LUCHINO VISCONTI
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Luchino Visconti è stato un simbolo. Intorno al suo lavoro è cresciuto un alone di leggenda. È stato un maestro e un pioniere, una figura carismatica. Ha rinnovato in profondità il cinema italiano non meno di quanto abbia fatto in teatro. Ha occupato da protagonista la scena dello spettacolo. È stato per trent’anni un punto di riferimento, una presenza viva e stimolante. Sempre al centro del dibattito, talvolta aspro e polemico, nel suo nome si sono combattute alcune tra le più appassionanti battaglie critiche della storia del cinema italiano. Solitario e inimitabile, amato e discusso, si è cercato invano di fissarlo ad una «forma». Aristocratico e comunista, realista e decadente: in lui le formule si compongono e si negano a vicenda. Con
Ossessione, film mitico e maledetto, apre la porta al neorealismo. Ad esso seguono altri capolavori indimenticabili e sempre presenti nella memoria collettiva:
La terra trema, Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il
gattopardo, Morte a Venezia, Ludwig, per non ricordare che le tappe salienti di uno dei più grandi registi italiani, uno dei pochi a dimensione europea. Di famiglia patrizia, ebbe un’infanzia e una fanciullezza irrequiete: scappò di casa e dal collegio ed ebbe anche una crisi mistica. Si occupò in seguito di cavalli e formò una superba scuderia. Il suo amore per il teatro e la musica lo portò a frequentare l’ambiente artistico, sia a Milano sia a Parigi, dove spesso si recava. Qui
incontrò il regista Jean Renoir, di cui fu assistente nel 1936 per Une partie de
campagne. Dopo un breve soggiorno a Hollywood nel 1938, fu nuovamente assistente di Renoir in Italia nel 1939 per
La Tosca, portato a termine da Carl Koch l’anno seguente. Entrato in rapporti col gruppo di giovani critici che facevano parte della redazione di
"Cinema", in particolare Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Marcello
Alicata, scrisse con essi alcune sceneggiature e diresse il suo primo film,
Ossessione (1943), tratto da un romanzo di J. Cain. Dramma d’amore e di morte, il film, pur influenzato dalla corrente del realismo cinematografico francese, fu un esempio originale e coraggioso di cinema realistico,
antiretorico, aderente alla situazione umana e sociale dell’Italia del tempo, e in tal senso anticipatore del movimento neorealistico. Incarcerato nel 1944 per aver dato asilo a ricercati politici, egli si dedicò, dopo la liberazione, a una intensa attività teatrale, affermandosi come il regista più originale e coraggioso della scena italiana d’allora. La sua attività cinematografica proseguì parallelamente a quella teatrale, con altrettanto impegno contenutistico e formale. Dopo aver collaborato alla realizzazione del film documentaristico sulla Resistenza
Giorni di gloria (1945), nel 1948 egli diresse La terra
trema, che doveva costituire un episodio d’una vasta trilogia sulla Sicilia. Ispirato ai
"Malavoglia" di Verga, il film affronta in termini nuovi e originali i problemi dei pescatori dell’isola e costituisce, per rigore rappresentativo e approfondimento tematico, un netto superamento del neorealismo, movimento al quale egli rimase sostanzialmente estraneo, sebbene il successivo
Bellissima (1951), su soggetto di Zavattini, si muova apparentemente entro i confini del neorealismo. In realtà esso è un forte ritratto di donna del popolo, tratteggiato con vigore drammatico e acume psicologico. Nel 1954 realizzò una delle sue opere più complesse e valide,
Senso, da una novella di Camillo Boito, in cui la storia d’amore tra un aristocratica veneziana e un ufficiale austriaco si inserisce nella più vasta storia d’Italia, sullo sfondo della sconfitta di Custoza del 1866, con accenti critici e analisi comportamentali di grande evidenza spettacolare. Questa rilettura critica del Risorgimento, e più in generale della Storia, la si ritrova, con toni differenti, sia in
Il Gattopardo (1963), dal romanzo omonimo di Tomasi di Lampedusa, ritratto prospettico d’un aristocratico siciliano fra il 1860 e il 1862; sia in
La caduta degli dei (1969), analisi spietata del nazismo sorgente attraverso la storia emblematica d’una grande famiglia di industriali tedeschi; sia in
Ludwig (1973), barocca rappresentazione della vita di Ludovico II di Baviera. Dopo
Senso, la sua attività cinematografica, strettamente intersecata con quella teatrale e lirica (famose le sue prime regie alla Scala con la Callas), si è andata articolando su diversi piani, che via via mettevano in luce i differenti caratteri della sua poetica, continuamente in bilico fra realismo e decadentismo, impegno sociale e analisi psicologica ed esistenziale. Da un lato si ha il forte dramma sociale di
Rocco e i suoi fratelli (1960), storia d’una famiglia lucana emigrata a Milano, in cui tuttavia prevale l’aspetto melodrammatico su quello realistico; dall’altro le ricerche formali e le inquietudini esistenziali di
Le notti bianche (1957), ispirato a Dostoevskij, di Vaghe stelle dell’Orsa (1965), conturbante spaccato d’una famiglia borghese, di
Lo straniero (1967), scialba versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Camus. Su questo secondo versante, di maggiore intimismo e di più scoperta autobiografia ideale e sentimentale, egli si è indirizzato nelle sue ultime opere, dopo aver dovuto abbandonare il progetto, già in avanzata fase di realizzazione, di portare sullo schermo
"Alla ricerca del tempo perduto" di Proust. Si vedano in proposito
Morte a Venezia (1971), struggente e personale rilettura del testo di Mann alla luce d’una propria visione dell’esistenza, e soprattutto
Gruppo di famiglia in un interno (1974), in cui è meglio rintracciabile il carattere sostanzialmente autobiografico dei suoi ultimi film, a partire almeno dal
Gattopardo. Colpito da una grave paralisi nel 1972, egli riuscì ancora a dirigere film e spettacoli teatrali con grande volontà e vigore. La morte lo colse quando aveva appena finito di girare
L’innocente (1976), mediocre versione cinematografica dell’omonimo romanzo di D’Annunzio, realizzata soprattutto per superare, col lavoro intenso e
continuo, la malattia che lo angustiava. |
FILMOGRAFIA1943 Ossessione |