Il ritorno del Torino

Che la Juventus sia forte poco importa, nella stagione di grazia 1975-76, ai cugini granata del Torino. Alla guida della squadra il presidente Pianelli ha fatto arrivare Radice, un tecnico giovane, pieno di idee e aperto alle novità. A suo tempo è stato giocatore di Triestina e Padova; ma è nel Milan che ha trovato la consacrazione di buon laterale. Ha vinto parecchio, ma non quanto avrebbe potuto per via di un ginocchio che lo ha poi costretto a lasciare. Diventato allenatore ha fatto del calcio e del suo meticoloso studio una specie di scienza. Si applica alla teoria, così come alla pratica dell’allenamento, con una assiduità e un accanimento a volte maniacale. Il calcio totale dell’Olanda ha trovato in lui un adepto fervente. Preparazione tecnica e atletica spinta, raddoppio delle marcature, disponibilità di tutti al sacrificio, non sono che alcuni dei capisaldi su cui punta per dare alla squadra un nuovo modulo che, esemplificando, sempre più si traduce in un termine solo: pressing. Ma la chiave di novità è duplice: il gioco frenetico a tutto campo e per tutti, indipendentemente dal ruolo, e l’idea che l’energia va spesa soprattutto per attaccare. Se per molti ancora il motto di base era "primo: non prenderle", Radice si fa portabandiera di uno opposto "primo: segnare un gol in più dell’avversario". Se, in tutto questo, poi ci si diverte anche, tanto di guadagnato, perché il gioco nel suo insieme non potrà che trarne ulteriore vantaggio.

Con queste premesse, il Torino arriva dunque allo scudetto, ventisette anni dopo Superga. C’è da commuoversi, come in realtà accade un po’ in tutta Italia. La gioia per il successo granata è condivisa un po’ ovunque, specie presso i tifosi delle altre grandi, sia perché impedisce alla Juventus di far suo un altro titolo, sia perché il gioco dei torinesi è davvero scintillante. Attenzione, non che prima di Radice ci fosse il vuoto. Il gruppo di uomini messigli a disposizione dal presidente Pianelli era già di prim’ordine. Ma l’aggiunta di alcuni altri elementi (Pecci, Caporale, Patrizio Sala) aggregati nella campagna acquisti estiva e la loro piena fusione col nucleo preesistente aveva sortito effetti considerevoli.

La lotta serrata si consuma, guarda caso, con la Juventus. I bianconeri non solo sono i campioni uscenti, ma ritengono affronto poco sopportabile che il titolo venga loro sottratto proprio da rivali di così accanita tradizione. Non per nulla è solo nell’ultima giornata che tutto si chiude. Il Toro pareggia in casa col Cesena, la Juve perde a Perugia per una rete di Curi, uno sfortunato ragazzo che resterà fulminato sul campo da un collasso cardiaco proprio in una gara coi bianconeri torinesi.

Al Comunale di Torino la gioia assume il contorno del silenzio: è cosa di straordinaria intensità vedere uno stadio colmo totalmente silente. I vecchi tifosi, quelli che ancora hanno negli occhi le imprese del Grande non sanno trattenere le lacrime, quelli più giovani capiscono e sì adeguano. Dal cielo scendono scudetti tricolori. L’emozione è grande. Pianelli come Ferruccio Novo: un presidente vincente. Con lui, grazie a lui, il Toro è come rinato un’altra volta.

Castellini, Salvadori, Santin; Patrizio Sala, Mozzini, Caporale; Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici. Questi i campioni. Per tutti la tifoseria inventa peana e cori di gloria, nomignoli affettuosi. Castellini, il portiere, ad esempio, è "giaguaro", per via delle movenze che sembrano feline Il fisico è compatto e poco indurrebbe a pensare al guizzare rapido dei reni, che è invece uno dei suoi migliori pezzi di repertorio. L’antica tradizione granata di validi numeri uno è confermata. Salvadori è "faina" per via del naso aguzzo e di un fiuto speciale per il presidio della giusta posizione in campo. Lo stile è pacato e lineare, il rendimento ottimo. Santin e Mozzini sono i gladiatori d’area, quelli che non lasciano libero il transito insomma, il semaforo con loro è sempre rosso. Vittorio Caporale fa il libero. Lo avevano dirottato al Torino perché dato per finito, cotto, come si dice in gergo. Era risorto, con grande giovamento per la squadra. A centrocampo: Patrizio Sala, Pecci e Renato Zaccarelli, con i rientri di Claudio Sala. Patrizio è la vera rivelazione, non solo granata ma dell’intero torneo di serie A. Galoppa instancabile, seppure ancora acerbo. Arriva da categorie di molto inferiori, qualcosa gli si deve ben concedere. "Piedone" Pecci fa il geometra o il vigile, se si preferisce. Raccoglie e smista, corre compassato, ma sa anche accelerare. Zaccarelli è baciato da uno stile tipo cristallo di Boemia. Taglia il campo con rasoiate autentiche e a lunga gittata. L'energia da spendere è quella di un cavallo di razza, piena e scalpitante. Claudio Sala è il capitano della truppa. Lo chiamano "poeta" ma non solo del gol, di tutto. Perché quando l’estro lo ispira sa inventarsi giocate di incredibile fattura. Quando si piega in dribbling, la palla stretta fra i piedi che guizzano, sa essere imprendibile. I duelli all’ultimo gomito con il "cugino" juventino Furino entrano, per caparbietà e corretta durezza, negli annali delle grandi sfide fra protagonisti. Il traversone al centro è una delle operazioni che gli riesce meglio. Là, nell’area avversaria stanno ad attendere, appostati come due famelici lupi, Francesco Graziani e Paolino Pulici. Il primo, laziale di Subiaco, ha una volontà che gli consente ogni cosa che il calcio richiede: dal passaggio al dribbling al tiro, al sacrificio per la squadra. Il temperamento è quello dei forti e la sorte gli riserva grandi soddisfazioni. Il secondo è un tipico prodotto della scuola calcistica del Torino, la meglio conosciuta ‘scuola" del Filadelfia. Lombardo di nascita come Gigi Riva, al grande campione rassomiglia per l’arditezza, la potenza e la buona predisposizione all'acrobazia, il mai darsi per vinto. In alternativa al "rombo di tuono", cronisti e tifosi lo chiamano "PuÌiciclone", attributivo che rende appieno la sua foga agonistica, un talento genuino e spontaneo come l’acqua di una sorgente. Per lui si sprecano iperboli. Una delle più centrate sul personaggio la coglie Caminiti, quando scrive: "Nel contropiede razziante è maestoso il Torino. Ha un giocatore universale in questo. Sì chiama Paolino Pulici. Per questo ragazzo del popolo. amatissimo da una ragazza del popolo, chi abborda la curva Maratona per aiutare il Toro, smania. Pulici ha avuto momenti di dura carriera, in cui si è opposto agli allenatori e si è anche esposto alle critiche, Giagnoni gli ha dovuto insegnare i fondamentali, hanno scritto. Non è vero. Pulici è nato ciclone del gol, che sa segnare con ventate di scatto e tiri sferzantì o dolcissimi. E nato asso del gol. Io me io rassomiglio a quelli del Torino bruciato a Superga, un campione domestico, emotivo al massimo, capace di caricarsi e svuotarsi in un amen". Pulici si concede poco ai microfoni, è restio; preferisce far parlare di sé e dei suoi gol, che sono veramente tanti. Nelle classifiche dei grandi cannonieri ha incominciato ad entrare già dalla stagione 1972-73, vincendo il titolo con 17 reti a pari merito con Savoldi del Bologna e Rivera del Milan. L’anno dopo i centri sono 14; poi 18 per il secondo titolo assoluto. In questo anno di scudetto è di nuovo primo in beata solitudine con 21 reti. E su questi toni proseguirà a lungo.

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