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Lyskamm Orientale

Via normale, cresta est

19-20 luglio 2003
Mirko, Andrea

A me il ghiaccio sta sulle palle. Da sempre, da quando ho iniziato a frequentare montagne per vie non banali. Ok, si potrebbe obiettare che il "banale" non è una questione assoluta e che tanti prenderebbero per una passeggiata quello che per me è impegnativo, ma il punto non è questo, il punto è che il ghiaccio mi sta sulle palle. In modo preoccupante, perchè più passa il tempo, più frequento montagne, più mi ci dovrei abituare, più lo dovrei trovare familiare... più mi sta sulle palle.
E' da questa considerazione che nasce la soddisfazione della salita al Lyskamm. Dell'ultimo tentativo di salita al Lyskamm, dovrei precisare, perchè questa è stata preceduta da una serie di tante altre incursioni che a volerle contare non si potrebbe: rinunce per via del tempo, nevicate, venti impossibili, problemi fisici, problemi di quota, problemi di neve... Una volta ci siamo trovati io, Galis e Silvano all'attacco della cresta con un vento che non ci faceva stare in piedi; una volta ci siamo trovati io e Galis già a metà strada verso la cima, su neve schifosa perchè eravamo arrivati troppo tardi a causa dei rallentamenti subiti la mattina grazie alla compagnia troppo numerosa con cui ci trovavamo; a me è capitato di causare rinunce per via del mio vecchio ginocchio ballerino e per la mia mal sopportazione della quota a inizio stagione... e poi la volta del Balmenhorn, per esempio: mi chiedo se vale come tentativo quella volta che siamo saliti al Balmenhorn per passarci la notte, per salire poi al Lyskamm, quando però al momento della partenza ci eravamo trovati in mezzo a una nevicata.
A parte tutto, a parte la controversa storia dei tentativi di salita a questa splendida montagna, c'è il fatto che le condizioni giuste di tempo meteorologico e di forma personale le troviamo quest'anno. Stiamo bene entrambi, io e Galis, nonostante la stagione non sia ancora particolarmente avanzata, il cielo è perfetto, siamo calmi, tranquilli, fiduciosi, abbiamo tutto il tempo, siamo leggeri e veloci, siamo immersi nella perfezione, nel paradiso dell'alpinismo, siamo parte del tutto spirituale di questo meraviglioso mondo bianco, siamo l'incarnazione della certezza del successo... e poi il ghiaccio. Cazzo. A me sta sulle palle questo ghiaccio.
La salita è stata uno spettacolo, ovviamente, splendida, divertente, grande. Ma alla fine, in fondo in fondo, dopo la bellezza di quello che vivi e senti salendo, e poi il ricordo di quello che hai vissuto e sentito, c'è in quell'angolino lì, in fondo, quel briciolo di soddisfazione per aver portato a compimento la salita che prima ti ha fatto sognare; puoi provare soddisfazione perchè la salita è stata bellissima, puoi provare soddisfazione perchè è stata difficile, impegnativa, e perchè sei riuscito a dimostrarti di esserne stato all'altezza, puoi provare soddisfazione perchè dopo tanti tentativi e rinunce finalmente sei riuscito a concludere quell'impegno che avevi preso con te stesso... io, quel giorno lì, ero soddisfatto; e lo ero in modo particolare non per quelle ragioni di cui ho detto e di cui mi piacerebbe essere stato partecipe più di quanto non sia stato in realtà, ma per il fatto che questa montagna - che altre volte avevamo visto e trovato come un mucchio di neve - si era rivelata un mucchio di ghiaccio, ed ero contento di essere arrivato in cima perchè finalmente non avrei più dovuto tornarci per salirci un'altra volta! Pazzesco quanto mi stia sulle palle il ghiaccio.

La cronaca è quella di un normale fine settimana di luglio. Partenza ormai classica: siamo solo io e Galis, ci vediamo dopo pranzo, perchè lui il sabato mattina lavora. Anche l'orario è altrettanto classico: arriva a prendermi a casa circa un'ora e dieci minuti dopo l'orario concordato, quindi tutto normale; non c'è mai bisogno di avvisare in questi casi, perchè ormai è assodato che se si stabilisce di vedersi per le 12.30, prima delle 2 non si parte.
Viaggio solito fino ad Alagna; non troviamo posto per parcheggiare nel piazzale grande perchè arriaviamo piuttosto tardi, quindi lasciamo la macchina lungo la strada, vicino al fiume; preparativi di rito, e poi si parte. Al solito la cosa più fastidiosa di tutto il percorso di avvicinamento del sabato è l'attraversamento del paese, con gli scarponi rigidi e pesanti sulle strade asfaltate, con quella salitella ripida per raggiungere la funivia, con lo zaino pesante nel caldo della valle; non è mai un'esperienza positiva per me l'incrociare carico e sudato la gente che passeggia fresca e tranquilla per le vie del paese. Positivo è solo il fatto che per oggi non dobbiamo combattere con l'orario per raggiungere la funivia, che infatti prendiamo senza problemi. La salita è quella che conosciamo da un paio di anni, da quando sono iniziati i lavori di rimodernamento degli impianti; è sempre bello in modo particolare il secondo tratto, quello in seggiovia, all'aperto; questa volta riesco a vedere persino una marmotta nascosta tra i sassi, seduto sul mio trespolo in compagnia dello zaino.
Arrivati in cima, a Punta Indren, le cose iniziano a farsi interessanti. Facciamo tutto come al solito, quasi meccanicamente: saliamo le scale della stazione, usciamo sul piazzalino sterrato, mettiamo gli zaini a terra, li apriamo, diamo un'occhiata a ghette e rampo... ramp... o cazzo! Galis!
- Galis...
- Cosa?
- Ho una sorpresa.
- Cosa hai dimenticato?
- La neve. Dove cazzo è la neve?
Galis si gira e nota quello che non aveva notato uscendo, vede quello che mi ha appena fatto strabuzzare gli occhi. In quel punto lì, esattamente lì davanti, proprio lì dove sto guardando io, la gente una volta ci sciava! C'erano piste da sci, ci sono ancora gli impianti di risalita a confermarlo, non è che me lo sono sognato le altre volte, e tutto il percorso da qui fino al rifugio Mantova non era che un lungo traverso su neve. Lo so, figurati, chissà quante volte già ci sono stato. Qui c'è sempre stata neve, c'è sempre stato un ghiacciaio. Qui è sempre stato tutto bianco! E invece questa volta mi sa che delle ghette possiamo fare a meno: davanti a noi si apre la vista più devastante a cui mi ricordi di avere assistito da quando frequento montagne, un colpo inimmaginabile, da tanto è contrastante con quello che sappiamo e che ricordiamo. Non c'è un filo di neve. Esattamente dove ho sempre visto piste da sci, quest'anno non c'è che una ininterrotta successione di lastroni di roccia levigata dal ricordo del ghiacciaio che l'ha ricoperta per secoli; è surreale l'immagine degli impianti delle piste ormai morte che giacciono inutilizzati tra i massi. E' così che quell'interminabile traverso su neve a cui andavamo incontro è diventato un percorso tra rocce e ghiaia. Se guardiamo verso la Punta Giordani vediamo anche lo scempio che è stato della lingua di ghiacciaio che ne costituiva la via di accesso normale; ci dicono che è ancora percorsa, ma ad osservarla non capiamo in quale modo si possa trovare una via attraverso gli enormi crepacci che solcano quello che rimane di quel ghiacciaio agonizzante.
Da un certo punto di vista possiamo dire che eravamo preparati ad una certa scarsità di neve, sappiamo che l'annata ne è stata particolarmente scarsa, ed abbiamo avuto modo di vedere nelle settimane passate in altri luoghi gli effetti del caldo e della mancanza di precipitazioni; ad esempio abbiamo visto alla Grande Casse come una via che secondo le relazioni doveva essere un semplice scivolo di neve, si era rivelata una somma di un buon dislivello di roccia marcia e di un pendio di ghiaccio vivo fastidioso. Ma lì era diverso, quello non lo avevamo mai visto, ne conoscevamo le relazioni, ma non avevamo idea di come fosse materialmente il luogo negli anni prima. Qui al contrario lo sappiamo bene, le differenze con gli anni passati le possiamo giudicare molto bene, senza bisogno di intermediari, la differenza è tra quello che vediamo e quello che abbiamo sempre visto. E' per questo che la visione è tanto forte: uno spettacolo sconsolante e triste, l'immagine vera della morte di un ghiacciaio. Possiamo sperare che sia solo lo stato di quest'anno, che l'inverno prossimo le cose cambino e si aggiustino, che migliorino la situazione di questo angolo di montagna, ma non sarebbe comunque lo stesso, qui ormai non c'è ghiaccio, e la tendenza del clima ormai la conosciamo bene, non ci facciamo illusioni sulla sorte di questo posto, né sulla sorte di tanti altri posti che negli ultimi anni abbiamo visto cambiare, né di altri posti ancora che non abbiamo mai visto cambiare, ma che sappiamo che cambieranno.
Ecco, questa è la cosa più importante che posso annotare a proposito di questo sabato. Più importante anche della domenica, a ben vedere: da un certo punto di vista più importante anche del fatto che poi sul Lyskamm ci siamo saliti, che la cima l'abbiamo raggiunta, più importante di quello che abbiamo vissuto salendola, e più importante di quello che abbiamo vissuto salendo tutte le montagne che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Importante perchè questo posto non lo rivedremo più come lo abbiamo visto fino all'anno passato, e importante perchè ci rendiamo conto che prima o poi lo seguiranno anche questi ultimi spicchi di paradiso che ancora ci vediamo intorno. Lo stesso Lyskamm forse; magari arriverà il giorno in cui questa stessa montagna dovrà dimenticare il ghiaccio che la ricopre oggi, e magari se l'avessi conosciuta con un secolo di ritardo l'avrei trovata tutta di roccia e non mi sarei mai messo a parlare del ghiaccio che mi rompe le palle, magari ne avrei amato la roccia come oggi amo quella delle altre montagne. Ma oggi pensare a un mondo senza un Lyskamm di ghiaccio significa pensare a un mondo più triste. Significa pensare a una montagna morta. Oggi un Lyskamm di ghiaccio ha diritto al suo posto nel mondo, e un essere umano ha il diritto di pensarlo, il ghiaccio, e sognarlo, amarlo, magari odiarlo fino a quando lo rispetta. Eppure sparirà; per forza sparirà, lo stiamo facendo sparire noi. Per forza sparirà.

Comunque... superiamo questa parentesi e iniziamo la nostra camminata che ci porterà al luogo del bivacco. Dico "bivacco" perchè la nostra intenzione è quella di evitare i rifugi, che in questo posto sono sempre affollati, rumorosi e fastidiosi, e di accamparci in tenda per conto nostro. Abbiamo un bel po' di peso in più sulle spalle, tra tenda, sacchi a pelo, fornello, pentolame, cibo e materiale da campeggio assortito, ma la tranquillità che ci aspetta ci ripagherà di tutta la fatica supplementare che ci stiamo accollando.
Da Punta Indren attraversiamo i pendii di roccia che ci hanno appena dato il benvenuto, tocchiamo le ultime lingue di ghiaccio che rimangono in prossimità della bastionata di roccia sotto al rifugio Mantova, quindi la risaliamo lungo la linea di cenge e canali, attrezzata con corde fisse di canapa, fino ai margini del plateau di neve tra Mantova e Gnifetti. Facciamo tutto con molta calma, determinati a non stancarci e rinfrancati dal pensiero di non avere nessun limite di tempo entro cui completare il nostro tragitto, nessun appuntamento da rispettare, nessun orario imposto da nessun rifugio. Quando raggiungiamo il plateau è ancora presto, e il nostro cammino praticamente finito: abbiamo deciso di fermarci qui e di sistemare la nostra tenda tra le dune moreniche poco sopra al Mantova. Troviamo il posto che ci piace di più: un bello spiazzo piano e regolare, tra sassi e ghiaia, un po' nascosto dal vicino rifugio, comodo e ampio; il posto per la tenda è perfetto, circondato su due lati da dei grossi massi, e da una parte da un bel muretto costruito da qualche precedente campeggiatore, ottimo riparo dal vento. Ci piace moltissimo e lo spirito da costruttore di Galis trova immediata ispirazione, tanto che subito inizia a costruire un nuovo muretto anche sul lato rimanente della piazzola: una specie di opera d'arte, con tanto di varco d'entrata e con due belle torri di sassi ai margini dell'ingresso.
Al momento siamo gli unici campeggiatori in questo posto, ma sappiamo che presto o tardi dovranno arrivare altre tende a sistemarsi tra queste morene. Mentre Galis edifica il suo muro io monto la tenda, quindi organizziamo il nostro materiale e ci apprestiamo a trascorrere quello che rimane prima di cena: molto riposo, qualche fotografia, qualche puntata fino al rifugio per comprare dell'acqua e della birra (quella vecchia spugna di Galis non si lascerebbe mai sfuggire una simile occasione). La cena comunque arriva presto: non fa male anticipare il pasto quando quello che aspetta è una notte cortissima e una sveglia alle tre del mattino. Nel corso della cena ci prepariamo parecchi tè, da bere e da tenere nelle borracce per domani, e mangiamo davvero bene: panini, affettati assortiti, saporitissime insalate di tonno, fagioli, piselli, salmone, frutta, cioccolato... una cena eccezionale, adesso che ne scrivo mi sta venendo fame.
Mentre ceniamo arrivano altri campeggiatori. Rimangono tutti defilati, ovviamente, ognuno geloso della propria privacy e del proprio spazio. Solo uno ci si avvicina, scambiamo qualche parola, ci offre qualcosa da mangiare, ma noi stiamo proprio per finire la nostra cena, ricambiamo l'offerta, un po' alla volta iniziamo col fare amicizia; dopo qualche minuto decidiamo che quando anche lui avrà finito di cenare ce ne andremo tutti e tre insieme al rifugio a concludere la serata con una bella bevuta. Detto fatto, nel giro di mezz'ora siamo seduti al caldo del rifugio, intorno ad un tavolo d'angolo tutto nostro, con un punch caldo in mano, mentre gli ultimi avventori stanno completando la loro cena. Il nuovo amico si chiama Matteo, un ragazzo davvero simpatico; è qui da solo, si sta allenando perchè sta per prendere parte ad una spedizione che lo dovrà portare al Pic Lenin. Oggi passa la notte qui, domani salirà verso la Punta Gnifetti; le sue intenzioni sono quelle di fare allenamento per gambe e fiato, per la quota, per il carico - ha uno zaino molto pesante - e fare un po' di pratica con la sua piccola tenda nuova. Scambiamo impressioni sulle nostre vicende alpinistiche e ci rendiamo conto che si tratta di una persona molto preparata; mi impressionano in modo particolare le sue descrizioni della parete nord del Cervino.
Tornati alle tende ci diamo la buona notte in tempo per permetterci qualche breve ora di sonno. La nostra intenzione è di raggiungere il Colle del Lys - l'attacco alla cresta del Lyskamm - con le prime luci dell'alba, per avere una buona luminosità e non patire troppo freddo in cresta, e contemporaneamente non tardare troppo per permetterci una discesa su terreno ancora in buone condizioni. Valutiamo di salire in tutta calma tra le 4 e le 6, quindi puntiamo la sveglia alle 3:15. Dovremmo avere il tempo di prepararci senza correre e di anticipare il grosso degli alpinisti che partiranno dal Gnifetti per le vie normali alle punte del Rosa.

Il mattino procede secondo i programmi, sveglia come stabilito, una breve colazione con tè freddo e cioccolato, prepariamo gli zaini finalmente leggeri, ci imbraghiamo e partiamo, grosso modo in orario. Anche Matteo si è organizzato più o meno come noi e parte da solo con una ventina di minuti di anticipo.
Saliamo il più lentamente possibile, perchè abbiamo tempo e non ci vogliamo stancare, però ci rendiamo conto di camminare bene. Il grosso delle cordate dei rifugi lo abbiamo anticipato davvero, come previsto, ma qualcuna è già in marcia e durante la nostra salita ne superiamo diverse.
Le condizioni del ghiacciaio non sono tanto buone nemmeno qui: nel plateau oltre il Gnifetti ci sono molti più buchi di quanti ne abbiamo mai visti; chi parte da questo rifugio è costretto a scendere lungo la rampa meridionale e aggirare l'intero isolotto roccioso, perchè la discesa sul lato settentrionale del dosso è resa impossibile da un ampia crepaccia terminale, cosa mai vista da quando il rifugio è stato costruito; sui pendii superiori, sotto alla Vincent, verso il Colle del Lys, siamo costretti a procedere a grandi tornanti e continue deviazioni, lungo una linea tormentata da continui crepacci.
Superata la zona più ripida e raggiunto il pendio più regolare sotto al Colle del Lys, ci rendiamo conto di avere raggiunto anche Matteo; scambiando qualche parola continuiamo insieme, più lenti, per gli ultimi venti minuti di strada che ci mancano per il colle. Qui ci salutiamo: lui procede lungo la via normale, mentre noi andiamo verso il Lyskamm.

Avvicinandoci notiamo che c'è qualcosa che non va: l'anno passato eravamo già stati nello stesso posto ed avevamo attaccato il pendio direttamente sul filo di cresta: una facilissima rampa perfettamente tracciata saliva diretta, facile e sicura. Ora pare che non ci sia nulla, pare che nel punto esatto d'attacco ci sia un muro verticale di ghiaccio di qualche metro, e dalla distanza non si capisce in quale modo si possa attaccare.
Lo raggiungiamo

La cima del Lyskamm

e vediamo confermate le nostre impressioni: nel punto di attacco della cresta troviamo una bella crepaccia aperta e un muro di ghiaccio di tre o quattro metri, strapiombante, con tanto di cornicetta d'uscita e stalagtiti. Decisamente poco invitante. Dopo qualche momento di esitazione, e dopo aver valutato inutile tentare di aggredire direttamente il muro, andiamo a fare un po' di esplorazione verso i pendii di sinistra: se c'è un modo di passare si deve trovare per forza da questa parte, sui pendii più facili e protetti che non quelli del versante settentrionale. Il tentativo ha successo e troviamo il modo di oltrepassare la terminale nel punto in cui inizia a chiudersi, e dove finalmente si vedono altre labili tracce di passaggio; un debole scalino di neve compatta facilita il raggiungimento del pendio ghiacciato oltre il crepaccio.
Da qui saliamo grosso modo in verticale, lungo la linea di maggior pendenza del versante. Il terreno è semplice, qualche breve tratto di ghiaccio vivo si alterna a neve buona e compatta e tutto sommato la salita è piuttosto agevole, anche se la pendenza non è elementare. Io speravo di raggiungere in questo modo il filo della cresta, quello che già conoscevo e che l'anno passato mi era piaciuto, ma le cose non vanno così bene. Arrivati a metà pendio ci troviamo su una traccia ben intagliata che piega decisamente a sinistra: la nostra linea di passaggio. In cresta non ci si va, il terreno peggiora, e seguire la traccia è ovviamente la cosa migliore, ma si tratta di un lunghissimo traverso, su pendio ripido, e su terreno ghiacciato. Non ghiaccio vivo, non una lastra compatta, ma pur sempre di ghiaccio si tratta; la traccia è praticamente scolpita nel pendio e la becca della picozza non entra che per pochi centimetri. E' qui che la mia consolidata avversione per il ghiaccio si tramuta in odio puro. Avanziamo dapprima con semplicità, quando la traccia è migliore, ma presto il traverso si fa più pianeggiante e la traccia più esile. Io inizio a sentirmi addosso una grande insicurezza, quell'insicurezza che mi fa detestare questo tipo di terreno e che nel corso degli anni ho sempre visto accrescersi, sempre ingigantirsi, da quando ho iniziato ad apprezzare il gusto delle cose belle della vita, e a rendermi conto, non solo col lo stomaco ma anche con il cervello, che certe pratiche dalla vita tendono ad allontanarti. Così decido che è arrivato il momento di usare quelle viti da ghiaccio che mi pendono dall'imbragatura; se non altro potrò dire di non averle portate per niente, che non sono state un peso inutile. Davanti ci sono io; Galis mi raggiunge, pianto una buona vite, molliamo tutta la corda che abbiamo avvolta in spalla, e procedo per tutta la lunghezza che la corda mi consente, quindi pianto la seconda vite ed aspetto che Galis mi raggiunga di nuovo. Facciamo un secondo tiro nello stesso modo e finalmente raggiungiamo la cresta nel punto in cui diventa pianeggiante, solcata da una traccia decisamente più facile. Non mi piace l’idea di dover riattraversare questo stesso posto al ritorno, ma mi consolo con il pensiero che di norma in discesa queste situazioni le trovo migliori e meno psicologicamente stressanti.
Procediamo con calma lungo la cresta, che continua ad essere delicata. Abbiamo una buona traccia e neve molto bella, ma l'esposizione è eccezionale e le cornici tutt'altro che rassicuranti.

Andrea in cima al Lyskamm

Questo è il punto che avevamo raggiunto l'anno passato, quando per via del mio ginocchio, dell'orario e delle condizioni della neve, avevamo deciso di tornare indietro. Continuando il cammino mi trovo spesso con gli occhi fissi sul pendio finale, quello esposto sul versante settentrionale, quello che lo scorso anno mi aveva fatto preoccupare, e cerco di immaginarmi di cosa si possa trattare, perchè visto da questa angolazione sembra davvero ripido e complicato. Dobbiamo arrivarci proprio alla base, invece, per capire che si tratta di un pendio molto facile e, a ben giudicare, del tratto più semplice dell'intera salita: neve sempre ottima, tracciata, pendenza contenuta. Un solievo. Lo superiamo abbastanza agevolmente; fin troppo agevolmente, forti della piacevole sorpresa di avere trovato tanto semplice quello che alla prima analisi aveva destato preoccupazione: sono davanti ancora io a fare il passo e mi accorgo a tratti di procedere un po' troppo velocemente e devo rallentare per tenere il respiro sotto controllo.
Completiamo la salita, ma la cima in effetti non la tocchiamo: saliamo sull'ultimo gradino di roccia superando l'unico muretto roccioso della via, un metro e mezzo verticale molto facile, e finalmente ci sediamo... ma la vera cima, teoricamente, sarebbe il limite di quella cornicetta di neve che si trova un metro ancora più in alto.

Mirko in cima al Lyskamm

Qualsiasi buon aspirante suicida non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione.
Noi invece si. Ma siamo sul Lyskamm.
Dopo le rituali congratulazioni estraiamo le macchine fotografiche e ritraiamo tutto il possibile del panorama che ci troviamo intorno, dal Rosa, al Cervino, alle cime del Vallese. A noi stessi, sulla cima di questa montagna. Mezz'ora più tardi siamo ancora lì a riposare, scattare foto, mangiare e bere; è anche ora di dare mano a occhiali e crema solare se non vogliamo farci male.
Ci raggiunge una cordata di tedeschi, saliti lungo la nostra stessa via; hanno intenzione di continuare con la traversata e scendere dalla cima occidentale. Discorriamo parecchio, rimaniamo in loro compagnia ancora per molto, tanto che quando ripartono noi siamo ancora lì, a decidere se per caso non sia ora di ripartire oppure se possiamo rimanere ancora un po'. Stiamo bene, nonostante la quota e nonostante siamo ancora a inizio stagione: le salite delle settimane passate a quote sufficientemente elevate - prima sulla Grande Casse e sul Monviso, poi sullo Zinalrothorn - ci hanno fatto decisamente bene. In tutto rimaniamo in cima più di un'ora, poi dobbiamo scendere per forza, per non lasciare rovinare troppo la neve. Guardiamo se per caso altri stanno salendo lungo la cresta est, ma non troviamo nessuno; in tutto siamo solo noi quattro su questa montagna. Al contrario sul ghiacciaio del Lys, qualche centinaio di metri più in basso di noi, vediamo transitare una quantità infinita di cordate, una processione ininterrotta di puntini lungo la stessa traccia, si ha l'impressione di assistere alla salita di un'unica cordata di centinaia di persone.
La discesa dal primo pendio è facile quanto la salita e molto velocemente arriviamo al tratto semi pianeggiante di cresta. Superiamo anche questo tratto, con attenzione,

L'ultimo tratto di cresta e il pendio finale

e raggiungiamo il punto in cui dobbiamo lasciare la cresta per entrare nel lungo traverso che taglia il pendio ghiacciato che mi aveva dato fastidio in salita.
Nonostante le mie speranze ora lo trovo ancora peggiore. Al momento della partenza cerco il modo per piazzare immediatamente una vite, ma qui il ghiaccio è molto crostoso e si sfalda in continuazione. Non riesco a piazzare niente di decente, quindi Galis rimane fermo a fare una sosta sulle sue picozze, mentre io procedo lungo il traverso con l'intenzione di mettere una vite intermedia appena il ghiaccio si fa migliore. E' quello che faccio dopo una decina di metri, quindi procedo fino al termine del tiro e piazzo una seconda vite, che uso come sosta per aspettare Galis. Nel tiro successivo uso altre due viti, una intermedia e una alla fine, dove decido che posso ricominciare a fidarmi del mio equilibrio. Il resto della discesa è più semplice, anche se fin dove trovo ghiaccio procedo piuttosto piano; Galis al contrario si muove molto bene e con sicurezza. Scavalchiamo la crepaccia terminale con un salto e ci troviamo sul facile pendio nevoso che ci porta al Colle del Lys. Vista dal basso la linea di salita che abbiamo seguito ci fa una grande impressione per l'idea di ripidezza che trasmette.
La discesa lungo il ghiacciaio del Lys è elementare e senza sorprese; noi stiamo molto bene, quindi la percorriamo tutta piuttosto velocemente, senza soste, fino al posto della nostra tenda. Qui ci rimane da sbaraccare il campo: ci cambiamo, recuperiamo tutto il materiale, sistemiamo la roba negli zaini, ci riposiamo, beviamo qualcosa. Tutto tempo per scaricare la testa e il fisico dalla fatica delle ultime ore. E' a questo punto che per me le cose cambiano e nel giro di pochissimi minuti mi trovo con il mal di testa e la nausea di un sorprendente mal di montagna che ormai proprio non mi aspettavo. Ero stato splendidamente per tutta la giornata, anche quando eravamo rimasti fermi in cima tutto quel tempo, e invece adesso, a fatica conclusa e a quota ben più bassa, inizio a stare male in questo modo. Peccato, mi toccherà sopportarlo.

Mentre smontiamo il campo incontriamo di nuovo Matteo, che ovviamente ci ha preceduti ed è tornato alla base prima di noi. Ancora ci capita di fare le cose negli stessi tempi,

Vista sul versante della via normale

così quando ripartiamo per scendere verso Punta Indren ci troviamo a camminare insieme. Io sono ancora in preda al mio mal di testa, quindi vado un po' piano, mentre gli altri due accelerano e mi distanziano; al principio stiamo insieme, ma poi inizio a farmi ostacolare dall'incrocio con alcuni escursionisti esasperatamente lenti, così una volta presa un po' di distanza dalla coppia di testa non riesco più a raggiungerli e decido di mollare il passo e prendermela con calma. Con il movimento la testa migliora e quando arrivo a Punta Indren sto abbastanza bene. Gli altri due sono sul piazzale ad aspettare; Matteo si sta fumando una sigaretta. Ci lasciamo qui e non ci incontreremo più, ognuno seguirà la propria strada da qui in avanti.
La nostra strada ci porta nella funivia. Prima il primo lungo troncone con il vecchio impianto, poi dovrebbe seguire il tratto in seggiovia. Dico “dovrebbe” perchè quando arriviamo ci accorgiamo che è tutto fermo.
Non abbiamo idea se si tratta di un guasto, di questione di orario, di un problema momentaneo o definitivo, non abbiamo idea di quanto ci toccherà aspettare. Ci dicono che dobbiamo aspettare lì. Ci sediamo dapprima fuori da un baretto, poi sotto a un muretto, poi sul prato in riva alla stradina, e intanto il tempo passa. Nonostante le richieste nessuno si degna di darci informazioni sulla natura del problema, non ci dicono perchè la seggiovia è ferma, nè quando dovrebbe ripartire. Interrogare il personale è inutile. Ci dicono dopo un po' che si tratta di un guasto ma che dovrebbe essere questione di poco tempo, e noi pensiamo "chissà se nell'espressione ‘poco tempo’ è incluso anche il tempo che abbiamo già aspettato fino ad ora?" Quindi aspettiamo. A tratti sembra che le cose possano essere state risolte perchè la seggiovia pare iniziare a muoversi, molto lentamente, ma sono solo falsi allarmi: stanno facendo girare l'impianto molto lentamente perchè devono scaricare una persona che al momento del guasto si trovava già in viaggio. Dopo altro tempo ci dicono appunto che stanno scaricando la seggiovia, e che dopo potranno iniziare a lavorare al guasto. Chiediamo quanto pensano di impiegarci e ci dicono che non lo sanno, che dobbiamo aspettare. Dopo aver aspettato un altro po' e dopo aver assistito al termine dello "scaricamento" e al definitivo bloccaggio dell'impianto, qualche buon'anima si cura di dire ai presenti che dovrebbe volerci ancora almeno un'ora di lavoro. Io e Galis ne abbiamo decisamente abbastanza: una somma di *censura* che invece di degnarsi di dirci come stanno le cose continuano a tirare tutto per le lunghe e a nascondere le informazioni. Se mi devi dire che devo aspettare tre ore, cazzo, dimmelo, ma dimmelo subito, non dirmelo dopo due! Ho in mente una successione di vaffanculo che parte da qui e arriva fino a Alagna, e in effetti è con tutta questa serie di imprecazioni che io e Galis, seguiti da un buon numero di escursionisti con le nostre stesse opinioni, partiamo a piedi per scendere fino al termine del tratto di seggiovia, per andare a prendere l'ultimo troncone di funivia che dovrebbe portarci in paese. Nonostante la camminata della mattina facciamo tutta la discesa di corsa e in meno di un quarto d'ora, un po' stanchi e molto incazzati, arriviamo all'ultima funivia. La troviamo ovviamente deserta e la prendiamo lanciando le ultime maledizioni in direzione dell'efficiente organizzazione della funivia e del suo modo di gestire i suoi clienti.
La giornata finisce così, con l'arrivo a Alagna, l’incazzatura passata, il tempo di pensare alla camminata appena conclusa, e il tranquillo rientro a casa.
Niente di rilevante. Solo il ricordo di una montagna meravigliosa, che si è fatta sognare per troppi anni. Era ora. Era proprio ora.


Mirko Sala Tesciat
2003

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