L'ULTIMO
GIORNO DI SCUOLA
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Siamo in Emilia, nel 1944. Due brigatisti neri e un’ausiliaria, dopo un omicidio, salgono su una vecchia corriera che trasporta un gruppetto di gente del luogo, per lo più contadini, fra i quali uno studente, Athos, figlio anch'egli di povera gente. È un viaggio allucinante, nel gelo della pianura. Per liberarsi dei testimoni dei loro delitti, o soltanto per cupa voluttà distruttiva, i tre infatti procedono all’eliminazione di tutti i passeggeri: li fanno spogliare, ne saccheggiano i piccoli monili, li falciano coi mitra. Quando viene il turno di Athos, sembrano in dubbio: uno dei brigatisti, muto, mostra di simpatizzare con lui, l’ausiliaria cerca di convincerlo a passare dalla parte dei fascisti. Colpito dalla loro furia omicida, Athos tenta invece di fuggire fra i campi. Il muto lo insegue, lo ammazza, e dopo averlo denudato ne fa rotolare il corpo in un torrente. La corriera riprende la corsa e scompare nella nebbia. L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale
non si propone alcuna tesi, né esplicita né nascosta. È come la rosa, un film chiuso in sé e
conoscibile solo attraverso se stesso. Quanto e dove promuova e affermi tesi non è
giudicabile in base a quelle, che restano in sostanza estranee alla (eventuale)
natura poetica dell’opera e che, semmai, testimoniano la propensione
dell’autore a una determinata ideologia o, riduttivamente, a una determinata politica.
L’antifascismo non è un’ideologia e nemmeno una politica. E stato, e torna
oggi a essere, un sentimento (risentimento), un moto dell’animo comune a più
classi sociali ma più vivo e più spontaneo presso i ceti più poveri: contadini,
operai, popolo insomma. Di questo ho parlato (se si vuole, ho tentato di
parlare). Dunque apologo o cronaca? Non quest’ultima, poiché la storia è frutto di
fantasia; non il primo, del quale manca al mio discorso il necessario carattere
indiretto. I personaggi del film sono dilatati come da una lente di
ingrandimento che venga posata sul particolare di un ricordo. Lo ingrandisce ma lo riporta
più vero davanti ai nostri occhi, e più presente. Il film è soprattutto questo: il
volto angosciato di un ragazzo in attesa dell’esecuzione sotto i mitra dei
nazifascisti (ognuno di noi ha visto una foto come questa). Un ragazzo di cui non
sappiamo nulla e di cui non sapremo mai nulla. La storia del film vuole essere
la storia della Resistenza italiana vista attraverso gli occhi di un ragazzo alle
soglie dell’adolescenza, ma con la rassegnazione e la maturità di un adulto.
L’azione si svolge nel periodo che va dal ‘43 al ‘44, tra l’avanzata delle truppe
alleate da una parte, e la repubblica di Salò dall’altra. Gli anni del ginnasio e
del liceo sono abitualmente gli anni della presa di coscienza, gli anni delle
scelte; i ricordi sono quelli che non si cancellano più e che incidono
profondamente sulla struttura del bambino che si sta trasformando in uomo. Perciò noi
troviamo che l’altalena della morte e della vita lievita (o almeno crediamo)
nella mente di un fanciullo insieme ai suoi libri di scuola e alle lezioni che
apprende dalla natura e dalla famiglia, con elementi sufficienti a giustificare
uno studio originale e approfondito. La campagna ricca, quella emiliana,
abitata da gente abituata alla fatica, al lavoro, alla lotta, ma attaccata alla famiglia, e
nello sfondo l’ombra di un esercito tedesco ancora duro, ancora combattivo,
ma già sconfitto: e ancora le brigate nere, temibile espressione di un’Italia
divisa; e ancora la presenza sempre più viva, sempre più efficace, e più
temibile, dei partigiani. E tutto questo filo della speranza, nell’ansia della
sopravvivenza, con nel cuore la fiducia di un domani di pace. Il ragazzo protagonista del film è già umanamente disinvolto, accetta con
rassegnazione intelligente quello che gli offre il dipanarsi dei giorni.
Nonostante le atrocità che ha visto e vissuto, non ha odio né rancore per nessuno; è
proiettato in avanti, attraverso l’immagine che i suoi libri di scuola gli
suggeriscono. Vede già un’Italia libera e unita, sente che la pace è vicina, che il suo
sacrificio fa parte di una grande ruota che gira senza potersi fermare. Questo
suo atteggiamento il ragazzo lo manterrà fino alla fine, pur guardando in faccia
la realtà, e alla fine nei suoi occhi, oltre al sorriso leggeremo il perdono. Il film
viene girato nel luogo di cui parla la storia, a colori 35 mm con un
procedimento speciale che permette la filtrazione di colori selezionati dando al racconto
stesso il sapore di documento. Il racconto è idealmente diviso in quattro parti:
la collocazione storica, gli occhi del bambino e la realtà, la guerra, la morte. |