11-10-2005
Oggi è scomparso Sergio Citti. Era molto malato, da tempo
soffriva di cuore. Con lui scompare un mondo che non rivedremo
più. Come definirlo? Regista è assai riduttivo, in realtà era
un filosofo, un vero intellettuale portatore di una cultura
"altra" e alta che era cultura popolare, saggezza,
poesia. Probabilmente - se ne parleranno - nei telegiornali
associeranno il suo nome (come sempre) a Pier Paolo Pasolini,
come se Citti fosse vissuto sempre e solo appresso a questo
fantasma ingombrante. In realtà anche Pasolini doveva molto a
Citti, di cui subiva il forte fascino e che ha collaborato a
quasi tutti i suoi film. Ora speriamo che si inizi a conoscere
Sergio Citti soprattutto attraverso le sue opere, che si
organizzino retrospettive. L'unico modo serio per ricordarlo.
G.V. |
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Nel panorama del cinema italiano Sergio Citti occupa un posto a sé. Se i suoi film, che illustrano scene della vita popolare, appaiono tanto diversi da quelli realizzati sullo stesso argomento da altri registi, lo si deve al fatto che Sergio non si è avvicinato alla vita del popolo partendo da una cultura diversa rispetto a quella che il popolo ha. Egli parla, semplicemente, di cose vissute in prima persona, viste coi propri occhi o raccolte dalla voce degli amici. Prima ancora di essere un regista cinematografico, Sergio è un grande narratore.
Sergio Citti è nato a Roma nel 1933. Nel 1950 conosce
Pier Paolo Pasolini, che ne fa il proprio "consulente linguistico"
sia per i romanzi («Ragazzi di vita», 1955; «Una vita violenta», 1959;
«Alì dagli occhi azzurri», 1965) che per i primi lavori cinematografici
(le sceneggiature di «Le notti di Cabiria» e «La dolce vita»).
Il rapporto di stretta collaborazione diventerà progressivamente più intenso dopo l’esordio
di Pasolini nella regia in «Accattone» (1961), e porterà Sergio Citti a partecipare all’ideazione di quasi tutto
il cinema pasoliniano, prima di passare direttamente dietro la macchina da presa per realizzare opere
di una poeticità intensa, ironica e violenta.
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La voce di Sergio Citti è sempre bassa e rauca, e le battute sono sempre dette come tra parentesi, o in una clausola appena soffiata (al niente: che è l’unico interlocutore degno; il niente che si trova generalmente a destra dell’interlocutore contingente e reale). Bisogna avere un orecchio esercitato per comprendere quelle battute sussurrate per ispirazione, tra la raucedine e un riso chiotto, verso quel personaggio d’aria che si trova alla nostra destra e un po’ più basso della nostra spalla: a cui l’occhio nero di putto di Sergio si rivolge con folgorazione malandrina e crudele: testimonianze invarianti di un’aridità stoico-epicurea, curiosa della vita e priva di ogni illusione su di essa. Sì: le massime dei filosofi cinici
- poveri e senza identità personale e anagrafica come i cani
- sono in Sergio «battute». Le «massime», sotto la variante di «battute», sono il modo di procedere metodologicamente dei moralisti: Godard parla a «battute», ma non per moralismo, bensì per impotenza e ignoranza. Dopo Godard, Sergio Citti è l’unico regista in cui la «battuta» sia un processo linguistico necessario: frutto
diretto di uno sguardo filosofico su questo casuale insieme di fenomeni assurdamente coerenti che chiamiamo realtà. Quanto a me, pongo Sergio tra Sandro Penna e Moravia. A Sandro Penna egli assomiglia per la totale e quasi santa libertà, l’anarchia assolutamente priva di aggressività, così naturale da non opporsi in alcun modo allo stato di vita degli altri (tutti schiavi!) come alternativa: a Sergio non salterebbe mai in mente di pretendere di offrirsi come esempio o di fare l’apostolato (ch’è sempre terroristico) della sua anarchia. A Moravia egli assomiglia per la rapidità dell’intelligenza e il pessimismo.
(Pier Paolo Pasolini)
Si possono passare serate piacevolissime a sentirlo raccontare storie, almeno quando è di buon umore. Quando era vivo
Pasolini, si vedevano non meno di due o tre volte la settimana e si raccontavano tutto, perfino i sogni che avevano fatto. Ricordo una serata passata con Sergio e altri amici a Fiumicino nel 1976. Pasolini era morto da poco. Gli aforismi uscivano a getto continuo dalle sue labbra....
«La vita è come un tram», diceva Sergio... Poi proseguiva: «Ci siamo montati sopra senza pagare il biglietto. Quando è l’ora di scendere, scendiamo. Che importa? Abbiamo forse pagato qualcosa? È inutile cercare di attaccarsi. Un anno, dieci anni, cento anni... E la stessa cosa.
«Sono stato in galera. È chiaro che non ci stavo bene, perché è meglio la libertà. Però, quando ripenso alla galera, dico: com’era bello! Il passato è bello. I ricordi più belli sono quelli di quando stavi male. Se non ci fosse il male non ci sarebbe neanche il bene».
«Sono uscito dal carcere giusto in tempo per raggiungere Pier Paolo che stava presentando
al Festival di Venezia un film che avevamo fatto insieme. Così sono passato direttamente da Rebibbia
all'Excelsior. Se uno passa, supponiamo, dall’Excelsior al
Danieli, che ne sa della vita? Per lui è tutto è uguale. Non c’è nessuna differenza.
«La fame io non l’ho mai fatta. Come si fa a fare la fame? Mi fanno ridere quei registi e attori, gente che prende centinaia di milioni a film, quando parlano dei tempi duri degli inizi. Se hai fatto la fame vuoi dire che eri poco furbo: e se lo eri allora, lo sei anche adesso. Piuttosto di fare la fame io andrei a rubare».
(Virgilio Fantuzzi)
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