I fratelli Taviani occupano un posto centrale nel cinema italiano contemporaneo: per l’esemplarità del loro percorso creativo, che li ha portati a rifiutare sempre le facili suggestioni dello spettacolo mercificato; per il rigore della ricerca linguistico-ideologica, condotta a partire da un’analisi critica dell’eredità neorealistica; per la consapevolezza con cui hanno sempre riflettuto sulle varie tappe della loro esperienza, la cui importanza, per modernità, è assimilabile a poche altre emerse nel cinema mondiale a partire dal 1960.
Per sensibilità e cultura, per impegno politico e sociale Paolo e
Vittorio Taviani indirizzano l’interesse verso contenuti, temi, episodi dei quali è protagonista l’eterno, epico conflitto storia-natura. E da questa sorta di tessuto connettivo, dalla consapevolezza di un rapporto dialettico tra i due tempi, i due ritmi di sviluppo che coinvolgono l’uomo (quello veloce, sempre in fieri, della storia, e quello lento, lentissimo, della natura) che si dipartono le componenti speculative, narrative, figurative
del loro cinema.
Paolo e Vittorio Taviani sono nati in Toscana, a S. Miniato: il primo nel 1931, il secondo nel 1929. Dopo aver seguito con molta attenzione l’esperienza neorealistica, si accostano praticamente al cinema nel 1954, realizzando con l’aiuto di Cesare Zavattini il cortometraggio
San Miniato, luglio ‘44 (in collaborazione con Valentino
Orsini, col quale firmano tutte le loro opere fino al 1964). Trasferiti a Roma, svolgono una relativamente intensa attività documentaristica. Sono anni di apprendistato o, meglio ancora, di ricerca di una via autonoma al cinema. Nel 1960 collaborano, sempre con
Orsini, alla sceneggiatura e alla regia di un lungometraggio documentario di Joris
lvens,
L’Italia non è un paese povero. |
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P.T.
Incontrammo Joris Ivens e collaborammo alla sceneggiatura e alla regia di
"L’Italia non è un paese povero", film che la televisione italiana divise in episodi e alterò gravemente. L’incontro con Ivens fu importante per noi due: lavorando al suo fianco, seguendo la sua ricerca puntigliosa e allo stesso tempo piena di immaginazione, scoprimmo che né io né Vittorio eravamo dei documentaristi, che i mezzi con i quali intendevamo interrogare e provocare il reale non erano quelli propri del documentarismo. Ivens stesso se ne accorse. Quando stavamo girando per lui l’episodio siciliano, Ivens, a Roma, vide il materiale e ci telegrafò che lo trovava molto buono ma che si trattava di riprese per un film recitato e non per un documentario.
V.T. Infatti, noi non amiamo i numerosi documentart che abbiamo realizzato in questo periodo — ad eccezione di
"San Miniato luglio ‘44"; non sono dei documentari ma dei desideri di film, voglie represse, approcci a dei film da fare. |
L’anno dopo trovano una storia a loro misura, quella di Salvatore
Carnevale, il sindacalista siciliano assassinato dalla mafia. Realiz
zano così, con Orsini, Un uomo da bruciare (interprete principale
Gian Maria Volonté). La lavorazione è interrotta per difficoltà fi
nanziarie e il film potrà essere terminato solo nel 1962 grazie all’in
tervento del produttore Giuliani G. De Negri, col quale i Taviani
realizzeranno successivamente tutti i loro film. |
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P. T. "Un uomo da bruciare" è un atto d’amore per il
neorea
lismo (e per il momento aggressivo della Resistenza, per la nascita
del movimento operaio e contadino nell’immediato dopoguerra).
Ma se è vero che l’oggetto amato è sempre la proiezione di se
stessi, allora noi — attraverso il film — abbiamo abbellito l’in
namorato perfino di elementi che non gli erano propri, liberandolo
d’altri che non avremmo voluto trovare in lui (in pratica: il rifiuto
del populismo, negato attraverso il punto di vista dell’ironia; il ri
fiuto degli schemi naturalisti, per un discorso ellittico, che si pre
sentasse come una rappresentazione). Al centro del film, Salvatore:
un protagonista. Ma soltanto perché il suo destino personale, molto
particolare, coincideva con il destino del suo gruppo. O meglio,
ne era la coscienza, soprattutto intuitiva. Realizzare se stesso coin
cideva con la realizzazione di un salto qualitativo a comprendere.
Donde il carattere esaltante-grottesco di Salvatore. Egli fa spesso riferimento al Cristo. Noi potremmo farne a Cassandra. Il suo
isolamento annunciava i tempi di lutto dei "Sovversivi". |
Nel 63-’64 i Taviani realizzano l’ultimo film in collaborazione con
Valentino Orsini, I fuorilegge del matrimonio. Ispirato, nei suoi
singoli episodi, agli articoli di un progetto di legge sul divorzio, il film è considerato dagli autori un’opera minore nella loro
filmo
grafia. |
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P.T. La ricerca era chiara...: una testimonianza “civile“, non in
termini di contenuto bruto, ma rivendicando il diritto alla fanta
sia, all’invenzione di un linguaggio su un tema che non era total
mente nostro e che avevamo definito in partenza come "minore";
il film era diviso in episodi e ogni episodio poteva essere affrontato
sotto un angolo differente. Da ciò proviene la singolarità del film,
ma anche i suoi limiti, i suoi risultati contradditori. Certi episodi
ci piacciono ancora, anticipano dei temi che ritorneranno negli altri
film; preferiamo dimenticare gli altri episodi. |
Nel 1967, separatisi da Orsini, i Taviani realizzarono I sovversivi. |
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V. T. In "I sovversivi" un gran numero di personaggi come
per
sonaggio unico. Come gruppo. Un gruppo in un momento di crisi,
di passaggio. Un equilibrio scompare e minaccia di trascinare il
gruppo. Donde la necessità — innanzitutto fisiologica — d’altri
equilibri. Avere la forza di distruggere (ma non per torturarsi con i
detriti del mondo distrutto, né per identificarsi romanticamente
con la sua distruzione). Ma per avere le mani libere per ricomin
ciare a cercare. I funerali di Togliatti, l’ho detto, sono la sepoltura
del padre (il padre come mito, come padre naturale, come mo
mento storico, come neorealismo...). Un’impresa funesta ma anche
liberatrice. Disponibilità per nuove dimensioni: ancora a livello
personale, nei personaggi del film, ma come sintomo di una ne
cessità più ampia. “Occorre sbagliarsi “ potrebbe essere il sotto
titolo del film. |
Nel ‘68-’69 i Taviani abbandonano un progetto di film, che anticipa
il tema di "Allonsanfan", per girare un film che porta impresse in sé
le tracce vive di quegli anni cruciali, benché si tratti di un apologo,
di una favola: Sotto il segno dello scorpione. |
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V. T. Se i personaggi dei "Sovversivi" cercavano (come noi
cer
cavamo facendo il film su di essi), i protagonisti dello "Scorpione"
trovano. Due gruppi si affrontano: quello che si ferma al presente
(anche se è il frutto di una "invenzione" passata rivoluzionaria)
è destinato a perdersi. L’altro gruppo — spinto dalla necessità —
trova. Anche se ciò che trova non ha niente di definitivo, di
consolante. E contiene già in se stesso le ragioni del suo superamento
(e in questi passaggi l’uomo, al livello individuale o come gruppo,
vive i suoi drammi, le sue insufficienze irreparabili) Non è forse
per caso che lo "Scorpione" si presenta come una parabola, come
un apologo. In una realtà come la nostra, europea, in cui non è
possibile pensare al momento della sovversione, se non a lunga
scadenza, il salto rivoluzionario si presenta come una favola, alla
maniera dell’utopia. Un’utopia. Non un'evasione. Il bisogno di opporsi,
a un presente che rischia di appiattirsi sotto la distanza della
prospettiva, un futuro immaginario e desiderato. L’immaginazione si
concretizza sotto il modo della favola: una storia di bambini, perché
è la più semplice e la più riconoscibile. E dunque se lo
"Scorpione" si presenta alla maniera di un apologo come utopia attiva, è al livello
del suo stile che il film rivela la sua identità. E’ soltanto attraverso
questo spessore che è possibile comprenderlo e utilizzarlo — per
chi vuole utilizzarlo — anche come un discorso politico da fare in
un certo contesto politico, fuori del film.
P.T. Potrei aggiungere che lo "Scorpione", come tutte le favole,
nasconde un desiderio: in opposizione alla prospettiva che l’Europa
diventi la Svizzera del mondo, la ricerca di quali cariche di energia,
di quali contributi originali l’Europa potrebbe portare al momento
rivoluzionario. |
Il 1971 è l’anno di San Michele aveva un
gallo, la loro opera più importante. |
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V. T. Se lo "Scorpione" era stato il film dell’utopia,
"San Michele" è il
film dopo l’utopia, la riflessione sull’utopia.
P.T. Con "San Michele" abbiamo sentito il bisogno di ritrovare
l’uomo, non per “cantare” di nuovo l’individuo, ma per vedervi i
riflessi del dramma di non essere riusciti a diventare un gruppo.
E’ il momento per ciascuno di noi di mettersi a remare per non
lasciarsi trascinare dalla corrente e per cercare di capire, di studiare, di prendere atto. Si propone di nuovo ai gruppi dell’avanguardia
il tema e il dramma dei tempi lunghi. |
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