustizia.

Che rapporto c'è fra Dio e il dolore profondo presente nel pianeta? E io come posso essere utile? Come possiamo annunciare a chi soffre, emarginato dalla globalizzazione, che Gesù è gioia? Che significato ha l'antico kerigma cristiano – Gesù è risorto – nel mondo della globalizzazione? Forse c'è da ripensare tutto.

Ma la Bibbia che dice?

Il messaggio ebraico cristiano non si interessa di salvezza delle anime, ma di salvezza globale. La parola “povero” compare 712 volte nella Bibbia, al terzo posto dopo “Dio” e “Gesù”. Analizziamo i passi più significativi al riguardo.

Michea 6,8 “Ti è stato annunziato, o uomo, ciò che è bene e ciò che il Signore cerca da te: nient'altro che compiere la giustizia, amare con tenerezza, camminare umilmente con il tuo Dio!”

Amare con tenerezza” è un po' come “I care” (mi sta a cuore) che don Milani aveva esposto nella scuola di Barbiana, in opposizione al “me ne frego” dei fascisti. “Camminare con Dio” non è “ubbidire”: chi cammina “cerca”, come Pascal. Il salmista aggiunge “umilmente”: questo avverbio (come il corrispondente aggettivo “umile”) deriva da umus (terra), per cui quello che il Signore cerca da noi è che camminiamo legati alla terra, con la coscienza della terra. È come dire che dobbiamo capire quali sono i problemi del pianeta, non camminare rivolti al cielo.

Osea 6,6Perché io voglio l'amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti.”

Questo passo è citato due volte da Gesù (Mt 9,13 e 12,7) e, in entrambi i casi, per reagire alle mormorazioni dei farisei che si scandalizzavano perché non seguiva le prescrizioni legalistiche. È un passo rischioso per il sistema, perché mette sotto accusa chi “sta a posto”, cioè chi segue le leggi umane disinteressandosi del fatto che più o meno direttamente opprime il più debole; mentre “amore” e “conoscenza di Dio” vorrebbero attenzione agli ultimi, agli oppressi.

Isaia 58,6-7 “Non è piuttosto questo il digiuno che preferisco: spezzare le catene inique, sciogliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e rompere ogni giogo? Non forse questo: spezzare il pane all'affamato, introdurre in casa i poveri senza tetto, coprire colui che hai visto nudo, senza trascurare quelli della tua carne?”

Qui il profeta progetta uno stile di vita che non sia la cosiddetta “carità”, ma un progetto serio. “Introdurre in casa i poveri” non è fare la carità, ma condividere; non si chiedono drammatici abbandoni dei doveri familiari: “senza trascurare…”, si chiede di fare l'uno e l'altro. Per noi oggi “spezzare le catene inique” è contrastare la globalizzazione. Come? Noi gente comune e senza gran potere possiamo solo cercare le fessure nel sistema per incrinarlo, ad esempio con iniziative come la “rete lillipuziana”.

Zaccaria 7,8-10 “La parola del Signore fu indirizzata a Zaccaria così: Così parla il Signore degli eserciti: Amministrate fedelmente la giustizia e siate benevoli e pietosi l'uno verso l'altro! Non defraudate la vedova e l'orfano, lo straniero e il povero e nessuno ordisca nel suo cuore trame contro il prossimo”

Le “trame contro il prossimo” non sono soltanto le classiche trame con cui delinquenti di vario tipo si accordano per far del male a qualcuno. Allora, più o meno, noi gente comune saremmo tutti innocenti. Anche aderire alla logica della globalizzazione è partecipare ad una gigantesca trama contro la parte più povera dell'umanità.

Zaccaria 8,16-17 “Ecco ciò che dovete fare: siate leali l'un con l'altro, pronunziate giudizi di pace alle porte; nessuno ordisca nel suo cuore trame contro il fratello; non vi compiacete di giuramenti falsi. Sì, tutte queste cose io le odio. Oracolo del Signore”.

La pace di cui parla la Bibbia è sempre la “shalom” ebraica, mai separata dalla giustizia (Salmo 85,11).

Giacomo 1,27 “Questa è la religiosità pura e senza macchia davanti a Dio Padre: visitare gli orfani e le vedove nella loro afflizione, custodire se stesso immune dal contagio del mondo.”

La vera religiosità è questa. In continuità con la Bibbia ebraica, quella cristiana ci propone ancora l'attenzione agli ultimi della terra e c'invita a non farci contagiare da quelli che li opprimono.

Concludiamo insistendo sulla necessità di intraprendere un cammino umile, modesto, ma continuo, senza voltarsi indietro:

“Chiunque mette mano all'aratro e poi si volta indietro, non è adatto per il Regno di Dio.” (Luca 9,62)
Eucaristia

1 Corinzi 6,13-15. 17-20 - Salmo 95/94 - Giovanni 1,35-42

Domenica 16 gennaio 2000 – ii del tempo ordinario – anno b

Finito il Tempo di Natale, entriamo nel Tempo Ordinario (domenica scorsa, Battesimo di Gesù, pur chiudendo il Tempo di Natale, è considerata la prima del T.O.) caratterizzato dal colore verde dei paramenti, simbolo dell'essere fecondi, dell'approfondimento. È chiamato il “tempo della Chiesa” perché in esso la Chiesa, dopo aver considerato i misteri dell'incarnazione e, più tardi, quello della passione, morte e risurrezione di Gesù, si mette a riflettere su quello che deve fare.

Cominciamo quindi anche noi a riflettere; e lo facciamo sull'immagine corretta della fede cristiana che è “seguire Gesù di Nazareth”. Non in modo astratto, ma seguire proprio quel Gesù, che ha fatto quelle scelte che ci consegnano i vangeli. Quello che leggiamo oggi (Giovanni) è il più tardo, nel senso che è stato scritto dopo tutti gli altri (fine I secolo).

Il brano di oggi ci presenta una scena che Giovanni colloca dopo il battesimo di Gesù. Due discepoli del Battista si mettono a seguire questo nuovo personaggio, perché il loro maestro gliel'ha presentato come “l'agnello di Dio”. Gesù non è molto invitante; è la prima volta che si presenta sulla scena in questo vangelo ed abbiamo subito davanti un uomo serio, uno che non cerca le folle:

“Che cercate?” (Gv 1,38)
La risposta è corretta:
“Rabbì (che, tradotto, significa “maestro”), dove stai?” (Gv 1,38)
cioè “vogliamo stare con te”. La catechesi giovannea non ci dà regole di catechismo, ma cammino, vita. Se vogliamo fare questa scelta, dobbiamo entrare in intimità con uno che è un perdente, che sta dalla parte degli ultimi, che sceglie di far loro giustizia, che non ha successo mediatico. Uno che vuole con-vincere (cioè vincere insieme), non ammaliare. La risposta che a sua volta dà Gesù è onesta:
“Venite e vedrete” (Gv 1,39)
cioè “decidete voi”; è l'invito a sperimentare con i propri occhi e decidere con la propria mente, a fare qualcosa.

Nell'incontro con questi futuri primi discepoli, c'è un particolare curioso:

“Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni. Ti chiamerai Cefa” (che si traduce Pietro).” (Gv 1,42)
Il cambiamento di nome significa che la realtà della vita cambia. In questo caso, significa anche che ognuno è sostegno (pietra) dell'altro.

l brano dalla prima lettera ai Corinzi che proclamiamo oggi, sembra che Paolo si occupi delle solite questioni sessuali; dal testo non si può negare, del resto Corinto era nota per i suoi costumi licenziosi che probabilmente non tutti i convertiti avevano abbandonato. Però il riferimento di Paolo alla prostituzione si rifà ai paralleli biblici tra l'Israele infedele e le prostitute. È come se dicesse: “Siete fatti per il Regno, non diventate come prostitute, non vi mettete in mano al primo che passa!” Sembra che veda il corpo negativamente, ma, leggendo attentamente, troviamo:

“Il corpo non è per l'impudicizia, bensì per il Signore e il Signore è per il corpo” (1 Cor 6,13)

Il corpo va bene, ma teniamo presente che è fatto per Dio, non per l'impudicizia, per sprecarsi. Non bisogna fare della corporeità una cosa cui tutti attingono. Paolo non condanna il piacere, ma l'uso perverso della sessualità e, soprattutto, il vendersi (ecco l'immagine della prostituta), quando cioè gli aspetti piacevoli della sessualità diventano vendita, seguono la logica di mercato.

 



 

 

DOMENICA 20 febbraio 2000

cos'è e a che punto è la teologia della liberazione

Panorama

Quello di oggi può sembrare un tema per specialisti, e magari meno importante di altri che ci permetterebbero di affrontare i problemi più emergenti da cui è afflitto il mondo.

Va però notato che la teologia (dal greco discorso su Dio) è un argomento cui non si sfugge, malgrado il positivismo e il razionalismo che hanno caratterizzato l'Ottocento ed il Novecento. Non ci riferiamo, però, al revival del discorso religioso di quest'ultimo scorcio di secolo che è in gran parte un fenomeno superficiale, ma a qualcosa di più profondo.

Tra l'altro l'oggetto delle ricerche del nostro gruppo riguarda proprio i problemi di carattere religioso ed in particolare il rapporto tra messaggio cristiano e problemi dell'economia che, con la globalizzazione in atto, sta assumendo aspetti preoccupanti. È un tema quindi che ci deve occupare e preoccupare tutti. Non si sfugge a Dio, ma nemmeno alla globalizzazione dell'economia. Entrambi, ci piaccia o no, incombono sugli uomini.

Iniziare oggi a fare teologia richiede necessariamente il passaggio per l'ateismo, fenomeno relativamente nuovo, se si pensa che appare vistosamente solo negli ultimi due secoli. Feuerbach, filosofo tedesco dell'Ottocento, sostiene che Dio è una creazione dell'uomo il quale, sull'immagine di questo essere eterno, proietta i propri bisogni, desideri ed aspirazioni (“L'essenza del cristianesimo” 1841). Ciò che dà ragione a Feuerbach, come agli altri cosiddetti maestri del sospetto (Marx, Freud, ecc.), è che il cristianesimo, così come si è sviluppato, ha portato a certe caricature di Dio, in particolare di Gesù di Nazareth, in altre parole false immagini, che nulla hanno a che fare con il Dio della Bibbia. Anche il Concilio si occupa di questo fenomeno:

“Perciò in questa genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede […] si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione.” (Gaudium et Spes n.19)
La condanna di Giordano Bruno, di cui in questi giorni ricordiamo il 400° anniversario, è uno dei tantissimi simboli delle conseguenze di una certa immagine di Dio.

I maestri del sospetto, però, non hanno dato una grande spallata al sistema religioso, anche se lo hanno scosso un bel po', tant'è vero che in questi ultimi anni, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino e, successivamente, del comunismo reale, con il conseguente disgregamento dell'impero sovietico, la religione (per lo più tradizionale) ha riempito il vuoto lasciato dalle ideologie crollate, riprendendo così il terreno perduto. Ma, accanto alla religione, un altro elemento ha riempito questo vuoto: il mercato. Ed è così che la scena di questo mondo è ora dominata da papi e mercanti.

Due settimane fa, all'annuale congresso dei vescovi italiani, il cardinale Ruini, presidente della CEI e vicario del papa per la città di Roma, ha parlato tranquillamente di connubio tra mercato e religione. Le radici di questa deriva del cristianesimo si possono trovare, è noto, fin nell'alto medioevo e, contemporaneamente anche i relativi movimenti che tendevano a riportare in qualche modo il cristianesimo alle origini. L'oggetto dell'incontro odierno riguarda uno dei più recenti tentativi del genere, perché nasce nella seconda metà del nostro secolo: la teologia della liberazione.

Come nasce la teologia della liberazione

Nei primi anni Sessanta, portando a maturazione le riflessioni nate tra le comunità del Perù e della Bolivia, nasce la “teologia della liberazione”, anche questa un “discorso su Dio”, ma sul “Dio che libera”. Dai luoghi in cui nasce si capisce anche il perché. Si tratta dei posti più arretrati del pianeta a causa dello sfruttamento da parte degli Usa i quali, agli inizi del Novecento, risolti i conflitti interni con i Pellerosse, si scoprono potenza mondiale e iniziano una politica di conquista e controllo sugli altri paesi del Centro e Sud America. È la cosiddetta “dottrina del cortil di casae” con evidente riferimento al resto del continente che sarebbe il loro “cortile” dove razzolare a piacimento. Non è solo storia passata, è una situazione che dura ancora ai giorni nostri. Tutti ricordiamo come, all'inizio degli anni Settanta, Salvatore Allende, presidente democraticamente eletto del Cile, avvia un programma di riforme popolari, nazionalizza le miniere di rame, la più grande risorsa del paese, ma poco dopo viene ucciso e sostituito da una giunta militare con a capo il generale Augusto Pinochet. La giunta ritorna subito ad un capitalismo conservatore, secondo le linee dettate dall'economista americano Milton Friedman, a danno non solo dei ceti più poveri, ma perfino di alcuni ceti medi che avevano sperato nella giunta golpista. Un altro caso noto è quello di Cuba: circa un decennio prima del caso cileno, con tutti i limiti, anzi i crimini di quella che comunque è una dittatura, Fidel Castro riesce a sconfiggere il dittatore Fulgencio Battista che, come i suoi predecessori, aveva asservito Cuba agli Americani riducendola un'isola di corruzione e prostituzione, dominata dalla religione e dagli Usa.

Così in paesi asserviti ed impoveriti come Perù e Bolivia, nasce una coscienza che porta alla denuncia della povertà, non come destino, fatto casuale o addirittura voluto da Dio, o “occasione per i ricchi per fare opere buone”, come si sosteneva nel medioevo e oltre, ma come una condizione che Dio non vuole, ma è un prodotto del sistema politico-economico o, meglio, con termini tipici degli anni Sessanta, capitalistico ed imperialistico. Oggi perdura, ma con termini più adatti al mutato scenario internazionale, diremmo prodotta da un “sistema globale”.

All'inizio, i promotori di questa nuova teologia sono i parroci delle grandi città, in particolare Lima (capitale del Perù) nella cui cattedrale si nota tuttora, in una cappella sulla sinistra, un monumento a Francisco Pizarro, il conquistatore spagnolo che ha ammazzato migliaia di indigeni, i veri Peruviani! gli eredi delle vittime entrano in quella chiesa, e, tra le persone degne di esservi sepolte, trovano il loro carnefice.

Uno di questi parroci, Gutierrez, ancora vivente, scrive nel 1970 un libro “Teologia della Liberazione” in cui fa un “discorso su Dio” per convincere questi Indios a riconoscere i propri diritti. Dopo un anno scrive anche “Bere al proprio pozzo” in cui cerca di insegnare agli Indios ad attingere al “proprio pozzo” che è quello delle origini della loro civiltà; e cerca anche di parlare loro di Dio in una maniera diversa da quella usata dalla religione ufficiale che aveva prodotto, nella loro cultura, il “Dio piumato” che, secondo un'antica profezia, veniva dal mare ad ucciderli e che identificavano con quello dei cristiani che si impiantava al posto dei loro dei chiedendo al popolo di subire.

Un altro protagonista di questa nuova visione della fede è Eduardo Galleano che nel 1971 a Città del Messico pubblica “Las venas abierta de America Latina” tradotto in modo meno efficace con “Il saccheggio dell'America Latina ieri e oggi”.

La presa di coscienza comincia così ad innervarsi. Si comincia a pensare che i poveri sono piuttosto degli “impoveriti” e che c'è qualcuno che li spoglia. Cioè la categoria dei poveri non è asettica, ma ha una sua connotazione reale. Anche i ricchi vengono chiamati “arricchiti”, per sottolineare che il loro stato non è suffragato da un diritto naturale. In tutti questi discorsi, però, entra Dio (non è marxismo!) perché è come se questi poveri, queste “non persone” in qualche maniera suscitassero l'ira di Dio. Si comincia a far riflettere che il Dio, sia pure “venuto dal mare”, non dice le cose che sostenevano i conquistatori spagnoli, ma: “Voi dovete ricevere giustizia!

La nuova teologia nasce dall'angoscia di questi preti che si domandano che cosa dire a questi poveri. Una delle conclusioni è che il peccato ha “nome e cognome”, non è una condizione astratta, teorica. È peccato per esempio quando non permetto ad un altro di vivere una vita dignitosa.

Scelta preferenziale per i poveri

Sono gli anni del concilio Vaticano II, il 21° ecumenico ed il primo che si interessa veramente della Bibbia; e la scelta preferenziale per i poveri è, per l'appunto, biblica. È da notare, per comprendere gli sviluppi successivi, che le più importanti costituzioni di questo concilio, la “Dei Verbum” sulla Scrittura, la “Lumen Gentium” e la “Gaudium et Spes” sulla Chiesa, sono tutte approvate a larga maggioranza dai Padri Conciliari, ma tra i voti contrari in tutte e tre figura quello del giovane vescovo polacco Karol Wojtyla, l'attuale papa.

In queste costituzioni si comincia a disegnare una Chiesa nuova, più attenta ai problemi del mondo contemporaneo, alla povertà e, in qualche modo, alla ricerca delle origini. È il terreno adatto per il sorgere di nuove esperienze come quella della teologia della liberazione.

Si comincia a parlare di “scelta preferenziale per i poveri” che è anche la scelta di Dio:

“Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria […] e saranno riunite davanti a lui tutte le genti […] allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.” (Matteo 25, 31-40)
Evidentemente non è il dio dei conquistatori, ma quello di Paolo:
“Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Corinzi 1,27-29)
Può sconcertare questa parzialità, ma non è mai esistita una teologia imparziale. Le altre teologie, apparentemente imparziali, hanno finito con lo schierarsi dalla parte dei ricchi. Davanti a questo problema, due giovani frati Leonardo e Clodoveus Boff cominciano ad interrogarsi. La Chiesa come dovrà scegliere, dal momento che non si può essere imparziali? Sceglierà lei o farà scegliere a Dio? Viene spontaneo optare per la seconda, ma come si fa? La Bibbia ci guida con richiami continui attraverso i profeti all'attenzione all'orfano e alla vedova, attraverso i salmi, più o meno tutti gli altri libri, fino al Nuovo testamento, come abbiamo visto nei due brani citati.

Si tratta quindi di educare gli Indios ad un Dio dei poveri, povero dalla parte della lotta dei poveri, di abbandonare cioè quella religiosità che fa loro chiamare Gesù con l'appellativo di “padre mio” o peggio “el padre del gran poder”, dovute alla pessima educazione impartita loro dai preti che li facevano più servi, più sottomessi che amici, come Gesù chiama i suoi:

“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi.” (Giovanni 15,15)

Da Dio Padre a Gesù

Così la teologia della liberazione sposta l'obiettivo da Dio Padre a Gesù. Giovanni ci ammonisce: “
Dio nessuno l'ha mai visto" (Giovanni 1,18a)
ecco l'accusa di Feuerbach: se nessuno l'ha mai visto, te lo sei inventato! Allora questa nuova teologia sposta l'attenzione su Gesù:
“Proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.” (Giovanni 1,18b)
che è vivo, reale, ecco perché si dice che la teologia della liberazione è una “concentrazione cristologica”, concentrata a riflettere sul Cristo, cioè su Gesù di Nazareth, vivo, vero.

Comincia a sparire l'immagine paternalistica di Dio e quella parallela di Gesù. Emerge il carattere storico povero di Gesù

“Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8,20)
e l'indio comincia a riflettere che se Gesù è incarnazione di Dio, allora si tratta di un Dio povero.

In una “Misa campesina” del Nicaragua, il monaco Ernesto Cardenal ha inserito una preghiera:

“Tu sei il Dio dei poveri, il Dio umano e semplice, il Dio che suda nella strada, il Dio dalla faccia cotta dal sole. Per questo io ti parlo così come parla il mio popolo, perché sei il Dio operaio, il Cristo lavoratore, stai a fianco della mia gente, lotti in campagna ed in città, fai la fila nel campo, perché ti paghino la tua giornata.”
Cambia così anche il modo di esprimersi nella liturgia; i testi, i canti, tutto è adattato alla realtà di questa gente.

Dalla preghiera riportata sopra, si vede che non si dice più al povero campesino: “Questa è la tua sorte”, ma: “Il Signore è il Dio dalla faccia cotta dal sole” che è simile al campesino; e non il “Dio che sta in cielo” che finisce con l'identificarsi con il dio di Spagnoli e colonialisti.

Un'altra preghiera tratta da una Misa campesina è questa:

“Cristo, Cristo Gesù, identificati con noi. Signore, Signore mio Dio, identificati con noi. Cristo, Cristo Gesù, solidarizza, non con la classe dell'oppressore che opprime e divora la comunità, ma con l'oppresso, con il mio popolo assetato di pace.”
In un testo di Gustavo Gutierrez “Teologia de Liberación” edito da Queriniana nel 1971, l'epigrafe – non pubblicata nell'edizione italiana – contiene un dialogo tra un “padresito” (un parroco) ed un sacrestano indio: “Padresito, il dio dei signori non è uguale, fa soffrire senza consolare. Invece il Dio che conosco io è un Dio che è speranza, che è allegria e che dà animo. Dio c'è lì, all'auajamaka. Da san Pedro invece se n'è andato, credo per sempre.” [S. Pedro era la chiesa dei ricchi] “Neanche tu sei un cristiano vero – risponde il padresito – tanti anni da sacrestano e pensi come uno stregone. Dio è dappertutto, dappertutto”. Il vecchio sacrestano di San Pedro muoveva negativamente la testa: “C'era Dio nel petto di quelli che spezzavano il corpo innocente del maestro Bellito [uno che era stato ucciso dagli squadroni della morte]. C'è Dio nel corpo degli ingegneri che stanno uccidendo la Esmeralda? Non mi faccia piangere padresito!È una grave affermazione. Non si può disinvoltamente predicare ad un povero. Il povero, prima di diventare migliore, deve ricevere giustizia!

La teologia ufficiale occidentale, da Agostino ad Anselmo d'Aosta, alla scolastica, ha usato un processo “deduttivo”; la teologia della liberazione usa un processo “induttivo”.
Acquista importanza il trittico:

Vedere
Giudicare
Agire
Innanzi tutto vedere gli eventi, ma osservarli bene, passando da una visione bidimensionale ad una tridimensionale, cioè considerandone anche la profondità. Perfino la parola di Dio passa in secondo ordine per giudicare, davanti alla conoscenza delle cose. Quindi prima vedere, poi giudicare. Ed infine agire. I tre momenti sono in realtà molto uniti.

La nuova cristologia

In Europa la sfida verso il credente viene dal non credente. Ci si domanda, per esempio, come si possa parlare di Dio ad un mondo diventato adulto, gli Ebrei si domandano come si possa parlare di Dio dopo Auschwitz (il libro di Jonas, filosofo ebraico). Nella teologia della liberazione la domanda viene dal sistema sociale, dalle non-persone (invece che dai non-credenti) che sono gli emarginati i quali mettono in discussione tutto. Così non ci si deve chiedere come parlare di Dio in un certo contesto, ma come annunciarlo “Padre” in un mondo non umano, come dirlo “persona” di fronte alle “non-persone”. Ancora: come annunciare l'amore di Dio in mezzo ad un così profondo disprezzo della vita umana? Oppure: come annunciare la resurrezione dove si muore? Si può ancora parlare di “Gesù Figlio di Dio”, ma come di uno che assume la sorte degli uomini, è il Dio solidale. Del resto così comincia l'azione in terra di Gesù:

“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore.” (Luca 4,18-19)
Il “lieto messaggio” di cui parla è il vangelo, dal greco eu (buon) angellon (annuncio). Dal brano citato da Luca, si può dire che l'azione di Gesù è l'evangelizzazione dell'oppressione. Nella conquista dell'America Latina, invece, è stato rovesciato l'ordine: si è fatta la “oppressione dell'evangelizzazione”. La teologia della liberazione la rimette al posto giusto. Dalle due cristologie, quella della rassegnazione, centrata sull'immagine di Cristo sconfitto, crocifisso e quella della dominazione, centrata su un Cristo trionfante (Cristo re) incarnato negli Spagnoli vincitori (due volti della cristologia dell'oppressione) si passa ad una cristologia della liberazione.

Gesù apriva le orecchie e faceva parlare (Marco 8,32-35), faceva alzare (Marco 2,11), liberava dal demonio (Marco 1,25-26). È vero che tutti i vangeli ci parlano della passione, ma il Gesù crocifisso non ci deve insegnare la rassegnazione; il crocifisso è una denuncia dell'oppressione. Non dà la vocazione della sofferenza, ma quella della liberazione. A chi sta male dice che può reagire, lottare in tutte le forme possibili.

Anche la resurrezione ha un senso diverso. Cristo viene resuscitato da Dio non per regnare o trionfare, ma per confermare che chi lotta o muore per la libertà è salvato da Dio. I metodi di lotta sono tutti da inventare. Gesù si è schierato, è vero, ma non ha indicato metodologia di prassi. Gli strumenti che andremo ad usare saranno questi del nostro tempo, strumenti di analisi, anche marxisti, strumenti di lotta, sindacati, eccetera.

La lotta s'intende non violenta

"Allora Gesù gli disse: Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada" (Matteo 26,52)
però i teologi della liberazione non s'illudono: sanno che in situazioni estreme può sembrare impossibile evitare di usare la forza. Le scelte saranno dettate dalla coscienza di ognuno. Ci sono stati anche dei preti che sono entrati nella lotta armata.

Infine osserviamo che J. R. Regidor, uno dei maggiori studiosi della teologia della liberazione, avverte che nessuna cristologia può essere esaustiva (neanche la sua, ovviamente), però le immagini che questa teologia offre su Gesù sono quelle che più si avvicinano alla realtà storica.

I cinque primati della teologia della liberazione

Per concludere il quadro – ovviamente molto sintetico – della teologia della liberazione, enunciamo i suoi cinque “primati”:

1. Primato dell'elemento antropologico su quello ecclesiologico. La Chiesa deve fare un passo indietro e l'uomo un passo avanti. In particolare, la Chiesa deve andare dove sta l'uomo sofferente. Essa è a servizio del regno di Dio e non viceversa.
2. Primato dell'elemento utopico su quello fattuale. In altre parole si guarda al futuro, non al passato. Poiché Gesù di Nazareth è stato resuscitato, la tensione del credente deve essere diretta verso il futuro.
3. Primato dell'elemento critico su quello dogmatico. La teologia deve esercitare costantemente il discernimento, evitare pesantezze storiche, togliere incrostazioni accumulatesi nei secoli e così via.
4. Primato del sociale sul personale. Non ci si può limitare ai problemi della crescita, della conversione, del cambiamento personale, ma occorre considerare gli stessi problemi nella società. Sul modello di Gesù, si dovrà dare tutta l'attenzione possibile ai senza nome né voce.
5. Primato dell'ortoprassi sull'ortodossia. Mettersi prima di tutto alla sequela di Cristo, non limitandosi mai ad un pensiero corretto dal punto di vista teologico.

Ricordiamo infine altri due concetti molto importanti nella teologia della liberazione che sono quello di regno di Dio e quello di escaton, la sua realizzazione. Di quest'ultimo va detto che non si esaurisce nella liberazione politica. Questa è un passaggio importantissimo, anche irrinunciabile, ma è pur sempre un punto di passaggio. La realizzazione del Regno è oltre. È significativa a questo riguardo la lettera a Pipetta di don Lorenzo Milani il quale si dichiara a fianco di questo ragazzo impegnato nella lotta politica, perché coincide con la sua lotta di prete a favore degli oppressi, però:

“Nel giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l'unico grido di vittoria degno d'un sacerdote di Cristo: Beati i… fame e sete” (A un giovane comunista di San Donato – San Donato a Calenzano, 1950 – da “Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana” a cura di Michele Gesualdi – Oscar Mondadori 1998)

Condivisione

È inevitabile, parlando di oppressi e di oppressione, che molti pongano l'eterno quesito: “Dov'è Dio, mentre succede tutto questo? Com'è possibile che un Padre buono accetti tutti i massacri che si sono susseguiti nella storia senza mai intervenire, neanche per mandare messaggi?” Forse sarebbe più plausibile un dio come quelli dei Greci o dei Romani i quali avevano divinità lontane dai problemi dell'uomo.

È arduo anche solo tentare una risposta. Anche nella letteratura biblico – sapienziale si trovano queste domande angosciose e neanche in forma tanto morbida. Sono i cosiddetti salmi imprecatori, a lungo proibiti a preti e suore e quindi non inseriti nel breviario, per i loro toni al limite della bestemmia:

“Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell'angoscia ti nascondi?” (Salmo 9-10,22) “Svegliati, perché dormi, Signore? Dèstati, non ci respingere per sempre” (Salmo 44,24)

Bonhoeffer, in una sua poesia, esprime il superamento di questa angoscia (eppure scrive da un campo di concentramento nazista). A questo si può arrivare solo con un cammino di fede. Non è possibile dare indicazioni in questa giornata, dati i limiti di tempo. Intanto però giova tenere presente un suggerimento di Osea:

“…sono Dio e non uomo” (Osea 11,9)
e allora bisogna provare a conoscere come arrivare a Dio. La teologia della liberazione fa un lavoro di ramazza per togliere le false immagini di Dio, poi tocca ad ognuno l'impegno di mettersi alla sequela di Cristo.

Ci si domanda come tradurre la teologia della liberazione per la situazione di noi occidentali. Trovandoci in situazioni diverse da quelle dei popoli più poveri, per noi si tratta di liberarci da forme di asservimento a visioni antiche, dalla religiosità ufficiale vuota, da complessi di colpa, eccetera. Però anche in questo lavoro bisogna sempre evitare di privilegiare il personale e guardare di più al sociale.

C'è comunque una teologia della liberazione europea che è nata dall'ascolto di quella dei poveri, delle loro esperienze, anche se le nostre esperienze sono diverse. Per entrare in quest'ottica bisogna ritrovare la via comunitaria della fede; dove c'è lo sfascio bisogna ricostruire.

Viene così anche una proposta di socializzare tra noi, per esempio riunendoci a turno nelle rispettive case, per superare l'individualismo che ci allontana dagli Indios e in fondo dal cristianesimo. C'è pure chi pensa ad una comunità virtuale (Internet per esempio) per superare le difficoltà sempre maggiori a socializzare nel modo tradizionale.

Viene anche evidenziata la complicità con l'individualismo che ci opprime e la difficoltà nel riconoscerlo. Siamo anche noi vittime (oltre che complici), perché costretti a lavorare per un sistema oppressivo che ci considera bravi lavoratori se lo favoriamo. Occorre quindi domandarci che fare. Diventare poveri? E poi?

In un ambito più specificamente cristiano, si fa presente che la novità rivoluzionaria delle primitive comunità era che decidevano insieme e ciò è vincolante anche nei cieli, l'ha detto Gesù (Matteo 18,18). Questo spaventa il potere. Anche Marx sosteneva: “i beni allo stato, le decisioni al popolo”, ma poi, dove si diceva di applicare il marxismo, questo principio veniva disatteso, perché i beni erano sì dello stato, ma le decisioni spettavano al partito.

Sulla non violenza c'è chi fa delle obiezioni: è facile parlarne per noi, nella nostra situazione tranquilla, ma in certe realtà è impossibile evitare la lotta armata, proprio come conseguenza della teologia della liberazione. Cristo stesso è aggressivo, usa frasi blasfeme nei confronti dei massimi poteri religiosi.

All'obiezione viene però aggiunta una precisazione: la violenza di Gesù è vera, ma non distrugge l'avversario, lo mette di fronte alle sue responsabilità.

Sul problema dell'uso della violenza viene invocata la necessità di un lavoro urgentissimo su se stessi: non si può liquidare la questione con un facile moralismo; chi può dire a priori come si comporterebbe in una situazione drammatica?

Viene ricordato Pascal che in “Lettere provinciali” del 1656, parlando dei giansenisti, cita una frase di un teologo gesuita del tempo, certo Velasquez, che sosteneva tranquillamente che quello che possiedono i ricchi non si può dire superfluo, ignorando la nota frase del vangelo di Matteo “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19,24). Lo stesso Agostino, per altre questioni più filosofico che evangelico, aveva tratto dal brano di Matteo una riflessione: “il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri”.

Bibliografia

Per avere un quadro completo degli argomenti trattati ed anche per eventuali approfondimenti vengono consigliati alcuni testi fondamentali:

GUSTAVO GUTIERREZ “Teologia della liberazione” Queriniana 1970
GUSTAVO GUTIERREZ “Bere al proprio pozzo” Queriniana 1973
EDUARDO GALLEANO “Las venas abierta de America Latina” 1971
LEONARDO BOFF “Trinità e società” Cittadella 1987
GUSTAVO GUTIERREZ “Teologia de liberation” Queriniana 1971
JONAS “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” Il melangolo
GUSTAVO GUTIERREZ “La fuerza historica de los poveros”
GUSTAVO GUTIERREZ “Parlare di Dio a partire dalle sofferenze dell'innocente” Queriniana 1986
J.R. REGIDOR “Gesù e il risveglio degli oppressi” Mondadori 1981
J.R. REGIDOR “Teologia della liberazione” Data News (L. 10.000) 1986
AA. VV. “Il grido degli ultimi. La Chiesa dei poveri tra Nord e Sud del mondo” Data News (L. 8.000)
LEONARDO BOFF “Gesù Cristo liberatore” Cittadella 1976
ROMERO “Diari” A cura di Ettore Masina Cittadella
L. BOFF – C. BOFF – J.R. REGIDOR “La Chiesa dei poveri” Data News 1999

Eucaristia

2 Corinzi 1,18-22 Salmo 103/102 Marco 2, 1-12

Domenica 20 febbraio 2000 – vii del tempo ordinario – anno b

Il vangelo di oggi ci presenta il noto episodio del paralitico calato dal tetto per essere guarito da Gesù. Non ci si può fermare al fatto in sé, bisogna cercare di capire il senso di questa guarigione, che non è l'unica, ci sono molti paralitici sanati da Gesù. Per capire il senso bisogna andare a quello che succede dopo:

"Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava. Nel passare vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: Seguimi. Egli, alzatosi, lo seguì." (Marco 2,13-14)
Ecco la paralisi di cui si occupa Gesù, quella di Levi che, seduto al banco delle imposte, si fa gli affari suoi, come suol dirsi. Il lettuccio su cui era portato il paralitico è il parallelo della sedia di Levi. Non basta alzarsi (da solo non vai da nessuna parte) bisogna seguire Gesù, come appunto fa Levi, il futuro Matteo.

Bisogna notare che la guarigione del paralitico calato dal tetto avviene mentre “egli annunziava loro la parola” (Marco 2,2)
. Quel paralitico è un simbolo, è la risposta a quella parola annunziata, che si traduce in voglia di guarire (fa di tutto pur di arrivare alla presenza di Gesù).

La folla che sta lì intorno e non capisce è un ostacolo. Il peccato è la paralisi, ecco il gioco di parole tra “rimettere i peccati” e “guarire”. Ognuno di noi ha la sua forma di paralisi che consiste in tutto ciò che lo blocca nell'unica vocazione del cristiano: costruire il futuro di Dio. Nella lettura di oggi, Paolo ci ricorda che

"È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Corinzi 1,21-22)
Questa caparra è l'acconto, per così dire, dello Spirito, è una creatività, spegnere la quale è peccato.

Il peccato di Matteo non è tanto fare il pubblicano (che non era una cosa gradevole, perché si trattava di guadagnare sulle tasse che gli oppressori romani mettevano sui suoi connazionali) ma lo stare lì incollato alla sedia e spegnere così lo Spirito.

 

 



 

DOMENICA 19 Marzo 2000

Spiritualità e preghiera della liberazione

Alla ricerca dell'utopia di dio e di Gesù Cristo

Le fondamenta

Dall'incontro precedente è emerso come la riflessione sulla teologia della liberazione nasce soprattutto in un clima di ricerca di nuova spiritualità, perché il messaggio cristiano, nel suo significato originario, è, certamente, azione trasformatrice del mondo, ma appartiene all'esperienza di Dio. Alla base del concetto di liberazione, come si deduce dall'Esodo, c'è il cuore della spiritualità: non sei tu che ti liberi, ma è Dio che ti libera. I primi testi della teologia della liberazione, infatti, sono testi di preghiera.

C'è anche un pregare laico che consiste in una tensione che porta l'uomo a non sentirsi al centro della vita, ad avere una visione più ampia della vita e a superarsi continuamente. Un uomo che prega (in tutti i sensi) è convinto che il mondo non finisce con lui.

Quindi il primo atteggiamento per la preghiera è quello di superare se stessi. Questa è la prima forma di conversione, cioè di quella metanoia (metànoia) indispensabile per avvicinarsi alla preghiera. Non si può cominciare dalle vette, come se si fosse già dei maestri di spiritualità.

Convincersi di non bastare a se stessi non è disincarnarsi, è cambiare il modo di vedere le cose. Cioè io vivo, con le mie gioie, i miei dolori, il mio lavoro, ma nell'intimo sento che queste cose non sono più essenziali. Così comincio ad essere un uomo spirituale. Questo termine deriva evidentemente da “spirito” che è il greco pneuma (pneuma) che vuol dire soffio, ma traduce, nei testi biblici, l'ebraico ruah che indica il soffio vitale, ma anche il vento caldo ed impetuoso del deserto, cui non si può resistere. Allora, questo essere spirituali è una disponibilità dell'animo che rende l'uomo soffio, lo rende, per così dire, ventoso; e il vento, si sa, soffia da tutte le parti

“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”) (Giovanni 3,8
Su queste fondamenta si costruisce il resto. Se mancano, ogni sforzo è inutile: se non esci da te stesso, non puoi pensare di pregare.

Poi…

L'uomo che comincia ad accorgersi di ciò che lo circonda ha fatto il primo passo. Se poi si accorge (non basta vederli!) che ci sono i poveri, allora la sua è una spiritualità cristiana, perché il luogo dove Dio è presente è laddove sono i poveri. Non si può dire in due parole come fare. Ci sono dei percorsi misteriosi. C'è chi fa ritiri, incontri, esperienze religiose per anni e non cambia minimamente. C'è invece chi sente un messaggio una sola volta e da quel momento diventa diverso, si mette in movimento, smuove le montagne.

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La preghiera cristiana partirà ovviamente dalle indicazioni di Gesù. Quella più conosciuta viene dal vangelo di Luca:

“Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: -Signore insegnaci a pregare…” (Luca 11,1)
La frase “insegnaci a pregare” viene generalmente considerata una normale richiesta dei discepoli al loro maestro, non ci meraviglia più di tanto. Bisogna però considerare che chi fa questa domanda è un esperto di preghiera, perché ogni ebreo del tempo frequentava la sinagoga, aveva confidenza con i testi biblici, la preghiera per lui era pane quotidiano. Perché allora fa una simile richiesta? Evidentemente, nella pur breve condivisione con Gesù di Nazareth, i discepoli si accorgono che ci sono altri tipi di parametri, infatti la domanda sorge dopo aver visto Gesù immerso in preghiera. Forse allora il contatto fisico con questo predicatore della Galilea ha fatto loro capire che la preghiera è un'altra cosa, che le religioni ufficiali, la frequentazione del tempio, tutta una serie di abitudini avevano fatto loro perdere il modo giusto di pregare. Forse sarebbe più giusto dire: “Maestro ri-insegnaci a pregare!”.

Nasce così il Pater Noster. Noi recitiamo nelle nostre celebrazioni eucaristiche: “obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre nostro…”, ma in realtà Gesù pregava con i salmi (stupende preghiere formatesi attraverso cinque secoli e che ogni pio ebreo aveva sempre sulle labbra) non aveva bisogno, quindi, né intenzione di insegnare nuove formule. Il Padre Nostro è piuttosto una sintesi catechistica dei concetti ribaditi da Gesù:

Padre nostro che sei nei cieli conferma la paternità di Dio, concetto sempre presente nell'ebraismo. Tutta questa “preghiera” non dice alcunché di nuovo, ma radicalizza la tensione ebraica. Sia santificato il tuo nome è il proponimento di fare in modo che il nome di Dio sia sempre reso santo, cioè diverso (kaddosh in ebraico) non mischiato alle cose nostre.

Venga il tuo regno: questo è il punto fondamentale. Essere discepolo di Gesù significa attendere il Regno.

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra: è sempre un invocare il Regno, perché quella è la volontà di Dio Dacci oggi il nostro pane quotidiano fai, cioè, che le preoccupazioni per il pane di ogni giorno non ci distolgano dalle esigenze per il Regno.

Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori È ancora relativo al Regno: affinché venga, si deve costruire la pace, lo shalom, l'armonia del creato.

E non ci indurre in tentazione, Fa che io non inciampi nel momento della tentazione. L'inciampo è il cosiddetto scandalo, parola di derivazione greca (scandalon) che indicava il gradino del portoncino di casa in cui era facile inciampare se si era distratti. La tentazione è tutto ciò che ci allontana dalla logica del Regno, quindi anche le cose più belle (non necessariamente i soliti peccati che siamo abituati a considerare) che noi spesso tendiamo a divinizzare, così che diventano tanto importanti da farci inciampare durante la corsa per il Regno.

ma liberaci dal male Liberaci, appunto, da tutto ciò che ci fa inciampare, nel senso precisato sopra.

Quindi più che una preghiera è una traccia dentro cui dovrà muoversi qualunque preghiera. Dà, se vogliamo, le grandi linee per la conversione alle esigenze del Regno. Ma in pratica?

Il clamore dei poveri

Il 24 marzo ricorrerà il ventesimo anniversario dell'assassinio di Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso appunto nel 1980 da sicari dell'oligarchia al potere in quel paese, con la complicità un po' di tutti i poteri, a cominciare dalla CIA. Non è stato la prima né l'ultima di queste vittime (anche non cristiane), ma diventa il simbolo di un tipo di cristianesimo che si interroga sulle cause di questo sistema oppressivo. In una omelia tenuta nella cattedrale il 16 febbraio 1979, davanti a tanti poveri emarginati che avevano ritrovato la speranza in questo vescovo, così si esprime:

“Una vera conversione cristiana deve scoprire i meccanismi sociali che fanno dell'operaio e del contadino persone emarginate. Perché per il povero contadino c'è guadagno soltanto nella stagione del caffè e del cotone?”
Questa omelia ci mostra come può avvenire una conversione, anche per un vescovo. Difatti Romero era stato scelto per quell'incarico, perché era un uomo di studio, inoffensivo. Il contatto con la realtà del suo paese ha fatto sì che “il povero convertisse il suo vescovo” come ebbe a dire egli stesso. Da uomo di studio, era diventato uno che si occupava tutto il giorno di quella povera gente con cui viveva; aveva riscoperto, cioè, che pregare Dio , entrare in rapporto con Dio, significa inevitabilmente entrare in rapporto stretto con le esigenze del Regno; e le esigenze del Regno vengono continuamente misurate nel rapporto con Dio. Questo è il cuore della spiritualità. Il percorso spirituale di Romero si può ripercorrere leggendo i suoi diari pubblicati a cura di Ettore Masina, giornalista della Rai che è vissuto un anno in Salvador ed ha conosciuto personalmente l'arcivescovo. Il segno della conversione è in quella domanda: “Perché i contadini, fuori dalla stagione del caffè, non devono guadagnare niente?”. Romero ha ascoltato il clamore dei poveri; Limitarsi ad andare incontro al clamore dei poveri è già una grande cosa, ma il libro dell'Esodo ci fa andare avanti:
“Il Signore disse: -Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze” (Esodo 3,7)
La voce di Dio è in sintonia con il clamore del popolo. Questo momento nel racconto dell'Esodo è solenne, è un momento di preghiera. L'episodio è noto: Mosè vede un roveto che stranamente arde senza consumarsi e si avvicina curioso, ma
“Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: -Mosè, Mosè!- Rispose: -Eccomi!- Riprese: -Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!” (Esodo 3,4-5)
Con queste premesse, il Signore inizia il discorso che abbiamo riportato sopra e manda Mosè, il quale non va verso i poveri schiavi in Egitto per sua iniziativa, ma perché ha sentito la voce dei poveri nella voce di Dio. È garanzia di libertà assoluta, non solo dagli altri, ma anche da se stessi. Questo è l'elemento spirituale fondamentale: “Mi muovo perché Dio mi manda” o meglio: “sento nell'esperienza spirituale chevoce di Dio” e “grido dei poverisono in perfetta sintonia”. È importante, certo, la mia adesione, ma il mio egoismo non prevarrà:
“Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca 17,10)
Questa è la più grande garanzia: non c'è atto liberatorio più alto di quello che libera senza chiedere niente. Questo è possibile, insegna la teologia della liberazione, se il tuo accorrere al grido dei poveri non lo fai partendo da te (cosa peraltro degnissima), ma partendo dal sentire che grido dei poveri e grido di Dio sono in sintonia, anche se non si confondono.

La teologia della liberazione considera centrale la figura di Maria, proprio perché incarna più di tutti questo concetto di servizio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1,38) La preghiera serve anche per rimanere appassionati. Quando si è spirituali, non solo si lavora per il Regno, come servi inutili, ma si lavora anche quando non si ha voglia. Una cosa così importante non può essere affidata al nostro temperamento, ai nostri umori.

Ma quale Dio preghiamo?

Uno dei più grandi profeti della Bibbia ebraica ci presenta un'immagine di Dio su cui dobbiamo riflettere: “Poi io udii la voce del Signore che diceva: Chi manderò e chi andrà per noi?. E io risposi:Eccomi, manda me!” (Isaia 6,8) Come fa un dio a chiedere certe cose? L'idea che quasi tutti noi abbiamo di Dio ci porta inevitabilmente ad immaginarlo come uno che non si fa tante domande: ordina e basta. Il nostro Dio invece sembra esitare, perché fa la sua azione liberatrice solo attraverso gli uomini; ed Isaia risponde dando la sua disponibilità. È la base fondamentale della preghiera: Isaia non sta di fronte ad un “padreterno”, ma ad un alleato e ciò gli dà una responsabilità enorme. Non è una novità, è così fin dal principio:

“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.” (Genesi 2,19)
Abbiamo quindi un alleato con cui stiamo dividendo una grande impresa: portare a compimento la creazione. La preghiera è quindi un sentirsi di fronte a questo alleato, non è la richiesta pagana di “favori”. In questo lavoro, tuttavia, capita di star male , di essere stanchi, vuoti. Lì ha senso chiedere aiuto alla potenza di Dio, è un dire: “Adesso fai tu, perché io non ce la faccio, sostienimi!”, però dopo aver fatto tutto il possibile, per cui non possiamo permetterci di vivere la stanchezza come fase giustificativa. Riferendosi al problema più urgente della creazione, ci deve guidare l'osservazione che mentre ci prendiamo le ferie, i poveri muoiono, cioè il Regno (il compimento della creazione) non giunge.

Il chiedere qualcosa per se stessi arriva alla fine. Nel Getzemani, quando ormai è diventato come l'orfano e la vedova (abbandonato da tutti, sta per essere arrestato e condannato a morte) Gesù prega per se, ma in che modo?

“E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39)
Chiede la sua liberazione, purché sia in armonia con la volontà di Dio, in altre parole, purché serva al Regno. Come dire: “Se tu ritieni che la mia liberazione non servirebbe per la logica del Regno, allora sia fatta la tua volontà”. Non chiede in sostanza un miracolo, non vuole che Dio violenti la storia per i suoi interessi. Questo è il massimo della spiritualità. Implica un enorme lavoro su se stessi, prima di tutto la metànoia, la conversione totale.

Il senso del sacramento dell'unzione degli infermi nelle primitive comunità cristiane era proprio questo. Il malato veniva completamente unto con l'olio che si usava per i lottatori, per ridargli, simbolicamente, la forza che gli serviva per lottare per il Regno. Insieme c'era la preghiera dei presbiteri. Anche un malato può continuare a lottare, chiedendo, a Dio e ai fratelli: “Dove non arrivo io arrivate voi!”. Paolo ci parla di questa azione di Dio, che è il suo Spirito, che ci soccorre in certi momenti:

“Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.” (Romani 8,26-27)
Il passo parallelo a questo è nel vangelo di Giovanni:
“Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.” (Giovanni 14,26)
Consolare vuol dire stare sullo stesso suolo, è una vera condivisione. Alla base di tutto, è evidente dai brani citati, c'è sempre il fatto che non sono io ma è Dio. Questo non significa cancellare i propri desideri: le visioni dei profeti biblici inneggiano alle gioie della vita
“Ecco, verranno giorni, - dice il Signore – in cui chi ara s'incontrerà con chi miete e chi pigia l'uva con chi getta il seme; dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline.” (Amos 9,13)
La Bibbia non ci insegna il disprezzo dei beni della vita, ma che questi sono, nel disegno di Dio, per tutti. Se noi ne stiamo godendo e qualcuno no, c'è qualcosa che non va.

Il colloquio con Dio

Il roveto ardente, nel linguaggio ebraico, simboleggia il fuoco della libertà, il desiderio dell'uomo di essere liberato, un desiderio che non si estingue mai; in breve: la passione, il desiderio di essere finalmente uomo libero e completo. Solo dentro questo fuoco Mosè sente la voce di Dio, la quale, perciò, non viene da un luogo qualsiasi, ma dall'interiorità dell'uomo.

Con tutto ciò capita di resistere a questa voce. Mosè pone delle scuse:

“Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua.” (Esodo 4,10)
Ma Dio gli mostra com'è semplice la soluzione:
“Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlar bene […] Tu gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire e io sarò con te e con lui mentre parlate e vi suggerirò quello che dovrete fare.” (Esodo 4, 14-15)
Del resto “Liberazione è il lavoro del Signore” traduciamo a volte un versetto del salmo 103:
“Il Signore agisce con giustizia e con diritto verso tutti gli oppressi” (Salmo 103,6)
In questo caso tra gli oppressi, oltre al popolo d'Israele, c'è anche Mosè con le sue paure che lo bloccano.

Oltre ad insegnarci che cosa chiedere (nel Padre Nostro), Gesù ci istrusce anche sul come:

“Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il padre tuo nel segreto; e il padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.” (Matteo 6,5-6)
Il sostantivo ipocrita viene dal greco ipocrites (upo sotto e crites verità) che significa attore; quindi, più che la connotazione della falsità, c'è quella del fare scena, tipica appunto dell'attore. Si insiste tanto, però, sul segreto, parola che viene ripetuta due volte; non è soltanto solitudine e silenzio, ma lo scambio misterioso tra l'orante ed il Padre. Preghiera è allora prima di tutto un atteggiamento interiore che non è solo di certi momenti, ma è presente ventiquattr'ore su ventiquattro. Si innesta così un dialogo tra Dio e la parte più profonda di te che può sfuggire anche a te stesso! Anche la preghiera è affidata a Lui: è il dono dello Spirito che viene offerto all'uomo di preghiera perché egli possa offrire la preghiera al Padre. “Entra nella tua stanza” riguarda il singolo, ma può essere anche la comunità.

Il vero uomo di preghiera, che si muove nella teologia della liberazione, non è padrone neanche di se stesso.

Tuo compito è creare le condizioni per la preghiera, ma il vertice non è quello. Il resto è dialogo misterioso fra te e Dio che è più grande di te.

Il problema, come anche nel lavorare per il Regno, è la perseveranza:

“Ma Gesù gli rispose: Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Luca 9,62)
Dietro questa teologia c'e l'educazione ad un profondo rapporto con Dio, senza la quale non potremmo durare. Essenziale, quindi, è imparare a pregare che, come tutte le cose grandi ed importanti, è difficile. Anche il percorso di liberazione di Israele è lungo e difficile, questo è il senso dei quaranta anni di cammino nel deserto del Sinai. Non sembra, ma liberarsi è difficile. Essere schiavi è comodo, c'è chi pensa per te, ti dà sicurezze (Israele rimpiangeva le cipolle d'Egitto! Numeri11,4 ), perfino affetto, in cambio della libertà. Predicare queste cose non dà successo. All'inizio sembra che Gesù sia seguito da moltitudini di persone, ma, quando comprendono che cosa sta predicando, lo abbandonano tutti. In effetti per il messaggio cristiano il vertice della liberazione è offrire la vita, atteggiamento che affonda le sue radici in Abramo:
“Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Genesi 12,1)
quasi duemila anni prima che Gesù dicesse:
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Giovanni 15,13)
La frase si può anche formulare in questi termini: “Chi ha libertà più grande di chi è capace di offrire la vita per gli amici?”

Condivisione

Gli interventi sono tanti, soprattutto perché gli argomenti della giornata suscitano tanti interrogativi.

Ci si domanda per esempio il senso di un dio che chiede collaborazione all'uomo. È in effetti uno dei punti più sconcertanti del messaggio cristiano che ben ha colto Bonhoeffer (il pastore luterano ucciso dalle SS) nella sua frase “Dio si lascia sloggiare dal mondo”. È un dio che crea, ma per portare a compimento la creazione fa l'alleanza con l'uomo; e questo lo porta al rischio di essere, appunto, sloggiato dal mondo, insultato, deriso, perfino ucciso. Tutto questo si riesce a capire solo con l'amore. Il vertice dell'impotenza di Dio non è la croce, è il grido “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” (Marco 15,34), il giusto che muore, l'angoscia di tanti salmi. Tuttavia per assimilare questa realtà bisogna mettersi davanti ad essa in maniera contemplativa.

Sempre su questa linea, ci si domanda anche che senso possa avere la preghiera, perché qualsiasi tipo di domanda essa contenga, Dio la conosce già; anzi, addirittura, siccome la richiesta più corretta è che Lui plasmi la nostra volontà sulla sua, è inutile che glielo chiediamo, Lui vorrà senz'altro questo… allora non ci resta che metterci davanti a Lui in contemplazione ed attendere che ci cambi con il suo amore. L'obiezione a questa suggestiva osservazione è in un fatto importante, non banale come sembra: Dio è come se non sapesse quello che vogliamo; così rispetta la nostra libertà. Non è scontato chiedere, dobbiamo continuare a farlo. Anche il citato brano dalla lettera ai Romani ci aiuta su questo punto.

Sul modo di parlarci di Dio, viene osservato che egli è un Dio che parla attraverso una parola che raggiunge il cuore

“Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, provvidente e mite. Assomiglierebbe all'autorità paterna se, come questa avesse lo scopo di preparare l'uomo all'età virile, mentre non cerca che di arrestarlo inequivocabilmente all'infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l'unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce: loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? È così che, giorno dopo giorno, questo rende sempre meno utile e sempre più raro l'impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l'azione della volontà e toglie poco alla volta ad ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso. L'eguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: l'ha disposti a sopportarla e spesso anche a considerarla un vantaggio.” (ALEXIS DE TOQUEVILLE “La democrazia in America” – Milano 1992)