Ernesto Che Guevara viene assassinato a La Higuera (Bolivia) il 9 ottobre 1967 alle 13:10

 

Come Back Approfondimento sulla morte Aforismi
            [...] Una vecchia contadina ha scoperto accidentalmente i 
            guerriglieri, che cercano di comprare il suo silenzio  
            con cinquanta pesos. "Ma ci sono poche speranze che mantenga il 
            silenzio", si legge nel "Diario". Il giorno dopo,
             presso la Quebrada del Yuro, i diciassette uomini superstiti 
            dell'iniziale gruppo di guerriglieri che ha iniziato l'avventura
             boliviana con il "Che" vengono sorpresi da cinque battaglioni di 
            ranger. Sei muoiono nello scontro, otto riescono
             a fuggire, tre sono fatti prigionieri. Tra loro, ferito, c'è lo 
            stesso Guevara, che rivela la sua identità e viene trasportato
             nel villaggio di La Higuera, distante otto chilometri. I 
            prigionieri vengono rinchiusi in una scuola. Il "Che" è
             ripetutamente interrogato. Si rifiuta di rispondere alle domande. I 
            militari sono al comando di Andrés Selich e di Miguel
             Ayaroa. Il 9 ottobre giunge sul luogo il cubano Felix Ismael 
            Rodríguez Mendigutia, che è entrato a far parte della Cia 
            e tenta inutilmente di far parlare il prigioniero. Felix Rodriguez 
            aveva già lavorato per la CIA qualche anno prima, 
            nel tentativo della Baia dei Porci per rovesciare il regime 
            castrista a Cuba. In mattinata, da La Paz giunge l'ordine di
             ammazzare Guevara: a prendere la decisione hanno provveduto il 
            presidente boliviano Barrientos e i funzionari dei 
            servizi segreti americani che sono in perenne collegamento con 
            Washington. A sparare i colpi mortali ci pensa il militare
             Mario Teran (gli assassini di Guevara moriranno tutti in 
            circostanze misteriose negli anni successivi). Si chiudono in 
            questo modo trentanove anni vissuti intensamente. Il cadavere - 
            trasportato fin lì con un elicottero - viene esposto 
            all'ospedale Signore di Malta su un tavolaccio a fotografi, tv e 
            giornalisti. Il "Che" ha gli occhi aperti, la divisa
             sbottonata. Il suo corpo viene sepolto di nascosto in un angolo 
            della località di Vallegrande, a duecentoquaranta
             chilometri a est di Santa Cruz (solo nel 1996 il governo boliviano 
            ha autorizzato le ricerche in prossimità di un 
            aeroporto per ritrovarne i resti). Le mani vengono tagliate e fatte 
            arrivare a Cuba, affinché L'Avana prenda atto 
            che Guevara è davvero morto. Il 15 ottobre, in un discorso 
            televisivo, Castro conferma a tutto il mondo la morte 
            del "Che". Il 18 ottobre, nella Piazza della rivoluzione, si svolge 
            la "veglia funebre" in memoria di quello che viene
             ribattezzato "il guerrigliero eroico". Vi partecipa una folla 
            immensa e commossa. [...] 
            Farla finita col Che è per gli Stati Uniti e in special modo per la 
            CIA un vecchio progetto, che risale ai tempi della Baia 
            dei Porci. La CIA afferma regolarmente, fin da quel tentativo 
            d'invasione abortito, che i giorni della rivoluzione 
            cubana sono contati, e ha progettato un piano denominato "Cuba" (che 
            rientra sotto la mastodontica e famigerata
            "Operazione Mangusta"), destinato ad eliminare, tra gli altri, 
            Fidel, Raúl e il Che. Già nel gennaio del 1962 McGeorge
             Bundy, consigliere della presidenza per la sicurezza nazionale, 
            Alexis Johnson per il Dipartimento di Stato, Roswell 
            Gilpatrick per il Pentagono, John McCone per la CIA e Lyman 
            Lemnitzer per lo Stato Maggiore sono stati riuniti 
            nell'ufficio del Segretario di Stato per essere informati che il 
            progetto "Cuba" era considerato PRIORITARIO.
             La decisione di sopprimere il Che era già stata presa da tempo, 
            molto prima della Bolivia... Viene deciso che il boia 
            deve essere il sottufficiale Mario Teran, che però anche se si era 
            offerto volontario, sul momento di agire non riesce
             ad uccidere il Che a sangue freddo. Gli ufficiali e l'agente della 
            CIA Felix Rodriguez lo fanno bere, ma anche sbronzo 
            Teran non riesce ad uccidere il Che, perchè sparando con il suo 
            mitra Uzi di fabbricazione belga riesce solo a ferirlo
             gravemente. Una pallottola al cuore lo finisce, colpo di grazia che 
            nessuno dei presenti rivendicherà, e che il rapporto 
            segreto del G2 cubano attribuirà a Félix Ramos. Da La Higuera il 
            corpo viene trasportato in elicottero (la barella col 
            cadavere sarà legata ad un pattino) fino a Valle Grande che 
            raggiungerà verso le 16:30. Poi il cadavere viene portato
             in una lavanderia che servirà da obitorio. Viene lavato dalle 
            infermiere di guardia Susanna Osinaga e Graciela 
            Rodríguez, prima che i medici José Martínez Osso e Moisés Abraham 
            Baptista si occupino dell'autopsia. Il giorno dopo, 
            il 10 ottobre 1967, il corpo viene esposto nell'obitorio per le 
            fotografie di rito per poi tenere una conferenza precisando 
            che il Che è morto in battaglia per le ferite causate da 
            un'imboscata dell'esercito, affermazioni che verranno subito 
            smentite da molte voci e da molte contraddizioni tra i diversi 
            racconti dei vari militari. 
            "Verso le sette e mezzo di sera, Ernesto Guevara entrò per la 
            seconda volta in vita sua, questa volta sconfitto,
             nel villaggio di La Higuera, un misero agglomerato di non più di 
            trenta case di mattoni e cinquecento abitanti, che
             doveva il proprio nome al fatto che un tempo vi abbondavano i 
            fichi, ormai scomparsi; un villaggio isolato, a cui 
            si accede soltanto per una mulattiera non carreggiabile. La Higuera, 
            un luogo in cui, secondo la credenza contadina,
             solo le pietre sono eterne. Fuori dal paese si sono raggruppati 
            alcuni abitanti intimoriti. Una donna anziana, 
            vent'anni dopo, racconterà che vide passare il Che al centro di una 
            processione davanti a casa sua a La Híguera, e 
            che poi se lo portarono via in cielo... con un elicottero, dirà alla 
            fine, quasi accettando la spiegazione che le hanno
             dato
             tante volte e che le sembra inconciliabile col fatto che se ne andò 
            via in cielo. 
            Lo stanno aspettando il maggiore dei ranger Ayoroa e il colonnello 
            Selich, arrivato in elicottero. I prigionieri e i morti 
            della guerriglia sono condotti alla scuola, un edificio di mattoni 
            crudi e tegole di altezza irregolare, con soli due locali
             separati da un tramezzo a cui si accede direttamente dall'esterno, 
            pareti scrostate e porte di legno fuori squadra 
            abbondano nella costruzione di mattoni e calce. In uno dei locali 
            rinchiudono Simón con i cadaveri di Olo e René,
             nell'altro il Che, a cui danno un'aspirina per alleviare il dolore 
            della ferita. Il Cinese, Juan Pablo Chang, ferito al
             volto,
             raggiungerà i detenuti. E' stato arrestato nello stesso momento o 
            in un secondo tempo? Le versioni sono
             contraddittorie. Il capitano Gary Prado invia lo stesso messaggio 
            che ha ripetuto per tutto il pomeriggio, questa 
            volta 
            al telegrafo. Sono le otto e trenta di sera: "Papà ferito". Poi, 
            insieme al maggiore Ayoroa e al colonnello Selích,
             esamina il misero contenuto dello zaino del Che: dodici rullini 
            fotografici, due dozzine di carte geografiche corrette 
            dal Che con matite colorate, una radio portatile, due libretti di 
            codici, due taccuini con copie dei messaggi ricevuti 
            e inviati, un quaderno verde di poesie e un paio di quaderni 
            (diari?) zeppi di appunti scritti con la fitta e frettolosa 
            calligrafia del Che. Alle nove Selich chiede telefonicamente 
            istruzioni al comando dell'VIII divisione. Dieci minuti 
            dopo gli rispondono: "Prigionieri di guerra devono restare vivi fino 
            a nuovi ordini comando superiore". Un'ora più
             tardi arriva un nuovo messaggio da Vallegrande: "Tenga vivo 
            Fernando fino a mio arrivo domattina presto in
             elicottero. Colonnello Zenteno". Intanto, a La Higuera, i tre 
            ufficiali superiori cercano di interrogare il Che. Non 
            ottengono nulla, rifiuta di parlare con loro. Prado racconta che 
            Selich gli disse, "Che ne direbbe di raderlo, 
            prima?", mentre tentava di strappargli la barba, e che il Che lo 
            colpisce con una manata. 
            Secondo il telegrafista di La Higuera, Selich va anche oltre; di 
            fronte al rifiuto del Che di fornirgli qualsiasi
             informazione, lo minaccia di morte e gli toglie due pipe e 
            l'orologio. Il villaggio è in stato d'allerta, ci si aspetta da
             un momento all'altro l'attacco dei guerriglieri superstiti. Intorno 
            alla scuola, sono state disposte una serie di 
            sentinelle in due cerchi concentrici e una vedetta. Alle ventidue e 
            dieci "Saturno" (Zenteno), dall'VIII divisione a
             Vallegrande, telegrafava al comandante in capo dell'esercito a La 
            Paz (generale Lafuente) una proposta di chiave 
            per trattare lo spinoso argomento della cattura del Che: "Fernando 
            (il Che) 500. Vivo: 600, per telegrafo solo
             questo per il momento, il resto per radio, morto: 700. Buonasera. 
            Ultima comunicazione conferma trovarsi nostro
            potere 500, pregasi dare istruzioni concrete se 600 o 700". Il 
            comandante in capo rispondeva: "Deve restare 600. 
            Massima riservatezza, ci sono infiltrazioni". 
            I vertici dell'esercito boliviano si erano riuniti a La Paz per 
            decidere il da farsi. Il messaggio iniziale era stato
             ricevuto dai generali Lafuente Soto (comandante dell'esercito) e 
            Vázquez Sempertegui (capo di stato maggiore 
            dell'esercito) e dal tenente colonnello Arana Serrudo (dei servizi 
            segreti militari). Jorge Gaflardo ha lasciato una 
            descrizione poco simpatica dei tre: Lafuente, tracagnotto, con una 
            faccia da orangutan, barba folta, lo chiamano
             Chkampu (faccia pelosa in quechua); Vázquez, tarchiato, sorriso 
            cinico, responsabile dei massacri dei minatori; 
            Arana deforme, con un collo taurino che contrasta con il corpo molto 
            scuro. Si recano dal generale Alfredo Ovando,
             Ministro della guerra, nel piccolo ufficio della cittadella 
            militare di Miraflores; questi, quando riceve i tre ufficiali,
             fa chiamare il generale Juan José Torres, capo di stato maggiore 
            delle Forze Armate, che occupa l'ufficio di fronte 
            alla sala riunioni adiacente all'ufficio di Ovando. E' in questa 
            sala che i cinque militari si riuniscono. Non è escluso
             che siano stati consultati altri pezzi grossi delle Forze Armate, 
            come il comandante della Forza aerea León Kolle 
            Cueto, che per un caso curioso è il fratello del dirigente del 
            Partito Comunista, Jorge Kolle. 
            Non ci è giunta alcuna testimonianza di ciò che si disse in quella 
            sala, soltanto della decisione finale. Una volta 
            raggiunto un accordo, i generali lo comunicano al presidente René 
            Barrientos, che dà il suo benestare. Alle ventitré
             e trenta, il Comando delle forze armate invia al colonnello Zenteno 
            a Vallegrande questo messaggio telegrafico:
             "Ordine presidente Fernando 700". E Che Guevara è stato condannato 
            a morte. 
            Tanto per il biografo più distaccato, quanto per quello più 
            partecipe, quelle diciotto ore a La Higuera sono disperanti.
             Ernesto Guevara è vissuto lasciandosi dietro una scia di carte che 
            registrano le sue impressioni, le sue versioni, a
             volte anche le sue emozioni più intime; diari, lettere, articoli, 
            interviste, discorsi, atti. E’ vissuto circondato di 
            narratori, testimoni, voci amiche che raccontano e lo raccontano. 
            Per la prima volta, lo storico può ricorrere solo 
            a testimoni ostili, molto spesso interessati a distorcere i fatti, a 
            creare una versione fraudolenta. Quello che oggi 
            sappiamo è emerso con il contagocce nel corso di ventotto anni, 
            frutto della caparbietà dei giornalisti, di ricordi
             tardivi al fine di costruirsi alibi. 
            La Higuera è una terra di parole in cui c'è posto solo per gli 
            interrogativi. Sa che lo uccideranno? Cosa pensa 
            adesso di Simón Cuba, che tante volte ha rinnegato nel suo diario? 
            Fa un bilancio dei compagni vivi, dei prigionieri 
            e dei morti? Rimangono Pacho e Pombo con Inti, Dariel, Dario, il 
            Nato e Tamayo; Huanca e il medico De la Pedraja
             sono fuggiti con i feriti. Lo avranno visto cadere nelle mani dei 
            soldati? Tenteranno qualcosa? Trascorre quelle ore
             pensando ad Aleida e ai bambini, al piccolo Ernesto che 
            praticamente non ha mai visto? Ai morti? Gli altri morti
             che hanno costellato la sua strada, Pamos Latour e Geonel, il 
            Patojo, Camdo e Masetti; San Luis, Manuel, Valdo 
            e Tania... e la lista è interminabile. Sono i suoi morti, sono morti 
            perché credevano in lui. Soffre per la ferita? Lui
             non ha mai abbandonato un prigioniero privo di cure, gli hanno dato 
            un'aspirina per curare una ferita d'arma da 
            fuoco. Ripensa alla sconfitta? Ultimo anello di una catena che si 
            aggiunge, il gruppo di Puerto Mìldonado, di Salta,
             adesso la sua, la guerriglia del Che. 
            Cosa lo aspetta? Cinquant'anni di carcere? Una pallottola nella 
            nuca? Non è questa la prima sconfitta, chissà se
             sarà l'ultima. Il suo diario si trova nella casa del telegrafista, 
            a pochi metri da dove lo tengono prigioniero. Ci sono
             state altre sconfitte, ma per la prima volta in vita sua Ernesto 
            Guevara è un uomo senza carta né penna. Un uomo
             disarmato, perché non può raccontare quello che sta vivendo. 
            A La Higuera c'è stato il cambio della guardia. Il Che è sdraiato 
            per terra, la ferita ha smesso di sanguinare. Uno 
            dei soldati di sentinella nella stanza racconterà anni dopo: "Una 
            delle cose che vidi, e che mi sembrò un oltraggio
             per il guerrigliero, fu che Carlos Pérez Gutiérrez entra, lo 
            afferra per i capelli e gli sputa in faccia, e il Che non si 
            trattiene e gli sputa a sua volta, inoltre gli dà un calcio che gli 
            fa fare un ruzzolone, non so dove l'abbia preso il 
            calcio, ma vidi Carlos Pérez Gutiérrez a terra e Eduardo Huerta con 
            un altro ufficiale che lo immobilizzano". Poco 
            dopo un infermiere dell'esercito gli lava la gamba con del 
            disinfettante; le cure non si spingono oltre. 
            Ninfa Arteaga, la moglie del telegrafista, si offre di portare da 
            mangiare ai prigionieri; il sottufficiale di guardia
             rifiuta. Lei risponde: "Se non mi lasciate dare da mangiare a lui, 
            non lo do a nessuno". Sua figlia Elida porta un 
            piatto al guerrigliero cieco (il Cinese Chang?) in un'altra stanza. 
            Ultimo pasto del Che sarà un piatto di minestra 
            di arachidi. Il sottotenente Toti Aguilera entra nella stanza. 
            "Signor Guevara, è sotto la mia custodia." E il Che gli 
            chiede una sigaretta. Aguilera gli domanda se è medico, il Che 
            conferma e aggiunge che è anche dentista, che ha
             cavato dei denti. Il tenente si aggira per la stanza cercando di 
            trovare uno spunto di conversazione. Alla fine fugge,
             non c'è possibilità di comunicazione con quel personaggio chiuso 
            che esce dal mito, ferito; non riesce ad annullare
             quella distanza che il Che ha sempre imposto anche ai suoi, per non 
            parlare degli estranei e, a maggior ragione,
             dei nemici. 
            Diversi soldati entrano in seguito nella stanza. Parlano di tutto, a 
            frammenti, controvoglia. C'è religione a Cuba? E' 
            vero che lo vogliono scambiare con dei trattori? Lei ha ammazzato il 
            mio amico? Lo insultano. Dicono che un
             sottufficiale, vedendolo rannicchiato in un angolo della stanza, 
            gli abbia chiesto: "Sta pensando all'immortalità 
            dell'asino?". Guevara, al quale gli asini sono sempre stati molto 
            cari, sorride e risponde: "No, tenente, sto 
            pensando all'immortalità della rivoluzione che tanto temono coloro 
            che voi servite". 
            Verso le undici e mezzo un paio di soldati rimangono soli con il 
            Che, senza sottufficiali né ufficiali. Il Che parla 
            con loro, chiede di dove sono. Sono entrambi originari dei distretti 
            minerari, uno è figlio di un minatore. Parlano. 
            I due soldati pensano che magari possono fuggire con lui. Uno di 
            essi esce dalla scuola per vedere com'è la 
            situazione fuori. Il villaggio è sempre in stato d'allerta. Ci sono 
            tre anelli di guardie, il terzo è formato da uomini
             di un altro reggimento. Lo comunicano al Che 
            Raccontano che disse: Non vi preoccupate, sono sicuro che non 
            rimarrò prigioniero per molto tempo, perché molti
             paesi protesteranno per me, quindi non c'è bisogno, non vi 
            preoccupate tanto, non credo che mi succeda nient'altro.
             Uno dei due gruppi di guerrigliero superstiti è riuscito a sfuggire 
            all'accerchiamento dell'esercito. Inti Peredo 
            racconta: "In quella notte di tensione e d'angoscia ignoravamo 
            completamente cosa era successo e ci chiedevamo a
             voce bassa se non fosse morto un altro compagno oltre ad Aniceto". 
            All'alba scendono di nuovo nella gola e dopo 
            una breve attesa si spostano verso il secondo punto d'incontro, a 
            qualche chilometro da La Higuera. Alarcón 
            aggiunge: "Ci dirigemmo verso il secondo punto d'incontro, vicino al 
            Río el Naranjal. Dovevamo tornare un’altra 
            volta in direzione di La Higuera e l'alba ci sorprese vicino al 
            villaggio". 
            E l'alba del 9 ottobre. Dall'ambasciata degli Stati Uniti a La Paz 
            partono cablogrammi diretti a Washington.
             L'ambasciatore Henderson comunica al Dipartimento di stato che il 
            Che si trova "tra gli uomini catturati, 
            malato gravemente o ferito"; i consiglieri di Lyndon Johnson esperti 
            di questioni latino-americane, basandosi su 
            fonti della CIA, riferiscono che Barrientos afferma di avere il Che 
            e di voler verificare l'identità dell'uomo che è
             stato catturato mediante le impronte digitali. A La Higuera sta 
            sorgendo il giorno, i prigionieri sentono il rumore
             di un elicottero, le sentinelle sono allertate. Un apparecchio 
            trasporta il colonnello Zenteno, venuto da Vallegrande
             accompagnato dall'agente della CIA Félix Rodríguez. I due si 
            dirigono verso la casa del telegrafista, in cui si trovano
             i documenti rinvenuti nello zaino del Che. 
            Agli ordini del maggiore Ayoroa, i ranger rastrellano i canaloni 
            alla ricerca dei superstiti. Il capitano Gary Prado
             fornisce la versione ufficiale: "Un'operazione ha inizio la mattina 
            del 9 ottobre, perlustrando palmo a palmo i 
            canaloni. La compagnia A trova le grotte in cui si erano rifugiati 
            il Cinese e Pacho che mentre gli intimavano di 
            arrendersi sparano e uccidono un soldato, provocando la rapida 
            reazione dei ranger, che con mitragliatrici e
             bombe a mano li riducono al silenzio". E curioso che in un altro 
            punto della sua versione dica che i soldati gli 
            riferirono della "presenza di un guerrigliero", non di due. Perché 
            se c'erano due uomini nella gola i superstiti non
             li videro la notte prima? Perché non c'è nessuna annotazione sul 
            diario di Pacho in data 8 ottobre? A La Higuera,
             il colonnello e l'agente della CIA entrano dove è rinchiuso il Che. 
            Anni dopo, un soldato racconterà: "Uno dei 
            comandanti ebbe una discussione piuttosto violenta con il Che e 
            aveva accanto una persona, sarà stato un 
            giornalista, che registrava con una specie di registratore molto 
            grande appeso sul petto". 
            Nella versione di Rodríguez, le cose si svolgono in modo più civile. 
            Fanno uscire il Che dalla scuola e gli chiedono 
            il permesso di fargli una foto. Félix si mette accanto al 
            guerrigliero. Verso le dieci del mattino il maggiore Nino de
             Guzmán, pilota dell'elicottero, fa scattare laPentax dell'agente 
            della CIA. La foto è giunta fino a noi: il Che è un 
            arruffio di capelli, sul volto una certa amara desolazione, la barba 
            sporca, gli occhi semichiusi per la stanchezza
            e il sonno, le mani unite come se fossero legate. Ci saranno un 
            altro paio di fotografie quella mattina, scattate da 
            soldati, molto simili alla prima: in entrambe, il comandante 
            Guevara, sconfitto, rifiuta di guardare l'obiettivo, 
            Zenteno si dirige verso il Churo per supervisionare il 
            rastrellamento in corso. Intanto Rodríguez, con la sua Rs48
             portatile, invia un messaggio cifrato. Selich, che lo osserva, è 
            molto preciso: "Aveva un potente radiotrasmettitore 
            che installò immediatamente e con cui trasmise un messaggio cifrato 
            in chiave di sessantacinque gruppi circa.
             Subito dopo installò su un tavolo al sole una macchina fotografica 
            montata su un dispositivo con quattro gambe
             telescopiche e cominciò a scattare fotografìe". 
            Gli interessano in particolare i diari del Che, il libro con le 
            chiavi e l'agenda con indirizzi di tutto il mondo. I militari
             e l'agente della CIA si trovano nel patio davanti alla casa del 
            telegrafista. Fotografando il libro di chiavi, Rodríguez 
            commenta: "Ne esistono solo due esemplari al mondo, uno ce l'ha 
            Fidel Castro e l'altro è qui". Selich ritorna a
             Vallegrande in elicottero con i due soldati feriti. Alle undici e 
            trenta Zenteno ritorna a La Higuera accompagnato
             da una scorta e dal maggiore Ayoroa e trova l'agente della CIA 
            impegnato nell'operazione di fotografia. I militari
             lo guardano fare. Zenteno si limita a un breve commento e Rodríguez 
            gli assicura che copie delle foto gli saranno
             consegnate a La Paz. "Nessuno obiettò alle fotografie, nessuno si 
            oppose" dirà più tardi il maggiore Ayoroa. 
            Nella solitudine della stanza in cui è rinchiuso, il Che chiede ai 
            suoi guardiani di lasciarlo parlare con la maestra
             della scuola, Julía Cortez; secondo la sua testimonianza, il Che le 
            disse: "Ah, lei è la maestra. Lo sa che sulla o 
            di "so" non ci vuole l'accento nella frase "Adesso so leggere"? 
            Indica la lavagna. "Certo, a Cuba non ci sono scuole
             come questa. Per noi questa sarebbe una prigione. Come fanno a 
            studiare qui i figli dei contadini? E’ antipedagogico
            ". "Il nostro è un paese povero." "I funzionari del governo e i 
            generali, però, girano in Mercedes e hanno un mucchio
             di altre cose... vero? E’ questo quello che noi combattiamo." "Lei 
            è venuto da molto lontano a combattere in Bolivia.
            " "Sono un rivoluzionario e sono stato in molti posti." "Lei è 
            venuto a uccidere i nostri soldati." "Guardi, in guerra o 
            si vince o si perde." 
            In quale momento il colonnello Zenteno trasmise ad Ayoroa l'ordine 
            presidenziale di assassinare il Che? Felìx 
            Rodríguez cercò forse di convincerlo a non ucciderlo, visto che il 
            Che in quel momento poteva essere più utile vivo
             e sconfitto che morto? Almeno così afferma l'agente della CIA nelle 
            sue memorie; Zenteno, nelle successive 
            dichiarazioni, non ne fa menzione. Rodríguez racconta che parlò con 
            il Che per un'ora e mezza, e che il comandante
             gli chiese anche di trasmettere a Fidel il messaggio che la 
            rivoluzione latino-americana avrebbe trionfato e di dire 
            a sua moglie di risposarsi ed essere felice. Ma quell'ora e mezza 
            non fu in realtà che un quarto d'ora, e altre fonti
             militari sono concordi nell'affermare che il Che disse a Rodríguez 
            che era un verme al servizio della CIA, che lo 
            chiamò mercenario e che si limitarono a scambiarsi insulti. Alle 
            undici e quarantacinque, Zenteno prende il diario 
            e la carabina del Che e insieme a Rodríguez parte con l'elicottero 
            appena ritornato. 
            A mezzogiorno il Che chiede di poter parlare di nuovo con la 
            maestra. Lei non vuole, ha paura. Intanto, a
             cinque-seicento metri dal villaggio, i guerriglieri sopravvissuti 
            stanno aspettando che faccia notte per muoversi.
             Alarcón racconta: "Lì venimmo a sapere che il Che era prigioniero 
            (......) Sentivamo le notizie da una radiolina
             che avevamo e che disponeva di un auricolare (.......) Credevamo 
            che si trattasse di una falsa informazione
             messa in giro dall'esercito. Però verso le dieci del mattino 
            dicevano già che il Che era morto e (.......) parlavano
             di una foto che lui portava in tasca, con sua moglie e i suoi 
            figli. Quando noi cubani sentimmo questo, ci 
            guardammo fissi mentre le lacrime cominciavano a scenderci in 
            silenzio (........) Quel particolare ci dimostrava 
            che il Che era morto in combattimento, senza che ci passasse per la 
            mente che era ancora vivo e a poco più 
            di cinquecento metri da noi". A metà mattina Ayoroa chiese un 
            volontario tra i ranger per fare il boia. Il sottufficiale
             Mario Terán chiese che gli lasciassero ammazzare il Che. Un soldato 
            ricorda: "Sosteneva che nella compagnia B 
            erano morti tre Mario e in loro onore dovevano dargli il diritto di 
            ammazzare il Che". Era mezzo ubriaco. Il 
            sergente Bernardino Huanca si offrì di assassinare i compagni del 
            Che. 
            Passata l'una, Terán, basso, tracagnotto - non sarà stato alto più 
            di 1,60 per sessantacinque chili di peso - entrò 
            nella stanzetta della scuola in cui si trovava il Che con un M-2 in 
            mano che gli aveva prestato il sottufficiale Pérez. 
            Nella stanza accanto, Huanca crivellava di pallottole il Cinese e 
            Simón. Il Che era seduto su una panca, con i polsi
             legati, le spalle al muro. Terán esita, dice qualcosa. Il Che 
            risponde:"Perché disturbarsi? Sei venuto a uccidermi". 
            Terán fa un movimento come per andarsene e spara la prima raffica 
            rispondendo alla frase che quasi trent'anni
             dopo dicono abbia pronunciato il Che: Spara, vigliacco, che stai 
            per uccidere un uomo. 
            "Quando arrivai il Che era seduto sulla panca. Quando mi vide disse: 
            Lei è venuto a uccidermi. Io non osavo
             sparare, e allora lui mi disse: Stia tranquillo, lei sta per 
            uccidere un uomo. Allora feci un passo indietro, verso 
            la porta, chiusi gli occhi e sparai la prima raffica. Il Che cadde a 
            terra con le gambe maciullate, contorcendosi e
             perdendo moltissimo sangue. io ripresi coraggio e sparai la seconda 
            raffica, che lo colpì a un braccio, a una
             spalla e al cuore". 
            Poco dopo il sottufficiale Carlos Pérez entra nella stanza e spara 
            un colpo sul cadavere. Non sarà l'unico: 
            anche i
            l soldato Cabrero, per vendicare la morte del suo amico Manuel 
            Morales, spara contro il Che. I diversi 
            testimoni
             sembrano concordare sull'ora della morte di Ernesto Che Guevara: 
            verso la una e dieci del pomeriggio di 
            domenica 9 ottobre 1967. La maestra grida contro gli assassini. Un 
            sacerdote domenicano di una vicina
             parrocchia ha cercato di arrivare in tempo per parlare con Ernesto 
            Guevara. Padre Roger Schiller racconta:
             "Quando seppi che il Che era prigioniero a La Higuera trovai un 
            cavallo e mi diressi laggiù. Volevo
             confessarlo. Sapevo che aveva detto sono fritto. lo volevo dirgli: 
            "Lei non è fritto. Dio continua a credere in
             lei". Per strada incontrai un contadino: "Non si affretti, padre" 
            mi disse. "L’hanno già liquidato"". Verso le 
            quattro del pomeriggio il capitano Gary Prado ritorna al villaggio 
            dopo l'ultima incursione dei ranger nelle
             gole vicine. All'ingresso del paese il maggiore Ayoroa lo informa 
            che hanno giustiziato il Che; Prado ha un 
            moto di sdegno. Lui l'ha catturato vivo. Si preparano a portare via 
            il corpo in elicottero. Prado gli lega la
             mandibola con un fazzoletto perché il volto non si scomponga. 
            Un fotografo ambulante ritrae i soldati che circondano il cadavere 
            adagiato su una barella. Sono foto 
            domenicali,
             di paese, mancano solo i sorrisi. Una foto immortala Prado, padre 
            Schiller e donna Ninfa accanto al corpo.
             Il
             sacerdote entra nella scuola, non sa cosa fare, raccoglie i bossoli 
            e li mette via, poi si mette a lavare le macchie
             di sangue. Vuole cancellare parte del terribile peccato: aver 
            ucciso un uomo in una scuola. A Mario Terán
             hanno promesso un orologio e un viaggio a West Point per 
            frequentare un corso per sottufficiali.
             La promessa non sarà mantenuta. L'elicottero si alza in volo, con 
            il cadavere del Che Guevara legato ai pattini. 
            Tratto dal libro "Senza perdere la tenerezza" di Paco Ignacio Taibo 
            II, Casa Editrice Il Saggiatore, 1997. 
            Ecco, dopo moltissimi anni dalla morte del Che, uno dei primi 
            documenti segreti riaffiorati dagli incartamenti 
             della 
             CIA. Il rapporto di autopsia di Ernesto Guevara de la Serna. 
            Rapporto di autopsia (medici: José Martínez Osso e Moisés Abraham 
            Baptista) 
            Età: circa 40 anni 
            Razza: bianca 
            Altezza: 1,73 m circa 
            Capelli: castani, ricci, barba e baffi ricci, sopracciglia folte 
            Naso: diritto 
            Labbra: sottili, bocca socchiusa con tracce di nicotina. Manca il 
            premolare inferiore sinistro 
            Occhi: tendenti all'azzurro 
            Costituzione: normale 
            Estremità: piedi e mani in buono stato, con una cicatrice che copre 
            quasi tutto il dorso della mano sinistra
            Con le seguenti lesioni: 
            1) Ferita di pallottola nella regione della clavicola sinistra, con 
            uscita nella regione scapolare dello stesso lato. 
            2) Ferita di pallottola nella regione della clavicola destra, con 
            frattura di questa, senza uscita. 
            3) Ferita di pallottola nella regione costale destra, senza uscita. 
            4) Due ferite di pallottola nella regione costale laterale sinistra, 
            con uscite nella regione dorsale. 
            5) Ferita di pallottola nella regione pettorale sinistra tra la 9a e 
            la 10a costola, con uscita nella regione laterale 
             dorsale sinistra. 
            6) Ferita di pallottola a un terzo della gamba destra. 
            7) Ferita di pallottola a un terzo del muscolo quadricipite femorale 
            sinistro. 
            8) Ferita di pallottola al terzo inferiore dell'avambraccio destro, 
            con frattura dell'ulna. 
            La morte è stata causata dalle ferite al torace e dall'emorragia 
            seguita. Allegato: La commissione dei tecnici  
            incaricati dal governo argentino, su richiesta del governo 
            boliviano, per confermare l'identificazione dei resti di 
             Ernesto Guevara de la Serna, attesta che si tratta veramente di lui 
            (in effetti una macabra scena permette, il 
             giorno 15, ai poliziotti argentini di verificare che le impronte 
            digitali che essi possiedono del Che - tramite la sua 
             carta d'identità n. 3.524.272 - sono identiche a quelle della mano 
            conservata nel barattolo di formaldeide).